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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ ALTO-MEDIOEVALE SI SVILUPPA LA LEPTOLOGìA [LA FINEZZA] BERTOLDESCA ...

Lezione N.: 
12

Prof. Giuseppe Nibbi      La sapienza poetica e filosofica dell’età alto-medioevale     22-23-24  gennaio  2014

Giulio Cesare Croce

 

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ ALTO-MEDIOEVALE

SI SVILUPPA LA LEPTOLOGìA [LA FINEZZA] BERTOLDESCA ...

   Questo è il dodicesimo itinerario del nostro viaggio sul “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età alto-medioevale” e stiamo ancora costeggiando un vasto scenario che prende il nome di “paesaggio intellettuale della salvaguardia delle Opere dei Classici greci e latini”: in questo ambiente virtuale, come sappiamo, abitano personaggi che hanno operato per salvaguardare – dai danni provocati dai drammatici rivolgimenti determinati dell’implosione dell’Impero romano d’Occidente – gli oggetti artistici e le opere letterarie prodotte in Età antica e tardo-antica, e la scorsa settimana abbiamo incontrato papa Gregorio Magno il quale, al tempo del dominio bizantino e longobardo in Italia [tra il VI e il VII secolo], ha operato in questo senso [per la salvaguardia della cultura classica] e questa sera papa Gregorio continua ad accompagnarci perché dobbiamo capire come è congegnato il “benedetto progetto” [quali sono le parole-chiave e le idee-cardine] che porta alla nascita della [cosiddetta] Chiesa delle Abbazie un movimento religioso, socio-economico, politico e culturale che caratterizza tutta la Storia del Medioevo e la Storia del Pensiero Umano.

   Sappiamo che Gregorio Anicio [figlio del senatore Gordiano e della nobile Silvia] – appartenente ad un’influente famiglia patrizia romana [la gens Anicia], viene nominato dal governo bizantino, nel 573 dopo l’invasione dei Longobardi, “prefectus urbis” cioè amministratore della città di Roma: una città allo sbando [come lo è tutta la penisola italiana, disastrata]. Sappiamo che Gregorio è una persona intellettualmente ben preparata, ha studiato alle Scuole dei più importanti maestri dell’epoca: figure che cercano di salvare il patrimonio della cultura classica dalla distruzione e di utilizzarlo per frenare il degrado [e noi queste figure le abbiamo incontrate in questi tre mesi di viaggio]. Papa Gregorio Magno si è meritato l’appellativo di “Grande” soprattutto perché ha saputo dare una valenza politica all’opera di salvaguardia dei Classici, contraddicendo l’operato degli imperatori bizantini che, come abbiamo studiato, danno una valenza politica alla persecuzione della Filosofia greca.

   Sappiamo che Gregorio Anicio, da ragazzo, si è formato alla Scuola di Cassiodoro [nel Vivarium di Squillace] e poi ha frequentato assiduamente il laboratorio culturale andaluso di Isidoro di Siviglia [a Hispalis]. Abbiamo studiato che la “mentalità logica” e le “modalità di ricerca” di Isidoro sono prettamente di stampo aristotelico [un aristotelismo interpretato in chiave neoplatonica secondo il pensiero di Proclo che abbiamo studiato qualche settimana fa] e Gregorio Anicio ha studiato l’Etica di Aristotele e ha maturato l’idea della salvaguardia dei Classici a Siviglia alla Scuola etimologica sivigliana, in territorio visigoto [perché nell’Impero bizantino Platone e Aristotele sono fuorilegge].

   Dobbiamo aprire una [piccola] parentesi di carattere filologico [dobbiamo far attenzione alla storia delle parole] a proposito del termine “Siviglia” che dà il nome alla bella città andalusa [il capoluogo dell’Andalusia]: nel VII secolo, al tempo della dominazione visigota, e dei vescovi Leandro e Isidoro [del quale stiamo parlando], questa città, vivacissima dal punto di vista culturale, si chiamava ancora Hispalis, con il nome che gli avevano dato i Fenici [che l’hanno fondata prima del VII secolo a.C. risalendo il grande fiume che la bagna, il Guadalquivir], un nome che, prima i Cartaginesi, e poi i Romani conservano quando la colonizzano nel I secolo a.C.. Nell’VIII secolo [dopo il 711] gli Arabi invadono la penisola iberica e sconfiggono i Visigoti, conquistano Hispalis e la chiamano Ishbīliya usando una parola araba nella quale si concentra la fatidica frase “Wa la ghalib illa Allah [Non c’è vincitore all’infuori di Dio]” e, nel 1248, quando la città viene conquistata [dopo due anni di assedio] e tolta agli Arabi dal “cristianissimo” re Ferdinando III di Castiglia, prende il nome di “Siviglia [Sevilla]” che è la versione latina dell’arabo Ishbīliya [Dio è sempre il vincitore per i vincitori]. Abbiamo per la prima volta citato gli Arabi e, prossimamente, di questo popolo ce ne dovremo occupare in funzione della didattica della lettura e della scrittura. Abbiamo fatto questa riflessione filologica sul nome della più grande città andalusa [la quarta città della Spagna] in onore di Isidoro di Siviglia che ha nutrito una vera passione per le etimologie [i significati delle parole] e, come sappiamo, ha scritto una grande opera che porta questo nome.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quale di queste parole – la radice, la sorgente, il ramo, la fonte – mettereste per prima accanto al termine “etimologia”...  Scrivetela...

Con la guida della Spagna e collegandovi alla rete fate, o rifate, una visita a Siviglia, che conserva testimonianze e bellissimi monumenti di cultura fenicia, punica, romana, visigota, araba e mudejar...  Buon viaggio...

   Nel 573, quando Gregorio viene nominato “prefectus urbis”, non pensa di fare una carriera ecclesiastica, è un laico che riflette in termini politico-filantropici e, la scorsa settimana, per capire la mentalità e il modo in cui Gregorio agisce abbiamo ripassato il testo dell’Etica Nicomachea che è da considerarsi l’opera fondamentale di Aristotele in relazione a questa disciplina [l’opera che, per prima, codifica questa disciplina] e adesso dobbiamo aggiungere qualche tassello al quadro della nostra conoscenza.

   Papa Gregorio è riuscito a caratterizzare l’Ethos [il comportamento morale e il modo di fare politica] di un’epoca e a scongiurare la fine della civiltà occidentale operando per l’applicazione di un progetto [un “benedetto progetto”, la “regola benedettina”] che diventa un programma politico virtuoso nato dalla fusione della cultura greco-romana [la cultura classica] con il messaggio evangelico [la Letteratura dei Vangeli]. Per capire meglio la riflessione che stiamo facendo dobbiamo leggere alcuni frammenti significativi dal testo del Libro primo dell’Etica Nicomachea di Aristotele per conoscere quali sono i presupposti culturali su cui Gregorio mette a punto il suo piano di lavoro e intraprende la sua azione politica: abbiamo già pronunciato diverse volte la parola “politica” insieme al termine “etica” perché Aristotele codifica il fatto che la disciplina etica e la scienza politica s’identificano e Gregorio aderisce pienamente a questa idea, che è l’idea programmatica principale del suo pontificato. Cominciamo col leggere un frammento che definisce il primo presupposto fondamentale dell’Etica che si identifica con la Politica: “Il bene è il fine di tutte le cose” [e questo è l’incipit dell’Etica Nicomachea di Aristotele].

LEGERE MULTUM….

Aristotele, Etica Nicomachea  [Libro I]

Il bene è ciò cui ogni cosa tende. I fini delle azioni umane sono ordinati in modo corrispondente all’ordine e al valore delle arti e delle scienze di cui sono oggetto e si identificano sempre con il bene, sia nel caso che l’azione sia un fine in sé, sia nel caso in cui l’azione abbia come fine una realtà oggettiva al di là di se stessa. Le arti e le scienze che subordinano a sé le altre e, indirizzandole a un fine superiore, le unificano, possiamo chiamarle architettoniche.

E ora leggiamo il frammento che definisce il secondo presupposto fondamentale: Il bene per la persona è l’oggetto della politica, la disciplina con la quale si governa la polis, la guida per comunità umana.

LEGERE MULTUM….

Aristotele, Etica Nicomachea  [Libro I]

È utile per la vita pratica conoscere che cosa sia il bene. Il bene è l’oggetto della scienza più importante, quella che è architettonica in massimo grado: la politica.

La politica infatti deve servirsi delle altre scienze, deve stabilirne i limiti di diffusione sociale e ordinarle al proprio fine, che, in tal modo, si configura come bene supremo, e, quindi, il sommo bene per la persona. Il bene della singola persona è importante ma più bello e divino è il bene della comunità, la quale è la pòlis e la ricerca del bene ha un carattere politico.

Il prossimo frammento che leggiamo definisce il terzo presupposto fondamentale: La scienza politica ha dei limiti metodologici di cui bisogna tenere conto.

LEGERE MULTUM….

