Prof. Giuseppe Nibbi La sapienza poetica e filosofica dell’età alto-medioevale 4-5-6 dicembre 2013
Giustiniano - Basilica di San Vitale - Ravenna
SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ ALTO-MEDIOEVALE,
DAL PENSIERO DEL TARDO-NEOPLATONISMO DI PROCLO,
NASCONO I QUATTRO TRATTATI DEL DIONIGI AREOPAGITA ...
Ci accingiamo a compiere l’ottavo itinerario del nostro viaggio sul “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età alto-medioevale”: stiamo per percorrere il penultimo tragitto dell’anno 2013.
Mentre continua lo strascico del fenomeno dell’implosione, determinato dalla “caduta” dell’Impero romano d’Occidente, – per cui, sul territorio della penisola italica, si sono avvicendate le dominazioni degli Eruli di Odoacre [476-493] e degli Ostrogoti di Teodorico [493-526] – ci troviamo, come sapete, di fronte ad un vasto scenario che prende il nome di “paesaggio intellettuale della salvaguardia delle Opere dei Classici greci e latini” e, strada facendo, abbiamo incontrato una serie di personaggi che, a vario titolo, hanno operato per conservare i prodotti [gli oggetti artistici e letterari] della cultura e della tradizione antica e tardo-antica. Dopo il traduttore Gerolamo, il codificatore Cassiodoro, il filosofo Severino Boezio, la scorsa settimana abbiamo potuto annoverare tra coloro che hanno salvaguardato la tradizione classica greco-romana anche la regina Amalasunta [la sfortunata figlia di Teodorico il cui spirito - dal 30 aprile del 535 - aleggia sulle acque del Lago di Bolsena] e poi abbiamo incluso anche, ma solo per quanto riguarda un aspetto, l’imperatore bizantino Giustiniano, del quale, una settimana fa, abbiamo elencato i principali obiettivi del suo programma di governo [ha governato per ben 38 anni].
Il primo obiettivo che Giustiniano si propone di raggiungere è riprovevole: ritiene che lo Stato bizantino si debba impegnare per riconquistare l’Occidente e per restaurare la dignità imperiale su tutto il bacino del Mediterraneo e, per questo, fa passare l’idea che tutti i popoli germanici [Eruli, Visigoti, Vandali, Ostrogoti], i quali nel corso dei secoli sono penetrati nel territorio dell’Impero romano d’Occidente, siano degli usurpatori ma, veramente – e lo abbiamo studiato –, il generale erulo Odoacre, nel 476, ha fatto sì che l’amministrazione dello Stato romano continuasse a funzionare evitando il collasso delle Istituzioni imperiali, e poi sappiamo che ad istigare Teodorico, re degli Ostrogoti, ad invadere l’Italia è stato proprio l’Imperatore d’Oriente Zenone quarant’anni prima.
La guerra goto-bizantina, voluta da Giustiniano, costituisce un’immane tragedia per le popolazioni italiane già stremate dal perdurare degli effetti dell’implosione dell’Impero romano d’Occidente. Giustiniano, dopo aver investito ingenti risorse per potenziare l’apparato militare, dichiara guerra ai Goti per riconquistare l’Italia prendendo a pretesto l’uccisione di Amalasunta [un pretesto costruito ad arte]. La guerra in Italia viene preceduta da una spedizione contro i Vandali in Africa e contro i Visigoti in Spagna guidata dal valente generale Belisario. Tanto i Vandali quanto i Visigoti [due Stati che si occupano soprattutto di attuare delle riforme agrarie sperimentando nuovi sistemi di irrigazione] oppongono scarsa resistenza contro la potenza bizantina e vengono sconfitti: il regno dei Vandali, dopo circa un secolo di dominio, viene distrutto e tutta la provincia romana d’Africa, la Sardegna, la Corsica, le Isole Baleari vengono occupate dai Bizantini che, in Spagna, ridimensionarono anche il regno visigoto.
Poi ha inizio la campagna d’Italia ma i Goti dispongono di una grande forza militare e, quindi, per diciotto anni [dal 535 al 553] dura la terribile guerra goto-bizantina, condotta prima da Belisario e poi dal vecchio eunuco di corte Narsete perché Belisario viene richiamato a Costantinopoli per difendere il fronte orientale dove anche i Persiani Sassanidi [lo storico nemico dell’Impero d’Oriente] sono scesi sul piede di guerra. Tutta la penisola italiana viene devastata dal conflitto goto-bizantino e, con la guerra, arriva anche la carestia, l’epidemia di peste, il totale degrado del territorio con il relativo spopolamento delle zone più fertili, e la popolazione superstite cerca rifugio nelle aree più impervie dei massicci appenninici. Alla fine l’esercito bizantino, forte di oltre trentamila uomini – un corpo d’armata di mercenari ben pagati da Narsete formato da Unni, Gepidi, Eruli, Longobardi e Persiani – finisce con il prevalere e gli ultimi re goti, Totila e Teia, che lottano con tutte le loro forze, cadono entrambi in battaglia. Totila [Baduila] viene definitivamente sconfitto da Narsete nella battaglia di Tagina nel luglio del 552 nella quale rimane ucciso.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Il villaggio di Tagina oggi è la cittadina di Gualdo Tadino in provincia di Perugia, una delle mille piccole città italiane ricche di storia e di monumenti… Utilizzando la guida dell’Umbria, che trovate in biblioteca, e navigando in rete, fate un’escursione a Gualdo Tadino e troverete notizie anche sulla battaglia di Tagina e sulla possibile sepoltura di Totila… Buon viaggio…
A Firenze, nella Chiesa di San Miniato al Monte, c’è un emblematico affresco di Spinello Aretino [dipinto tra il 1400 e il 1410] intitolato “Totila incontra San Benedetto”…
Non vi sarà difficile – con l’ausilio della rete, con un catalogo e con una visita a San Miniato al Monte – poterlo osservare…
L’ultimo monarca goto si chiama Teia ed è, probabilmente, un ufficiale dell’esercito di Totila che, dopo la sua morte, viene, sul campo, eletto re dei Goti. Teia, per resistere e per sperare di poter contrattaccare, si sposta verso sud cercando di arruolare i contadini campani: lo scontro finale avviene nella valle del Sarno, a qualche chilometro da Pompei, alle falde del Vesuvio, dove l’armata gota viene annientata dai mercenari di Narsete e Teia – come ci racconta Procopio di Cesarea nella sua opera intitolata Storie – rimane ucciso nelle prime fasi della battaglia, colpito da un giavellotto ben mirato.
A questo proposito dobbiamo aprire una parentesi su Procopio di Cesarea, il maggiore storico bizantino, che abbiamo già citato diverse volte e al quale si deve la conoscenza di questo delicato periodo di storia alto-medioevale, quindi, anche Procopio appartiene alla categoria degli intellettuali che promuovono la salvaguardia della memoria.
