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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ ALTO-MEDIOEVALE SI COMPLICANO I RAPPORTI TRA I GOTI E I BIZANTINI. GIUSTINIANO ORDINA, NEL 529, LA CHIUSURA DELLA SCUOLA DI ATENE ...

Lezione N.: 
7

Prof. Giuseppe Nibbi    La sapienza poetica e filosofica dell’età alto-medioevale    27-28-29  novembre  2013

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ ALTO-MEDIOEVALE

SI COMPLICANO I RAPPORTI TRA I GOTI E I BIZANTINI.

GIUSTINIANO ORDINA, NEL 529, LA CHIUSURA DELLA SCUOLA DI ATENE ...

   Questo è il settimo itinerario del nostro viaggio sul “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età alto-medioevale” e ci troviamo sempre di fronte ad un vasto scenario che prende il nome di “paesaggio intellettuale della salvaguardia delle Opere dei Classici greci e latini”: qui abitano personaggi che – nel distruttivo momento dell’implosione dell’Impero romano d’Occidente [e dello strascico che lascia] – operano per conservare i prodotti [gli oggetti artistici e letterari] della cultura e della tradizione antica e tardo-antica; e la scorsa settimana [insieme al traduttore Gerolamo, al codificatore Cassiodoro] abbiamo incontrato Severino Boezio il quale, al tempo del dominio goto in Italia [493-526] – dopo essere stato ingiustamente incarcerato e fatto uccidere dal re Teodorico – continua ad accompagnarci anche perché l’opera che ha composto in carcere a Pavia tra il 523 e il 524, intitolata De consolatione Philosophiae [Consolazione della Filosofia], lo ha destinato ad un’eterna vitalità culturale.

   Nell’itinerario della scorsa settimana abbiamo visitato, a grandi linee [per chiavi di lettura], il testo di quest’opera e ne abbiamo inventariato i temi principali, sappiamo che il De consolatione Philosophiae [Consolazione della Filosofia] è una sorta di “romanzo filosofico” che sintetizza il vasto dibattito del pensiero etico classico sui perenni temi dell’esistenza [il bene e il male, il destino e il libero arbitrio, la volontà umana e la prescienza divina], e di quest’opera abbiamo letto alcuni brani: in primo luogo, il frammento [il famoso paragrafo 8 del Libro II] che contiene il “sigillo di salvaguardia” dell’opera, il “sigillo che garantisce la bontà del mondo creato” e che si concretizza nella parola-chiave “amore” perché [scrive Severino Boezio] «L’amore regge il mare, la terra e il cielo, e felici le persone che all’interno del loro animo hanno lo stesso amore, la stessa sostanza provvidenziale che fa vivere [che fa muovere] il mondo». Se Dio, in quanto Bene supremo, è Amore, significa che l’amore umano [quando implode benignamente, secondo la dottrina cristiana ma, prima ancora, in base al pensiero neoplatonico] è fatto della stessa sostanza con cui si manifesta la provvidenza divina che regge le sorti del mondo, e questa idea [secondo Severino Boezio] costituisce la “garanzia” che l’essere umano è stato creato “ad immagine di Dio” ed è “pienamente umana” la persona che all’interno del proprio animo desidera e vuole avere lo stesso amore [desidera coltivare la stessa sostanza provvidenziale] che regge il mare, la terra e il cielo.

   Abbiamo detto, la scorsa settimana, che Dante Alighieri conosce bene l’opera di Severino Boezio e molti concetti sviluppati poeticamente nella Divina Commedia sono di “derivazione boeziana” a cominciare [o per terminare] dall’idea de “l’Amore come sigillo di salvaguardia che garantisce la bontà [la fruibilità] del mondo creato”. Ricordate come termina la Divina Commedia? Le commentatrici e i commentatori annotano: «Dante conclude l’opera elaborando l’idea contenuta nel paragrafo 8 del Libro II del De consolatione Philosophiae di Severino Boezio dove “l’amore, che regge il mare, la terra e il cielo” diventa il sigillo di salvaguardia che garantisce la bontà del mondo creato; quando la fantasia del poeta non è più in grado di sostenere la visione divina [“A l’alta fantasia qui mancò possa”, scrive Dante] e allora sente [intuisce] che l’Amore [“L’amor che move il sole e l’altre stelle”] sta ormai muovendo anche il suo desiderio [il disio] e la sua volontà [il velle] e così il pellegrino poeta si riconosce “nella solitudine infinita del solo Dio”, collocandosi nella perfezione del moto circolare divino».

   Gli ultimi quattro versi con cui si conclude il Canto XXXIII del Paradiso – con cui termina la Divina Commedia – contiene la stessa idea coltivata da Severino Boezio, che l’amore sia la “garanzia” per poter aspirare ad una “piena umanità ” [alla qualità della vita], e Dante termina la Commedia con questi versi: «A l’alta fantasia qui mancò possa; ma già volgeva il mio disio e ‘l velle, sì come rota ch’igualmente è mossa, l’amor che move il sole e l’altre stelle». Severino Boezio sorride soddisfatto ma forse non sa ancora che cosa gli ha riservato Dante il quale lo cita molte volte nei testi del Convivio, del Monarchia e lo nomina nel Canto X del Paradiso della Commedia. [Severino, a questo punto, è troppo curioso e noi, con lui, dobbiamo fare un’incursione più circostanziata sul testo della “Commedia” dantesca].

   L’opera di Severino Boezio è stata fondamentale per Dante Alighieri non solo nel periodo della sua formazione culturale ma anche in seguito. Dante racconta che, nel momento critico della morte di Beatrice, si è dedicato alla lettura del De consolatione Philosophiae e il risultato di questa esperienza intellettuale è stato che nella sua mente si è concretizzata una nuova acquisizione spirituale e poetica, ed è avvenuto il passaggio dall’amore come passione [dal cuore] all’amore fondato sull’introspezione [all’intelletto]. Dante, nel testo della Commedia, oltre ad utilizzare una serie di idee classiche salvaguardate da Severino Boezio, lo cita esplicitamente nel Canto X del Paradiso, non ne riporta il nome [e questo certamente per esigenze di metrica], sostituendo però il nome con una dicitura molto significativa: “l’anima santa”. Nel Canto X del Paradiso Dante, accompagnato da Beatrice, giunge nel Cielo del Sole dove incontra i beati che in vita sono stati spiriti sapienti e si sono distinti per i loro studi teologici e filosofici, per la loro attività di insegnanti e per aver vissuto una vita pervasa da ideali mistici e contemplativi. Il Canto si apre con l’esortazione a contemplare la meraviglia della creazione divina, dove tutto è improntato ad una perfetta armonia, a dimostrazione perenne dell’amore di Dio [del sigillo di salvaguardia che garantisce la bontà del mondo creato]. E mentre Dante si sforza di rivolgere tutta la sua mente al Sommo Artefice, un gruppo di anime lucenti si dispone a corona, cantando dolcemente, intorno ai due pellegrini [a Dante e a Beatrice] e, dopo aver compiuto tre lenti giri, si ferma, in silenzio e il primo a parlare è Tommaso d’Aquino [che incontreremo quando viaggeremo nel cuore del territorio della sapienza poetica e filosofica medioevale, nel prossimo viaggio], che via via indica a Dante gli spiriti di coloro che, contrastando gli affanni terreni e le miserie umane, hanno dedicato le loro capacità intellettuali alla ricerca, allo studio ed all’insegnamento delle supreme verità. Appena Tommaso termina di parlare, la ghirlanda di anime riprende il suo movimento, in una perfetta armonia di gesti e di suoni.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Sicuramente possedete un volume [o i volumi]  della “Divina Commedia”: utilizzateli per leggere, seguendo le note, i versi [sono 148] del Canto X del “Paradiso” nel quale – oltre a Severino Boezio [l’anima santa] – vengono citati personaggi che incontreremo prossimamente…