Aristotele, Etica Nicomachea  [Libro I]

Proprio perché la politica s’identifica con l’etica ha un andamento più tortuoso, meno rigoroso ma più complesso, che non presenta delle costanti assolute come la matematica e neppure aleatorie e mutevoli come l’oratoria e, per ciò, questa scienza ha da essere diretta da persone mature, capaci di dirigere razionalmente il proprio comportamento, da persone che abbiano esperienza della vita vissuta e che sappiano dominare le proprie passioni, la brama di ricchezza, la sete di potere e la frenesia di anteporre se stesse alla comunità della pòlis.

L’ultimo frammento che leggiamo definisce il quarto presupposto fondamentale: “Il fine della politica è la felicità” [questo concetto emerge nella Costituzione degli Stati Uniti d’America e ci rendiamo conto da dove deriva].

LEGERE MULTUM….

Aristotele, Etica Nicomachea  [Libro I]

Il fine della politica, cioè il massimo bene raggiungibile dalla persona mediante la propria azione, è la felicità. Ma le opinioni sulla felicità sono molte e discordi: la massa intende il piacere o la ricchezza o l’onore; le singole persone cambiano opinione con la situazione e con il condizionamento. Ci sono molte teorie in proposito e alcuni [i Platonici] affermano che esiste un bene in sé, causa di tutti i beni particolari, ma è inutile esaminare tutte le opinioni: basta prendere in considerazione quelle più diffuse e più notevoli. Ora, ciò da cui dobbiamo prendere l’avvio è ciò che è a noi più noto, cioè ciò che ci risulta dall’esperienza. Chi ha una buona formazione morale, acquisita con lo studio, conosce già i princìpi, o arriva facilmente a comprenderli senza particolari spiegazioni e tutti gli altri abbiano il buon senso di imparare da chi ne sa più di loro e di avviarsi sulla via della formazione intellettuale per il riconoscimento e l’applicazione delle virtù etiche e dianoetiche.

   Non c’è bisogno di commentare questi frammenti: i quattro presupposti dell’Etica [i principi su cui si fonda il dovere verso la cittadinanza] – “il bene è il fine di tutte le cose”, “il bene per la persona è l’oggetto della politica”, “la scienza politica ha dei limiti metodologici di cui bisogna tenere conto”, “il fine della politica è la felicità” – sono perfettamente comprensibili [di grande attualità] e dovrebbero costituire la bussola morale di ogni persona: per Gregorio lo diventano.

   Sappiamo che nel 590, alla morte di Pelagio II, Gregorio viene, per acclamazione, eletto nuovo vescovo di Roma e, per la prima volta, questa figura viene chiamata “papa” [il vezzeggiativo di “padre”, corrispondente al termine greco “abba”: il Vescovo è l’unica autorità che, in modo paterno, cerca - utilizzando il proprio potere morale verso la prepotenza longobarda e l’inettitudine bizantina - di prendersi cura degli abitanti di Roma].

   Sappiamo che Gregorio devolve tutto il suo patrimonio personale in favore della collettività [in riferimento ai capitoli 4 e 5 degli Atti degli Apostoli] e utilizza il patrimonio intellettuale del passato [la sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele] per costruire il presente e guardare al futuro: con l’opera di Gregorio siamo agli albori di quel grande movimento culturale che prende il nome di Umanesimo.

   Sappiamo che Gregorio – al quale i discepoli di Benedetto da Norcia hanno narrato  la vita, la morte e i miracoli del fondatore della comunità di Montecassino – decide di comporre un’opera, Il Libro dei Dialoghi, nel quale racconta la vita [basata tutta su elementi leggendari] e redige la “regola” di San Benedetto universalizzandola attraverso la cultura greca: Gregorio scrive un’opera “cristiana” seguendo Platone nella forma [i Dialoghi] e Aristotele nel contenuto [l’Etica Nicomachea]. Quindi la spina dorsale della “Regola benedettina” scritta da Gregorio è l’ethos-greco, nella forma e nel contenuto dei Dialoghi di Platone e dell’Etica Nicomachea di Aristotele, ma inserito in un nuovo contesto: quello della Letteratura dei Vangeli.

   Tutte lo opere di Gregorio – le Epistole, le Omelie, i Dialoghi – sono orientate a spiegare e a diffondere la straordinaria “Regola pastorale” che ha caratterizzato la storia e la cultura del Medioevo. Il Libro dei Dialoghi di Gregorio Magno è un’opera che ha saputo mettere in movimento un’importante esperienza umana, sociale, politica e culturale che, integrando le parole-chiave e le idee-cardine del pensiero di Platone e di Aristotele [dei Classici] con la Letteratura dei Vangeli, ha lasciato una traccia indelebile nella Storia del Pensiero Umano e dei segni profondi [segni di grande fascino] su tutto il territorio europeo.

   La “Regola di San Benedetto” è un’enciclica [una lettera pastorale] che viene estesa da papa Gregorio a tutta la Chiesa e questa scelta ha determinato il destino della cristianità: si sviluppa la “Chiesa delle abbazie” che ha influenzato la Storia della cultura universale e del Pensiero Umano. Nel giro di pochi decenni, sul territorio europeo, si moltiplicano le abbazie benedettine, luoghi in cui si pratica un’economia di tipo solidale che, ancora oggi, costituiscono straordinari centri di attrazione: le abbazie hanno un fascino che attira l’attenzione.

   L’abbazia, secondo la “Regola di San Benedetto” – che è la regola di papa Gregorio – è il luogo della “humanitas” e questa parola [che noi conosciamo bene, soprattutto attraverso Cicerone, e che utilizziamo comunemente] è la traduzione latina del termine greco  “ethos”. Che cos’è la “humanitas benedettino-gregoriana”? La “humanitas benedettino-gregoriana” è l’equilibrio che si deve creare tra il lavoro, la preghiera e lo studio, quindi è il connubio delle virtù pratico-etiche e teoretico-dianoetiche [temperanza, fortezza, giustizia, sapienza]. La “Regola benedettino-gregoriana” si traduce in una sintesi che tutte e tutti noi conosciamo a memoria: «Ora [prega], labora [lavora] et cura [e studia]». Nell’abbazia il lavoro manuale, il lavoro intellettuale e l’attività di contemplazione si compenetrano tra loro e il programma di vita che la “Regola benedettino-gregoriana” prescrive ha dato dei risultati sorprendenti.

   Noi abbiamo già riflettuto più di una volta su questo programma ben prima che si parlasse della crisi generale del sistema che stiamo vivendo [la Scuola, questa Scuola, - e non certo con soddisfazione ma con preoccupazione - ha sempre ribadito dagli anni ‘80, sulla scorta della Storia del Pensiero Umano, l’insensatezza di molte scelte demagogiche e la fondatezza delle linee costitutive del modello benedettino-gregoriano considerato nell’ambito della laicità della politica]. Su questo modello è necessario, senza pregiudizi, puntare l’attenzione perché sempre più persone sentono il bisogno di cambiare “stili” di vita, e non si tratta di farsi tutte monache e monaci del VI e del VII secolo, sarebbe anacronistico [diciamo questo con tutto il rispetto per chi sente una vocazione religiosa].

   Ma, oggi, la persona responsabile deve riflettere sullo schema della giornata proposta dal “benedetto progetto di Gregorio” che prevede: quattro ore per pregare, per riflettere, per contemplare, per pensare teoremi a vantaggio dell’Intelletto della comunità, e poi quattro ore per lavorare [il lavoro manuale], per produrre a vantaggio del Bene materiale della comunità, e poi quattro ore per studiare, per leggere, per scrivere, a vantaggio del Pensiero della comunità, e poi quattro ore per prendersi cura del proprio corpo e del corpo degli altri e per divertirsi un po’ e per far divertire il prossimo a vantaggio dello Spirito della comunità e, infine, otto ore per gustare il sonno, per sognare, a vantaggio del riposo e della fantasia della comunità.

   Ebbene su questo modello – che ha un respiro utopico ma è anche molto concreto – è opportuno riflettere: è certamente un programma che presuppone uno stile di vita basato sulla “fraterna collaborazione”, nel rispetto delle attitudini di ciascuno. In questo programma è riassunta – e viene salvaguardata – la sapienza neoplatonica e aristotelica sintetizzata nelle quattro virtù per eccellenza che costituiscono le colonne su cui poggia il “benedetto progetto di Gregorio”: la “temperanza [la regolatezza]” per ben lavorare, la “fortezza [la volontà]” per ben meditare, la “giustizia [l’onestà]” per fare bene i patti e la “sapienza [la saggezza]” per studiare bene.

