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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ ALTO-MEDIOEVALE SI SVILUPPA L’ETHOS GREGORIANO ...

Lezione N.: 
11

Prof. Giuseppe Nibbi      La sapienza poetica e filosofica dell’età alto-medioevale      15-16-17  gennaio  2014

 

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ ALTO-MEDIOEVALE

SI SVILUPPA L’ETHOS GREGORIANO ...

   L’undicesimo itinerario del nostro viaggio sul territorio della “sapienza poetica e filosofica dell’Età alto-medioevale” ci vede reduci da una breve escursione in Cina e da una brevissima tappa in India. Queste ipotetiche trasferte ci hanno fatto capire che l’ampiezza dello scenario che prende il nome di “paesaggio intellettuale della salvaguardia delle Opere dei Classici”, che stiamo osservando dall’ottobre scorso, va ben oltre la dimensione della cultura greca e latina e si estende fino in estremo Oriente dove, la scorsa settimana, abbiamo preso visione di un libro del IV secolo, intitolato con lo stesso nome dell’autore, Zhuang-zi [Chuang-tzu], che viene considerato il capolavoro assoluto della Letteratura cinese [l’opera classica che ne descrive meglio il pensiero creativo]: con quest’opera il misterioso autore [mettendo in atto una sorta di intelligente impostura per aggirare la censura] vuole salvaguardare, come abbiamo studiato, il pensiero e lo spirito della “corrente taoista ” [che propone una ricerca interiore] dall’invadenza della “corrente confuciana” asservita e compromessa – secondo l’autore del Zhuang-zi [Chuang-tzu] – al potere imperiale.

   In India abbiamo fatto un brevissima sosta per far sì che si aggregasse a noi – nel nostro viaggio di ritorno dalla Cina verso il Mediterraneo – un altro personaggio, uno di quegl’intellettuali occidentali che, ogni tanto [e succede già da qualche secolo], compiono un pellegrinaggio sulle rive dell’Indo per confrontarsi con la cultura dei Libri dei Veda [i Libri della Sapienza indiana, compreso il Kamasutra]: questo personaggio [anche lui lo abbiamo incontrato la scorsa settimana] si chiama, come sapete,  Nonno di Panopoli e ha scritto due opere [delle quali abbiamo ristudiato le parole chiave], il poema epico le Dionisiache [Dionysiakà] e la Parafrasi [il commento esorbitante] del Vangelo di Giovanni [Metàbole kata Ioannin]. In queste due opere enigmatiche Nonno esalta le figure salvifiche di Dioniso e di Cristo [identificati con la figura del “tafano fremente”], cercando di salvaguardare, da una parte, la cultura “orfico-dionisiaca” dalla sudditanza in cui la cristianità l’ha relegata e, dall’altra, vuole tutelare il “messaggio evangelico” dalla rigidità in cui la dottrina cristiana lo ha costretto fiaccandone la spinta propulsiva.

   Ci siamo dirette e diretti verso il libro del Zhuang-zi [Chuang-tzu] e verso le due Opere di Nonno sulla scia di un’altra operazione di salvaguardia della quale, da prima della vacanza, abbiamo studiato le caratteristiche: la composizione [anche in questo caso con la messa in scena di un’intelligente impostura per aggirare la censura] da parte di Proclo di Costantinopoli dei trattati del Dionigi Areopagita nei cui testi l’autore vuole salvaguardare i contenuti [le parole-chiave, le idee cardine] della filosofia greca della Scuola di Atene inserendoli nelle forme della dottrina cristiana confezionando un’opera “autenticamente cristiana” in perfetta chiave neoplatonica diventando la fonte teologica più autorevole in tutte le Scuole della Scolastica medioevale.

   La scorsa settimana abbiamo disegnato sul territorio dell’Ecumene un ampio triangolo pitagorico i cui vertici si identificano con la figura di Proclo di Costantinopoli [che consideriamo in Europa] autore del Dionigi Areopagita, con la figura di Zhuang-zi di Loyang [sul fiume Giallo in Asia] autore di un’opera che porta il suo stesso nome Zhuang-zi e con la figura di Nonno di Panopoli [nel delta africano del Nilo] autore del poema Dionisiache [Dionysiakà] e della Parafrasi del Vangelo di Giovanni [Metàbole kata Ioannin].

   Queste sono “opere di salvaguardia” che hanno contribuito – in Età alto-medioevale – ad evitare l’estinzione di quattro grandi apparati culturali in pericolo [soggetti all’emarginazione]: il taoismo estroverso [emarginato dal confucianesimo], l’orfismo-dionisiaco [al quale si sovrappone il rito cristiano], il messaggio evangelico [congelato dalla rigidezza dei dogmi ecclesiastici] e il pensiero neoplatonico [perseguitato dall’autorità imperiale romano-bizantina che ne ha chiuso le Scuole]. Le [cosiddette] opere di “salvaguardia dei grandi apparati culturali soggetti ad emarginazione” – il Dionigi Areopagita, il Zhuang-zi [Chuang-tzu], le Dionisiache, la Parafrasi del Vangelo di Giovanni –, sono opere frutto d’ingegnose imposture [simulazioni] intellettuali che c’insegnano [e lo abbiamo già sottolineato più di una volta] una cosa molto importante: il nostro intelletto [come mostra Platone nei Dialoghi e Aristotele nella Metafisica] è una macchina che cerca la stabilità ed è un dispositivo adatto per prevedere e rilevare schemi ricorrenti, tuttavia il pensiero umano sospetta della validità dei concetti troppo chiari e distinti, anche se li ama, perché influenzato dai “preconcetti”, dalle distorsioni, dalle illusioni, dai sogni che la mente ospita, per cui l’intelletto è soprattutto attirato da quegli ambiti che la conoscenza, chiara e distinta, non può penetrare [la meta-fisica] ed è proprio di fronte a questo bisogno di affrontare la “inconoscenza” che la mente umana si predispone ad investire in intelligenza usando il linguaggio nel modo più percepibile possibile; se la realtà effettiva non può nutrire il discorso perché impenetrabile, saranno comunque le parole ad edificare una realtà ipotetica [a farsi opera], e allora, il termine “impostura intellettuale” assume una valenza positiva: non è la realtà che fa l’opera ma è l’opera che edifica la realtà.

   Sulla scia di questo ragionamento troviamo il personaggio che [come abbiamo annunciato la scorsa settimana] dobbiamo incontrare questa sera: si chiama Gregorio e anche lui abita nel “paesaggio intellettuale della salvaguardia delle Opere dei Classici greci e latini”. Prima di entrare in relazione con la figura di Gregorio dobbiamo tornare ad osservare il quadro storico nel quale s’inserisce questo importante personaggio.

   Eravamo rimasti a quando, vincendo la guerra contro i Goti, i Bizantini [con la terribile guerra goto-bizantina dal 535 al 553] riconquistano l’Italia e l’imperatore Giustiniano divide la penisola in ducati che fanno riferimento ad un suo rappresentate, un esarca, che s’insedia a Ravenna [e abbiamo studiato questa situazione anche sotto il profilo artistico che è l’unico ad avere un risvolto positivo]. Ma il dominio bizantino è una sciagura per l’Italia: dovendo sopperire alle spese per la difesa e per l’amministrazione i duchi taglieggiano le popolazioni esauste usando metodi violenti per la riscossione delle imposte affidata a funzionari corrotti. E, in un certo senso, sarebbe stata una fortuna, se non ci trovassimo nel contesto di una tragedia, il fatto che, dopo soli quindici anni, nel 568, tre anni dopo la morte di Giustiniano, l’Italia subisce una nuova invasione: quella dei Longobardi, e l’elenco delle dominazioni si allunga [Eruli, Ostrogoti, Bizantini, Longobardi].