Procopio è nato a Cesarea ed ha studiato alla famosa Scuola dei sofisti di Gaza e poi si è trasferito a Costantinopoli dove diventa segretario del generale Belisario che segue in tutte le sue campagne militari – contro i Vandali, contro i Visigoti, contro i Persiani e, soprattutto, contro i Goti in Italia – e, di conseguenza, Procopio è stato spettatore e attore di grandi avvenimenti dei quali ci ha tramandato le Storie. L’opera Storie di Procopio di Cesarea è composta da otto Libri che sono stati pubblicati nel 550 e i più significativi sono senz’altro i tre Libri [il V il VI e il VII] che raccontano, con dovizia di particolari, la guerra goto-bizantina nei quali l’autore, con grande perizia, tiene conto di tutti i fattori: politici, geografici, etnici e sociali seguendo il metodo e lo stile del grande storico romano Polibio, del greco Tucidide [il più grande storico dell’antichità] e di Erodoto [lo scrittore di Storie di viaggio per eccellenza], e, quindi, Procopio di Cesarea custodisce e salvaguarda la memoria di questi padri della Storia antica e tardo-antica. Naturalmente Procopio non può fare a meno di glorificare Giustiniano [che sembra raccogliere nelle sue mani l’eredità di Costantino e di Augusto] e di esaltare le imprese di Belisario tanto che, l’imperatore e il generale, diventano due figure leggendarie. Il bello è che, alla morte di Giustiniano [nel 565], Procopio fa pubblicare un’opera dal titolo Hiistoria arcana [Storia segreta] in cui compie una radicale correzione del testo delle Storie e presenta Giustiniano per quello che era, come un tiranno inetto e orgoglioso e anche Belisario, l’eroe di tutte le guerre, viene ridotto ad una marionetta nelle mani dell’astuta Antonina, sua moglie. Le due opere di Procopio si completano a vicenda e rappresentano due aspetti dello stesso quadro, visto dapprima nella sola luce permessa dalla tirannia e poi alla luce della realtà.
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Le “Storie” e la “Storia segreta [Historia arcana]” di Procopio di Cesarea sono due opere molto interessanti ma non facili, però, volendo anche solo sfogliarle per leggerne qualche pagina, le potete trovare in biblioteca con i titoli di “La guerra gotica” [che raccoglie il testo dei Libri V VI e VII delle “Storie”] e “Carte segrete” [che raccoglie il testo di “Historia arcana”]…
Fate una piccola ricerca bibliografica per mettere in esercizio le azioni dell’apprendimento…
All’inizio dell’anno 553 il regno dei Goti, dopo sessant’anni di dominio, viene spazzato via e i Bizantini s’impadroniscono dell’Italia ma la riunificazione dell’Impero romano è, ormai, un fatto solo apparente. Abbiamo già ricordato [tre settimane fa] che [nel 553] tocca a Cassiodoro – l’ambasciatore che tratta la resa dei Goti [prima di ritirarsi a Squillace dove fonda il Vivarium] – la triste missione di portare a Costantinopoli le spoglie del corpo di Teia, l’ultimo re goto, ucciso in battaglia alle falde del Vesuvio, perché l’imperatore Giustiniano ne vuole constatare personalmente la morte in modo da poter annunciare ufficialmente la fine del dominio ostrogoto in Italia.
L’Italia nel 553, con la fine della guerra goto-bizantina, diventa una provincia dell’Impero romano d’Oriente [che ormai di “romano” non ha più nulla - neppure il nome - e si evoca solo, in modo retorico, come elemento propagandistico, il culto della maestà di Roma che è stata riconquistata e che, in realtà, si è ridotta ad un agglomerato quasi spopolato e ridotto in macerie], e Giustiniano governa la penisola per mezzo di un suo rappresentante detto Esarca che risiede a Ravenna con pieni poteri civili e militari. L’Italia viene divisa in ducati, amministrati da funzionari bizantini [il termine duca deriva dal latino dux e rivela il carattere militare di questa carica] e, tra i vari ducati si distingue quello di Roma dove, in pratica, governa il papa [e lo vedremo quando nel 590 verrà eletto Gregorio detto il Grande, il quale si avvarrà anche della prerogativa militare di duca per salvaguardare l’autonomia della Chiesa Cattolica di Roma].
I duchi bizantini – che non hanno alcuna conoscenza del territorio e dei problemi italiani – cercano di governare con l’aiuto dei Vescovi [che sono le figure più autorevoli e più competenti presenti sul territorio con funzioni pastorali] ai quali affidano anche importanti uffici civili e questo sistema fa crescere il potere temporale dei Vescovi [che cominciano anche a sedere in Cattedra] e, strada facendo, vedremo quali sono gli effetti di questa delega istituzionale data ai pastori della Chiesa.
Il fatto è che, per sopperire alle spese della difesa e dell’amministrazione, il dominio bizantino aggrava ancora di più le misere condizioni della popolazione con l’imposizione di molti tributi resi ancora più aspri dai metodi di riscossione [piuttosto violenti] e dalla corruzione dei funzionari, quindi, l’amministrazione bizantina non reca alcun beneficio alle popolazioni italiane e il solo fatto positivo è che questo dominio dura poco, appena quindici anni, poi le cose si complicano ancor di più, ma questa è un’altra storia.
Chi trae dei vantaggi dal dominio bizantino in Italia è la città di Ravenna, dove risiede l’Esarca: sappiamo che a Ravenna il re Teodorico ha fatto edificare la chiesa di Sant’Apollinare, e la regina Amalasunta ha dato inizio alla costruzione di San Vitale. Questi edifici sono stati adornati e impreziositi dagli splendidi mosaici che, tutt’oggi, possiamo ammirare. Della basilica di Sant’Apollinare Nuovo abbiamo già parlato, e della basilica di San Vitale dobbiamo dire che è stata completata dopo l’entrata di Belisario in Ravenna, ed è stata consacrata dal vescovo Massimiano nel 547 e i mosaici del presbiterio, i marmi dalle varie tonalità e i capitelli traforati e finemente lavorati determinano un fantastico gioco di colori che sembra annulli il peso delle strutture murarie [fa impressione il contrasto che c’è tra questa leggerezza architettonica e la ferrea pesantezza della guerra in corso] e siamo di fronte ad un capolavoro dell’Arte bizantina. I mosaici inseriti nell’abside di San Vitale raffigurano, in rigorosa frontalità contro il fondo d’oro, i personaggi di cui stiamo parlando – Giustiniano, l’imperatrice Teodora, Belisario – i quali vengono trasfigurati tanto da diventare i simboli della dignità imperiale senza perdere le loro fattezze individuali. A Ravenna, nel Museo del Palazzo Arcivescovile, è conservata la Cattedra di Massimiano [l’autorevole Vescovo di Ravenna] che, probabilmente, è stata realizzata a Costantinopoli ed è il capolavoro degli avori intagliati di stile bizantino: su di essa sono raffigurate, come elementi decorativi, figure di animali, immagini di Santi e scene di contenuto biblico.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Utilizzando la guida della città di Ravenna, l’enciclopedia, la rete, andate ad osservare questi capolavori pensando ad una eventuale escursione…
La parola-chiave “mosaico” è molto significativa e rimanda ai termini: decorazione, collage, combinazione, accostamento… Queste parole ricordano molte attività alle quali senz’altro vi siete dedicate e dedicati…
Scrivete quattro righe in proposito…
Prima di proseguire sul nostro sentiero specifico alto-medioevale [su provocazione di Gerolamo che di intrecci filologici se ne intende] dobbiamo dire che anche nella trama del romanzo di Irène Némirovsky intitolato Il calore del sangue, del quale abbiamo già letto un’ottantina di pagine e conosciamo i principali personaggi e gli antefatti, emerge l’idea, ben espressa da Procopio di Cesarea mediante la sua opera di cronista, che ci sono le “storie” che contribuiscono a trasfigurare i personaggi coinvolti in magnifiche figure leggendarie e poi c’è, sotto traccia, l’arcana, la segreta, l’avvilente realtà delle cose che, spesso, molti conoscono, alludendo ad essa, senza avere, però, il coraggio di parlarne apertamente per “non avere grane”.