Dedicatevi di buon grado a fare questo esercizio di investimento in intelligenza perché è di natura propedeutica …   

   Noi ora commentiamo e leggiamo i nove versi [numero neoplatonico per eccellenza] che riguardano “l’anima santa” di Severino Boezio.

LEGERE MULTUM….

Dante Alighieri, ParadisoCanto X  121-129

[È Tommaso d’Aquino che rivolto a Dante e a Beatrice presenta, lodandoli, gli spiriti ammantati di luce di coloro che, contrastando gli affanni terreni e le miserie umane, hanno dedicato le loro capacità intellettuali alla ricerca, allo studio ed all’insegnamento delle supreme verità…]

Or se tu l’occhio de la mente trani [muovi]

di luce in luce dietro a le mie lode,

già de l’ottava con sete rimani

[sei desideroso di sapere quale spirito gode dentro l’ottava luce].

Per vedere ogne ben dentro vi gode

l’anima santa che ‘l mondo fallace

fa manifesto a chi di lei ben ode

[dentro l’ottava luce gode l’anima santa di Severino Boezio che nella sua opera De consolatione Philosophiae dimostra, a chi sappia comprendere il suo messaggio, quanto siano fallaci i beni del mondo].

Lo corpo ond’ella fu cacciata giace

giuso in Cieldauro;

[quest’anima santa fu cacciata da un corpo che è stato sepolto nella Chiesa di San Pietro in Ciel d’Oro a Pavia]

 ed essa da martiro

e da essilio venne a questa pace.

   Dante ci dà un’interessante informazione: Severino Boezio è sepolto nella Chiesa di San Pietro in Ciel d’Oro a Pavia e, in questa Chiesa [pensate un po’], c’è anche la tomba a forma di arca di Sant’Agostino: Cieldauro, come lo chiama Dante, è un monumento davvero importante.

   Ma ora dobbiamo ancora occuparci del rapporto tra la Divina Commedia di Dante e il De consolatione Philosophiae di Severino Boezio [Severino ci ha preso gusto a sapere di essere stato così tanto citato nei secoli, e che esistono centinaia di opere saggistiche che parlano di lui come promotore del movimento della Scolastica].

   Dante Alighieri, nel testo della Divina Commedia, affronta [in particolare nel testo del Paradiso] i temi del “funzionamento della Fortuna” e della “distinzione tra il Destino e la Provvidenza” e soprattutto lo fa avvalendosi delle riflessioni che, su questi stessi argomenti, compie Severino Boezio nel De consolatione Philosophiae. Nel Libro [o capitolo] II del De consolatione la signora Filosofia spiega a Severino come funziona la Fortuna: «È simile a una ruota [gli dice] a volte ti porta in alto e altre volte in basso». Severino Boezio non si poteva lamentare perché, da giovane, in più di un’occasione, si è trovato in cima alla ruota, poi, con gli anni, ha finito per trovarsi in basso. Bisogna però, scrive Severino Boezio, non confondere la presunzione di essere ai vertici con la Felicità. «La Felicità [precisa la Filosofia] la si ottiene con l’Essere e non con l’Apparire, se non altro perché il Sommo Bene coincide con Dio che “non appare proprio perché è». Allo stesso modo, precisa ancora la Filosofia, è necessario saper distinguere tra il Destino e la Provvidenza: «La Provvidenza, scrive Severino Boezio, è riposta nella razionalità dell’Essere Supremo, mentre il Destino dipende solo dalla casualità del vivere; [e poi aggiunge] come il ragionamento sta all’intuizione, come l’essere generato sta all’Essere in sé, come la circonferenza sta al centro, come il tempo che passa sta all’eternità, così il corso mutevole del Destino sta alla immutabile semplicità della Provvidenza Divina». Come dire che: se ci capita qualcosa di buono dobbiamo esserne grati a Dio, se, invece, ci capita qualcosa di cattivo ce la dobbiamo prendere col Destino. Per ottenere la Provvidenza bisogna elevarsi al di sopra delle vicende umane e mettersi in contatto con la sfera divina e Dante nel Canto XVII del Paradiso [dal versetto 37 al 42] riprende l’argomento e lo spiega con questi sei versi: «La contingenza, che fuor del quaderno de la vostra matera non si stende [l’insieme delle cose contingenti, che possono accadere oppure no, che non si estende fuori del vostro mondo materiale], tutta è dipinta nel cospetto etterno [ogni vicenda umana è già dipinta nella mente di Dio]: necessità però quindi non prende [le azioni umane non assumono carattere di necessità, per il fatto che sono presenti all’occhio di Dio] se non come dal viso in che si specchia nave che per torrente giù discende [così come una nave, che discende la corrente di un fiume, non prende il movimento dall’occhio di chi dalla riva la guardi navigare]». Cioè, ogni contingenza [ogni vicenda umana, precisa Dante] è già dipinta nella mente di Dio ma il percorso della nave viene sempre scelto da colui che la governa, per cui, se qualcosa va storto ce la dobbiamo prendere con noi stessi che non abbiamo saputo governare la nave e non con Dio che lo sapeva in anticipo.

   Severino Boezio prova a far convivere la Fede con il Dubbio, la Religione con la Filosofia e l’Essere con l’Essenza di Dio, ma non sempre ci riesce rispetto a Dante che ha molti più strumenti a disposizione: il poeta della Commedia, vissuto quasi 800 anni dopo Boezio, può contare su tutto il patrimonio “razionale” della filosofia scolastica [e ce ne renderemo conto quando, strada facendo, incontreremo Tommaso d’Aquino, tanto per fare un nome] ma Dante rimane comunque debitore nei confronti dell’autore del De consolatione Philosophiae il quale insegna [anche a Dante] che non ci si deve far troppo condizionare dalla razionalità, a volte, suggerisce Severino Boezio, è preferibile guardare il mondo con gli occhi della speranza che non con quelli della ragione perché scrive: «Dobbiamo anche pensare che ogni cosa ha una vita profonda e segreta, che noi siamo destinati a non conoscere». [Perché Gerolamo, all’udire queste parole, fa un piccolo sobbalzo: ce lo dirà fra poco].