   I Longobardi sono un popolo di stirpe germanica che provengono dalle foci dell’Elba e sono scesi lentamente verso il Danubio in cerca di terre fertili e, al principio del VI secolo, si sono stanziati, con il consenso di Giustiniano, in Pannonia, sconfiggendo e sottomettendo i Gepidi che l’avevano occupata in precedenza. La leggenda che ci viene raccontata da Paolo Diacono nella sua Storia dei Longobardi – e il nome di questo personaggio [lo abbiamo incontrato alla fine di ottobre] è lo pseudonimo di Paolo di Varnefrido [nato a Cividale del Friuli nel 720 circa e morto a Montecassino nel 799] il quale è stato un monaco, uno storico, un poeta e uno scrittore longobardo di espressione latina –, ebbene, Paolo Diacono narra che il re dei Longobardi, Alboino, s’innamora di Rosmunda, la bella figlia di Cunimondo, il re dei Gepidi, per cui gli dichiara guerra, lo uccide, e costringe Rosmunda a sposarlo e poi, secondo una feroce tradizione, dopo avere staccato la testa all’avversario, si fa costruire col teschio una coppa per bere: e, a questo proposito, tutte e tutti noi abbiamo in mente la fatidica frase: «Bevi Rosmunda nel teschio di tuo padre!», una frase che, ad un certo punto, ha perso la sua valenza drammatica per diventare comica per opera di una parodia scritta del giovanissimo Achille Campanile  [uno scrittore che ogni tanto incontriamo nei nostri Percorsi].

   Apriamo una parentesi in funzione della didattica della lettura e della scrittura per leggere un frammento della presentazione della raccolta di testi teatrali di Achille Campanile intitolata L’inventore del cavallo e altre quindici commedie [1971] in cui racconta [aveva appena undici anni] il suo primo “successo” [tra virgolette] letterario: «A undici anni [nel 1911] ebbi il primo “successo” letterario con una parodia della tragedia  Rosmunda di Sem Benelli che stava riscotendo un grande favore di pubblico e di critica. La parodia piacque ai miei compagni di scuola. Le loro risate mentre si passavano il quadernetto richiamarono l’attenzione del professor Di Lauro che requisì la tragedia e si mise a leggerla. Quando arrivò a leggere la fatidica battuta del crudele re longobardo: - Bevi Rosmunda nel cranio di tuo padre - al quale la regina prontamente rispose - Caro Alboino bere non posso tutto quel vino dentro quell’osso…- al professor Di Lauro venne da ridere, ma si trattenne immediatamente. Io mi ero alzato sull’attenti, tutto fiero: finalmente, pensavo, avrei avuto un giudizio autorevole. Il professore sembrava fulminato, ma mi rimproverò: “Se vuoi riuscire nella vita - mi ammonì - dovrai imparare a scrivere sul serio. Questa, oltre che essere una sciocchezza, è una cosa blasfema. Prendere in giro Sem Benelli!”. Allora Sem Benelli era considerato un specie di mostro sacro. Quanto alla sciocchezza forse aveva ragione, ma io, con l’orgoglio dei giovani anni, portai la parodia a casa per farla leggere a mio padre. Mio padre faceva il giornalista, lavorava nel cinema muto, era un uomo di gusto. Gli piacque, la fece leggere a Lucio d’Ambra [pseudonimo dello scrittore, commediografo e critico letterario Renato Eduardo Manganella], e ricevetti molti complimenti. Sta di fatto che quello che facevo allora, da ragazzo, ho continuato a farlo anche da grande, perciò, forse, non ci sono “periodi” nella mia vita».

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Si consiglia – visto che lo abbiamo citato – la lettura dei testi teatrali di Achille Campanile che, con il suo stile surreale [con le sue stilettate] riesce sempre a far riflettere la lettrice e il lettore su quanto siano comici molti atteggiamenti “seriosi e perbenisti”…     Leggete, in biblioteca,  “L’inventore del cavallo e altre quindici commedie” di Achille Campanile...

   La figura di Rosmunda [e il travagliato rapporto tra Rosmunda ed Alboino] ha ispirato molte opere letterarie a cominciare dal Rinascimento: ricordiamo la tragedia [in cinque atti] intitolata Rosmunda [la prima Rosmunda] scritta da Giovanni Rucellai nel 1516, mentre Rosmunda in Ravenna è il titolo di una tragedia scritta da Amarilli Etrusca [pseudonimo della scrittrice Teresa Bandettini] e stampata a Lucca nel 1827, e poi [come sappiamo] c’è la Rosmunda di Sem Benelli del 1911 che è una commedia scritta, secondo lo stile di questo eccellente autore di teatro, con molta enfasi. La figura di Rosmunda è entrata anche nei Canti popolari italiani e la prima versione [il primo testo] della canzone che s’intitola “Donna lumbarda” è dedicato a lei. Naturalmente anche Vittorio Alfieri ha scritto un dramma intitolato Rosmunda, ideato nel 1779 e pubblicato nel 1783, in cui il poeta astigiano inventa una trama molto complicata sulla scia di ciò che racconta Machiavelli sul personaggio di Rosmunda nelle Istorie fiorentine [opera pubblicata postuma nel 1532].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Che cosa scrive Niccolò Machiavelli sul conto della regina Rosmunda      ?...

Leggiamolo ora nel LEGERE MULTUM di questo REPERTORIO che cosa racconta in proposito...

   Niccolò Machiavelli racconta nelle Istorie fiorentine [opera pubblicata postuma nel 1532] un episodio [che ha tutto il carattere di essere leggendario] sulla vendetta e sulla morte [perché la vendetta si ritorce contro di lei] della regina Rosmunda. Leggiamo questo frammento.

LEGERE MULTUM….

Niccolò Machiavelli, Istorie fiorentine

Rosmunda decise di vendicarsi per la malversazione subita dal consorte [Alboino] e sapendo che Almachìde, nobile e feroce cavaliere, amava una sua ancella, trattò con ella uno scambio di persona. Così una notte Almachìde credendo di giacere con l’ancella giacque con Rosmunda, la quale dopo il fatto gli disse: «Uccidi Alboino e avrai per sempre me e il regno, oppure sarai ucciso dal re per aver stuprato sua sposa».  Almachìde preferì ammazzare il re e prendersi la regina e il regno.

I Longobardi però fecero luce sulla tresca, così i due fuggirono con il tesoro regio a Ravenna, che era bizantina e retta dall’Esarca Longino che li ricevette con tutti gli onori, infatti l’Esarca cercava di gettare discordia in mezzo ai Longobardi. In poco tempo Longino divenne l’amante di Rosmunda e la convinse ad eliminare Almachìde. Durante una calda giornata mentre l’amante usciva dal bagno, ella gli porse una coppa di vino avvelenato. Dopo averne bevuto la metà, Almachìde si accorse dell’inganno e forzò Rosmunda a bere l’altra metà e così in breve lasso di tempo entrambi morirono. A Ravenna si concluse la vicenda della sfortunata regina dei Longobardi, e Longino si consolò con il tesoro.