   Non dobbiamo meravigliarci se i doni [i sette doni] che la Chiesa di stampo “gregoriano” attribuisce allo Spirito Santo [il canto “Veni Creator Spiritus” è opera di Gregorio] sono le collaudate virtù dell’Etica neoplatonica e aristotelica: Sapienza, Intelletto, Consiglio, Fortezza, Scienza, Pietà, e il “Timor di Dio” che – secondo Platone, Aristotele, e anche Gregorio – è il richiamo interiore [la voce della coscienza] che ogni persona deve sentire per rendere esplicite queste virtù.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Qual è il dono dello Spirito Santo a cui aspirate per primo: conoscere molte cose, avere un’intelligenza pronta, saper dare buoni consigli, saper rispettare sempre le regole, saper penetrare nei segreti della natura, saper usare misericordia, saper ascoltare la voce [spesso scomoda] della coscienza?    Scrivetelo…

Utilizzando una guida del Lazio e collegandovi alla rete fate una visita all’Abbazia di Montecassino che è il monumento più insigne della tradizione benedettina: dall’VIII all’XI secolo, e per tutto il Medioevo, è stato un importantissimo centro di cultura e ai suoi monaci dobbiamo la conservazione di gran parte del patrimonio dei Classici antichi e tardo-antichi  

   Abbiamo studiato l’inizio della storia della “Chiesa delle Abbazie”: una storia lunga, che attraversa i secoli, e che arriva fino ai nostri giorni. La storia della “Chiesa delle Abbazie” è luminosa ma, come sempre accade, è anche piena di contraddizioni: attraversando il territorio del Medioevo avremo occasione di studiare l’evoluzione [nel bene e nel male] di questa storia.

   Ma ora, per terminare il nostro colloquio con Gregorio che, naturalmente, strada facendo, incontreremo ancora, leggiamo un frammento dal Libro dei Dialoghi.

LEGERE MULTUM….

Gregorio Magno, Libro dei Dialoghi

Se la persona è da considerarsi umana, umano ha da essere il modo della vita, e la misura della giornata intera da cose umane deve essere scandita.    Che la sesta parte del giorno [quattro ore prima dell’alba] sia per pregare, per meditare, per riflettere, per volgere al bene i più intimi pensieri: è da santificare la condizione umana, prima ancora che il sole illumini il creato, per ringraziare Dio che la sua misericordia ci ha donato e ci farà contemplare, viso a viso, tutta la sua gloria in Paradiso.    Che la terza parte della metà del giorno [quattro ore] sia per lavorare, per lavorare tutti in comune con le mani, per contribuire ognuno a preservare il convivere senza sfruttamenti e senza tanti e grandi sprechi vani.    Che la terza parte della metà del giorno [quattro ore] sia per studiare, che senza studio non ci si può curare dagli egoismi e dalla smània bruta di possedere tutto senza dare.    Che la terza parte della metà del giorno [quattro ore] sia per servire ai bisogni del corpo materiale, va curato nutrito sostentato: è l’unico bene da salvaguardare, e non esistono corpi fiorenti o derelitti, e quando l’intelletto è volto al bene nasce la gioia del divertimento, del gusto solidale dello stare insieme.    Che un terzo della giornata [otto ore], quando la tenebra fugacemente instaura il proprio regno, sia per dormire perché la fatica quotidiana deve lasciare il segno ché è la misura severa e divina volta a far capire che la vita va vissuta con impegno per dimostrare, con il giusto fervore, l’amore per il prossimo e la fiducia in Dio, nostro Signore.

   Questo frammento è il primo “manifesto” di quel grande movimento medioevale, che ha preso il nome di Umanesimo [«Se la persona è da considerarsi umana, umano ha da essere il modo della vita, e la misura della giornata intera da cose umane deve essere scandita»], e che si svilupperà nei secoli a venire dando frutti preziosi per la Storia del Pensiero Umano. Ora dobbiamo proseguire il nostro viaggio tornando a fare il punto sulla situazione geo-politica prendendo in considerazione il fatto che sullo scacchiere internazionale dell’Età alto-medioevale compare un protagonista un più.

   All’inizio del VII secolo la situazione geo-politica sul territorio dell’Ecumene, procedendo da ovest verso est, vede nella penisola iberica il dominio dei Visigoti, mentre nell’Europa del nord si sta espandendo il popolo dei Franchi, mentre in Italia sono i Longobardi che mirano a togliere territorio ai ducati bizantini sempre più indipendenti rispetto all’Impero romano d’Oriente che occupa la penisola balcanica, l’Africa settentrionale, il Medio Oriente fino al Mar Nero e sul confine di nord-est è impegnato in uno scontro permanente con l’Impero persiano dei Sassanidi, mentre le numerose tribù nomadi che stazionano nella penisola arabica sono sul punto di sperimentare un processo di unificazione che porterà alla nascita di uno Stato arabo. Questa è la sintesi della situazione geo-politica quando, all’inizio del VII secolo [nel 604], muore papa Gregorio Magno il quale, nei quindici anni del suo pontificato, ha fatto sì che emergesse sulla scena internazionale un nuovo soggetto politico che, da questo momento, avrà sempre un ruolo rilevante: il papato.

   Per proseguire il nostro viaggio dobbiamo ora puntare l’attenzione sugli avvenimenti più importanti che hanno come protagonisti: i Longobardi, l’Impero bizantino, i Franchi e il Papato. Fra i re longobardi successori di Agilulfo emerge la figura di Rotari che ha conquistato la Liguria ma soprattutto perché, nel 643, ha emanato un importante Editto che porta il suo nome [l’Editto di Rotari] che è la prima raccolta di Leggi longobarde: questo documento è molto interessante perché la giurisprudenza longobarda abbandona i costumi tribali germanici [quelli del re Alboino] per basarsi sul diritto romano temperato da un certo umanesimo di stampo gregoriano.

   Lo scontro tra i Longobardi e i Bizantini non è mai cessato: i Longobardi mirano a conquistare tutta l’Italia mentre l’Impero romano d’Oriente, lontano e intento a difendersi dalle invasioni degli Slavi e dei Persiani, perde sempre di più autorità sulla penisola italiana. L’autorità dell’Impero bizantino si fa sentire ancora sul territorio dell’Esarcato, intorno a Ravenna, e nella Pentapoli [in quello che oggi è il territorio settentrionale delle Marche] mentre a Roma ormai, dopo l’esperienza gregoriana, chi governava non è più il duca bizantino ma il papa che riunisce in sé il potere religioso e quello politico perché la Chiesa è diventata agli occhi del popolo l’unica difesa contro le intemperanze longobarde e l’incuria bizantina. Anche gli abitanti delle isole della laguna veneta cominciano, dal VII secolo, a eleggersi da sé un duca [poi lo chiameranno doge] e, quindi, la sovranità bizantina su tutta la costa veneta è solo nominale.

   Questo scollamento tra l’Impero d’Oriente e i ducati bizantini in Italia appare evidente quando scoppia, tra l’imperatore di Costantinopoli e il papa di Roma, il gravissimo conflitto [così detto] della “iconoclastia”: di che cosa si tratta? Siamo già nell’VIII secolo, nel 726 [ma ora dobbiamo proiettarci un po’ in avanti - poi torneremo indietro - per capire le cose nel loro complesso], quando l’imperatore Leone III l’Isaurico [l’Isauria è una regione dell’Asia Minore a nord del Tauro] emana un Editto con il quale proibisce il culto delle immagini sacre; infatti, si era diffuso il culto delle “icone” – la parola “icona [dal greco “eikon eikōn” che significa “immagine”]” definisce un’opera pittorica eseguita su un supporto mobile che raffigura, accentuandone il carattere trascendente, l’immagine della Vergine, di Gesù e dei Santi –. Questa espressione artistica molto singolare nasce nel VI secolo nell’ambito dell’arte sacra bizantina [poi avrà un seguito nell’arte sacra russa] e le “icone” prendono forma – circondate da un alone sacro che le fa diventare oggetti di culto – in apposite officine allestite nei monasteri. Il culto delle “icone” si diffonde rapidamente su tutto il territorio dell’impero bizantino anche, e soprattutto, come atto di autonomia religiosa dei monasteri nei confronti dell’imperatore che, dal tempo di Giustiniano, si è proclamato “capo della Chiesa cristiana d’Oriente” per cui si sviluppa un’aspra polemica su chi detenga il primato nella cristianità orientale.

   Gli archimandriti dei monasteri orientali – dopo una serie di Sinodi in cui emerge questa controversia – decidono che l’ultima parola sui punti dell’ortodossia, raffigurati nelle “icone”, spetta ai monaci mentre l’imperatore, invece, vuole affermare di essere lui il capo della Chiesa d’Oriente, l’icona vivente di riferimento e, quindi, con un atto gravissimo, comanda [con l’Editto del 726] di distruggere tutte le “icone” esistenti tacciandole per oggetti superstiziosi di carattere idolatrico, e impone l’iconoclastia [la distruzione delle immagini]. Il papa Gregorio II, che si muove sulle orme di Gregorio Magno [Gregorio II è il papa che ha fatto diventare grande il monastero di Montecassino], si oppone all’Editto iconoclasta e le popolazioni dell’Italia bizantina e il clero reagiscono violentemente: in tutte le città si scatena la ribellione e a Ravenna viene persino ucciso l’Esarca.