   È comunque sorprendente che Boezio, teologo cristiano, pur trovandosi a un passo dalla morte, chieda aiuto più alla Filosofia greca che al Dio cristiano, ma a lui piace identificarsi con Socrate, con il “Socrate dell’ultimo giorno”, quello raccontato da Platone nel dialogo intitolato Fedone [che più volte abbiamo incontrato per via in questi anni nel corso dei nostri viaggi].

   Il corpo di Severino Boezio riposa [come abbiamo detto] a Pavia, nella Chiesa di San Pietro in Ciel d’Oro, accanto a quello di sant’Agostino. Corre voce che, di notte, quando la Chiesa è chiusa si sentano voci: sono loro due [Agostino e Severino] che dibattono animatamente sui grandi temi dell’esistenza. Questa chiesa è detta “in Ciel d’Oro” per il soffitto ligneo completamente dorato. Sembra che questa basilica sia stata fatta costruire dal re longobardo Liutprando [anche lui è sepolto qui, e lo incontreremo a suo tempo], tra il 720 e il 725, per collocarvi le spoglie di Sant’Agostino che aveva comprato in Sardegna da una banda di pirati saraceni che l’avevano trafugate a Ippona. Questa chiesa è stata uno dei centri culturali più ricchi e significativi del Medioevo europeo e l’aspetto che ha oggi risale alla prima metà del XII secolo ed è un bell’esempio di romanico pavese, uno stile architettonico che si riconosce per la struttura cosiddetta “a capanna”. L’arca di S. Agostino è un’opera di grandissimo pregio, realizzata nella seconda metà del XIV secolo da un gruppo di scultori lombardi detti “maestri comacini”, la tomba di Severino Boezio è più semplice ma anche lui porta il titolo di “santo”, così come Dante lo ha definito.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con una guida della Lombardia o della città di Pavia, e navigando in rete [dove trovate molte immagini], fate una visita alla Chiesa di San Pietro in Ciel d’Oro, è un monumento che merita di essere conosciuto…

Nel Palazzo Ducale di Urbino si conserva un quadro con il ritratto “ideale” di Severino Boezio dipinto da Giovanni Santi, il padre e il primo maestro di Raffaello, morto ad Urbino nel 1494

Con questi dati a disposizione potete - utilizzando la rete e un catalogo reperibile in biblioteca - ricercare questo ritratto ed osservarlo

   La scorsa settimana, come sapete, abbiamo letto quasi tutto il testo di quello che viene considerato l’incipit del De consolatione Philosophiae e, questa sera, dobbiamo ultimarne la lettura, manca solo un brano. Ma prima di compiere questa operazione, che ci deve traghettare su una nuova sponda del paesaggio intellettuale che stiamo osservando, dobbiamo chiedere a Gerolamo perché ha fatto un piccolo sobbalzo [non è uomo da sobbalzi] quando ha ascoltato le parole della frase di Severino Boezio che abbiamo citato: «Dobbiamo anche pensare che ogni cosa ha una vita profonda e segreta, che noi siamo destinati a non conoscere». Gerolamo [da buon traduttore e filologo] ha individuato un intreccio filologico legato a questa frase: sapete che stiamo leggendo un romanzo che a Gerolamo piace perché in questo testo traspare l’inquietudine che è tipica del suo carattere travagliato [poi lui si dev’essere anche un po’ invaghito della scrittrice]: Gerolamo, quindi, suggerisce che dobbiamo proseguire nella lettura del romanzo di Irène Némirovsky intitolato Il calore del sangue del quale abbiamo già letto sessanta pagine e conosciamo i principali personaggi e gli antefatti.

   Prima di tutto conosciamo il narratore di questo racconto [che è anche il personaggio principale] il cugino Sylvestre il quale ci ricorda che siamo in un ridente paese della Borgogna [nell’agreste Francia profonda] dove, all’apparenza, il “sigillo dell’amore” sembra essere la garanzia per la felicità delle persone che vivono qui, in questa feconda realtà agreste; invece, la scrittrice punta il suo sguardo acuminato sulle contraddizioni, sulle ambiguità, sull’inquietudine che cova in questo ambiente. Abbiamo già assistito ad alcuni avvenimenti preoccupanti: il più grave [come certamente ricorderete] è stato l’episodio delle morte, considerata accidentale, di Jean Dorin, il giovane marito di Colette [una delle figure femminili del romanzo che abbiamo imparato a conoscere fin dalla prima pagina, la figlia di François e di Hélène, che sono stati giovani, soprattutto Hélène, insieme al cugino Sylvestre]: ebbene, il povero Jean, notte tempo, è annegato cadendo nell’acqua gelida del canale che mette in movimento il suo mulino, ed è una morte equivoca la sua. Altro avvenimento luttuoso è stato il decesso per malattia del vecchio e ricco contadino Declos, il marito della giovane Brigitte [una seconda interessante figura femminile che presenta dei lati misteriosi dal modo in cui ne parla il cugino Sylvestre].

   Nell’ultimo episodio che [la scorsa settimana] abbiamo letto, il cugino Sylvestre ci ha portato con sé nella sala da tè dell’Hotel dei Viaggiatori [l’unico ritrovo pubblico di questo “tranquillo” paese di campagna]: ogni domenica, come se fosse un rito, in questo caffè giocano a carte otto contadini, sempre gli stessi. Ad un tavolo tutto solo c’è un giovane uomo, Marc Ohnet – un altro personaggio che abbiamo già incontrato –, e la scrittrice, con il suo acume da filosofa esistenzialista [un altro motivo per cui piace a Gerolamo?], ci fa sapere che: «Se un uomo beve in compagnia non svela nulla di sé; ma quando lo fa da solo rivela inconsapevolmente il fondo della propria anima» e il comportamento di Marc è quello di una persona angustiata, tormentata dall’angoscia e da feroci preoccupazioni. Sappiamo che Marc – ragazzo aitante e piacente [“un bellimbusto un po’ sfaccendato”, così lo ha definito il cugino Sylvestre] – è l’amante dell’ormai vedova Brigitte, che ha ereditato dal vecchio Declos un bel patrimonio e poi sappiamo che anche Colette, ormai vedova e proprietaria di terre produttive, è innamorata [lo ha rivelato al cugino Sylvestre] e abbiamo intuito che ha una relazione con Marc. Naturalmente anche gli otto contadini, che sono al corrente di molte cose [è un microcosmo dove tutti sanno tutto di tutti ma fingono di non sapere nulla e vige il sistema dell’allusione maliziosa], hanno notato l’inquietudine di Marc nonostante lui tenti di assumere un’aria indifferente.