Il narratore di questo racconto [che è anche il personaggio principale del romanzo e che noi ormai conosciamo bene], il cugino Sylvestre, ci ricorda che siamo in un “apparentemente” tranquillo paese della Borgogna dove, a prima vista, sembra che le persone vivano pacificamente inserite in una gratificante e feconda realtà agreste [che la scrittrice descrive in modo mirabile stagione per stagione] ma, in realtà – dopo l’equivoca morte di uno dei personaggi della storia, il giovane Jean Dorin che annega nel canale del suo mulino, e in seguito alle dichiarazioni di un ragazzo che, dopo essere stato indotto al silenzio dai famigliari per lungo tempo, decide di raccontare ciò che ha visto, di nascosto, facendo un’inquietante rivelazione che presuppone un omicidio –, dopo questo fatto si capisce che, sotto all’agiata e quieta superficie campagnola, ci sono inconfessabili storie arcane delle quali tutti – compreso il nostro narratore – fanno intendere l’esistenza ma delle quali nessuno vuole parlare. Quali effetti provocano – quali inconfessabili storie arcane fanno emergere – le rivelazioni di questo ragazzo che afferma di essere il testimone di un fatto che potrebbe essere non un semplice incidente ma un possibile omicidio? La prima a muoversi è Colette, la giovane vedova del povero Jean.
Leggiamo ancora alcune pagine del romanzo Il calore del sangue, diamo la parola al cugino Sylvestre al quale la scrittrice – prima di fargli raccontare i fatti – fa declamare, a contrasto con la drammaticità degli avvenimenti, una vera e propria elegia sulla felicità che può procurare la vita campestre, e questa prosa poetica ricorda il modo in cui, su questo tema, si sono espressi i “classici” a cominciare da Catone il Censore fino a Ovidio, a Orazio, a Cicerone, a Virgilio.
LEGERE MULTUM….
Irène Némirovsky, Il calore del sangue
È una serata mite. Sono andato a sedermi sulla panca posta sul retro della cucina, da cui si vede l’orticello che coltivo con le mie mani: per molto tempo mi è bastato che offrisse le poche verdure per la minestra, ma da alcuni anni ho iniziato a prendermene cura. Ho piantato i rosai, ho salvato una vigna che stava morendo, ho vangato, tolto le erbacce, potato gli alberi da frutto. A poco a poco mi sono affezionato a questo fazzoletto di terra. Nelle sere d’estate, al crepuscolo, sentire che i frutti maturi si staccano dai rami e cadono mollemente sull’erba mi rende quasi felice. Giunge la notte…e con ciò? Non si può definire notte: l’azzurro del giorno si fa torbido e si tinge di verde, e il mondo visibile perde gradatamente i suoi colori, per assumere un’uniforme sfumatura tra il grigio perla e il grigio acciaio. I contorni delle cose restano invece perfettamente nitidi: i pozzi, i ciliegi, il muretto basso, il bosco, il muso del gatto che gioca ai miei piedi mordicchiandomi gli zoccoli. A quest’ora la domestica se ne torna a casa; accende la lampada in cucina, e la luce precipita ogni cosa nella notte inoltrata. È il momento più bello della giornata, e naturalmente è quello che ha scelto Colette per venire a chiedermi consiglio. Devo ammettere di averla accolta con estrema freddezza, tanto da lasciarla sconcertata. Il fatto è che se sono io a uscire spontaneamente da casa mia e a mischiarmi con gli altri, accetto di mostrare un qualche interesse per esistenze estranee; ma quando sono rintanato nel mio covo voglio stare in pace - e allora non venite a importunarmi con le vostre storie d’amore e i vostri rimorsi!
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Anche osservando le figure ieratiche di Giustiniano, di Teodora, di Belisario, con tutto il loro seguito, così come sono state rappresentate negli splendidi mosaici di San Vitale a Ravenna si dovrebbe coltivare l’idea che quell’orribile storia che è stata la guerra goto-bizantina non sia mai accaduta ma le Storie, soprattutto quelle Harcanae raccontate da Procopio di Cesarea, ci rimettono in contatto con la drammatica realtà dei fatti. Il progetto “omertoso” di Colette e di Brigitte – le quali riconoscono di assomigliarsi – andrà in porto? [e Gerolamo ci ricorda che Paolo di Tarso nel suo Epistolario utilizza la parola “omartìas” per definire il concetto di “peccato”]. Il racconto continua ma ora noi dobbiamo tornare sul nostro sentiero specifico.
La scorsa settimana abbiamo già lodato Giustiniano per l’opera di salvaguardia del patrimonio lasciato dai Romani nel campo del diritto e della giurisprudenza che lui ha promosso quando, nel 528, ha istituito una commissione di giureconsulti, guidata dal dotto Triboniano, che ha raccolto e ordinato tutte le Leggi approvate dal Senato romano [Dante Alighieri nel Canto VI del Paradiso della Divina Commedia presenta Giustiniano lodandolo per la sua opera di conservazione e di salvaguardia della legislazione romana: siete andate, siete andati a curiosare in questo Canto? Siete sempre in tempo]. Sappiamo che la commissione guidata da Triboniano redige un volume [un corpus] che è diventato un vero e proprio monumento perché riassume tutta la sapienza giuridica di Roma elaborata nei secoli e questo volume ha preso il nome di Corpus juris civilis Jiustinianei [Raccolta del diritto civile redatta per volere di Giustiniano].
Dove invece Giustiniano va biasimato è quando si prodiga nel perseguitare la Filosofia greca, e questo tema abbiamo già cominciato ad affrontarlo [nelle scorse settimane] in compagnia di Severino Boezio. Sappiamo che Giustiniano – sulla scia della politica repressiva che da tempo persegue l’Impero d’Oriente – compie un gesto deprecabile e, nel 529, con un editto, impone la chiusura della Scuola filosofica di Atene [c’è un’accreditata corrente di pensiero che pone questa data come l’inizio del Medioevo]. Da tempo gli imperatori romani [dall’Editto di Tessalonica di Teodosio del 380] perseguitavano quelli che chiamavano gli “ellenizzanti”, i custodi dell’antica cultura greca di derivazione orfico-dionisiaca [si voleva far dimenticare il fatto che la figura di Gesù Cristo si era sovrapposta a quella di Dioniso acquisendone molte prerogative per cui Cristo e Dioniso avevano finito per assomigliarsi e i culti dionisiaci continuavano ad essere celebrati soprattutto nei pagi, nei villaggi di campagna], e poi, in particolare, la repressione mirava a colpire i filosofi neoplatonici che proponevano un itinerario di salvezza, d’impronta spiccatamente intellettuale, in alternativa a quello del cristianesimo. Con il decreto “Contro gli ellenizzanti” Giustiniano – come “capo della Chiesa bizantina” – vuole eliminare l’ultimo baluardo del paganesimo in un Impero cristianizzato: il problema è che questo gesto repressivo diventa un pericolosissimo attacco alla cultura e alla Storia del Pensiero Umano perché, per affermare il potere temporale della “cristianità”, si è rischiato di perdere un patrimonio intellettuale di inestimabile valore come i Dialoghi di Platone, i Trattati e la Metafisica di Aristotele, le Enneadi di Plotino e molte altre Opere classiche di straordinaria rilevanza.
Sappiamo che [lo abbiamo già detto la scorsa settimana] l’ultimo scolarca dell’Accademia di Atene, Damascio di Damasco, i suoi sei collaboratori, tra i quali Simplicio di Cilicia e Prisciano di Lidia, insieme ad un gruppo di studenti partono per la Persia [l’Impero persiano è il tradizionale nemico dell’Impero bizantino] e il re persiano sassanide [il re dei re] Khusraw Anòshakrawan [detto Cosroe] li accoglie di buon grado e chiede loro di tradurre le Opere filosofiche greche in lingua persiana. Ha così inizio [come ai tempi di Alessandro Magno] un nuovo movimento di integrazione tra cultura greca e cultura orientale, che ha permesso il salvataggio di molti documenti filosofici greci grazie alle traduzioni siriache e poi arabe [a ridosso dell’anno Mille i Trattati e la Metafisica di Aristotele, i Dialoghi di Platone e le Enneadi di Plotino tornano in Occidente in traduzione araba, e questa è un’altra storia che studieremo a suo tempo].