   Il re longobardo Liutprando [712-744] pensa di poter approfittare della situazione per impadronirsi delle province bizantine ed estendere il suo dominio su tutta la penisola italiana e invade l’Esarcato e il Ducato romano conquistando il castello di Sutri e puntando verso Roma ma Gregorio II, forte dell’autorità civile, politica e spirituale che il papato si è conquistata, si oppone all’avanzata di Liuptrando [«O Liutprando, vuoi disubbidire al papa che può condannarti alle fiamme dell’inferno?»] e lo induce non solo a ritirarsi ma a donare alla Chiesa la città di Sutri, vicino a Viterbo. Con questa donazione, nel 728, ha inizio la sovranità territoriale dei papi.

   Il programma di Liutprando di conquistare Roma e di occupare il ducato laziale viene ripreso, qualche anno dopo, con ben altra energia, da un re longobardo che va a mettersi nei guai: ma questa è un’altra storia che studieremo alla fine di questo itinerario.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con la guida del Lazio e collegandovi alla rete andate a fare un’escursione al caratteristico borgo di Sutri situato su uno sperone tufaceo [le costruzioni medioevali e rinascimentali in tufo rendono pittoresca questa cittadina] tra due profondi valloni lungo la via Cassia… 

Ci sono degli interessanti monumenti a Sutri da vistare: buon viaggio…

Avete in casa degli oggetti in cui sono raffigurate immagini di genere sacro?… 

Descriveteli, scrivete quattro righe in proposito...

   E adesso, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, prima di occuparci degli ultimi re longobardi, dobbiamo tornare al primo re longobardo che è entrato nella Storia, Alboino, il quale nella Storia c’è rimasto, più che per le sue imprese, per merito di una straordinaria figura letteraria che abbiamo già incontrato [l’ultima volta nell’anno 2006, a motivo di una celebrazione] ma su questo personaggio, sul testo che lo ha reso immortale e sul pensiero dell’autore che lo ha creato è necessario, periodicamente, tornare a riflettere perché i temi che emergono da questa significativa saga popolare non tramontano mai.

   Noi incontriamo i re, le regine, i papi, i grandi intellettuali ma sul territorio che stiamo attraversando ci sono soprattutto coloro che, quotidianamente, cercano di sbarcare il lunario per sopravvivere mentre vedono avvicendarsi una dominazione dopo l’altra: costoro sono i “lavoratori [uomini e donne] della terra”. Potremmo usare la parola “contadini” ma, nel VII secolo, questo termine non esiste ancora: verrà coniato nel IX secolo e cercheremo di capire come e perché prende forma questa parola [le parole, insegna Isidoro di Siviglia, hanno una loro storia].

   Nella letteratura italiana esiste il rappresentate di questa “infima [e lo diciamo come presa d’atto di una drammatica situazione non è né un rimprovero né un insulto] categoria” che è diventato il modello ideale, la metafora fondamentale, di un mondo legato alla terra, una terra che è diventata sempre più bassa, sempre più avara [e non per sua colpa, la Terra non è affatto matrigna], sempre più macchiata di sangue e intrisa di sudore: la figura che rappresenta questa situazione di chiama “Bertoldo”, un essere umano [anche se esteriormente assomiglia più alla bestia] destinato a sopravvivere perché – nonostante la guerra, la fame, la malattia, il degrado, l’ingiustizia – lo tiene in vita una sua “cultura” fatta di saggezza: un misto di sapienza orfica, di saggezza evangelica, di arguzia filosofica ma, soprattutto, di intelligenza, o finezza, poetica. Chi è Bertoldo e chi ha creato questo straordinario personaggio che, virtualmente, vive al tempo del re longobardo Alboino [o meglio è Alboino che vive al tempo di Bertoldo al quale fa da spalla...]? Anche Bertoldo [insieme al suo autore moderno] abita nel paesaggio intellettuale della salvaguardia dei Classici.

   E alla domanda: “chi è Bertoldo?” rispondiamo subito leggendo il “proemio” [l’incipit]dell’opera intitolata Sottilissime astuzie di Bertoldo [un’ opera che molte e molti di voi avranno nella loro biblioteca domestica] scritta a Bologna, nel 1606, da un certo Giulio Cesare Croce: così si chiama l’illustre sconosciuto creatore del personaggio di “Bertoldo”. Dall’incipit [dal proemio] di quest’opera si capisce l’affermazione che abbiamo fatto: lo scrittore Giulio Cesare Croce – nonostante provenga dagli albori dell’Età moderna – abita nel “paesaggio intellettuale della salvaguardia dei Classici” perché dissemina il testo della sua opera [è stato un grande lettore] con innumerevoli citazioni tratte dalle Opere e dalla Tradizione della cultura antica e tardo-antica greco-romana. L’opera intitolata Sottilissime astuzie di Bertoldo è anche un accuratissimo “glossario” di cultura greco-romana, ed è anche un catalogo di temi “classici” che l’autore utilizza in forma di metafora per descrivere il mondo e per interpretare i comportamenti umani.

   Leggiamo questo brano ricordando ancora che Giulio Cesare Croce introduce la figura di Bertoldo dicendo della sua opera “ciò che non è” parafrasando la “teologia negativa”, un tema [che conosciamo] che prende forma con la Scolastica medioevale, con il quale vuole alludere al fatto che Bertoldo è un campione  di “inconoscenza” in possesso di un arguto spirito intuitivo [la finezza]. Leggiamo questo brano.

LEGERE MULTUM….

Giulio Cesare Croce,  Le sottilissime astuzie di Bertoldo

Qui non ti narrerò, benigno lettore, il giudizio di Paris [Paride], non il ratto di Elena, non l’incendio di Troia, non il passaggio d’Enea in Italia, non i lunghi errori di Ulisse, non le magiche operazioni di Circe, non la distruzione di Cartagine, non l’esercito di Serse, non le prove di Alessandro, non la fortezza di Pirro, non i trionfi di Mario, non le laute mense di Lucullo, non i magni fatti di Scipione, non le vittorie di Cesare, non la fortuna di Ottaviano [Augusto], poiché di simili fatti le istorie ne danno, a chi legge, piena contezza; ma bene t’appresento innanzi un villano brutto e mostruoso sì, ma accorto e astuto e di sottilissimo ingegno, a tale che, paragonando la bruttezza del corpo con la bellezza dell’animo, si può dire ch’ei sia proprio un sacco di grossa tela, foderato di dentro di seta ed oro. Quivi udirai astuzie, motti, sentenze, arguzie, proverbi e stratagemme sottilissime e ingegnose, da far trasecolare non che stupire. Leggi dunque, che di ciò trarrai grato e dolce trattenimento, essendo l’opera piacevole e di molta dilettazione.

Nel tempo che il re Alboino, re dei Longobardi, si era insignorito quasi di tutta l’Italia, tenendo il seggio regale nella bella città di Verona, capitò nella sua corte un villano, chiamato per nome Bertoldo; il quale era uomo difforme e di bruttissimo aspetto; ma, dove mancava la formosità della persona, suppliva la vivacità dell’ingegno: onde era molto arguto e pronto nelle risposte, e oltre l’acutezza dell’ingegno anco era astuto, malizioso e tristo di natura. E la statura era tale, come qui si descrive.

Prima era costui picciolo di persona, il suo capo era grosso e tondo come un pallone, la fronte crespa e rugosa, gli occhi rossi come di fuoco, le ciglia lunghe ed aspre come setole di porco, l’orecchie asinine, la bocca grande e alquanto storta, con il labbro di sotto pendente a guisa di cavallo, la barba folta sotto il mento e cadente come quella del becco, il naso adunco e righignato all’insù, con le nari larghissime, i denti in fuori come il cinghiale, con tre overo quattro gosci sotto la gola, i quali, mentre esso parlava, parevano, tanti pignattoni, che bollissero; aveva le gambe caprine, a guisa di sàtiro, i piedi lunghi e larghi, e tutto il corpo peloso; le sue calze erano di grosso bigio e tutte rappezzate su le ginocchia; le scarpe alte ed ornate di grossi tacconi.  Insomma costui era tutto il roverso di Narciso.

Passò dunque Bertoldo per mezo a tutti quei signori e baroni, ch’erano innanzi al Re, senza cavarsi il cappello né fare atto alcuno di riverenza e andò di posta a sedere appresso il Re, il quale, come quello che era benigno di natura e che ancora si dilettava di facezie, s’immaginò che costui fosse qualche stravagante umore, essendo che la natura suole spesse volte infondere in simili corpi mostruosi certe doti particolari che a tutti non è così larga donatrice; onde, senza punto alterarsi, lo cominciò piacevolmente ad interrogare, dicendo: «Chi sei tu, quando nascesti e di che parte sei?»           «Io son uomo, nacqui quando mia madre mi fece e il mio paese è in questo mondo». …

   Il linguaggio secentesco di Giulio Cesare Croce è veramente divertente e non ci si stanca mai di rileggere il “Bertoldo” perché la creatività filologica di questo testo è straordinaria: la ricchezza di quest’opera non sta tanto nei “contenuti buffi” e nelle “trovate argute” ma piuttosto nell’“inventiva formale” e nell’“ingegno lessicale” che bisogna imparare a gustare. La figura di Bertoldo è la metafora di chi lavora la terra senza considerala “sua” e sulla quale vede passare, uno dopo l’altro, i nuovi governanti-invasori che ne rivendicano la proprietà: gli Eruli, i Goti, i Bizantini, i Longobardi, i Franchi. I dominatori passano, lui rimane: depositario della “cultura della Terra”.