   Nella primavera del 568 il popolo dei Longobardi si mette in marcia ed entra nella pianura veneta, attraverso le Alpi Giulie, e le popolazioni del Veneto fuggono sui monti, nelle isole della laguna o si barricano in città fortificate.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Nella laguna veneta – a causa dell’invasione longobarda – nascono nuovi centri abitati: Grado, Torcello, Malamocco, che meritano di essere visitati utilizzando una guida del Veneto e collegandovi alla  rete… 

   I Longobardi hanno potuto avanzare senza difficoltà nel nord della penisola perché le truppe bizantine erano scarse [i ducati bizantini in territorio italiano cominciano a non avere quasi più rapporti con Costantinopoli] ed erano invise alla popolazione: solo la città di Pavia resiste all’assedio per tre anni e, quindi, viene scelta come capitale del Regno longobardo. Abbiamo già puntato l’attenzione [alla fine di novembre] sulla città di Pavia e sappiamo che il corpo di Severino Boezio riposa nella Chiesa di San Pietro in Ciel d’Oro, accanto a quello di sant’Agostino, e questa chiesa – citata da Dante e detta “in Ciel d’Oro” per il soffitto ligneo completamente dorato – è stata fatta costruire, tra il 720 e il 725, dal re longobardo Liutprando [anche lui è sepolto qui, e lo incontreremo] proprio per collocarvi le spoglie di Sant’Agostino che aveva comprato in Sardegna da una banda di pirati saraceni che l’avevano trafugate a Ippona.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con una guida della Lombardia e navigando in rete, rifate un’escursione a Pavia ma questa volta per visitare il monumento più insigne della città: la basilica di San Michele, un edificio di fondazione longobarda, buon viaggio …

   Anche il re dei Longobardi divide le terre conquistate in ducati ma ogni duca vuole mantenere la maggior autonomia possibile: il re Alboino – come racconta Paolo Diacono nella sua Storia dei Longobardi – muore a Verona vittima di una congiura alla quale partecipa anche la moglie Rosmunda che vendica così la morte del padre. Il successore di Alboino, Clefi, estende la conquista nel centro e nel sud della penisola: anche Clefi, nel 574, viene assassinato dopo diciotto mesi di regno e i duchi per dieci anni [finché non si viene a determinare una situazione di pericolo] non vogliono nominare un successore [il cosiddetto “periodo dei duchi”]. L’Italia si ritrova così divisa in due: una parte longobarda [la Longobardia] e una parte bizantina  [la Romània], e questi nomi sono rimasti a definire entità regionali.

   I Longobardi governano in trentacinque ducati su un territorio che comprende la Pianura Padana, la Toscana, i due vasti ducati di Spoleto e di Benevento, mentre ai Bizantini restano la Liguria, il litorale veneto, l’Esarcato con la Romagna e Ravenna, la Pentapoli [il territorio delle cinque città] corrispondente alle odierne Marche, il Ducato Romano dell’Umbria e del Lazio, il Ducato di Napoli, il Bruzio [la Puglia], la Calabria, la Sicilia, la Sardegna e la Corsica. Quindi comincia per l’Italia una lunga storia di popolo diviso, una storia che è durata per tredici secoli fino al Risorgimento.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Non è difficile trovare su un atlante storico reperibile in biblioteca e sulla rete una Carta d’Italia sotto il dominio dei Bizantini e dei Longobardi

Prendetene visione, è necessario orientarsi nel tempo e nello spazio

   Mentre gli Eruli e i Goti avevano rispettato le istituzioni romane e cercato di assimilarne la civiltà, i Longobardi, in un primo momento, rifiutano la cultura latina e sconvolgono tutti gli ordinamenti romani, spogliano i grandi proprietari delle terre, privano i Latini dei diritti civili e politici: l’Italia attraversa uno dei periodi più drammatici della sua storia. La guerra tra i Longobardi e i Bizantini continua perché i Longobardi mirano a conquistare tutta l’Italia mentre l’Impero romano d’Oriente, in conflitto con i Persiani [i Sassanidi] e gli Slavi, si disinteressa dei ducati bizantini in Italia che, a poco a poco, diventano territori autonomi rispetto all’Impero.

   Questa è la drammatica situazione in cui, nel 590 [il 3 settembre], alla morte di Pelagio II, viene consacrato papa Gregorio Anicio [che era stato acclamato Vescovo di Roma già dai primi giorni di febbraio dello stesso anno]. C’è da dire che Gregorio, già dal 579, trattava [in qualità di nunzio pontificio con pieni poteri a nome di  papa Pelagio II] gli affari della curia romana specialmente a Costantinopoli con l’imperatore Tiberio II e con il patriarca Eutichio, e aveva intessuto una vasta rete di rapporti diplomatici anche ad Occidente: era molto amico di Leandro, il vescovo di Siviglia, la Chiesa più importante della penisola Iberica in territorio visigoto dove si era sviluppata una Scuola che Gregorio ha frequentato per potenziare la sua cultura umanistica [fra poco parleremo della Scuola sivigliana di Isidoro].

   Papa Gregorio I è passato alla storia come il “grande difensore dell’Italia” al tempo dei Longobardi e dei Bizantini e, in effetti, ha preso delle iniziative politiche rilevanti in questo senso: ha saputo trattare con grande autorevolezza con i Longobardi – con i quali non era facile comunicare – dei quali propizia la conversione al Cattolicesimo [i Longobardi erano ariani] attraverso una serie di mosse vincenti molto appropriare. Gregorio manda monaci missionari nel territorio germanico dei Franchi, in quello iberico dei Visigoti, e fin nella lontana Inghilterra, non solo per convertire i popoli al Vangelo ma, prima di tutto, per stabilire rapporti diplomatici tra il vescovo “cattolico” di Roma e i governanti ariani di quei Regni: era necessario far prevalere l’azione politica piuttosto che la forza militare la quale aveva provocato danni irreparabili [il territorio italiano si era spopolato per la carestia e le malattie, le campagne erano abbandonate, le strade romane erano scomparse, le paludi e la malaria erano in espansione].

   Papa Gregorio [ancor prima di essere consacrato vescovo di Roma] ha svolto un’intensa attività diplomatica seguendo un preciso [e spregiudicato] progetto politico: opera [sotto traccia] per favorire un’alleanza tra i Franchi e i Bizantini in funzione della cacciata dei Longobardi dall’Italia e, contemporaneamente, si premura di mettere in guardia i duchi longobardi affinché si decidano ad eleggere un re, una figura unitaria e rappresentativa con la quale Gregorio avrebbe potuto trattare. Difatti i duchi longobardi, fiutato il pericolo, decidono di eleggere re Autari [584-590],  il figlio di Clefi, che Gregorio conosce e al quale aveva già consigliato, per conciliarsi il favore dei sudditi latini e alzare il proprio prestigio, di sposare la cattolica Teodolinda, figlia del duca Garibaldo di Baviera e della longobarda Valderada: questo matrimonio viene celebrato a Verona il 15 maggio del 589 ma Autari muore improvvisamente l’anno successivo.