Giustiniano chiude l’Accademia di Atene, chiude una Scuola storica, ma questo atto non sanziona la fine del Neoplatonismo: la “vetusta signora Filosofia”, che [come abbiamo studiato] è apparsa a Severino Boezio restituendole la “Luce dell’intelletto”, non soccombe ma resiste. La resistenza era già iniziata qualche anno prima perché i filosofi neoplatonici della Scuola di Atene – visto il clima persecutorio in atto – hanno iniziato a radunare, e a rendere trasportabile, tutto il materiale che non poteva assolutamente andare perduto [in primo luogo i Dialoghi di Platone, le Opere di Aristotele, le Enneadi di Plotino]:difatti i reduci della Scuola di Atene fuggono in Persia portando in esilio una ben fornita biblioteca che, metaforicamente, viene chiamata “la statua di Atena”. Questa indispensabile biblioteca era stata predisposta a suo tempo dall’ultimo importante filosofo neoplatonico che aveva rifondato e guidato, qualche anno prima, l’Accademia ateniese: Proclo di Costantinopoli, e anche lui abita nel paesaggio intellettuale al quale siamo di fronte. Chi è Proclo di Costantinopoli, perché la biblioteca [clandestina, o da viaggio] che Proclo allestisce viene, metaforicamente, chiamata, “la statua di Atena” e in che cosa consiste “il sogno di Proclo”? Una notte Proclo fa un sogno premonitore: è un sogno reale, è metaforico? Procediamo con ordine. Secondo una tradizione ormai consolidata Proclo di Costantinopoli viene ricordato come l’ultimo filosofo pagano e il primo del Medioevo, come se con questo personaggio, la Filosofia greca uscisse dal suo periodo tardo-antico ed entrasse in quello medioevale.
Proclo è nato a Costantinopoli intorno al 412 e ha vissuto buona parte della sua vita ad Atene dove ha diretto fino al 485, l’anno della sua morte, quella che è sempre stata considerata la più famosa Scuola filosofica del mondo antico e tardo-antico: l’Accademia di Platone. Proclo è stato, prima di tutto, un grande promotore culturale [in senso nuovo rispetto al passato] e ha svolto il ruolo del “commentatore” per favorire la lettura di Opere classiche [come i tre dialoghi di Platone intitolati “Parmenide”, “Cratilo” e “Timeo”] che andavano “spiegate” per facilitarne la comprensione. Proclo consolida la figura del “commentatore” che diventa: annotatore, chiosatore, glossatore, postillatore, e dietro ad ognuno di questi termini c’è un ruolo al quale la cultura medioevale [la Scolastica] darà una sua specificità che avremo modo di conoscere e di capire a suo tempo.
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Scrivete anche voi un piccolo commento [o il testo di una frase che vi è piaciuta] dell’ultimo libro che avete letto, bastano quattro righe in proposito…
Dell’immensa produzione di Proclo conserviamo: i commenti ad una serie di Dialoghi platonici, il commento agli Elementi di Euclide e al Tetrabiblos [I quattro Libri] di Tolomeo, poi, forse, Proclo ha commentato anche le Opere di Aristotele, a cominciare dalla Metafisica, ma questi testi, se esistevano, sono andati perduti. Le opere più importanti di Proclo sono la Teologia platonica [Peri tes kata Platona theologias] in sei libri [che non ci è pervenuta completa] e gli Elementi di teologia [Stoicheiosis theològike] composta dai testi di duecentoundici principi di metafisica neoplatonica con la loro dimostrazione, sullo stile degli Elementi di matematica e di geometria di Euclide: le opere di Proclo hanno avuto, nel corso dei secoli, un largo influsso sul pensiero religioso e mistico, sia cristiano che ebraico che arabo.
Il sistema di Proclo descritto nelle sue opere è assai complesso: vuole rappresentare lo sviluppo della metafisica neoplatonica in modo così puntiglioso da creare una sorta di enciclopedia del Neoplatonismo cercando di salvaguardare tutti i concetti che il pensiero neoplatonico ha prodotto in un secolo e mezzo di indagini filosofiche. Proclo, nelle sue opere, vuole descrivere, nei minimi particolari, come si configura la struttura gerarchica dell’Essere che, per lui, corrisponde all’Uno di Plotino.
L’Uno [la suprema sintesi alla quale si possa risalire con l’intelletto, un supremo Pensiero che tutto trascende, anche Dio] è la fonte da cui sgorga tutta la realtà, e l’Uno fa scaturire la realtà del Cosmo [il Molteplice] emanando [così come dalla nostra mente scaturiscono le Idee e hanno origine i pensieri] una serie continua di Unità supreme [di Elementi divini], responsabili dell’ordine provvidenziale del mondo, che Proclo chiama Enadi e ogni Enade è Dio [Ogni Dio - scrive Proclo - è un’Enade in sé perfetta e ogni Enade in sé perfetta è Dio] perché l’Essere ha una natura divina [è Trascendenza], e ogni Enade è Intelletto perché l’Essere ha una natura intellettuale [è Pensiero], e ogni Enade è Anima perché l’Essere ha una natura mistica [è Spirito]. Quindi, in principio, dall’Uno scaturisce una triade suprema: Dio-Intelletto-Anima perché l’Uno [scrive Proclo] emana le Enadi per triadi, emette tre Enadi per volta, in rapporto logico [dialettico] tra loro.
Dalla triade suprema, Dio-Intelletto-Anima, scaturiscono tre prime Enadi che formano la triade Potenza-Sapienza-Intelligenza [che potrebbe anche essere Padre-Figlio-Spirito Santo] da cui fluiscono altre tre Enadi, Buono-Bello-Giusto, da cui sgorgano altre tre Enadi, Infinito-Molteplice-Composito e così via in una serie lunghissima e sistematica di emanazioni perché, da ogni Enade presente nella triade, nasce una nuova triade, e tutto il sistema della generazione delle cose [l’essenza della realtà] avviene [secondo Proclo] per mezzo di una discesa a spirale mediante una armonica rotazione [una processione] circolare.
E noi ci domandiamo: ma perché complicare le cose in questo modo? Perché Proclo è un mistico-intellettuale e non crede a un Dio che [con la bacchetta magica] crea dal nulla tutte le cose ma pensa che anche le molteplici figure divine [le Enadi, e ogni Enade è Dio] siano il frutto di un Pensiero supremo [un Logos], di una Intelligenza superiore e, secondo Proclo, la struttura del Cosmo rispecchia esattamente quella della Logica formulata da Aristotele interpretata attraverso il pensiero di Platone. Quindi l’esposizione gerarchica dell’Essere fatta da Proclo è così efficace che [a distanza di circa 800 anni] anche il Paradiso di Dante [al quale abbiamo fatto riferimento più volte in queste settimane] funziona secondo il sistema gerarchico “a spirale rotatoria” disegnato da Proco. Ma non solo: il modo di procedere [la processione] di Proclo “per triadi” è all’origine del sistema dialettico [tesi, antitesi e sintesi] che troverà attuazione nel pensiero dell’Idealismo tedesco soprattutto con Hegel [ve lo ricordate Hegel? Lo dico alle persone che erano in viaggio negli anni 2006 e 2007] il quale [dal 1801], ha studiato con attenzione le Opere di Proclo, il suo sistema triadico, la sua esigenza sistematica e lo considera il precursore del concetto della “correlazione tra la forma del Cosmo e l’Intelligenza umana” e, difatti, Proclo è stato soprannominato l’Hegel del V secolo.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quale di queste quattro triadi – “Dio-Intelletto-Anima”, “Potenza-Sapienza-Intelligenza”, “Buono-Bello-Giusto”, “Infinito-Molteplice-Composito” – scegliereste per prima?…
Scrivetela…
Qual è, secondo voi, in ciascuna di queste quattro triadi, la parola-trainante?…
Scrivete le parole-trainanti di ogni triade in modo da formare una super “tetrade [un insieme di quattro parole]” da proporre [come vostra ipotesi filologica] come prima suprema emanazione dell’Uno…
Le quattro parole che avete scelto costituiscono il perimetro di un territorio all’interno del quale si svolge la vostra vita intellettuale: il campo in cui nascono i vostri pensieri…
Perché la riflessione macchinosa [e difficile da descrivere] che ha prodotto Proclo risulta molto importante per la Storia del Pensiero Umano? Perché questo pensatore, che interpreta la Fisica e la Metafisica di Aristotele con mente neoplatonica, mette al centro del dibattito culturale il tema delle “cause”, e questo argomento di studio e di ricerca caratterizza tutto il percorso della filosofia medioevale [della Scolastica], ma questo tema è incentrato su una serie di quesiti che sono sempre attuali, difatti [nonostante le numerose scoperte fatte in tutti i campi], oggi continuiamo a domandarci quale sia la “causa” che ha prodotto tutta la realtà in cui viviamo, quali siano le “cause” dei fenomeni che incidono sulla nostra vita materiale e spirituale e, di conseguenza, è sulla scia del tema della “ricerca delle cause” che noi non cessiamo di chiederci: da dove veniamo, dove stiamo andando, che cosa ci facciamo qui? Ed è alla luce di questo susseguirsi di interrogativi che si è sviluppata, da tempo immemorabile, la riflessione sulla Necessità di un Ente Supremo.