   Chi è l’autore del personaggio di “Bertoldo” e anche di “Bertoldino”? All’autore del “Bertoldo” e del “Bertoldino”, Giulio Cesare Croce, dobbiamo rendere giustizia e, per far questo, dobbiamo conoscerlo.

   Giulio Cesare Croce è nato nel 1550 a San Giovanni in Persiceto che allora era un borgo: oggi è una cittadina a una ventina di chilometri a nord-ovest di Bologna. Suo padre si chiama Carlo e di professione fa il fabbro: essere un artigiano significa avere un piccolo reddito e, quindi, il fabbro Carlo Croce manda questo figlio a Scuola da diversi precettori per farne qualcosa di più di un artigiano. Ma nel 1557 Carlo muore lasciando la famiglia in miseria, e Giulio Cesare, a sette anni, si deve trasferire a Castelfranco, un paese sulla via Emilia a quindici chilometri da San Giovanni, dove lo accoglie uno zio paterno che fa il fabbro pure lui, e anche lo zio lo manda a Scuola da un maestro che, invece di insegnare a questo bambino, lo utilizza e lo sfrutta nel lavoro dei campi. Giulio Cesare da questa brutta esperienza si libera con la fuga e lo zio, allora, lo prende con sé a bottega e Giulio Cesare [che intanto ha appreso a leggere, a scrivere e a far di conto] impara a fare il fabbro secondo la tradizione familiare. Nel 1563 lo zio si sposta con tutta la famiglia a Medicina: una piccola città a venticinque chilometri a est di Bologna. Medicina è piccola ma è ricca perché si trova nelle terre dei Fantuzzi, un’antica e potente famiglia bolognese e a Medicina, i Fantuzzi, possiedono una casa padronale, la “Fantuzza”, dove venivano per la villeggiatura. Oggi questa villa non esiste più, al suo posto c’è un paese che si chiama Fantuzza.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Utilizzando la guida dell’Emilia Romagna e collegandovi alla rete potete identificare e circoscrivere l’itinerario che comprende San Giovanni in Persiceto, Castelfranco Emilia, Medicina, Fantuzza: sono i “luoghi” dell’autore di Bertoldo [e noi auspichiamo che possa diventare un “parco letterario” intitolato a Giulio Cesare Croce…]…  Percorrendo questo itinerario trovate – soprattutto a Medicina – interessanti monumenti da osservare e conoscere…  

Buon viaggio, mettete la mente in movimento…

   A Medicina il giovane fabbro Giulio Cesare Croce incontra quotidianamente “quelle genti rude” che lavorano la terra: fonte di “inesauribile disgusto” ma in possesso di una loro arguzia, sempre pronti a raccontare “maravigliose istorie”. Possiamo pensare che a Medicina entra, inconsciamente, in gestazione il personaggio di “Bertoldo” e quello di “Bertoldino”.

   Il giovane Giulio Cesare Croce, che sa leggere e scrivere [e lui ha sempre pensato che questa fosse la sua vera ricchezza], comincia a comporre versi e canzonette: “contadinerie e pastorellerie” che sono i generi in cui si esprime la “cultura contadinesca e pastorale” che lui ha subito acquisito, e quando i signori Fantuzzi alla fine dell’estate vengono in villa [per godere dei frutti delle loro proprietà] chiamano Giulio Cesare a cantare e recitare le sue composizioni, ed è così che ha inizio l’esperienza di “cantautore” del giovane Giulio Cesare Croce che a diciotto anni, nel 1568, si trasferisce a Bologna dove prende la residenza. Compie anche qualche viaggio per portare in giro la sua arte: a Modena, a Ferrara, a Mantova, a Venezia, a Savona [1592-1593]. A Bologna Giulio Cesare Croce, per guadagnarsi da vivere, fa il garzone nella bottega di un fabbro, ma continua a studiare e a dedicarsi all’arte poetica: frequenta compagnie di cantanti nottambuli e spesso conclude la nottata in galera per schiamazzi notturni.

   Un giorno, in  un negozio di salumiere [i salumieri compravano i libri usati e malandati per avvolgerci la merce], trova una copia di una traduzione italiana de Le metamorfosi di Ovidio e noi sappiamo che Le metamorfosi di Ovidio è sempre stata un’opera diffusissima e tradotta in continuazione [chissà quale delle due traduzioni più in voga in questo momento Giulio Cesare Croce avrà letto, se quella di Nicolò d’Agostini del 1584, oppure quella di Ludovico Dolce del 1553, entrambe stampate a Venezia]. Giulio Cesare Croce resta affascinato dalla lettura de Le metamorfosi di Ovidio e, di conseguenza, prende una decisione: comincia a girare per le strade e per le piazze di Bologna facendo il cantastorie, accompagnandosi con un violino, prende un nome d’arte, Giulio dalla Lira, e canta e recita “canzonette e poesie, dialoghi e filastrocche, barzellette e frottole, cantilene e ballate” e ne vende anche il testo, stampato in opuscoli e in fogli [le ventarole] volanti [era cominciata da un secolo l’era di Gutenberg e se ne vedevano i risultati]. Gli argomenti delle sue composizioni sono quelli che oggi troviamo sulle pagine dei quotidiani locali: scene di vita popolare, fatti stagionali, casi meteorologici, le carestie, le feste, le risse, la fame, la disoccupazione, il problema degli alloggi, la cronaca nera, le prigioni, i banditi, la tortura, le esecuzioni capitali, e una raccolta di questa produzione è stata stampata col titolo di Storie di vita popolare nelle canzoni di piazza di Giulio Cesare Croce.

   Ma comincia anche a scrivere cose più serie con una certa ambizione letteraria e spera sempre, e spererà fino all’ultimo, di trovare un mecenate, un editore, ma non lo troverà mai e resterà sempre ai margini della cultura ufficiale, vivendo in decorosa miseria ma tirando avanti la sua famiglia: una prima moglie e sette figli e poi, dopo essere rimasto vedovo, una seconda moglie e altri sette figli [“Per non far torto a nessuna delle due”, diceva lui], e si è dovuto dare molto da fare per camparli tutti con spirito “benedettino” [laicamente interpretato]: la mattina per qualche ora faceva il garzone nell’officina di un fabbro, il pomeriggio per qualche ora studiava, leggeva e scriveva nella biblioteca della Cattedrale, poi per qualche ora si dedicava ad istruire i suoi quattordici figli che la cucina di casa era come una Scuola, e la sera, per qualche ora, suonava e cantava in piazza le sue composizioni e vendeva i suoi opuscoli.

   Nel 1606, dopo aver scritto e fatto stampare circa quattrocento testi di canzoni e poesie, una commedia, una favola boschereccia, vari scritti di carattere religioso, Giulio Cesare Croce decide di cimentarsi nella narrativa e comincia a scrivere il rifacimento di un’opera del 1502 che si intitola Dialogo tra Salomone e Marcolfo: un dialogo tra il famoso Re biblico e un contadino qualunque ed è un testo che si presenta come un “contrasto tra la sapienza sacrale e la saggezza profana”. Giulio Cesare Croce ne tira fuori un’opera completamente nuova che s’intitola Sottilissime astuzie di Bertoldo che viene stampata nel 1608. Alle Sottilissime astuzie di Bertoldo segue, nell’anno successivo, Le piacevoli e ridicolose semplicità di Bertoldino.

   Nel 1609 Giulio Cesare Croce muore e le sue poesie e le sue canzonette vengono dimenticate, e anche lui viene dimenticato perché sono “Bertoldo e Bertoldino” che entrano con i loro nomi nella Storia della Letteratura mentre il nome del loro autore passa inosservato, e queste due opere avranno sempre una grande fortuna soprattutto presso un pubblico colto e sofisticato.