   Paolo Diacono nella sua Storia dei Longobardi racconta in modo romanzato l’elezione del successore: scrive che nell’autunno del 590, dopo la morte improvvisa di Autari, i duchi longobardi danno alla regina Teodolinda il mandato di scegliere il nuovo re. Tutti i duchi, per proporsi, vanno a rendere omaggio alla regina portando dei doni preziosi ma con atteggiamento tracotante, solo il duca di Torino, Agilulfo, si presenta a mani vuote però, scrive Paolo Diacono: « … il duca di Torino s’inchinò devotamente di fronte alla regina, le prese la mano e gliela baciò con tanta dolcezza che Teodolinda lo invitò a baciarla anche sulle labbra e poi lo investì del diritto non solo di essere re ma anche suo sposo». Teodolinda e Agilulfo si sposano nel novembre del 590, lei sta tenendo una fitta corrispondenza con papa Gregorio e diventa l’artefice della conversione del marito e dei duchi longobardi al Cattolicesimo. Il figlio di Agilulfo e Teodolinda, Adaloaldo, viene pubblicamente battezzato secondo il rito cattolico e questo gesto – benedetto da Gregorio per lettera – favorisce, nel 603, la conversione di tutto il popolo longobardo alla fede di Roma.

   Teodolinda – sebbene la capitale di Agilulfo sia Milano – preferisce abitare a Monza dove fa costruire il Duomo dedicato a San Giovanni Battista, ornato da splendidi oggetti preziosi tra cui la famosa “corona ferrea” così detta perché porta, nell’interno, un cerchio di ferro ricavato da uno dei due chiodi – raccolti, secondo la tradizione, da Elena, la madre di Costantino [che abbiamo incontrato ai primi di novembre], in Terrasanta – con i quali fu crocifisso Gesù [l’ultimo ad indossare la corona ferrea, nel 1805, è stato Napoleone quando ha voluto essere anche incoronato re d’Italia]. All’interno del Duomo di Monza – che è stato trasformato tra il 1600 e il 1700 perdendo la sua forma gotica – c’è la Cappella di Teodolinda che è ornata da gustosi affreschi, che raccontano le “storie della vita della regina”, realizzati, nel 1444, da Francesco, Ambrogio e Gregorio Zavattari, appartenenti ad una famiglia di bravi pittori milanesi.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Fate una visita al Duomo di Monza utilizzando la guida della Lombardia, e cercate sull’enciclopedia, su un Catalogo reperibile in biblioteca, sulla rete gli affreschi della “Vita della regina Teodolinda” dipinti dagli Zavattari ed osservateli...

Dell’arte longobarda ci sono rimasti tanti preziosi oggetti di oreficeria [molti sono conservati nel Museo del tesoro del Duomo di Monza] e potete osservarli sulla rete dove, cercando alla dicitura “oreficeria longobarda” o “arte longobarda”, trovate alcuni siti che presentano molte immagini significative di questi capolavori dell’arte orafa…  C’è un oggetto di oreficeria, un gioiello, al quale siete particolarmente affezionate e affezionati?...

Scrivete quattro righe in proposito...

   Ma adesso – nonostante le molte cose che abbiamo già detto di lui – dobbiamo chiederci: chi è papa Gregorio Magno, il quale è stato anche un valido scrittore e l’autore di una importantissima riforma liturgica che ha introdotto il celebre “canto gregoriano”: un’operazione culturale di un’importanza straordinaria ancora di grande attualità [non è difficile ascoltare un concerto di musica gregoriana, fatelo! Il nostro viaggio ha anche una colonna sonora], ma, soprattutto, papa Gregorio è stato un “uomo politico” che ha saputo disegnare e proporre uno stile di vita mettendo in funzione una riforma economica che è riuscita a scongiurare il totale degrado e la catastrofe definitiva del mondo occidentale.

   Papa Gregorio Magno [Gregorio Anicio] è nato in una grande famiglia aristocratica romana, la gens Anicia [suo padre è il senatore Gordiano e sua madre la nobile Silvia], nel 540 circa. La situazione politica dell’Occidente, dopo l’implosione dell’Impero romano, è drammatica e con il susseguirsi delle varie dominazioni in Italia [Eruli, Ostrogoti, Bizantini, Longobardi] la città di Roma, alla fine del VI secolo, si trova nel caos più completo, non c’è un governo e l’unica autorità che è rimasta a Roma [che i Bizantini hanno lasciato a Roma] è quella del Vescovo che i Romani cominciano a chiamare “papa [papà]” proprio perché si sentono orfani e avrebbero bisogno di una figura paterna che si occupasse, prima di tutto, dei loro problemi materiali. Gregorio, che appartiene ad una influente famiglia patrizia romana, viene nominato dal governo bizantino, nel 573 [dopo l’invasione dei Longobardi], “prefectus urbis”, amministratore della città di Roma [ammesso che si sia ancora qualcosa da amministrare].

   Gregorio è una persona ben preparata, ha studiato alle Scuole dei più importanti maestri dell’epoca che cercano di salvare il patrimonio della cultura classica dalla distruzione [e noi li abbiamo incontrati in questi tre mesi di viaggio] e oggi Gregorio abita a pieno titolo nel paesaggio intellettuale della salvaguardia delle Opere classiche greche e latine [un vasto paesaggio che continua a passare davanti ai nostri occhi e che seguitiamo ad osservare con attenzione]. Gregorio Anicio si è formato, da ragazzo, alla Scuola di Cassiodoro [il Vivarium di Squillace] e di Isidoro di Siviglia [la Scuola etimologica sivigliana].

   Isidoro di Siviglia [contemporaneo di Gregorio], vescovo di questa città dal 601 al 636, è un intellettuale che opera in Andalusia [la più romanizzata delle province ispaniche] in accordo con i re visigoti: il re Recàredo passa dall’arianesimo all’ortodossia cattolica, e vorrebbe unificare sotto una medesima monarchia l’intera penisola iberica. Isidoro di Siviglia è stato l’artefice del rinnovamento culturale della penisola iberica tramite una fitta rete di Scuole nelle quali [sulla scia del pensiero di Gerolamo] la dottrina cristiana si coniuga con la cultura greca e latina. Isidoro produce una colossale opera enciclopedica per salvaguardare i testi Classici [di Platone, di Aristotele, di Plotino, di Cicerone, di Ovidio, di Virgilio, di Orazio] i cui contenuti vanno utilizzati per porre un argine al degrado in atto su tutto il territorio dell’Ecumene soprattutto sul piano etico.

   La produzione enciclopedica di Isidoro culmina con un’opera in venti libri intitolata Sulle etimologie o delle origini. Con un metodo originale Isidoro perlustra l’intero mondo delle arti, delle tecniche materiali, del diritto, della medicina, delle scienze naturali, partendo dall’analisi delle parole per risalire alle “sorgenti delle cose” recuperando, lungo questo pellegrinaggio etimologico, tutto lo scibile dell’antichità dalla cultura ebraica alla greca fino a quella cristiana. La mentalità di Isidoro di Siviglia è prettamente aristotelica e si suppone [con buone ragioni] che Gregorio Anicio abbia studiato l’Etica di Aristotele, e abbia maturato l’idea della salvaguardia dei Classici, a Siviglia [in territorio visigoto, perché nell’Impero bizantino Platone e Aristotele sono fuorilegge] alla Scuola etimologica sivigliana [o hispalica].