   Quando cala la notte i contadini mettono giù le carte e si accingono a tornare a casa ma, a questo punto, ha inizio la conversazione: dapprima parlano del tempo, del costo della vita, dei raccolti, poi, rivolti a Marc cominciano, con malizia, a tartassarlo di domande tendenziose, a fare insinuanti allusioni e, dopo averlo messo in seria difficoltà, soddisfatti, come se la malizia fosse una virtù [questa riflessione la dobbiamo a Severino Boezio e Irène Némirovsky la riprende in modo mirabile], se ne vanno facendo saluti cerimoniosi.

   Marc Ohnet, di cattivo umore, ordina un altro bicchiere e il cugino Sylvestre [silenzioso spettatore di questa sceneggiata, o di questa tragedia], dopo aver acceso la pipa, ricomincia a raccontare e noi – come fa Gerolamo – ci predisponiamo, mentre leggiamo, a far attenzione alle citazioni di ispirazione “classica” che l’autrice, con grande abilità, spesso inserisce nei testi dei suoi romanzi.

LEGERE MULTUM….

Irène Némirovsky, Il calore del sangue

Questa sera, quando Marc Ohnet è andato via è arrivata una macchina piena di parigini che si sono fermati all’Hotel dei Viaggiatori giusto il tempo di bere qualcosa e di riparare un piccolo guasto al motore. Sono entrati nella sala ridendo e parlando a voce alta. Qualcuna delle donne mi ha squadrato, qualcun’altra ha tentato senza successo di ritoccarsi il trucco davanti ai lividi specchi del locale, che deformano i tratti del viso. Altre ancora, accostatesi alle finestre, hanno osservato la stradina di ciottoli sferzata dall’acquazzone e le case addormentate. «Che quiete» ha detto una ragazza, ridendo e distogliendo subito lo sguardo. Più tardi, mentre tornavo a casa, la loro auto mi ha sorpassato. Andavano verso Moulins. Stanotte attraverseranno un gran numero di paesini tranquilli, di villaggi sonnolenti, e passeranno accanto alle grandi case silenziose e scure perdute nella campagna: non immagineranno nemmeno che ogni cosa ha una vita profonda e segreta, che loro sono destinati a non conoscere. Mi chiedo come dormirà stanotte Marc Ohnet, e se sognerà Moulin-Neuf e il suo torrente verde e spumeggiante.

... continua la lettura ...

   Che cosa ricorda questo ragazzo, perché i commensali s’impressionano: ha una confessione da fare, un segreto da rivelare, sa qualcosa sulla morte per annegamento del povero Jean? Lo ascolteremo perché ormai ha deciso di parlare, ora però noi dobbiamo tornare sul nostro sentiero specifico insieme a Severino Boezio.

   La prima parte del Libro I del De consolatione philosophiae costituisce l’incipit di quest’opera, è come se fosse un “prologo”, e noi, la scorsa settimana, di questo preludio, ne abbiamo letto quasi tutto il testo che [come probabilmente ricordate] è formato da un primo canto in versi che, in termini patetici e dolenti, descrive la disperazione dell’autore provocata dall’ingiusta carcerazione e da un verdetto di condanna a morte, al quale segue un primo brano in prosa che descrive l’inquietante apparizione di una vetusta signora che rimprovera Severino di essersi arreso alla sua afflizione ma lui non reagisce perché è incapace di riconoscere in questa figura la Filosofia, la quale intona un secondo canto in versi in cui tesse l’elogio del prigioniero, dimostrando di conoscerlo molto bene per i suoi meriti e ne fa l’apologia come scienziato, come ricercatore, come studioso, poi l’incipit continua con un secondo brano in prosa dove la Filosofia – in veste di terapeuta dell’anima e del corpo – giudica Severino affetto da “letargia, una malattia comune alle menti ingannate” e, sedendosi accanto a lui, dopo essersi fatta riconoscere, asciuga i suoi occhi inondati di pianto, finché il recluso, rinfrancato nello spirito, intona un terzo canto in versi in cui afferma di aver ritrovato la luce e poi si domanda perché la Filosofia sia venuta a condividere con lui la reclusione: è forse anch’essa perseguitata come colpevole con false accuse?

   Di fronte a questa domanda, una settimana fa, abbiamo interrotto la lettura dell’incipit del De consolatione Philosophiae e, adesso, non ci resta che concludere: resta da leggere un terzo paragrafo in prosa [del quale appartiene al prologo solo la prima parte]: questo brano contiene la parola-chiave “persecuzione”, una parola che costituisce, a sua volta, il preludio di un nuovo tema che dobbiamo affrontare.

LEGERE MULTUM….

Severino Boezio, De consolatione Philosophiae

Libro I [Le persecuzioni contro la Filosofia]

non diversamente, dissoltesi le nebbie della tristezza, rividi il cielo, e ritornai in me per riconoscere il volto di colei che intendeva curarmi. Non appena ebbi rivolti a lei gli occhi e l’ebbi fissata, ecco vedo la mia nutrice, nella cui dimora m’ero aggirato fin dall’adolescenza, la Filosofia; «e perché» le dissi «o maestra di tutte le virtù, sei venuta in queste solitudini del nostro esilio, discendendo dalla tua sede superna? Forse per essere anche tu insieme a me perseguitata come colpevole con false accuse?». «Ma potrei forse abbandonare te, mio alunno» ella rispose, «e non condividere con te il carico che ti è stato imposto per l’odio suscitato dal mio nome? Non era ammissibile che la Filosofia lasciasse privo di compagnia il cammino dell’innocente. Dovrei dunque temere la mia incriminazione e inorridirne come se fosse accaduto qualche cosa di nuovo? Pensi che sia la prima volta che la sapienza si trova circondata da pericoli per colpa dei malvagi? Non è forse vero che anche presso gli antichi, prima dell’epoca del nostro Platone, conducemmo spesso una dura battaglia contro la temerità della stoltezza, e che, sopravvivendogli questi, il suo maestro Socrate riportò con il mio aiuto la vittoria su un’ingiusta morte? E mentre poi altri ancora, ciascuno per sua parte, cercavano con malizia di mettere a sacco la sua eredità, e mi trascinavano a forza come loro preda, mentr’io protestavo e resistevo, lacerarono la veste che avevo intessuta con le mie mani, e avendone stracciato alcuni pezzetti se ne andarono credendo che fossi caduta tutta in loro possesso.

   Severino Boezio è stato profeta nell’anticipare [anche se, nell’aria, gli indizi c’erano già tutti] la più violenta [e ingiustificata] persecuzione contro la Filosofia greca, in particolare contro gli intellettuali neoplatonici, che ha avuto inizio nel 529 con un decreto firmato dall’imperatore romano d’Oriente [Gerolamo è scandalizzato di fronte a questa notizia perché si tratta del decreto di chiusura di una Scuola]. Come si sono svolti i fatti? E chi sono i protagonisti di questa nuova storia? Una storia che si svolge sempre nell’ambito del “paesaggio intellettuale della salvaguardia della cultura e della tradizione classica”, e la “cultura classica greco-romana” è la vera linfa [sostiene Severino Boezio] che alimenta il nascente movimento della “sapienza poetica e filosofica dell’Età alto-medioevale”.