   Nel 1620 l’esperto musicista bolognese Adriano Banchieri scrive la Novella di Cacasenno figlio del semplice Bertoldino e, da questo momento, le tre opere vengono stampate insieme: Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno diventano figure inscindibili.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Procuratevi in biblioteca i testi – che di solito stanno in un solo volume – delle “Sottilissime astuzie di Bertoldo”, de “Le piacevoli e ridicolose semplicità di Bertoldino” e della “Novella di Cacasenno figlio del semplice Bertoldino” e leggetene qualche pagine per fare un esercizio di filologia: per riflettere sulla gustosa lingua italiana popolare del 1600…

Cercate anche, sull’enciclopedia o sulla rete, qualche notizia sullo scrittore e famoso musicista Adriano Banchieri: potete ascoltare qualche suo brano

Buona lettura e buon ascolto: mettete la vostra mente in ricerca…

   Nel 1721 un grande artista, un incisore, Giuseppe Maria Crespi, incide, a Bologna, venti rami all’acquaforte con altrettante storie della saga di Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno. La scrittura di Giulio Cesare Croce diventa “immagine” e queste incisioni hanno un enorme successo tanto che, nel 1730, a forza di essere torchiate per essere stampate, si sono consumate, e allora l’editore Lelio dalla Volpe [vecchia volpe bolognese] dà l’incarico a un altro bravo incisore, Ludovico Mattioli, di preparare venti soggetti da utilizzare per la stampa. Ne viene fuori un gran bel lavoro e lo spregiudicato editore Lelio dalla Volpe ha un’idea: commissiona a venti poeti venti canti in ottave [un genere allora di moda] che illustrino le venti incisioni del Mattioli.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Venticinque incisioni di Ludovico Mattioli tratte dai disegni di Giuseppe Maria Crespi si trovano a corredo dell’edizione della BUR delle “Sottilissime astuzie di Bertoldo” e, quindi, se in biblioteca richiedete questa edizione, le potete facilmente osservare…

   Nasce così un nuovo Libro di Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno che non ha più niente a che vedere con l’opera originale di Giulio Cesare Croce. E, quindi, quando, nel 1749, Carlo Goldoni scrive il dramma per musica intitolato Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, utilizza questo nuovo Libro perché non sa neppure dell’esistenza di Giulio Cesare Croce e della sua opera originale.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Sarebbe interessante poter vedere e ascoltare qualche scena del “Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno”  di Carlo Goldoni…  Chissà se sarà in scena in qualche teatro del mondo?…

Fate una ricerca in rete: mettere in movimento la vostra curiosità…

   Per questo, poco fa, abbiamo detto che conoscere Giulio Cesare Croce significa  rendere giustizia a lui e alla sua opera che, per fortuna, non è andata perduta e oggi la possiamo leggere o rileggere, e lo facciamo subito: ne leggiamo alcuni frammenti dove si capisce che molte affermazioni allegoriche del dialogo tra il re Alboino e Bertoldo sono entrate nel linguaggio comune come metafore per descrivere la difficoltà dei rapporti umani.

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Giulio Cesare Croce,  Sottilissime astuzie di Bertoldo

16. LA REGINA MANDA A DOMANDAR BERTOLDO AL RE, PERCHÉ LO VUOLE VEDERE

Mentre ragionavano così famigliarmente il Re [Alboino] e Bertoldo, giunse un messo da parte della Regina, il qual disse al Re come la Regina desiderava di vedere Bertoldo, pregando sua Maestà a mandarglielo; e perché ella aveva inteso che costui si pigliava spasso di burlar le donne, aveva fatto pensiero di farlo bastonare ben bene; onde il Re, udito la dimanda della Regina, volto a Bertoldo, gli disse:

RE    La Regina ha mandato a domandarti. Ecco il messo, il qual è venuto a posta, ch’ella brama di vederti.                               

BERTOLDO    Tanto per male, quanto per bene si portano le ambasciate.

RE    La conscienza sempre rimorde l’uomo tristo.

BERTOLDO    Il riso della corte non si confà con quello della villa [la campagna, ambiente del villano].                          

RE    L’innocente passa libero fra le bombarde.

BERTOLDO    La donna irata, la fiamma impicciata [accesa] e la padella forata son di gran danno in casa.

RE    Spesso interviene [succede] all’uomo tristo quello ch’ei teme.

BERTOLDO    Il gàmbaro spesse volte salta fuora della padella per salvarsi, e si trova nelle bragie.

RE    Chi semina iniquità raccoglie de’ mali.

BERTOLDO    Sotto la scuffia [cuffia] bianca spesso vi sta la tigna ascosa.

RE    Chi ha intricato la tela la destriga [districa]

BERTOLDO    Mal si può destricare, quando i capi [le estremità del filo] sono avviluppati.

RE    Chi semina le spine non vada senza scarpe.

BERTOLDO    Non si può combattere contra più forti di sé.

RE    Non temere che alcuno ti faccia oltraggio.

BERTOLDO    Al buon confortatore non duole il capo.

RE    Temi tu forsi che la Regina ti facci dispiacere [ti faccia del male]?

BERTOLDO    Donna iraconda, mar senza sponda. 

RE    La Regina è tutta piacevole e brama di vederti; però va’ via allegramente, e non dubitare.

BERTOLDO    In ultimo se ne dirà, e tal ride che piangerà.

 

17. BERTOLDO È CONDOTTO DALLA REGINA

Così Bertoldo fu condotto dalla Regina, la quale avendo inteso, come vi dissi, la burla fatta a quelle donne il giorno innanzi, aveva fatto preparare alquanti bastoni e commesso alle sue donne che, serratelo in una camera, gli sbattessero ben bene la polvere di sul mantello; e, subito ch’essa lo vide, mirando quel mostruoso aspeto, tutta sdegnata, disse:

REGINA    Mira che ceffo di babuino.

BERTOLDO    Il laveggio [il paiolo] grida dietro la padella.

REGINA    Come t’addimandi [chiami] tu?

BERTOLDO    Io non domando nulla.

REGINA    Come ti chiami?  

BERTOLDO    Chi mi chiama, io gli rispondo.

REGINA    Dico come tu t’appelli.

BERTOLDO    Io non mi sono mai pelato, ch’io mi ricorda.

 

Mentre che la Regina interrogava Bertoldo, una delle serve portò di nascosto un vaso pieno d’acqua per fargli batter dentro il sedere, ma il villano astuto, accortosi di ciò, stava molto bene avvertito [cauto], e subito pensò una nuova astuzia, seguitando pur [ancora] la Regina il suo parlare.

 

18. ASTUZIA DI BERTOLDO, PERCHÉ NON GLI FUSSE BAGNATO IL PÒDICE  [IL SEDERE]

REGINA    Come fai tu tante astuzie, che tu pari un indovino?

BERTOLDO    Ogni volta che mi vien adacquato il sedere, io indovino ogni cosa, e so se una donna fa l’amore e se ella ha mai fatto errore con alcuno, e s’ella è casta overo impudica; e in somma io indovino ogni cosa, e se vi fusse chi mi volesse bagnar di dietro io vi saprei dir ogni cosa adesso, adesso.

 

19. BERTOLDO SCAMPA LA FURIA [IL DISPETTO] DELL’ACQUA

Allora quella serva che aveva portato il secchio con l’acqua per bagnarlo, udendo tal parola, lo portò via pian piano, per sospetto di essere scoperta di qualche macchia; né ve ne fu alcuna che ardisse di fargli scherzo alcuno, perché tutte avevano, come si suol dire, qualche straccio in bucato [qualche magagna da nascondere]. Ma la Regina, che ardeva di sdegno contro di costui, impose che esse pigliassero un bastone per ciascheduna in mano e lo bastonassero ben bene; ond’esse se gli avventarono addosso con maggior impeto che non fecero le furiose Baccanti addosso al misero Orfeo.

Onde, vedendosi il povero Bertoldo in così gran pericolo, ricorse di nuovo all’usata astuzia.

   La scrittura di Giulio Cesare Croce nelle pagine delle Sottilissime astuzie di Bertoldo ha sempre una doppia valenza: una valenza materiale scherzosamente rappresentata da oggetti che hanno un risvolto comico – per esempio, abbiamo appena letto: «Ogni volta che mi vien adacquato il sedere [il pòdice], io indovino ogni cosa…» – e poi c’è una valenza simbolica [allegorica] perché lo scrittore [che è stato un grande lettore] infarcisce il testo della sua opera con numerose citazioni tratte dai Classici – per esempio, abbiamo appena letto: «ond’esse [le donne] se gli avventarono addosso con maggior impeto che non fecero le furiose Baccanti addosso al misero Orfeo» in cui rievoca l’episodio mitico [che tutte e tutti voi conoscete] dello smembramento di Orfeo da parte delle donne di Tracia.

   Bertoldo è una figura che ha imparato a difendersi facendo sua una competenza derivata dalla “sapienza poetica”: l’arguzia, e, in Età alto-medioevale, ai poveri braccianti che lavorano una terra non propria in cambio di un misero vitto e di un altrettanto misero alloggio non resta altro strumento di difesa. Queste persone, inconsapevolmente – e “Bertoldo” ne è l’allegoria – hanno salvaguardato un significativo concetto della cultura classica. Nel greco dei Classici il termine “arguzia”, con tutti i suoi sinonimi, corrisponde alla parola: “leptología” e, in greco, il termine “leptos leptós” significa “fine, sottile, penetrante” e, quindi, la “leptología” è l’arte della “finezza intellettuale [l’espressione “esprit de finesse” che usa Blaise Pascal per definire l’intuizione: la forma di conoscenza che penetra nel profondo della realtà, là dove la ragione non riesce ad arrivare]”, è l’arte che possiedono le poetesse e i poeti, quella di sentire con la ragione del cuore.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Il termine “arguzia” è sinonimo di acutezza, vivacità, prontezza, brio, perspicacia, sottigliezza, sagacia, finezza… 

Quale di queste parole metteresti per prima accanto alla parola “arguzia”?...