La cultura della “ricerca delle cause” comincia a svilupparsi in modo sistematico con le riflessioni di Proclo e, durante il Medioevo [in tempi diversi], vengono estrapolati dalla sua opera intitolata Elementi di teologia [Stoicheiosis] i principi che trattano del tema delle “cause” e nasce un volume, in lingua latina, intitolato Liber de causis [Il Libro che tratta il tema delle cause] che avrà un’enorme diffusione in Età medioevale e moderna.
Adesso – anche se per leggere i testi di Proclo occorre fare molta attenzione perché è un esercizio che presenta della difficoltà [bisogna in continuazione fare appello alle note e alle chiavi interpretative] – leggiamo un brano [non è un brano qualsiasi] tratto da Elementi di teologia [Stoicheiosis] dove il filosofo riflette sul tema della “ricerca delle cause” e su come l’Uno manifesti il suo modo di Essere, ma prima di affrontare [di aprire alla comprensione] il testo di questo brano [non qualsiasi] è necessario procurarsi una chiave.
Secondo Proclo [secondo la Scuola del tardo-neoplatonismo] l’Uno [il Necessario Ente Supremo] manifesta il suo modo di Essere in tre momenti fondamentali: il permanere in sé [mone moné, la permanenza], l’uscire fuori di sé [proodos próodos, la progressione], il ritornare in sé [epistrophe epistrophé, il rinnovamento]. Questi tre momenti – che si realizzano nello stesso momento [l’Uno trascende il tempo] – costituiscono la triade “permanenza-progressione-rinnovamento [moné-próodos-epistrophé]” che si identifica con la “processione delle cause” che determinano l’esistenza della realtà, del mondo creato: è questa [scrive Proclo] la “triade della Causa delle cause”.
Con la Scuola del tardo-neoplatonismo il contenuto semantico del termine “processione” perde la tipica valenza rituale che aveva e cessa di indicare solo un corteo, una sfilata, una cerimonia religiosa per assumere un significato di carattere filosofico: la “processione” nel linguaggio di Proclo indica un procedimento di carattere intellettuale [un percorso logico] che prevede lo sviluppo, l’andamento, l’evoluzione di un ragionamento progressivo.
I tre momenti simultanei [moné próodos epistrophé - permanenza progressione rinnovamento] in cui l’Uno manifesta il suo modo di Essere appartengono anche [allude Proclo] all’Essere di ciascuna persona, come dire che ogni persona è quello che è [permane in se stessa, prende coscienza di esistere, incontra la Fisica, la Natura] e poi, facendo esperienza di vita, l’esistenza della persona cresce di valore grazie al fatto che incontra altre persone [esce fuori di sé, prende coscienza di progredire] e apprende da loro [incontra la Metafisica, l’Eros, l’inesorabile desiderio di imparare, di conoscere] e, infine, quando raggiunge la maturità e meno se l’aspetta, si accorge di essersi avvicinata al principio, all’Uno, da cui la sua anima proviene [ritorna in sé] e capisce che, mentre con il passare del tempo il corpo subisce il degrado e la persona peggiora all’esterno, all’interno migliora intellettualmente e spiritualmente e intuisce che il rinnovamento sta nel prendere le distanze dalla materia e nell’iniziare [l’epistrophé] il viaggio di ritorno all’Uno. L’intuizione che porta alla conoscenza della “triade della Causa delle cause [moné-próodos-epistrophé]” è la prova [scrive Proclo] che tutto il mondo creato tende verso l’Ente Supremo da cui deriva e, quindi, l’Uno non può non esserci.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quale di queste parole – la radice, il seme, il germe, la fonte, la sorgente – mettereste per prima accanto alla parola “causa”?…
Scrivetela …
La parola che avete scelto quale episodio, quale situazione, quale avvenimento della vostra vita vi fa venire in mente?…
Scrivete quattro righe in proposito perché [direbbe Proclo] anche l’esercizio della scrittura favorisce l’intuizione che porta alla conoscenza della “triade della Causa delle cause [moné-próodos-epistrophé]”…
Per Proclo, quindi, il tema della “ricerca delle cause” è strettamente legato alla Necessità di presupporre – attraverso una sintesi intellettuale – l’esistenza di un Ente Supremo, e questo pensiero anticipa di oltre due secoli i ragionamenti dei filosofi scolastici che incontreremo a suo tempo e vedremo, per esempio, come si esercitano nella dimostrazione intellettuale dell’esistenza di Dio. Leggiamo [finalmente] questo brano [che non è un brano qualsiasi].
LEGERE MULTUM….
Proclo di Costantinopoli, Elementi di teologia [Stoicheiosis]
La derivazione della realtà è una processione di cause che si svolge secondo i tre momenti logici della permanenza, della progressione e del rinnovamento che sono impliciti nel concetto di causalità. Nel momento della permanenza la causa è superiore all’effetto e non gli comunica niente, permane in sé immobile, e se la causa si risolvesse nell’effetto, l’effetto non potrebbe sussistere ed essere conoscibile. Nel momento della progressione la causa, che è potenza generativa, esce fuori di sé e pone un effetto che è da lei distinto ma anche a lei somigliante e, nel momento del rinnovamento, la somiglianza dell’effetto ne permette il ritorno alla causa perché ogni Essere desidera il Bene e il raggiungimento di esso si compie per ciascun Essere mediante la sua causa prossima.
La processione delle cause ha un andamento a spirale discendente: ogni Essere, che procede da un altro e vi ritorna, ha un’attività circolare. Che, se ritorna là donde procede, congiunge col principio il fine, ed è uno e continuo il suo movimento: nascendo, da una parte, da ciò che permane, dall’altra col ritorno ad esso, onde per cui tutti gli Esseri procedono in circolo dalle cause alle cause. E ci sono circoli maggiori e minori, compiendosi le conversioni parte verso ciò che è immediatamente sopra, parte verso ciò che è più su, fino al principio di tutte le cose: dall’Uno infatti tutte procedono, e ad Esso tutte ritornano. L’Universo si può dunque rappresentare come un grande circolo [cielo] entro il quale si muovono ordinatamente circoli [cieli] minori, che corrispondono ai vari gradi della gerarchia. Tutto è in tutti; ma in ciascuno nel modo proprio. La nostra dissertazione ci porta ad affermare che l’Uno manifesta il suo modo di Essere in tre momenti fondamentali: il permanere in sé [moné], l’uscire fuori di sé [próodos], il ritornare in sé [epistrophé]. L’Uno è quello che è, ed è uguale a se stesso, di Lui non possiamo dare alcuna definizione perché ogni tentativo finirebbe col diventare una diminuzione, tuttavia per qualcuno è Dio, per qualcun altro è tutto quello che nella vita non cambia, per qualcun altro ancora è il principio e la fine, la verità è che, mentre permane in sé, nel medesimo istante, si manifesta nel creato e, esternandosi, ne fa crescere il valore poi, sempre nel medesimo istante, torna di nuovo in sé e s’identifica con l’eternità e, nel medesimo istante, ripete armonicamente la sua processione. …
Se abbiamo una chiave a disposizione non è impossibile leggere i testi di Proclo e, per giunta, non abbiamo puntato l’attenzione su un brano qualsiasi: perché?