   Per procedere sul nostro cammino, e per poter affrontare [nel prossimo itinerario] il tema della “persecuzione della Filosofia neoplatonica” orchestrata dall’imperatore bizantino, dobbiamo tornare ad osservare, a grandi linee, il quadro storico: che cosa succede con la morte di Teodorico? Sappiamo che gli intrighi della corte e della diplomazia bizantina [dell’Impero romano d’Oriente che, ormai, ha preso il nome di Impero bizantino perché quello che c’era di “romano” è finito da tempo in secondo piano], ebbene, le trame dei diplomatici bizantini hanno avvelenato gli ultimi anni di Teodorico: gli imperatori di Costantinopoli vorrebbero far cadere il regno gotico in Italia e rimpadronirsi del territorio della penisola, ed è in questo contesto che, per ordine del monarca, sempre più diffidente e psichicamente turbato, vengono assassinati quelli che sono stati i suoi più illuminati consiglieri: prima Simmaco, poi Severino Boezio e, poco dopo, anche papa Giovanni I – che, secondo Teodorico, lo avrebbe tradito in una missione diplomatica svolta per lui a Costantinopoli – al suo ritorno in Italia viene imprigionato e muore in carcere.

   Lo stesso Teodorico, però, ha i giorni contati e nel 526 muore e viene sepolto nel suntuoso Mausoleo che si è fatto costruire a Ravenna [non è difficile trovare un’immagine di questo monumento]: subito dopo la sua morte – a causa della cattiva fama che si era fatto negli ultimi anni della sua vita – cominciano a fiorire le leggende sulla sua fine che diventano una sorta di modello letterario e nasce la cosiddetta Saga di Teodorico chiamato Dietrich von Bern, una saga che ha coinvolto la Letteratura germanica, la norvegese e l’islandese [ne è scaturito un repertorio così ampio - fatto di poemi, opere musicali, opere teatrali - che non basterebbe un viaggio intero per conoscerlo, e ce ne siamo occupate ed occupati qualche anno fa quando abbiamo percorso i sentieri del Romanticismo titanico]. Quel che è certo è che Teodorico muore afflitto da terribili sensi di colpa specialmente verso Severino Boezio.

   Nella Letteratura italiana La leggenda di Teodorico rimanda alle Rime nuove di Giosuè Carducci [composte tra 1861 e il 1887] che colloca questa famosa ballata nel Libro VI di quest’opera: La leggenda di Teodorico è una ballata formata da quartine doppie di ottave a rima alterna, che molte e molti di noi hanno studiato a memoria alla Scuola elementare: «Su ’l castello di Verona batte il sole a mezzogiorno…», chi non ricorda questo famoso esordio? Carducci, con grande abilità e con spirito giocoso, interpreta uno degli episodi più celebri sulla fine di Teodorico: quello in cui il re goto viene fatto sprofondare all’Inferno attraverso il vulcano dell’isola di Stromboli [e questo è un motivo in più per fare una visita a quest’isola straordinaria utilizzando l’enciclopedia, una guida della Sicilia, la rete prima di approdarci o riapprodarci realmente].

   Narra la leggenda che mentre Teodorico era nella sua residenza estiva di Verona, apprende da un “damigello” che è appena passato da lì un cervo maestoso e il vecchio re, che è un appassionato cacciatore, salta fuori dalla vasca da bagno dove strava fantasticando sulla sua ascesa al potere e, per inseguire lo stupendo animale, monta su un cavallo che gli appare improvvisamente davanti, uno stallone “nero come un corbo vecchio” e che “negli occhi avea carboni” [sono versi ormai famosi]. Questo focoso cavallo comincia a correre senza fermarsi, i cani, impauriti, non lo seguono, e il più fedele degli scudieri del re cerca di tenergli dietro ma non ce la fa e gli grida invano di fermarsi, ma Teodorico gli urla che non riesce più a fermare l’animale e solo la Vergine Maria potrebbe aiutarlo, ma la Vergine Maria ha altro a cui pensare perché è intenta a “consolare i martiri della patria e della fede” fatti uccidere da Teodorico durante la sua feroce repressione. Partito da Verona il diabolico destriero attraversa tutta la penisola fino alla Sicilia e giunto nell’isola di Stromboli, nell’arcipelago delle Eolie, scaraventa il re dei Goti nel cratere del vulcano [e lì giunto “il cavaliero nel cratere inabissò”]. Questa bestia è in realtà il demonio, venuto a punire Teodorico per tutto il male che ha fatto nei suoi ultimi anni di vita.

   E ora leggiamo [a parte pochi versi iniziali] La leggenda di Teodorico: queste rime carducciane suonano certamente famigliari nella mente di molte e di molti di noi.

LEGERE MULTUM….

Giosuè Carducci,  La leggenda di Teodorico [in Rime Nuove]

Su ’l castello di Verona

batte il sole a mezzogiorno,

da la Chiusa al pian rintrona

solitario un suon di corno,

mormorando per l’aprico

verde il grande Adige va;
Ed il re Teodorico

vecchio e triste al bagno sta.

Guarda il sole sfolgorante

e il chiaro Adige che corre,

guarda un falco roteante

sovra i merli de la torre;

guarda i monti da cui scese l

a sua forte gioventù;

ed il bel verde paese

che da lui conquiso fu.

Il gridar d’un damigello

risonò fuor de la chiostra:

Sire, un cervo mai sì bello

non si vide a l’età nostra.

Egli ha i piè d’acciaro a smalto,

ha le corna tutte d’òr -.

Fuor de l’acque diede un salto

il vegliardo cacciator.

I miei cani, il mio morello,

il mio spiedo - egli chiedea:

e il lenzuol quasi un mantello

a le membra si avvolgea.

I donzelli ìvano.  In tanto

il bel cervo disparì

e d’un tratto al re da canto

un corsier nero nitrì.

Nero come un corbo vecchio,

e ne gli occhi avea carboni.

Era pronto l’apparecchio,

ed il re balzò in arcioni

ma i suoi veltri [cani] ebber timore

e si misero a guair,

e guardarono il signore

e no ’l vollero seguir.

In quel mezzo il caval nero

spiccò via come uno strale,

e lontan d’ogni sentiero

ora scende ed ora sale:

via e via e via e via,

valli e monti esso varcò.

Il re scendere vorria,

ma staccar non se ne può.

Il più vecchio ed il più fido

lo seguía de’ suoi scudieri,

e mettea d’angoscia un grido

per gl’incogniti sentieri:

O gentil re de gli Amali,

ti seguii ne’ tuoi be’ dì,

ti seguii tra lance e strali,

ma non corsi mai così.