   Gregorio Anicio, nel suo ruolo di “prefectus urbis”, capisce che è necessario fare una scelta forte sul piano culturale e morale: la città è allo sbando e la situazione è drammatica perché non c’è più un servizio che funzioni e quindi bisogna fare appello, prima di tutto, alle virtù etiche.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quale di queste parole mettereste per prima accanto al termine “etica”: atteggiamento, abitudine, costume, contegno, regolamento, programma, oppure quale?…

Scrivete la parola che, oggi, secondo voi, si avvicina di più all’idea di “etica”…

   Nel 573, da prefectus urbis, Gregorio non pensa certo di fare una carriera ecclesiastica, è un laico che riflette in termini politico-filantropici e, quindi, per capire la mentalità e il modo in cui agisce dobbiamo ripassare l’Etica Nicomachea [questo titolo prende il nome da Nicomaco, il figlio di Aristotele, al quale quest’opera è dedicata] che è da considerarsi l’opera fondamentale di Aristotele in relazione a questa disciplina [Aristotele ha scritto altre due opere di carattere etico, considerate minori: l’Etica Eudemia, dal nome di Eudemo di Rodi che è un discepolo del Liceo e la Grande Etica, che ha preso il nome di “grande, mega” per la grandezza dei rotoli sui quali è scritta la versione più antica che possediamo]: il testo dell’Etica Nicomachea ha contribuito in modo rilevante alla formazione intellettuale di Gregorio. A questo proposito, dobbiamo ricordare che i membri del gruppo di studio [Giulio II, Fedra Inghirami, Bramante e Raffaello] che preparano il contenuto dell’affresco intitolato La Scuola di Atene decidono di mettere in mano alla figura di Aristotele proprio l’Etica Nicomachea e questo fatto non è casuale [papa Giulio II è un ammiratore di Gregorio].

   A Gregorio è stato attribuito il titolo di “Grande [Magnus]” anche perché è riuscito a caratterizzare l’Ethos [le norme di comportamento sociale] di un’epoca.

   Di quali argomenti tratta l’Etica Nicomachea? Quali sono i temi di cui si occupa questa disciplina che si chiama Etica [dal greco “ethos ethos”, il modo di comportarsi] e che Aristotele considera affine alla “politica”? Aristotele codifica il fatto che la disciplina etica e la scienza politica s’identificano.

   Il testo dell’Etica Nicomachea – e scorrere l’indice di quest’opera [che trovate in biblioteca] è già un esercizio di lettura edificante – propone temi di straordinaria attualità: che cos’è il bene per la persona umana? Che cos’è la felicità, la libertà, la virtù? Che cos’è la legge morale? Che cos’è il dovere, l’amicizia, il piacere? Che senso ha la vita, e la vita umana ha un fine ultimo? E, di fronte a questi importanti interrogativi [che quotidianamente emergono dai nostri pensieri], che tipo di riflessione mette in atto Aristotele nel testo dell’Etica Nicomachea?

   Aristotele inizia il suo ragionamento da una domanda fondamentale: che cos’è il “bene” per ogni essere vivente? Per ogni essere il “bene” [afferma Aristotele] consiste nel raggiungere l’eccellenza, la completezza [teleios téleios] nell’attività che gli è propria. E, per la persona, che è il più complesso degli esseri viventi, qual è l’attività propria? Secondo Aristotele l’attività propria della persona è quella “razionale”: per la persona il “bene [il valore, la virtù]” consiste nel raggiungere l’eccellenza nell’esercizio della razionalità perché è dall’agire “secondo ragione” [afferma Aristotele] che scaturisce la felicità, e questa affermazione aristotelica ha sempre suscitato nei secoli [in particolare in Età medioevale], e tuttora suscita, un serrato dibattito. Le “virtù” [quelli che chiamiamo i “valori”] non si trovano, scrive Aristotele, belli e pronti in un mondo ideale [o divino che sia] ma la persona deve imparare a costruire il “bene”, a edificare i “valori” e a far penetrare le “virtù” nella società in cui vive per mezzo della “ragione illuminata dall’intelligenza” che è depositaria dell’idea del Bene [la ragione sa distinguere quel che è bene da quel che è male, ma non sempre la persona sceglie la via del Bene perché - oltre a un “dèmone buono” che l’accompagna, quello di cui parla Socrate - c’è anche  un “dèmone maligno” che la distrae], e l’intelligenza [l’attività dell’intelletto] è, per Aristotele, una luce [un “dèmone buono”] che illumina a fin di Bene la ragione umana.

   Dobbiamo riflettere [così come hanno fatto: Gerolamo, Severino Boezio, Cassiodoro, Isidoro di Siviglia e Gregorio] sui termini che usa Aristotele per codificare la disciplina che chiamiamo “Etica” che, in quanto materia di studio, va imparata: Aristotele utilizza una sola parola, “agathos agathos”, per definire i due termini “intelligente e virtuoso”, quindi, l’intelligenza si manifesta [e deve essere definita come tale, “agata”] solo nell’ambito di un’azione virtuosa, perché una “cattiva azione ben congegnata [una furbata]” è frutto non dell’intelligenza ma di quel dèmone maligno che Aristotele chiama “astuzia della ragione” e che corrisponde al termine greco “deinos deinòs” che si traduce in parole come “spaventoso, malvagio, funesto” [ed è un termine tragico]. Quindi [scrive Aristotele] ci sono le “azioni intelligenti” di natura virtuosa [agathos] che costruiscono la società civile [la polis delle cittadine e dei cittadini] e ci sono le “cattive azioni ben congegnate” frutto dell’astuzia [deinòs] che rendono la società demente [l’impero dei sudditi]. Compito dell’educazione è quello di insegnare alla persona a costruire le virtù con l’intelligenza: “esseri intelligenti, scrive Aristotele, si diventa” e con l’istruzione le prestazioni intellettuali migliorano e cresce la capacità della persona di essere virtuosa [la persona prende la buona abitudine di essere virtuosa, si dota di un habitus].

   Lo Stato, scrive Aristotele, per procurare “buoni abiti intellettuali” alla persona [per Aristotele l’educazione deve essere una prerogativa dello Stato e non dei privati] si deve avvalere di un preciso programma di insegnamento articolato in varie discipline: Aristotele si limita a trattare solo quattro di queste discipline [la grammatica, la ginnastica, la musica e il disegno] ma, anche da questa parziale trattazione, appare evidente che il testo dell’Etica Nicomachea [formato da dieci Libri, o dieci capitoli] nel suo complesso è il primo importante tassello di un codice di “morale laica” che si va formando secondo l’idea che “si è persone virtuose in quanto persone intelligenti”, e questa idea è il punto di partenza di quel grande movimento intellettuale che è stato chiamano l’Umanesimo e che ha trovato la sua interpretazione nelle correnti della Scolastica medioevale che incontreremo e di cui studieremo il pensiero.

   Tre sono le cose necessarie alla persona, scrive Aristotele, per incamminarsi sul terreno della “virtù”: la volontà, il desiderio, l’aspirazione [in Età medioevale emergono tre diverse Scuole di pensiero in proposito] e la persona che aspira ad “essere virtuosa” deve – con la volontà, con il desiderio, con l’aspirazione – entrare, scrive Aristotele,  in un “circolo virtuoso”, e qual è il perimetro di questo “circolo virtuoso”?