Perché una sera d’estate dell’anno 1801, Hegel, Schelling e Hölderlin s’incontrano a Iena – era un po’ di tempo che non si vedevano [e ora sono cresciuti da quando erano compagni di scuola e condividevano la camera numero 9 del celebre collegio Stift di Tubinga e, chi tra voi era in viaggio nell’anno 2006, forse, ricorda anche quante birbanterie combinavano insieme questi tre ragazzi prima di passare alla Storia del Pensiero Umano] –; quella sera, Hegel, Schelling e Hölderlin vanno a teatro ad assistere alla rappresentazione dell’Amleto di Shakespeare, ed Hegel si agita per tutta la rappresentazione sulla panca dove era seduto perché ha avuto un’intuizione che fomenta la sua inquietudine, e poi i tre compagni finiscono la serata in birreria dove discutono e riflettono a lungo. Tornato a casa Hegel [sebbene sia notte fonda] scrive il testo di una pagina che poi entrerà [qualche anno dopo] a far parte della sua più celebre, e piuttosto complicata, opera [che abbiamo studiato a suo tempo nel viaggio dell’anno 2007] intitolata Fenomenologia dello Spirito: in questa pagina Hegel, oltre all’Amleto di Shakespeare, cita il testo di Proclo che abbiamo appena letto e lo commenta. Leggere Proclo è difficile ma in questo brano si capisce bene che quella che lui chiama la “processione delle cause” è uno schema che costituisce un embrione del procedimento dialettico con cui Hegel descrive [dal 1801] il modo in cui [secondo il suo pensiero] si manifesta lo Spirito: la “Fenomenologia hegeliana” la riprenderemo a suo tempo.
Ora dobbiamo tornare a Proclo in funzione del tema della salvaguardia delle Opere dei classici e della difesa del pensiero neoplatonico che [come sappiamo] sta subendo una vera e propria persecuzione da parte degli imperatori bizantini i quali, in nome della cristianità, vogliono estirpare il paganesimo, vogliono seppellire la tradizione orfico-dionisiaca, pretendono di emarginare la filosofia greca e vorrebbero rimuovere una situazione inequivocabile: che senza la cultura greca, a cominciare dalla tradizione orfico-dionisiaca, l’evento evangelico non avrebbe potuto svilupparsi né in una così proficua predicazione né in una Letteratura [la Letteratura del Vangeli] così efficace. Proclo – di fronte alla repressione – decide di reagire e di adottare una forma di resistenza culturale utilizzando la sua grande competenza intellettuale [la sua intelligenza filologica] e, oltre a riunire in una biblioteca trasportabile tutte le Opere che devono essere assolutamente salvate [in primo luogo i Dialoghi di Platone, le Opere di Aristotele, le Enneadi di Plotino], compie una delle più straordinarie operazioni di “depistaggio ideologico [costruisce un falso]” che mai sia avvenuta nel corso della Storia del Pensiero Umano: il fatto è che questo “falso” non solo non ha danneggiato alcuno ma ha favorito tanto la salvaguardia del pensiero del Neoplatonismo quanto lo sviluppo della “dottrina” del Cristianesimo.
Proclo pensa [e lo sa benissimo] che senza la filosofia neoplatonica [a cominciare dal contenuto delle Opere di Giustino, di Clemente Alessandrino, di Origene: li abbiamo incontrati nel viaggio dello scorso anno questi personaggi che inseriscono i principi del pensiero platonico nella dottrina cristiana] il Cristianesimo non avrebbe una “dottrina” degna di questo nome e, quindi, l’affinità tra i due apparati, Neoplatonismo e Cristianesimo, è grande e i due sistemi si compenetrano [pensate alla triade “Dio-Intelletto-Anima” da cui sgorga la triade “Potenza-Sapienza-Intelligenza” che corrisponde perfettamente alla trintà “Padre-Figlio-SpiritoSanto”], per cui Proclo confeziona, firmando con un nome fittizio ma scelto con grande perizia, un’Opera apparentemente cristiana, facendo finta che sia stata scritta da un ipotetico autorevole personaggio di provata fede cristiana, e nei testi di quest’opera inserisce tutti i principi fondamentali del pensiero neoplatonico in modo da garantire la sopravvivenza, la continuità, la salvaguardia di questi “fondamenti” e in modo da ribadire, soprattutto, che la predicazione, la letteratura, la dottrina cristiana, e anche il rapporto del messaggio evangelico con l’Antico Testamento, dipendono in modo assoluto dal pensiero neoplatonico. Proclo mette in atto una straordinaria impresa di contaminazione intellettuale per cui si è creduto per secoli – o si è fatto finta di credere, perché non se ne poteva fare a meno – che quest’opera fosse davvero un trattato teologico frutto del Cristianesimo delle origini [Proclo formula in termini neoplatonici la dottrina cristiana in maniera pienamente aderente all’ortodossia, ma in modo da farla apparire come una corrente del Neoplatonismo].
Proclo – confidando anche nella sua buona conoscenza della Letteratura biblica [dell’Antico e del Nuovo Testamento] – sceglie il nome dell’autore dell’Opera prelevandolo dal testo degli Atti degli Apostoli, ed è un personaggio [uno dei tanti personaggi metaforici presenti nel testo degli Atti degli Apostoli] che è stato convertito ad Atene da Paolo di Tarso nell’Areopago ed è, quindi, entrato nella leggenda col nome di Dionigi Areopagita. E, difatti, stiamo parlando di un libro che s’intitola Opere di Dionigi Areopagita. Diciamo subito che il numero degli argomenti legati a questo Libro – noi ne trattiamo alcuni – è enorme a cominciare dall’affascinante tema che riguarda il rapporto tra il pensiero contenuto nelle Opere dei filosofi della Scolastica cristiana e le dottrine elaborate dall’Accademia tardo-neoplatonica di Proco.
Il Dionigi Pseudo-Areopagita [o Corpus Dionysiacum] costituisce certamente uno dei monumenti più significativi del pensiero filosofico e teologico prodotto all’inizio dell’Alto-medioevo. Quest’opera contiene i testi di quattro trattati intitolati: Gerarchia celeste, Gerarchia ecclesiastica, Nomi divini, Teologia mistica, e di dieci Lettere. L’autore di quest’opera dichiara di chiamarsi Dionigi [Dionisios, Diòniso] e si presenta come il personaggio convertito da Paolo di Tarso sull’Areopago e citato negli Atti degli Apostoli al versetto 34 del capitolo 17. Nel capitolo 17 degli Atti degli Apostoli [dal versetto 16 al 34] si narra che Paolo di Tarso arriva ad Atene e viene invitato a tenere una conferenza all’Areopago dove si riunivano i filosofi greci e dove [oltre ai processi] avvenivano i dibattiti pubblici. Paolo tiene un bel discorso sulla potenza di Dio che giudicherà il mondo con giustizia per mezzo di un uomo, Gesù, che Dio ha adottato e ha fatto risorgere dai morti. Appena i filosofi greci [epicurei, stoici, scettici, eclettici], che stavano ascoltando Paolo con attenzione, sentono parlare di “resurrezione dei morti ” [anastasia] cominciano a rumoreggiare e a deridere il conferenziere e poi tagliano corto dicendo: «Va bene, su questo punto ti sentiremo un’altra volta», e il testo degli Atti continua dicendo: «Così Paolo si allontanò da loro. Alcuni però lo seguirono e credettero. Fra questi vi era anche un certo Dionigi, uno del consiglio dell’Areopago, una donna di nome Dàmaris e alcuni altri». Proclo si serve di questo personaggio anche perché, ai suoi tempi [tra la stesura degli Atti degli Apostoli e l’Opera di Proclo c’è in distanza di quasi 400 anni], Dionigi Areopagita era già entrato nella leggenda come “primo vescovo di Atene” e poi nientemeno che “vescovo di Parigi”, dove sarebbe morto martire.