Teodorico di Verona,

dove vai tanto di fretta?

Tornerem, sacra corona,

a la casa che ci aspetta? -.

- Mala bestia è questa mia,

mal cavallo mi toccò:

sol la Vergine Maria

sa quand’io ritornerò -.

Altre cure su nel cielo

ha la Vergine Maria:

sotto il grande azzurro velo

Ella i martiri covria,

Ella i martiri accoglieva

de la patria e de la fe’;

e terribile scendeva

Dio su ’l capo al goto re.

Via e via su balzi e grotte

va il cavallo al fren ribelle:

ei s’immerge ne la notte,

ei s’aderge in vèr’ le stelle.

Ecco, il dorso d’Apennino

fra le tenebre scompar,

e nel pallido mattino

mugghia a basso il tòsco mar.

Ecco Lipari, la reggia

di Vulcano ardua che fuma

e tra i bòmbiti lampeggia

de l’ardor che la consuma:

quivi giunto il caval nero

contro il ciel forte springò

annitrendo; e il cavaliero

nel cratere inabissò.

Ma dal calabro confine

che mai sorge in vetta al monte?

Non è il sole, è un bianco crine;

non è il sole, è un’ ampia fronte

sanguinosa, in un sorriso

di martirio e di splendor:

di Boezio è il santo viso,

del romano senator.

   Carducci gioca con la leggenda di Teodorico per esaltare la figura – “il santo viso sorridente” – di Severino Boezio.

   Alla morte di Teodorico che cosa succede? Alla morte di Teodorico emerge la figura di una donna: si chiama Amalasunta ed è l’unica figlia di Teodorico. Chi è Amalasunta, che ruolo ha avuto nella storia alto-medioevale e dove, oggi, si può entrare in contatto con lo spirito di questo personaggio?

   Amalasunta [il nome significa «la forte Amala», Amal è il nome della stirpe più nobile dei Ostrogoti e Amala significa «laborioso e potente», e swind, da cui sunda, significa «forte»] è nata a Ravenna [tra il 495 e il 500] ed è la figlia [l’unica figlia] di Teodorico e dalla franca Audofleda [o Audefleda], sorella del re Clodoveo I [i Franchi stanno espandendo il loro territorio nel cuore dell’Europa occidentale]. Nel 515 Amalasunta sposa Eutarico [anche lui appartenente alla stirpe degli Amali] il quale muore nel 522 lasciandola vedova con due figli: il maggiore, Atalarico, di cinque anni, e la piccola Matasunta. Alla morte di Teodorico, nel 526, gli succede sul trono il nipote Atalarico [così Teodorico aveva disposto] che, però, ha appena dieci anni e, quindi, la reggenza viene affidata ad Amalasunta. Lo storico Procopio di Cesarea e lo studioso Cassiodoro [il fondatore del Vivarium di Squillace che abbiamo incontrato due settimane fa e che è stato primo ministro di Amalasunta] la descrivono come una donna molto colta, conoscitrice della lingua latina e greca che dà al figlio un’istruzione d’impostazione “classica” più che gota e, per questi motivi, possiamo annoverare Amalasunta tra le figure compartecipi del progetto [non scritto] di salvaguardia della cultura e della tradizione greco-romana.

   Amalasunta ritiene di dover perseguire una politica che favorisca i buoni rapporti tra i Goti, i Romani e i Bizantini, restituisce i beni confiscati ai figli di Severino Boezio e di Simmaco, e nomina gli elementi più moderati alle maggiori cariche dello Stato. Affida a Tuluin – il meno guerrafondaio dei generali goti – il comando dell’esercito con diritto di sedere in Senato e di assumere la cittadinanza romana.

   Avendo una madre franca Amalasunta si disinteressa se gli alleati Visigoti sono in difficoltà di fronte all’espansione del Regno franco e, per questo suo atteggiamento, le viene a mancare la solidarietà di una parte della nobiltà ostrogota, quella che non gradisce l’espansionismo dei Franchi, e, quindi, un gruppo di nobili goti comincia a tramare per condizionare l’educazione di suo figlio Atalarico, allo scopo di farne un futuro re che possa governare secondo le tradizioni dei Goti. La reazione di Amalasunta, quando scopre la trama, è violenta fino a far uccidere tre dei nobili goti sospettati di cospirare contro il suo potere e, allo stesso tempo, apre dei negoziati con l’imperatore d’Oriente Giustiniano perché capisce di essere in pericolo e pensa che, in caso di difficoltà, debba poter fuggire, con i figli, a Costantinopoli e lo storico Procopio di Cesarea scrive: «Amalasunta aveva intenzione di fuggire a Bisanzio con il tesoro ostrogoto, consistente nell’enorme somma di duemilioni ottocentoottanta mila pezzi [monete] d’oro». Queste trattative sarebbero avvenute nel 532 ma non ci sono documenti in proposito e, poi, un fatto tragico e luttuoso colpisce Amalasunta: il [diciottenne] figlio Atalarico si ammala e il 2 ottobre del 534 muore. Amalasunta diventa così regina a tutti gli effetti ma il partito della nobiltà gota la avversa e allora lei, per equilibrare la situazione, associa al trono il cugino Teodato, duca di Tuscia. Teodato è uno dei più influenti esponenti della nobiltà gota, ed è anche in possesso di una solida cultura greco-romana, è proprietario in Toscana di grandi latifondi ed è in buoni rapporti con Giustiniano [l’imperatore d’Oriente]. Teodato, quindi, dovrebbe essere un elemento di equilibrio nella politica perseguita da Amalasunta: rassicura la nobiltà gota all’interno e garantisce, all’esterno, i buoni rapporti con l’Impero d’Oriente. Come mai, nonostante queste corrette scelte politiche, Amalssunta cade in disgrazia? Non sono mai stati chiariti tutti gli aspetti del complesso gioco di potere nel quale è caduta Amalasunta, né quale sia stato il ruolo di Giustiniano [della perfida diplomazia bizantina], il quale, d’accordo [in combutta] con Teodato, fa relegare la regina sull’isola Martana, nel lago di Bolsena, dove nel 535 [forse il 30 aprile], viene uccisa. Chi ha ucciso Amalasunta: sono stati i parenti di quei Goti che lei aveva ordinato di assassinare oppure gli agenti segreti bizantini di Giustiniano che fanno il doppio gioco, chi ha fatto annegare Amalasunta [dopo averla, per precauzione, strangolata] nelle acque tranquille del Lago di Bolsena? Sta di fatto che Giustiniano, con grande perfidia, sebbene avesse riconosciuto la legittimità del regno di Teodato, con il quale era in buone relazioni [o faceva finta di esserlo?], prese a pretesto l’assassinio di Amalasunta per dichiarare la guerra ai Goti [e questa è un’altra storia, terribile, da raccontare a suo tempo].