   Aristotele nell’Etica Nicomachea scrive che ci sono due specie di virtù. Alla prima specie appartengono quelle che lui chiama le virtù “pratiche [o etiche]” che si fondano su un certo numero di disposizioni naturali che, con l’esercizio costante, si trasformano in abitudini: la virtù “pratica [pratico-etica]” è quindi un “abito” mediante il quale la persona deve esercitarsi a controllare le proprie disposizioni naturali mediante la ragione. La ragione elabora i dati provenienti dai sensi e trova il “giusto mezzo [“mesotes” in greco e “aurea mediocritas” in latino]”. Nei testi della Scolastica medioevale leggiamo: «Ratio iustum abitum invenit [la Ragione, illuminata dall’Intelligenza, trova l’abito giusto, trova il giusto mezzo]».

   Aristotele scrive che sul muro esterno del tempio di Delfi, accanto alla più nota frase “Conosci te stesso” ve n’è un’altra che dice “Niente di troppo” e ricorda che nel mondo antico [quello orfico dionisiaco del VI secolo a.C. che per Aristotele - che è morto nel 322 a.C. - è già un’epoca antica] che andare oltre i confini stabiliti dalla divinità è “hybris” [insolenza] che viene punita [cita l’esempio di Icaro] e, quindi, Aristotele insiste sull’ideale della “medietà”, della “via di mezzo”, in quanto virtù che squalifica gli estremi per difetto e per eccesso [“est modus in rebus”, diranno gli Scolastici]; Aristotele puntualizza che per ciascun essere la perfezione [teleios téleios] è “avere un limite”, la persona è “perfetta [è nel suo massimo grado di completezza]” quando è consapevole di avere dei limiti: l’idea di infinito per Aristotele [e per tutta la cultura greca] è un concetto negativo, sinonimo di amorfo, di confuso, di indistinto [in qualunque modo ci si muova la linea dell’infinito è sempre lontana, irraggiungibile, e Gregorio -insieme a Gerolamo, Severino Boezio, Cassiodoro, Isidoro di Siviglia - condivide la riflessione aristotelica, e qui cominciamo a capire perché il pensiero di Aristotele in Età medioevale è al centro del dibattito culturale]. La virtù “pratico-etica” fondamentale, per Aristotele, è la “giustizia”, e la giustizia deve garantire che venga dato ciò che spetta a ciascuna persona secondo i suoi meriti nella società [il criterio distributivo], e deve garantire l’uguaglianza tra tutte le persone [il criterio commutativo].

   Poi, oltre alle virtù “pratico-etiche”, ce n’è una seconda specie che Aristotele chiama le virtù “teoretiche o dianoetiche” [e questa parola deriva dal termine “diànos” che, in greco, significa “intelligenza pratica”]. Le virtù “dianoetiche” sono quelle in cui la persona si esercita in un investimento in intelligenza. Aristotele considera virtù “dianoetiche”: la “scienza” [epistème, la capacità di decodificare concetti universali ed eterni], “l’arte” [thecnè, la capacità di produrre oggetti utili e belli], la “saggezza” [sophia sophia, la capacità di discernere ciò che è bene e ciò che è male per la persona], “l’intelligenza [sýnesis, la capacità di illuminare la ragione mediante l’idea del Bene]”, la “sapienza” [sophrosýne, la capacità di catalogare e di riconoscere i valori che la ragione ha messo a fuoco mediante l’intelligenza in modo da conoscerli e utilizzarli per poter contemplare il risultato proveniente dalla loro utilizzazione]. Quindi la persona, secondo Aristotele, è “umana” quando esercita le virtù pratico-etiche e teoretico-dianoetiche.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Tra le virtù teoretico-dianoetiche – la scienza, l’arte, la saggezza, l’intelligenza, la sapienza – quale mettereste per prima nell’elenco, e come costruireste il catalogo di queste virtù aristoteliche in ordine d’importanza?…

Scegliete e scrivete il vostro manifesto dianoetico…

   Aristotele – attraverso il testo dell’Etica Nicomachea – vuole indicare un percorso che possa far avvicinare la persona alla felicità. La persona “virtuosa” [secondo Aristotele] è quella che impara a lavorare [a portare la materia dalla potenza all’atto] con le proprie mani [ogni persona dovrebbe svolgere un lavoro manuale], e che sa costruire le regole di convivenza con la propria ragione [ogni persona dovrebbe partecipare a scrivere le Leggi], e che sa apprezzare e ben utilizzare i prodotti materiali [gli oggetti] e ideali [le parole, le idee] che ha realizzato con la propria intelligenza [e questo apprezzamento deriva dallo studio quotidiano a cui tutti dovrebbero dedicarsi]. Questo programma [la persona che lavora con le mani e si applica nelle virtù pratiche, che legifera con la ragione e si applica nelle virtù etiche, che studia per investire in intelligenza] può sembrare semplice da realizzare [il suo fascino sta nella sua apparente semplicità] ma, in realtà ha sempre trovato difficoltà di applicazione e Aristotele si fa una serie di domande in proposito. Perché, si domanda Aristotele, se il lavoro è un’attività virtuosa la stragrande maggioranza di chi lavora manualmente viene sfruttata ed è costretta a morire dalla fatica: perché sul tema del lavoro non si applica la “giusta misura” e, di solito chi lavora manualmente non legifera e non studia? Perché, si domanda Aristotele, chi ha intenzione di costruire le regole a ragion veduta deve sempre fare i conti con il fatto che la Legge, spesso, non è uguale per tutti e chi legifera lo fa per soddisfare interessi propri? Perché, si domanda Aristotele, la persona che analizza con l’intelligenza la realtà – sollecitando l’applicazione delle virtù etiche e dianoetiche – spesso diventa scomoda, invisa, ed è costretta ad appartarsi dalla società? [Anche Aristotele deve fuggire da Atene -deve lasciare la direzione della sua Scuola a Teofrasto - e deve nascondersi a Calcide in Eubea nel podere che ha ereditato dalla madre Festide e, dopo pochi mesi di esilio, muore nel 322]. I quesiti e i temi proposti dall’Etica Nicomachea di Aristotele – in sinergia con la Letteratura dei Vangeli – sono stati elaborati e hanno favorito la creazione di straordinarie esperienze umane, sociali, politiche e culturali.

   Ed è proprio sulla scia di questa impostazione “etica” – appresa alla Scuola etimologica di Isidoro di Siviglia – che Gregorio Anicio, quando nel 573 viene nominato “prefectus urbis”, decide di trasformare la sua bella e ricca casa del Celio, con i poderi che la circondano, in un centro di accoglienza per dare da mangiare, da bere, per fornire un servizio sanitario, un servizio scolastico e per coordinare forme di lavoro agricolo, pastorale e artigianale: Gregorio pensa di dover esercitare [e salvaguardare applicandole] le virtù etiche e dianoetiche di stampo aristotelico.