Dal Rinascimento in poi la critica ha esplicitamente mostrato che l’attribuire la composizione di questi trattati al personaggio [leggendario] di Dionigi è senza fondamento storico e oggi tutte le studiose e gli studiosi di filologia sono d’accordo nell’attribuire quest’opera a Proclo di Costantinopoli [o alla sua Scuola, all’Accademia tardo-neoplatonica di Atene]. Il primo a parlare di Proclo come autore del Dionigi Areopagita è stato il grande umanista Lorenzo Valla che, nel 1449 [in un suo saggio, dal quale, la prossima settimana, riprenderemo una citazione che riguarda un importante episodio, di carattere allegorico, della vita di Proclo], ha messo in evidenza dei Codici [tradotti in latino nel 1280 dal filologo Guglielmo di Moerbeke e poi messi da parte] dove compaiono i testi di due opere di Proclo intitolate Sull’esistenza dei mali e La provvidenza, il fato e la libertà che è in noi, a Teodoro ingegnere: ebbene, i testi di queste due opere di Proclo, di cui si erano perse le tracce, sono contenuti, alla lettera, nei trattati del Dionigi Areopagita. Eppure, per secoli, si è creduto, o si è fatto finta di credere, all’autenticità di questo autore dal nome allegorico: Dionigi, infatti, richiama la figura “divina” di Dioniso, un personaggio mitico che rappresenta l’oggetto di una religione, di un culto, di una tradizione culturale diffusissima in tutto il bacino del Mediterraneo [per più di un decennio, nel corso dei nostri viaggi, abbiamo studiato la cultura orfico-dionisiaca], con la quale il Cristianesimo si è dovuto misurare fin dalle sue origini, seguendo – con grande chiaroveggenza – la via del compromesso. Il primo indice della cultura orfico-dionisiaca – con cui il Cristianesimo scende a compromessi – è formato dalle parole: mito, oracolo, natura, mistero, rito, tragedia, anima.
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Provate – per simpatia o per ragioni autobiografiche – a metterle in ordine di importanza [dalla più importante alla meno importante] queste parole: mito, oracolo, natura, mistero, rito, tragedia, anima… Esercitatevi a comporre questo catalogo considerando il fatto che le parole non sono significative tutte allo stesso modo ma la loro importanza dipende dalle esperienze che facciamo…
Perché [ci dobbiamo domandare ora] i grandi filosofi della Scolastica [Duns Scoto, Anselmo d’Aosta, Bonaventura, Alberto Magno, Tommaso d’Aquino…: li incontreremo nel Percorso del prossimo anno quando viaggeremo nel cuore del Medioevo] fanno finta di credere che il Dionigi Areopagita sia un’opera autenticamente cristiana? Ci sono due motivi, entrambi di carattere ideologico e metodologico, per cui si ritiene utile che i Trattati del Dionigi Areopagita vengano considerati come testi “autenticamente cristiani”, e il primo motivo riguarda un problema di “stile”, lo “stile letterario di carattere allegorico” che Proclo ha utilizzato, a cominciare dalla scelta del metaforico nome dell’autore [Dionigi Areopagita], e i filosofi della Scolastica ritengono sia conveniente avvalorare questo stile per le sue potenzialità sul piano dottrinale e pastorale [di cui sapranno far tesoro] e, per prima cosa, il Dionigi Areopagita ha rafforzato enormemente il testo “dottrinale” degli Atti degli Apostoli. Che significato hanno queste affermazioni? [Fanno riferimento ad un tema del quale conosciamo già molti paragrafi in virtù dei viaggi di studio che abbiamo fatto in questi anni].
I filosofi della Scolastica considerano [o fanno finta di considerare] il Dionigi Areopagita un’opera “autenticamente cristiana” per un problema di “stile”: uno stile che rafforza la “dottrina” contenuta nel testo degli Atti degli Apostoli. Sanno benissimo che il testo degli Atti degli Apostoli è quello di un “catechismo [sappiamo che quest’opera è il primo catechismo della Chiesa di Roma, non è un testo storico ma apologetico]” e lo “stile catechetico” è prettamente metaforico [gli avvenimenti storici vengono allegoricamente addomesticati in funzione del loro valore educativo, in funzione pastorale]; i filosofi della Scolastica sanno che il testo degli Atti viene redatto dalla “Scuola ellenistica Clementina” diretta dal primo papa storico, Clemente Romano, all’inizio del II secolo [e conosciamo bene questo papa, e la storia della stesura di quest’opera straordinaria].
Il finale del capitolo 17 degli Atti degli Apostoli è strategico dal punto di vista della metafora dottrinale e i nomi [Dionigi e Dàmaris] delle due persone che si convertono dopo il discorso [assolutamente improbabile] di Paolo di Tarso all’Areopago sono allegorici [hanno un significato catechetico, dottrinale, in funzione pastorale]: infatti con il nome “Dionigi [Dionisios]” – secondo l’intento di Clemente Romano [il quale sa quanta importanza abbia la cultura greca per la trasmissione del messaggio evangelico] – si vuole creare, sulla parola di Paolo, un nesso con la figura di Dioniso e con la tradizione orfico-dionisiaca da utilizzare come veicolo per portare la “buona notizia” della resurrezione di Gesù ai pagani. Infatti Clemente Romano [e anche gli altri due Padri Apostolici, Ignazio di Antiochia e Policarpo di Smirne] capisce che la figura di Cristo potrà imporsi se si sovrapporrà, soprattutto nelle campagne [nei pagi], alla figura di Dioniso. Se il Cristianesimo vuole diffondersi deve darsi una solida base culturale di carattere ellenistico [ed è questa, dal 51, la strategia di Paolo di Tarso] e, quindi, nella sua “dottrina [in formazione]”, la Chiesa deve tenere conto soprattutto del concetto orfico-dionisiaco dell’immortalità dell’anima oltre che basarsi sulla buona notizia della resurrezione del corpo di Gesù perché, per i pagani di cultura orfico-dionisiaca, il “corpo” è considerato la prigione dell’anima e, quindi, è bene che si decomponga e che non risorga, e questo ostacolo il Cristianesimo lo deve superare, deve recuperare il concetto dell’anima immortale. Ed è proprio in questa prospettiva – nell’azione di recupero del valore dell’anima immortale [secondo la dottrina orfica contenuta nei Dialoghi di Platone] – che nasce la pagina [capitolo 17 versetti 16-34] degli Atti degli Apostoli dove si racconta che ad Atene Paolo persuade “un certo Dionigi [Diòniso]” insieme ad una donna che si chiama Dàmaris.