Scrivetela...

   Leggiamo ancora un frammento da le  Sottilissime astuzie di Bertoldo.

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Giulio Cesare Croce,  Sottilissime astuzie di Bertoldo

RE    Orsù, sia come si voglia, io voglio che tu t’inchini a me.

BERTOLDO    Io non posso far questo, abbi pazienza.

RE    Perché non puoi?

BERTOLDO    Perché io ho mangiato delle pertiche di salice e però non vorrei scavezzarle [spezzarle, romperle] nel piegarmi.

RE   Ah, villan tristo, io voglio al tuo dispetto che tu t’inchini, come tu torni alla presenza mia.

BERTOLDO    Ogni cosa può essere, ma duro gran fatica a crederlo.

RE    Domattina si vedrà l’effetto; va’ pur a casa per questa sera.

 

37. IL RE FA ABBASSAR L’USCIO DELLA SUA CAMERA ACCIÒ BERTOLDO CONVENGA INCHINARSI  NELL'ENTRAR DENTRO LA MATTINA

Partissi Bertoldo, e il Re fece abbassar l’uscio della sua camera tanto che chi voleva entrare in essa, bisognava per forza inchinarsi con il capo; e ciò fece acciò che Bertoldo alla tornata ch’ei faceva si dovesse inchinare nell’entrare e così venisse a fargli riverenza [l’inchino] al suo dispetto. E così stava aspettando il giorno per vedere il successo della cosa.

 

38. ASTUZIA DI BERTOLDO PER NON INCHINARSI AL RE

La mattina l’astuto Bertoldo tornò alla corte, come era suo solito, e veduto l’uscio abbassato in quella maniera pensò subito alla malizia e conobbe che il Re aveva fatto far questo solamente perché esso nell’entrare a lui se le inchinasse; onde in cambio di chinare il capo e abbassarlo nell’entrare dentro, voltò la schiena ed entrò all’indietro a tal che, in cambio di far riverenza al Re, gli voltò il pòdice e l’onorò con le natiche.

Allora il Re conobbe che costui era astuto sopra gli altri astuti ed ebbe caro simil piacevolezza; pur, mostrando d’essere alquanto alterato, gli disse:

RE    Chi t’ha insegnato, villan ribaldo, d’entrar nelle case a questa foggia?

BERTOLDO    Il gàmbaro.

RE    Perché il gàmbaro? Tu hai avuto un buon pedante [precettore], certo.

 

39. FAVOLA DEL GÀMBARO E DELLA GRANZELLA [LA GRANCÈOLA, IL GRANCHIO] NARRATA DA BERTOLDO

BERTOLDO  Tu dei sapere che il mio padre aveva fin a dieci figliuoli ed era povero come ancora son io, e perché spesse volte non vi era pane da cena, egli, in iscambio di cibarci e mandarci pasciuti a letto, ci soleva contare qualche favola a buon conto per farci addormentare, e così la solevamo passare fino alla mattina; onde fra l’altre ch’io gli udì raccontare, questa mi restò nella mente, e se tu hai pazienza di darmi un poco di audienza, udirai cosa che non ti spiacerà e torna a punto al proposito nostro.

RE    Di’ pur su, che ciò mi sarà di sommo piacere.

BERTOLDO  Diceva il mio padre che quando le bestie parlavano e che le civette cacavano mantelli, che il gàmbaro e la granzella [il granchio], amici carissimi, si disposero d’andare un poco per lo mondo a vedere come si viveva negli altri paesi (e il gàmbaro allora caminava all’innanzi come fa l’altro bestiame, e similmente la granzella non andava per traverso, come fanno al presente). Ora costoro partironsi dalle paterne case, andarono molto tempo girando il mondo e furono nel regno delle cavallette; poi passarono su quello delle lucerte [lucertole], che confina con quello del re de’ parpaglioni [farfalloni], e così circondarono gran parte della terra e videro vari riti [usanze] e vari costumi fra quelle bestiole; alla fine capitarono nel paese de’ schiràtoli [degli scoiattoli], ed era sera. E perché fra gli schiràtoli e le donnole era grandissima guerra per esser confinanti insieme e per una nuova sospizione [sospetto]  di tradimento si stava in arme dall’una e dall’altra parte, arrivati questi due compagni in simil luoco, furono dalle guardie scoperti e tolti per duoi [due] spioni; e subito presi e legati furono condotti innanzi al loro capitano, il quale, fattogli essaminare minutamente non trovò in essi altro se non che, desiderosi di veder del mondo, erano giunti in quelle parti e che come forastieri non erano informati di cosa alcuna, e che bramavano di esser posti in libertà e tornarsene alle patrie loro; o pure, se volevano trattenergli per soldati, gli dessero il soldo come agli altri, ch’essi gli averìano serviti in quella guerra fidelissimamente. Inteso ciò dal capitano, subito gli fece slegare, e parendogli essere bestie da fazione [adatte ad azioni militari], per avere tanti piedi e tante braccia, gli accettò e subito gli fece passar la panca [«lasciare la panca», aver superato il livello scolastico ed essere pronti per il servizio militare].

Il gàmbaro però, per non giunger più a simil passo, disse alla granzella: «Andiamoci con Dio, perché la guerra non fa per noi». «Ma come fuggiremo - disse la granzella - che non siano vedute le nostre pedate [impronte]?»  «Tu caminerai per traverso - disse il gàmbaro - e io all’indietro, e così ci terremo di sotto [ci sottrarremo a ogni ricerca]».

Piacque la proposta alla granzella, e subito si levò in punta di piedi e gentilmente cominciò a caminare di gallone [spostarsi di lato] e con tanta destrezza che il gàmbaro a pena poteva tenergli dietro; e così si partirono dal campo e mai non potèro coloro sapere dove fossero andati per lo stravagante caminare che facevano. Così giunsero alle case loro e, per i pericoli ne’ quali erano stati, lasciarono per testamento che tutti i descendenti loro dovessero per l’avenire caminare sempre come avevano fatto essi nel tornare alle case loro; e fin ora si vede che il gàmbaro camina all’indietro e la granzella per fianco. E per questo nel cacciarmi nella tua camera sono entrato, come il gàmbaro, alla roversa perché meglio è che il sedere sia percosso che il capo. Or che ne dici? Non è bella questa favola?

RE    Sì, certo, e sei stato un grand’uomo. Orsù vattene a casa e torna domani da me e fa’ ch’io ti vegga e non ti vegga, e portami l’orto, la stalla e il molino.

BERTOLDO  Indovinala tu, grillo [il grillo è bestia da indovinelli]. Orsù, io vado, e m’ingegnarò di fare quel ch’io saprò.

 

   Il re Alboino mette in continuazione alla prova Bertoldo con i suoi indovinelli e Bertoldo, esercitando la sapienza poetica, controbatte. Se volete sapere come risponde e controbatte Bertoldo continuate a leggere le Sottilissime astuzie di Bertoldoi  che Giulio Cesare Croce sa, con la sua scrittura, argutamente mettere in scena.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Dice Bertoldo:

    - Chi va al mulino bisogna che s’infarini.

    - Una cosa pensa il ghiottone, altra il taverniere.

    - Chi spinge la nave in mare sta sulla riva.

    - Meglio essere uccello di campagna che di gabbia.

    - Non può far animo di leone chi ha il cuore di pecora.

- Riso di signore, sereno d’inverno, cappello di matto, trotto di mula vecchia fanno

      una primiera di pochi punti.

    - Chi è scottato dalla minestra calda soffia sulla fredda.

    - Buone parole e tristi fatti ingannano i savi e i matti.

    - La volpe talora si finge inferma per intrapolare i polastri.

Quale di queste risposte di Bertoldo vi piace di più? ... 

Scrivetela...

   Alboino è il primo re dei Longobardi che entra nella Storia: qual è l’ultimo re longobardo che esce dalla Storia per entrare nella Tragedia? Come finisce il dominio longobardo in Italia e chi entra in scena per sovrapporsi ai Longobardi? Ora facciamo un passo avanti in proposito, poi torneremo indietro per mettere in equilibrio tutti gli altri avvenimenti che accadono su altri scenari.