   Poi Gregorio Anicio fa un incontro che cambia ulteriormente la sua vita. Mentre ispeziona i quartieri più degradati della città conosce un gruppetto di persone: una decina tra uomini e donne che, applicando le regole del mutuo soccorso dettate dal Vangelo, hanno creato alcune elementari strutture di servizio [la mensa, l’infermeria, l’asilo] e strutture di produzione [gli orti e la pastorizia di sopravvivenza, l’artigianato di sussistenza] per far fronte alla gravissima crisi che procura sofferenze alla popolazione. Gregorio interpella queste persone e scopre, dai loro racconti, che non sono degli improvvisatori ma hanno un programma: sono i discepoli di un certo Benedetto da Norcia, un feudatario che era morto nel 547 [da più di venticinque anni] e che, applicando i dettami del Vangelo, aveva codificato una regola di vita per salvare le famiglie dei suoi servi durante la terribile guerra goto-bizantina. Gregorio Anicio dai racconti di queste persone viene a sapere che Benedetto da Norcia – il quale aveva letto le opere dei Padri Cappadoci [Basilio di Cesarea, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa, vissuti nel IV secolo nell’area della Cappadocia, e noi li abbiamo incontrati nel viaggio dello scorso anno scolastico], in particolare ha letto l’Esortazione ai giovani sul modo di trarre profitto dai classici greci di Basilio di Cesarea [il fondatore del “monastero”] – aveva cessato di considerarsi il padrone dei suoi dipendenti e come un padre [“abba”, per usare il termine greco derivante dalla Letteratura dei Vangeli] li aveva guidati in un luogo appartato del territorio [lontano dalle pianure teatro della guerra su un’altura chiamata Montecassino] dove, intorno al 529, aveva avviato forme di economia di sussistenza [l’agricoltura, la pastorizia e l’artigianato] con un sistema di vita rigorosamente comunitario [tutti fratelli e sorelle] centrato su un villaggio, protetto e collocato in altura sul modello delle polis etrusche, che prende il nome di “abbazia”, la “casa paterna” nella quale tutti lavorano manualmente, tutti elaborano le regole della convivenza fraterna e tutti pregano e studiano. Gregorio rimane colpito dal comportamento “etico [aristotelico nella forma ed evangelico nei contenuti]” di queste persone e le invita ad utilizzare la sua grande casa e i suoi poderi del Celio per organizzare lo “Stato-sociale” [secondo i termini dei Padri Cappadoci, in particolare di Basilio di Cesarea, del quale comincia a studiare il pensiero] e per diffondere un modo di vivere in chiave fraterna [lo stile dell’abbazia, della casa paterna, va oltre l’idea del monastero perché accoglie tutti, non solo i monaci] secondo il metodo di quel Benedetto che aveva, sotto traccia, creato un “movimento virtuoso” non solo di carattere religioso ma anche di stampo sociale e politico. Le condizioni della vita materiale a Roma [seppure in mezzo a mille difficoltà] gradualmente migliorano e Gregorio Anicio studia il “sistema dell’abbazia” e progetta le sue possibilità di applicazione e, quindi, si avvicina alla Letteratura dei Vangeli e allo stile di vita monastico dei discepoli di Benedetto.

   Nel 590, alla morte di Pelagio II, Gregorio viene, per acclamazione, eletto nuovo vescovo di Roma e, per la prima volta, questa figura viene chiamata “papa” [il vezzeggiativo di “padre”, corrispondente al termine “abba”: l’unica autorità che, in questo momento, cerca di prendersi cura dei Romani con il proprio potere morale]. Gregorio adopera tutto il suo patrimonio personale e utilizza il patrimonio intellettuale del passato [la sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele] per costruire il presente e guardare al futuro: con l’opera di Gregorio siamo agli albori di quel grande movimento culturale che prende il nome di Umanesimo e siamo ormai entrate ed entrati in piena Età medioevale.

   Gregorio – che si è fatto raccontare la vita, la morte e i miracoli di Benedetto da Norcia dai suoi discepoli ai quali ha donato i suoi averi – decide di mettere tutto per iscritto e nel Libro II dei suoi Dialoghi scrive la vita di San Benedetto [basata tutta su elementi leggendari] e redige la “regola benedettina” universalizzandola attraverso la cultura greca perché Gregorio scrive un’opera “cristiana” seguendo Platone nella forma [i Dialoghi] e Aristotele nel contenuto [l’Etica Nicomachea]: quindi Gregorio si oppone alla persecuzione della filosofia greca perseguita dagli improvvidi imperatori bizantini a cominciare da Giustiniano. La spina dorsale della “Regola benedettina” scritta da Gregorio è l’ethos-greco, nella forma e nel contenuto pensato da Aristotele nell’Etica Nicomachea, ma inserito in un nuovo contesto: quello della Letteratura dei Vangeli, e Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo, diventa il depositario delle virtù etiche e dianoetiche.

   Gregorio ha scritto molte opere: le Epistole, le Omelie, i Dialoghi che contengono quella straordinaria “Regola Pastorale” che ha caratterizzato la storia e la cultura del Medioevo. La più importante esperienza umana, sociale, politica e culturale che – mettendo insieme le parole-chiave e le idee-cardine dell’Etica Nicomachea di Aristotele e quelle della Letteratura dei Vangeli – ha lasciato una traccia indelebile nella Storia del Pensiero Umano e ha inciso dei segni profondi [segni di grande fascino] sul territorio europeo è dovuta al Libro dei Dialoghi di Gregorio Magno: un’opera scritta in lingua latina popolare facile e gradevole da leggere.

   La “Regola di San Benedetto” è una sorta di enciclica [di lettera pastorale] che viene trasmessa da papa Gregorio a tutta la Chiesa [non solo ai Vescovi ma “a tutte le donne e gli uomini di buona volontà”] e questa scelta ha determinato il destino della cristianità: si sviluppa la “Chiesa delle abbazie” che ha influenzato la Storia della cultura universale e del Pensiero Umano. Nel giro di pochi decenni, sul territorio europeo, si moltiplicano le abbazie benedettine, luoghi, che ancora oggi, costituiscono straordinari centri di attrazione: le abbazie hanno un fascino che attira l’attenzione. In che cosa consiste il progetto, non solo religioso ma, soprattutto, politico dell’Abbazia? A questa domanda cercheremo di dare una risposta [articolata] nell’itinerario della prossima settimana.

   Ora dobbiamo aprire una parentesi in funzione della didattica della lettura e della scrittura perché la figura di papa Gregorio Magno ha lasciato un’impronta così forte che la sua storia, dopo l’anno Mille, è sfociata nella leggenda: il personaggio di papa Gregorio ha creato una vera e propria tradizione mitica che dobbiamo conoscere perché investe non solo la Storia della Letteratura medioevale ma anche quella della cultura contemporanea.

   Tutto ha inizio agli albori del XII secolo [del 1100] quando compaiono due opere che raccontano una leggenda [già sviluppatasi, da tempo, oralmente nelle Canzoni] su papa Gregorio. Ai primi del secolo XII comincia a circolare in Europa un racconto anonimo scritto in francese antico intitolato Vita di papa Gregorio Magno [Vie du pape Grégoire le Grand], e il contenuto di questa narrazione viene ripreso da un poeta tedesco, che si chiama Hartmann von Aue [1160 circa - 1210 circa], il quale cronologicamente fa parte della triade dei grandi poeti cavallereschi del Medioevo tedesco insieme a Wolfram von Eschenbach [autore di Parzival] e Goffredo di Strasburgo.

   Hartmann von Aue verso il 1190 scrive un poemetto intitolato Gregorio sullo scoglio, ovvero il buon peccatore, e, molto probabilmente, compone quest’opera come azione di pentimento per avere partecipato alla III Crociata [quella iniziata da Federico Barbarossa nel 1189 e conclusa da Riccardo Cuor di Leone nel 1192] e, quindi, quest’opera su Gregorio è la testimonianza poetica di una crisi interiore generata dall’aver preso parte ad una carneficina [la conquista di San Giovanni d’Acri] che non aveva nulla di evangelico, né di cristiano, né di umano.