Questi due nomi, mediante un intreccio filologico concepito secondo lo “stile allegorico”, danno vita ad una significativa metafora di carattere dottrinale, infatti, il nome “Dàmaris” deriva dal verbo greco “dàmazo” che significa “seguire una nuova via, intraprendere una nuova strada”, e la “metafora dottrinale” che scaturisce dall’incontro dei due nomi [Diònisos e Dàmaris] significa che: “la nuova via da seguire [Dàmaris] è quella dell’anima [Diònisos]” e se Paolo [che è l’emblema della Chiesa di Roma] vuole essere ascoltato sul tema della resurrezione del corpo deve fare proprio anche l’argomento dell’immortalità dell’anima perché la figura di Diòniso [evocata allegoricamente con il nome di Dionigi che all’Areopago si mette al seguito di Paolo] è più affine a Cristo di quanto i filosofi ateniesi [che con la loro prosopopea canzonano Paolo] possano pensare.
Tutti i filosofi della Scolastica, quindi, assecondano la [falsa] credenza che il Dionigi Areopagita sia un’opera composta da questo metaforico personaggio, che l’avrebbe scritta subito dopo la stesura degli Atti degli Apostoli, perché questi trattati – con uno stile impeccabile di stampo neoplatonico impresso loro dalla scrittura di Proclo – fanno diventare la dottrina del Cristianesimo la depositaria dell’idea dell’immortalità dell’anima relegando la cultura orfico-dionisiaca in secondo piano.
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Andate a rileggere – alla luce dello stile allegorico basato sulla metafora dottrinale – il capitolo 17 degli “Atti degli Apostoli” dal versetto 16 al versetto 34…
Ed è successo che il Dionigi Areopagita, per secoli, tanto nella Chiesa d’Oriente che nella Chiesa d’Occidente, è diventato un’autorità inattaccabile e tutto è iniziato quando durante una disputa teologica, a Bisanzio, nel 533, i difensori della dottrina dei Concili di Nicea, di Efeso e di Calcedonia, hanno messo sul tavolo, a proprio sostegno [per giustificare le loro affermazioni teologiche], le Opere di un autore autenticamente cristiano fino ad allora sconosciuto: Dionigi l’Areopagita e, con questo autorevole supporto, prevalgono in questa controversia dando l’imprimatur ufficiale a quest’opera di stampo neoplatonico.
Quando i filosofi della Scolastica, nel cuore del Medioevo [dal IX al XIII secolo], vorranno definitivamente cristianizzare il pensiero di Platone [che era più facile] e, soprattutto, il pensiero di Aristotele [considerato diabolico dagli intransigenti conservatori] trovano nei testi dei trattati del Dionigi Areopagita gli elementi adatti per perseguire i loro obiettivi teoretici: diciamo solo che Tommaso d’Aquino, nelle sue Opere in cui “cristianizza” il pensiero di Aristotele, cita il Dionigi Areopagita 1170 volte, ma questa è un’altra storia di cui ci occuperemo a suo tempo. Per concludere torniamo a Proclo che [con la mediazione di Lorenzo Valla che ci mette lo zampino] ci deve raccontare un “sogno”, ma, ormai, ce lo racconterà la prossima settimana.
Ora ci resta solo il tempo per dire che Proclo – vista la cattiva aria che soffiava contro l’Accademia di Atene – aveva nascosto in casa sua la statua di Atena, il simbolo dell’Accademia: la dèa Atena è la protettrice della Filosofia greca [Severino Boezio, che ancora ci accompagna, sta pensando che, forse, era Atena la signora che gli è apparsa per consolarlo]. La statua di Atena era corredata dagli oggetti simbolici significativi della dèa: Proclo sogna che mentre spolverava con gran cura la statua, uno degli emblemi, lo “specchio della verità [glaukopis glaukopis, l’oggetto dallo sguardo scintillante]” è caduto a terra ed è andato in frantumi. Proclo, travolto dalla tristezza rivolge i suoi occhi pieni di lacrime verso il volto della dèa e pronuncia queste accorate parole: «Divina Atena, se ho alterato la verità [con la v minuscola] è stato per salvaguardare la Verità [con la V maiuscola], concedimi, ti prego, il perdono!», poi si sveglia e capisce che è ha fatto un sogno, e tutto l’itinerario che abbiamo percorso questa sera è servito solo [ammesso che sia servito] per spiegare e per capire questa frase. Ma chi ha tramandato il racconto del “sogno di Proclo”? Lo vedremo la prossima settimana.
Ora, per concludere, – a proposito di uno “specchio rotto” e del dilemma se sia sempre necessario, obbligatorio, utile, inequivocabile “dire la verità” – leggiamo mezza pagina del romanzo Il calore del sangue, e non possiamo fare a meno di domandarci se la scrittrice sia consapevole dell’intreccio filologico che ha costruito [Gerolamo annuisce, glielo facciamo domandare da lui].
LEGERE MULTUM….
Irène Némirovsky, Il calore del sangue
L’indomani mattina giunsero a casa mia François e Hélène. Lei sembrava sconvolta: pur senza sospettare la verità, si opponeva all’idea di sporgere denuncia, sostenendo che la figlia ne avrebbe sofferto inutilmente; François invece, da vero borghese rispettoso delle leggi, riteneva suo preciso dovere procedere. «Sarà stato un vagabondo … Comunque stiano le cose, guarda che un uomo colpevole di un delitto rimasto impunito rischia sempre di cadere nuovamente nella tentazione di rubare o di uccidere. In tal caso, noi ne saremmo indirettamente responsabili. Se fosse versato altro sangue innocente, la colpa sarebbe anche nostra». «Che ne pensa Colette?» chiesi io. «Colette? Se n’è andata, figuratevi» rispose Hélène. «Stamattina si è fatta portare alla stazione e ha preso il treno delle otto per Nevers. Mi ha lasciato un bigliettino in cui diceva che non voleva svegliarmi: ieri ha rotto lo specchietto stile Impero che le ha regalato Jean e intende farlo riparare subito. Ne approfitterà per andare a Nevers a trovare un’amica dei tempi del collegio. Tornerà tra due o tre giorni. Naturalmente la faccenda dello specchio rotto è un pretesto. In realtà il racconto di quel ragazzino l’ha turbata e ha deciso di allontanarsi da questo paese, che evoca in lei penosi ricordi, forse per non sentir pronunciare il nome di Jean. Da piccola si comportava allo stesso modo. … Ha voluto prendere tempo, pensai, e forse scriverà loro la verità da Nevers. Eviterà così l’aperta confessione che la spaventa tanto. Pensai anche che magari si era rivolta a un prete. In seguito venni a sapere che lo aveva già fatto da un pezzo, e che il prete le aveva raccomandato di raccontare l’accaduto ai suoi, aggiungendo che sarebbe stato un giusto castigo per la sua colpa; ma la paura di ferire gli adorati genitori le aveva impedito di parlare. Immaginai insomma un gran numero di spiegazioni plausibili per la partenza di Colette, ma naturalmente non potevo sospettare che, nella faccenda, avesse coinvolto Brigitte Declos. …
Nei quattro Trattati del Dionigi Areopagita emergono tre temi fondamentali che fanno da battistrada alla nascita del movimento della Scolastica: quali sono questi temi?
Per rispondere a questa domanda bisogna continuare a percorrere la via dell’Alfabetizzazione culturale e funzionale che è un bene comune [come lo specchietto della verità, anche quando va in frantumi] perché lo studio è un’attività utile per promuovere l’Apprendimento permanente che è un diritto e un dovere di ogni persona: per questo la Scuola è qui, per spronarci ad investire in intelligenza…
Il prossimo itinerario è l’ultimo dell’anno 2013 [poi il viaggio continua nell’anno che verrà], non mancate, dobbiamo celebrare anche il Natale, il trentesimo Natale di questa esperienza didattica con alcuni personaggi che ci sono famigliari, secondo il detto: tutto il resto con chi vuoi ma Natale con i tuoi!...
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