   Sappiamo che Liuptrando aveva rinunciato a marciare su Roma, anzi, nel 728 aveva regalato a papa Gregorio II il Castello di Sutri: che diventa il primo territorio di proprietà della Chiesa, il primo tassello dello Stato pontificio. Il programma di Liutprando di conquistare il Ducato romano viene ripreso qualche anno dopo [ventitre anni dopo] dal re Astolfo con ben altra energia. Il re longobardo Astolfo nel 751, dopo aver occupato alcune città dell’Esarcato e della Pentapoli, punta verso Roma. Il papa Stefano II, che conosce da tempo le intenzioni bellicose di Astolfo, chiede aiuto al re dei Franchi: un popolo che ormai si è imposto nel cuore dell’Europa continentale [quando torneremo sui nostri passi studieremo l’ascesa di questo popolo, ora ne parliamo in relazione ai Longobardi]. Il re dei Franchi in questione si chiama Pipino il Breve e proprio in questo anno, il 751, ha assunto la corona. Dobbiamo dire che tra i Franchi e il papato era già nato un rapporto privilegiato nei decenni precedenti [e ne parleremo a suo tempo] e papa Stefano II accoglie di buon grado l’invito di Pipino a recarsi in Francia a fargli visita e a stipulare un vero e proprio accordo politico: Pipino s’impegna a difendere il papato contro i Longobardi e il papa s’impegna a incoronarlo solennemente re dei Franchi e a nominarlo“Patrizio romano” [papa Stefano II si considera un capo di Stato a tutti gli effetti, agisce come l’imperatore]. Pipino il Breve per due volte scende in Italia e sconfigge Astolfo, e lo costringe a sgomberare le terre occupate: queste terre però non vengono restituite ai Bizantini ma Pipino le dona al papa e nel 756 nasce il “patrimonio di San Pietro”, si costituisce ufficialmente lo Stato pontificio che comprende Ravenna con parte dell’Esarcato, Ancona con parte della Pentapoli e la città di Sutri [già di proprietà della Chiesa].

   Quando Astolfo muore sul trono dei Longobardi sale il duca Desiderio che decide di fare una politica conciliatrice con il papato e con i Franchi e, per migliorare ancora di più i rapporti tra Longobardi e Franchi, propone che le due sue figlie, Ermengarda e Gerberga, sposino Carlo e Carlomanno, i due figli di Pipino il Breve, che intanto era morto nel 768, e questi due giovani – che sono una coppia di fratelli affiatati – erano saliti sul trono dei Franchi. Questi matrimoni si celebrano, e gli sposi si piacciono, ma le cose non vanno a buon fine: Carlomanno muore e Gerberga, rimasta vedova, vede misconosciuti i diritti dei suoi figli, mentre Carlo, dopo appena un anno di matrimonio, non essendo nato un erede, ripudia Ermengarda. Le due donne tornano dal padre Desiderio, il quale, per vendicarle, scende sul piede di guerra e invade l’Esarcato. Il papa Adriano I chiede aiuto a Carlo – che intanto dal 771 è diventato l’unico re dei Franchi – il quale, attraverso la Val di Susa, nel 773, entra in Italia con un grande esercito e la maggior parte dei duchi longobardi passa subito dalla sua parte mentre Desiderio si barrica nella fortezza di Pavia ma, dopo un lungo assedio, deve arrendersi: viene internato in Francia dove morirà ed è l’ultimo re longobardo dei Longobardi [che cosa significa questa ripetizione? Fra poco la si capisce].

   Il figlio di Desiderio si chiama Adelchi [un nome che evoca la Storia della Letteratura] il quale, a Verona, tenta valorosamente – con i pochi che gli sono rimasti fedeli – di resistere alla forza soverchiante dei Franchi ma è costretto [anche per evitare un bagno di sangue] a fuggire alla corte di Costantinopoli presso gli ex nemici bizantini che, sornioni, lo accolgono. Mentre Carlo, il vittorioso [che qualcuno comincia a chiamare Carlo Magno], viene accolto a Roma dal papa e decide [nel 774] di aggiungere al suo titolo di re dei Franchi anche quello di re dei Longobardi e, quindi, il regno fondato in Italia da Alboino non cessa di esistere ma, dopo due secoli, perde la sua indipendenza e diventa un’appendice dello Stato franco con una sola eccezione: il duca longobardo di Benevento, che ha a disposizione un forte esercito, rimane indipendente.

   Da questa storia ha preso spunto Alessandro Manzoni [1785-1873] per scrivere una tragedia: un dramma storico d’impronta romantica in cinque atti intitolato Adelchi, pubblicato nel 1822. Tutti i personaggi principali che abbiamo citato – Desiderio, Ermengarda, Carlo – sono stati portati in scena da Manzoni: naturalmente lo scrittore, applicando il suo pessimismo etico d’impronta cristiana, si è permesso delle licenze per idealizzare poeticamente la storia. Il personaggio di Emengarda, ripudiata da re Carlo, è tra i più riusciti e rappresenta una delicata creatura travolta da una situazione nella quale non c’è pietà per i deboli e gli inermi: il “Coro della morte di Ermengarda” [nel quarto atto] è tra i brani più suggestivi del testo della tragedia, sono famosi i versi dell’incipit di questo canto: «Sparsa le trecce morbide sull’affannoso petto, lenta le palme, e rorida di morte il bianco aspetto, giace la pia, col tremolo sguardo cercando il ciel. Cessa il compianto: unanime s’innalza una preghiera: calata in su la gelida fronte, una man leggera sulla pupilla cerula stende l’estremo vel».

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Se volete continuare a leggere questo testo lo potete trovare facilmente in biblioteca con la sua dotazione di note, e anche sulla rete…  W. Goethe ha scritto che Manzoni ha un solo difetto: quello di non credere di essere un bravo poeta

Leggete, quindi, qualche verso della tragedia “Adelchi...

   Manzoni trasforma il personaggio di Adelchi in un guerriero trasfigurato dal Cristianesimo e in un proto-patriota: siamo agli albori del Risorgimento e lo fa morire eroicamente in battaglia mentre l’Adelchi reale fugge a Costantinopoli ma non è un codardo né un traditore ma esce di scena semplicemente perché non era materialmente possibile opporsi ai Franchi e sarebbe stata una follia resistere, meglio quindi evitare tanto una carneficina di giovani combattenti quanto la prigionia. Se mai i traditori sono stati i duchi longobardi che – pur di rimanere incolumi al loro posto – sono subito passati dalla parte del vincitore, ed è proprio su questo tema che riflette Achille Campanile il quale non si lascia scappare l’occasione in una delle sue Tragedie in due battute di utilizzare il personaggio di Adelchi che – per merito di Alessandro Manzoni – muore nella Tragedia pur vivendo nella Storia. Il titolo della “mini-tragedia” di Campanile con Adelchi protagonista – insieme ad un interlocutore bizantino – è molto articolato e interlocutorio [è quasi più lungo il titolo della tragedia] ed è in linea con la riflessione che abbiamo appena portato a termine.

LEGERE MULTUM….

Achille Campanile, Tragedie in due battute

LA NAVE È IN PERICOLO [CHE TRAGEDIA!] PERCHÈ IL MARE È AGITATO O

IL MARE È AGITATO [CHE STORIA!] PERCHÈ LA NAVE È IN PERICOLO?

Personaggi:

IL BIZANTINO [LA STORIA]

ADELCHI [LA TRAGEDIA]

 

La scena si svolge sulla tolda di una nave in riva al Bosforo; il mare è agitato, la nave beccheggia, sullo sfondo compare una veduta di Costantinopoli.

IL BIZANTINO

O Adelchi, è giunta notizia nottetempo che sei morto eroicamente

in battaglia combattendo: ti è sfuggita la vittoria e sei in fuga dalla Storia?

ADELCHI

Nella Tragedia, in battaglia, da eroe mi si è fatto morire

perché, attraverso il mio nome, si compisse un luminoso destino

ma io, in verità, nella Storia, ho preferito fuggire

e - nemico a me stesso? - da longobardo diventar bizantino.

Ho tradito la patria, la cara Ermengarda, e il Desiderio di tutti quanti?

Ma no, nel frattempo, i Longobardi si son fatti Franchi!

E potevo, come ti dico, esser re di un popolo passato al nemico?

E qui sta il dilemma: è più vera la Storia che a volte ci tedia

o è più veritiera la finta poesia di una bella Tragedia?

Nella Tragedia ci sono gli eroi, mentre la Storia, col senno di poi, 

senza apparire né strana né vana, è spesso dettata dai voltagabbana. 

(Sipario)

   Senza conoscere la storia, la leggenda e la tragedia – senza l’itinerario di questa sera – probabilmente non sarebbe stato facile cogliere il senso di questa “tragedia in due battute”.

   Perché dobbiamo fare un’escursione in Persia la prossima settimana? E come e perché l’Impero persiano crolla in un batti baleno: chi lo travolge? Siamo in vista di un nuovo vasto scenario: un complesso “paesaggio intellettuale” che, da principio, si estende nella parte orientale dell’Ecumene: da dove?

   Per rispondere a queste domande bisogna continuare a percorrere la via dell’Alfabetizzazione culturale e funzionale che è un bene comune [come la finezza di Bertoldo] perché lo studio è un’attività utile per promuovere l’Apprendimento permanente che è un diritto e un dovere di ogni persona: per questo la Scuola è qui, per spronarci ad investire in intelligenza…

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Gennaio 24, 2014