   La “Leggenda di papa Gregorio” è un racconto straordinario perché narra una storia “cristiana” che affonda le proprie radici nel mito greco e in quello ebraico ed è, quindi, una narrazione che esalta l’idea di integrazione culturale secondo lo spirito di Gregorio. La “Leggenda di papa Gregorio” porta nella letteratura cristiana il mito greco di Edipo che sposa la propria madre [la tragedia greca] e quello ebraico di Mosè salvato dalle acque [il Libro dell’Esodo]. La trama della “Leggenda di papa Gregorio” – tanto nell’opera dell’anonimo autore francese quanto nel poemetto del tedesco Hartmann von Aue – è molto accattivante ed è anche piuttosto inquietante.

   Con il titolo La leggenda di San Gregorio è stato portato in scena, nel 1992, uno spettacolo [la scenografia era di Emanuele Luzzati e la regia di Vito Molinari] interpretato da Paolo Poli [che ha costruito la sceneggiatura insieme a Ida Omboni], e qualcuna e qualcuno di voi avrà visto questa rappresentazione quando, in quegli anni [per tutti gli anni ‘80], la Scuola ha promosso la partecipazione a teatro.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Ci sarà una registrazione de “La leggenda di San Gregorio” di Paolo Poli?...

Provate a fare una ricerca in biblioteca, in rete...   

   Che cosa racconta la “Leggenda di papa Gregorio”? Utilizziamo il testo del “Canovaccio teatrale” de La leggenda di San Gregorio di Ida Omboni e Paolo Poli [scritto per la promozione dello spettacolo] che ne riporta fedelmente tutti gli elementi.

LEGERE MULTUM….

Ida Omboni  Paolo Poli,  La leggenda di San Gregorio  [il Canovaccio teatrale]

Il Duca di Fiandra e Artois non riesce ad avere figli. Dopo molte suppliche a Dio la moglie del Duca rimane incinta e partorisce due gemelli ma muore poco dopo averli messi alla luce. I gemelli vengono chiamati Sibilla e Wiligis, sono molto simili l’una all’altro e crescono nella corte ducale rimanendo sempre molto uniti. La morte del Duca arriva quando i gemelli hanno l’età di diciassette anni e il figlio Wiligis viene proclamato nuovo Duca ma la stessa notte seduce sua sorella: i gemelli diventano amanti e Sibilla rimane incinta. Wiligis chiede aiuto al suo Maestro di cavalleria e questi li induce a prendere delle decisioni drastiche: Wiligis abbandona il ducato e parte per le Crociate mentre Sibilla va a partorire nel castello di Eisengrein.

... continua la lettura ...

   La trama della “Leggenda di papa Gregorio” ha attirato l’attenzione di un importante scrittore tedesco che tutte e tutti voi conoscete, Thomas Mann [1875-1955, premio Nobel 1929], il quale ha scritto un romanzo, pubblicato nel 1951, intitolato L’eletto che ha come tema la leggenda di papa Gregorio. L’eletto, sebbene sia un romanzo che tratta argomenti tragici, ha uno stile allegro, ironico e leggero che rende gradevole la lettura di quest’opera.

   La trama de L’eletto corrisponde a quella del “Canovaccio teatrale” che abbiamo letto e il romanzo ha un narratore che lo scrittore identifica con lo “spirito del racconto” e che si chiama Clemente ed è un monaco irlandese, che nell’abbazia svizzera di San Gallo, scrive la storia. Questo permette a Thomas Mann non solo di romanzare la “leggenda” – la “leggenda” è un pretesto – ma di scrivere, attraverso la figura di Clemente, una serie di riflessioni e di commenti spiritosi, critici, sarcastici sui fatti contemporanei.

   Il personaggio di Clemente, che richiama il nome di papa Clemente Romano, il primo papa [come sapete] non leggendario, si professa molto rispettoso sia dell’autorità religiosa che civile ma non perde occasione per lanciare una serie di critiche ai potenti e di ironizzare sulle origini mitiche della Chiesa: un mito che è diventato storia e poi Clemente insiste sulla bontà della cultura classica senza la quale il Cristianesimo non avrebbe una “dottrina”. L’ironia di Clemente [di Thomas Mann] non è mai graffiante ma sempre molto “simpatica” e riesce a inserirsi anche nei momenti più delicati del racconto e non si contano le battute sui comportamenti e sulle debolezze dei protagonisti [anche di San Pietro]. Thomas Mann gioca con i luoghi, i tempi e le lingue: utilizza, per le citazioni, una sorta di latino alto medioevale divertente e facile da capire.

   È un romanzo da leggere e noi ora, per concludere, leggiamo l’incipit, il primo capitolo: il racconto ha inizio dalla fine quando le campane di Roma, da sole, per miracolo [per merito dello “spirito della narrazione”], cominciano tutte a suonare perché Gregorio è stato eletto papa. In tutte e in tutti noi [allude Thomas Mann] alberga lo “spirito della narrazione” e bisogna esserne consapevoli perché è lo “spirito della narrazione” che dà un senso alla nostra vita perché la realtà esiste solo per opera dello “spirito della narrazione”.

   Le pagine che stiamo per leggere costituiscono uno degli incipit più “sonori” della Storia della Letteratura contemporanea e poi queste pagine rappresentano anche una sintesi degli argomenti [in particolare il rapporto tra la Cultura classica e la Letteratura dei Vangeli] che abbiamo trattato finora nel corso di questo viaggio.

LEGERE MULTUM….

Thomas Mann, L’eletto

CHI SUONA?

Suonar di campane, tripudiar di campane supra urbem, sopra l’intera città, nell’aria tutta traboccante di suoni! Campane, campane, che si muovono e oscillano, ondeggiano e si slanciano, vanno e vengono vibrando ampie e solenni dalle loro travi, nei loro castelli, con mille voci, in un assordante tumulto. Lente e veloci, rombanti e tintinnanti, in esse non c’è ritmo né accordo; parlano tutte in una volta e la parola dell’una sopraffà la parola dell’altra, sopraffà la sua propria: i battagli cominciano a percuotere il bronzo ma non lasciano tempo all’eccitato metallo di placarsi che già vibrano percotendo all’orlo opposto e sopraffacendo il proprio rombo, così che mentre echeggia ancora: «In te Domine speravi», risuona già: «Beati, quorum tecta sunt peccata», ma vi si ode anche il tintinnio chiaro di chiese più piccole, come se il sagrestano agitasse la campanella all’elevazione.

... continua la lettura ...

   Andate avanti a leggere L’eletto di Thomas Mann, lo trovate in biblioteca ed è facile per chi, come noi, sta compiendo un viaggio nell’Età alto-medioevale rinvenire in questo testo molti dei temi che stiamo studiando.

   Come si configura lo strumento [religioso, economico, politico, culturale] proposto da papa Gregorio Magno che ha preso il nome di “Abbazia benedettina”?

   Per rispondere a questa domanda bisogna continuare a percorrere la via dell’Alfabetizzazione culturale e funzionale che è un bene comune [come le virtù etiche e dianoetiche] perché lo studio è un’attività utile per promuovere l’Apprendimento permanente che è un diritto e un dovere di ogni persona: per questo la Scuola è qui, per spronarci ad investire in intelligenza…

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Gennaio 17, 2014