   Il Lago di Bolsena, situato in provincia di Viterbo, è il più vasto lago vulcanico d’Europa e nel suo bacino ci sono due belle piccole isole: l’isola Bisentina e l’isola Martana sulla quale continua ad aleggiare lo spirito della regina Amalasunta.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Utilizzando la guida del Lazio, e navigando in rete [dove trovate vari siti e molte immagini] fate un’escursione al Lago di Bolsena e una visita sull’isola Martana, buon viaggio

   Abbiamo citato diverse volte l’imperatore d’Oriente Giustiniano [Flavius Petrus Sabbatius Iustinianus] il quale è uno dei più importanti personaggi storici, non solo di questo periodo, e, se non altro, perché il suo regno è durato ben 38 anni, dal 1° agosto del 527 al 14 novembre del 565 [quando è morto] e, quindi, siamo di fronte ad un enorme serbatoio di notizie in proposito. Ciò che stiamo per dire su Giustiniano – e sui personaggi che lo accompagnano nella sua vicenda umana e politica – non è stato messo in REPERTORIO … perché se volete informarvi [e la Scuola vi invita a farlo] potete utilizzare – cercando alla voce “Giustiniano” – l’enciclopedia, la rete e la biblioteca. Noi ora selezioniamo le informazioni necessarie per procede sul nostro cammino.

   Giustiniano è l’ultimo imperatore cresciuto in una famiglia di lingua e cultura latina ed è nato l’11 maggio del 482 nella città di Tauresio [Tauresium] in Dardania che oggi è un piccolo paese di montagna che si chiama Taor e si trova nella Repubblica di Macedonia non lontano dalla capitale Skopje: in questo villaggio ci sono ancora dei resti della città romana. Giustiniano è il figlio del generale Sabbazio e di Vigilante, che è la sorella dell’imperatore Giustino e, quindi, fin da bambino, è stato adottato dallo zio, ha studiato con impegno giurisprudenza e filosofia, e ha fatto carriera nei ranghi dell’amministrazione imperiale fino a diventare comandante supremo dell’esercito e dal 518 vice-imperatore [imperatore associato].

   Tra il 524 ed il 525, Giustiniano sposa Teodora, un’attrice teatrale con trascorsi “burrascosi”. Giustiniano, per sposarla, oltre alla contrarietà della madre e della zia Eufemia [l’imperatrice], deve superare molti ostacoli [la madre e la zia di Giustiniano consideravano Teodora alla stregua di una prostituta], il più importante dei quali era una legge che proibiva agli uomini di alto rango di sposare serve o attrici, ma Giustiniano persuade lo zio Giustino ad abrogare questa legge che discriminava le donne e le classi sociali inferiori: Giustiniano comincia a pensare che tutta la legislazione vada rivista e adeguata ai tempi.

   Teodora diventa molto influente nelle politiche dell’Impero bizantino [non solo perché sa recitare bene la parte da imperatrice]: contribuisce a creare una corte lussuosa e convince il marito dell’opportunità di comportarsi da monarca assoluto, assistito, però, da una numerosissima burocrazia. In campo religioso Teodora parteggia per i monofisiti [conosciamo questa corrente di pensiero, fondata da Eutiche, secondo cui in Cristo sarebbe presente solo la natura divina] e, quindi, Teodora convince Giustiniano a diventare lui stesso, prima ancora che il patriarca [gradito al papa di Roma e anti-monofisita], il “capo della Chiesa bizantina” e, per via di questa carica [assunta dall’imperatore d’Oriente], nascono frequenti conflitti – che si acuiranno sempre di più nel tempo – tra il governo di Costantinopoli e il papa di Roma, fino a determinare una netta divisione tra la Chiesa latina d’Occidente e la Chiesa greca d’Oriente [e questa è un’altra questione che dovremo affrontare strada facendo].

   Giustiniano è stato spesso, nei secoli, paragonato a Costantino ma, come per Costantino, personaggio che conosciamo bene, dobbiamo considerare luci ed ombre e non ci possiamo fermare ai panegirici apologetici. Prima di tutto dobbiamo dire che Giustiniano è perfettamente inserito in una corte, quella di Costantinopoli, dove si costruiscono sofisticati meccanismi diplomatici [i bizantinismi] – spionaggio, intrighi, tradimenti, inganni [abbiamo appena visto all’opera il governo di Giustiniano sul caso della morte misteriosa di Amalasunta] – per mettere in difficoltà non solo i nemici ma anche gli alleati in modo da indebolirne le forze,  prevalere su di loro, condizionandone le decisioni. Il regno di Giustiniano ha coinciso, senza dubbio, con il periodo più prospero dell’Impero d’Oriente e lo Stato bizantino [ormai identificato con questo nome sul piano internazionale], approfittando della stabilità di governo, sfrutta la sua posizione geografica posta all’incrocio di tre continenti, l’Europa, l’Asia e l’Africa, per far convergere sulle principali città dell’Impero bizantino le grandi vie di comunicazione [carovaniere e marittime] provenienti dalla vallata del Nilo, dall’Arabia, dalle Indie, dal Mar Caspio e dall’Asia centrale, per cui giungono sul Bosforo in grande quantità cereali, aromi, spezie, pietre preziose e dalla Cina [che viene raggiunta via mare attraverso l’Oceano Indiano] viene trafugato il baco da seta  con il suo sistema di allevamento [la seta veniva importata dalla Cina attraverso l’Impero persiano che gravava il prodotto di una pesante tassazione] per cui il suo allevamento si diffonde in tutta Europa, anche in Italia. Questa prosperità permette a Giustiniano di edificare molte opere pubbliche, soprattutto chiese, fra le quali quella, bellissima, di Santa Sofia a Costantinopoli, la più ampia basilica del mondo.

   Giustiniano, nel suo programma di governo, si propone tre obiettivi da raggiungere: il primo obiettivo non è positivo, e per conseguirlo Giustiniano fa passare l’idea che l’occupazione dell’Italia da parte dei Goti sia una situazione provvisoria [i Goti - e tutti i popoli germanici che sono penetrati nel territorio dell’Impero romano d’Occidente - sono usurpatori] e che lo Stato bizantino si debba impegnare per riconquistare le province occidentali e per restaurare la dignità imperiale su tutto il bacino del Mediterraneo e, quindi, dà inizio ad un conflitto [invece di perseguire la via della pacifica cooperazione] che diventa uno scontro terribile e di lunga durata: la guerra goto-bizantina [535-553] di cui parleremo strada facendo.

   Il secondo obiettivo di Giustiniano [a parte la retorica sul culto della maestà di Roma che è solo un espediente propagandistico] è invece da considerare positivamente: Giustiniano nel 528 istituisce una commissione di giureconsulti, sotto la guida di Triboniano [il più importante giurista bizantino, nato in Panfilia intorno al 500 e morto di peste nel 542 o 543 durante la prima epidemia che funesta l’Impero d’Oriente e che viene documentata con precisione in Età alto-medioevale, e che si diffonderà in Occidente, negli anni a venire, a causa soprattutto della guerra goto-bizantina]; questa commissione ha il compito di raccogliere e ordinare tutte le Leggi lasciate dai Romani ed è anche per questo motivo che Dante cita Giustiniano nella cantica del Paradiso [«Cesare fui e son Iustiniano, che, per voler del primo amor ch’i’ sento, d’entro le leggi trassi il troppo e ‘l vano». Nel Canto VI del Paradiso della Divina Commedia Dante, con una digressione sulla storia dell’Impero romano [partendo da Costantino che sposta la capitale a Bisanzio], presenta Giustiniano lodandolo per la sua opera di conservazione e di salvaguardia della legislazione romana, gli fa confessare di essere monofisita [anche se, in realtà, monofisita è sua moglie Teodora] e di aver poi cambiato idea per merito del papa Agapito. Il bello è che la figura di Giustiniano serve a Dante [Dante si serve sempre degli avvenimenti dell’alto-medioevo per commentare ciò che avviene all’epoca sua, circa 800 anni dopo] per lanciare un’invettiva contro i Guelfi che, per interessi propri, rifiutano “l’autorità dell’aquila imperiale” e contro i Ghibellini che la usano per i loro fini spesso deprecabili.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Leggete, seguendo le note, il Canto VI del Paradiso: ci vuole un po’ di pazienza per fare questo esercizio ma i versi di Dante sono propedeutici per la comprensione del paesaggio intellettuale che stiamo osservando, approfittiamone …

   La commissione guidata da Triboniano redige un volume [un corpus] che è diventato un vero e proprio monumento perché riassume tutta la sapienza giuridica di Roma elaborata nei secoli e questo volume ha preso il nome di Corpus juris civilis Jiustinianei [Raccolta del diritto civile redatta per volere di Giustiniano], ed è ancora oggi un punto di riferimento per capire i meccanismi della legislazione.

   Il terzo obiettivo di Giustiniano [quello che a noi interessa maggiormente secondo la natura del nostro viaggio] riguarda il tema della “persecuzione della Filosofia greca” e, quindi, torniamo all’argomento sul quale [nella prima parte di questo itinerario] abbiamo cominciato a riflettere in compagnia di Severino Boezio. Giustiniano – sulla scia della politica che da tempo persegue l’Impero d’Oriente – compie un gesto deprecabile e, nel 529, con un editto, impone la chiusura della Scuola filosofica di Atene. Da tempo gli imperatori bizantini [ricordate il martirio di Ipazia ad Alessandria nel 415 ?] perseguitavano quelli che chiamavano gli “ellenizzanti”, i custodi dell’antica cultura greca, in particolare i filosofi neoplatonici. Con questo decreto [Contro gli ellenizzanti] Giustiniano – come “capo della Chiesa bizantina” – vuole eliminare l’ultimo baluardo del paganesimo in un Impero cristianizzato e, con questo gesto, si afferma il potere temporale della “cristianità”: si vuole “convertire” a forza piuttosto che proporre “il messaggio evangelico”.

   L’ultimo scolarca dell’Accademia di Atene, Damascio di Damasco, i suoi sei collaboratori, tra i quali Simplicio di Cilicia e Prisciano di Lidia, insieme ad un gruppo di studenti partono per la Persia [l’Impero persiano è il tradizionale nemico dell’Impero bizantino] e il re [il re dei re] Khusraw Anòshakrawan [detto Cosroe] li accoglie di buon grado e chiede loro di tradurre le Opere filosofiche greche in lingua persiana. Ha così inizio [come ai tempi di Alessandro Magno] un nuovo movimento di integrazione tra cultura greca e cultura orientale, che ha permesso, fra l’altro, il salvataggio di numerosi documenti filosofici greci grazie alle traduzioni siriache e poi arabe [a ridosso dell’anno Mille le Opere di Aristotele e i Dialoghi di Platone tornano in Occidente in traduzione araba, e questa è un’altra storia che studieremo a suo tempo].

   Giustiniano chiude l’Accademia di Atene, chiude una Scuola storica, ma questo atto non sanziona la fine del Neoplatonismo: la Filosofia greca non naufraga. La “vetusta signora Filosofia”, che è apparsa a Severino Boezio restituendole la “Luce dell’intelletto”, sa nuotare benissimo e non annega nel mare della persecuzione e – come vedremo nel prossimo itinerario – affronta in modo creativo l’emarginazione.

   Ma ora, prima di concludere, dobbiamo ascoltare che cosa ha da dire quel ragazzo, un po’ brillo, ma determinato a parlare sulla morte per annegamento del povero Jean Dorin.

LEGERE MULTUM….

Irène Némirovsky, Il calore del sangue

Colette, impallidita di colpo, tacque. Suo padre invece chiese in tono sorpreso: «Cosa vuoi dire, ragazzo?». «Voglio dire, voglio dire che se qualcuno qui si è dimenticato di come è morto il signor Jean, io invece me ne ricordo».   «Nessuno se n’è dimenticato» dissi, e con un cenno invitai Colette ad alzarsi e a lasciare la tavola; lei però non si mosse. François intuì qualcosa, ma poiché era ben lungi dall’immaginare la verità, invece di zittire il ragazzino si chinò verso di lui, e in tono ansioso gli domandò: «Vuoi dire che quella notte tu hai visto qualcosa? Parla, te ne prego. È una questione molto seria».

«Non fateci caso. Guardate com’è ubriaco» intervenne il padrone di casa.

... continua la lettura ...

   E ora che succede? La faccenda è seria, e il cugino Sylvestre [la prossima settimana] ci spiegherà come si evolvono le cose in questo ambiente omertoso.

   I filosofi neoplatonici della Scuola di Atene – visto il clima persecutorio in atto per cui bisognava radunare tutto il materiale che non poteva assolutamente andare perduto [i Dialoghi di Platone, le Opere di Aristotele, le Enneadi di Plotino] – portano con loro nell’esilio persiano una ben fornita biblioteca [che, metaforicamente, viene chiamata: La statua di Atena]: questa indispensabile biblioteca [da viaggio] era stata predisposta da tempo dall’ultimo importante filosofo neoplatonico che aveva rifondato, qualche anno prima, l’Accademia ateniese: Proclo di Costantinopoli. Proclo di Costantinopoli, una notte, aveva fatto un sogno. Chi è Proclo di Costantinopoli e in che cosa consiste “il sogno di Proclo”?

   Per rispondere a queste domande bisogna percorrere la via dell’Alfabetizzazione culturale e funzionale che è un bene comune [come la statua di Atena] perché lo studio è un’attività utile per promuovere l’Apprendimento permanente che è un diritto e un dovere di ogni persona: per questo la Scuola è qui, per spronarci ad investire in intelligenza.

   Il prossimo itinerario è il penultimo dell’anno 2013, non mancate...

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Novembre 29, 2013