Prof. Giuseppe Nibbi La sapienza poetica e filosofica dell’età alto-medioevale 29-30-31 gennaio 2014
Corano
SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ ALTO-MEDIOEVALE
SI SVILUPPA IL PROCESSO DI UNIFICAZIONE
DELLE TRIBÙ DELLA PENISOLA ARABICA ...
È la settimana della “Giornata della memoria” e la memoria va esercitata quotidianamente con lo studio.
Con il tredicesimo itinerario del nostro viaggio di studio sul “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età alto-medioevale” siamo in vista di un nuovo vasto scenario: un complesso “paesaggio intellettuale” che, da principio, si estende nella parte orientale dell’Ecumene.
Nella parte orientale dell’Ecumene ci sono, nel VII secolo, due grandi Stati: l’Impero bizantino [l’Impero romano d’Oriente] che estende il suo dominio al Medio Oriente e all’Africa settentrionale, e l’Impero persiano governato dalla dinastia dei Sassanidi che si estende dalla Mesopotamia fino all’Indo. Dall’anno 630, in questa zona dell’Ecumene, nella penisola arabica, ha preso forma – attraverso un particolare processo di unificazione – un altro grande Stato: quello degli Arabi, il quale [fino al IX secolo] non è propriamente un “impero” ma è un organismo politico, militare e religioso in forma “teocratica” perché è fondato sul principio fondamentale che, al di sopra di ogni autorità, c’è un “solo Dio [Allah]” il quale ha già rivelato la sua Legge per mezzo di Mosè e di Gesù e, infine, l’ha suggerita in modo perfetto ad un ultimo e definitivo Profeta. L’entusiasmo suscitato dalla “recitazione [in arabo “qu’ran”] del messaggio divino” da parte di questo Profeta e l’autorevolezza che questo personaggio ha conquistato è alla base della nascita e dell’espansione dello Stato e della civiltà araba.
Gli Arabi, solo in una zona costiera della loro penisola, in prossimità del Mar Rosso, avevano edificato alcune città [La Mecca e Yatrib] e conducevano una vita sedentaria dedicandosi all’agricoltura e al commercio, mentre nell’interno della penisola vivevano in tribù autonome e nomadi, sempre in conflitto tra loro, soprattutto per il possesso dell’acqua delle oasi, svolgendo un’attività di allevamento del bestiame, ovini e soprattutto cammelli, su un territorio arido e inospitale; quindi, da tempo, veniva praticata una forma di emigrazione verso i due Imperi confinanti, quello bizantino e quello persiano, che dava la possibilità ai giovani uomini di svolgere l’attività di soldati mercenari: i due Imperi avevano bisogno di manodopera militare e, quindi, gli Arabi imparano a conoscere l’arte [con la a minuscola] della guerra e, quando diventano un popolo unito, utilizzano questa competenza [per giunta molti di loro, negli eserciti bizantino e persiano, avevano assunto ruoli di comando].
Dopo la morte del Profeta, nel 632, sul territorio arabico si è costituito uno Stato unitario con un potente esercito fortemente ideologizzato che, al galoppo – perché è un’armata di cavalieri –, si muove rapidamente alla conquista del territorio dell’Ecumene approfittando anche della debolezza degli Imperi che molti di questi combattenti hanno servito individualmente come mercenari. Al comando dei successori del Profeta, detti Califfi, i cavalieri arabi si muovono in due direzioni: a occidente verso l’Africa mediterranea [il Magreb] e a nord-est verso l’Asia Minore e l’Impero persiano.
Abbiamo detto, al termine dell’itinerario della scorsa settimana, che avremmo fatto un’escursione in Persia e allora, adesso, secondo la natura del nostro Percorso che procede in funzione della didattica della lettura e della scrittura, entriamo in questo territorio: sappiamo che, in Persia, circa un secolo prima, si sono rifugiati [a Nisibe] – a causa del decreto del 529 con cui Giustiniano ha fatto chiudere l’Accademia tardo-neoplatonica di Atene – un piccolo gruppo di intellettuali greci guidati da Damascio, l’ultimo scolarca della Scuola di Atene, i quali hanno portato con loro la biblioteca di Proclo [la Statua della dèa Atena, per usare una metafora] comprendente le Opere classiche più importanti da mettere in salvo: i Dialoghi di Platone, l’Organon e la Metafisica di Aristotele, le Enneadi di Plotino ed altri testi importanti. Questi filosofi, in Persia, si sono inseriti nell’ambiente e sono entrati a far parte di una Scuola artistico-filosofica a Gandisapora sussidiata dall’imperatore Cosroe I e, quindi, le Opere classiche vengono tradotte in lingua persiana e siriaca [una lingua simile all’arabo] anche se la corte dei Sassanidi – che ha accolto i filosofi greci più che altro per far dispetto all’imperatore bizantino – non si occupa, se non marginalmente, di Filosofia greca perché la trova troppo austera, troppo sobria e oltremodo concettosa: gli imperatori persiani della dinastia sassanide [noi conosciamo Cosroe I e fra poco incontreremo Cosroe II] si occupano della ricerca delle “cose piacevoli”, di quei beni, effimeri ma grandiosi, che possano rendere più lieve la pesantezza dei pensieri esistenziali che è utile rimuovere dalla propria mente pensando di poter assomigliare agli dèi.
Siamo in pieno inverno e questa stagione – allora più di oggi – procura dei disagi: meglio la primavera, e l’imperatore Cosroe II la primavera se la fa costruire. E la nostra escursione nell’Impero persiano consiste proprio nel visitare un libro che s’intitola proprio La primavera di Cosroe. Questo libro, pubblicato nel 1977, è un saggio, scritto sotto forma di romanzo, da Pietro Citati – uno scrittore, un saggista, un critico letterario che avrete senz’altro sentito nominare – che narra, come dice il sottotitolo, “Venti secoli di civiltà iranica” e noi ne leggeremo qualche pagina perché questa lettura corrisponde ad una visita alla corte persiana dei sassanidi prima che questo mondo venga spazzato via dai cavalieri arabi e la civiltà iranica prosegua il suo cammino su altre strade, sulla scia di altre contaminazioni culturali.
Che cos’è la “primavera di Cosroe” che dà il titolo a questo significativo saggio di Pietro Citati? “La primavera di Cosroe” era un grandissimo e meraviglioso tappeto, ricamato di smeraldi, che il re persiano Cosroe II faceva distendere nella sala della sua reggia, per ricordare le gioie della primavera quando le nevi e le noie dell’inverno lo stringevano da ogni parte. Anche il libro di Pietro Citati è come se fosse un tappeto, tessuto di parole invece che di pietre preziose e narra – attraverso racconti esemplari – circa venti secoli di cultura persiana. Questo libro è un romanzo, è un saggio letterario, è un libro di storia, è una raccolta di immagini figurative ed è un viaggio in una foresta ricca di simboli. Naturalmente questo libro racconta anche la “passione per il potere” e la “frenesia per la composizione delle gerarchie terrene” in modo che possano assomigliare a quelle divine, e questo testo fa ragionare sul fatto che, probabilmente, sono state le gerarchie terrene a dare lo spunto per la descrizione delle gerarchie divine. La passione per il potere è un sentimento che divora l’anima e crea nel potente un ignoto desiderio: il desiderio di superare ciò che è umano, il desiderio di abitare in un “mare di luce” dove la fantasia possa perdersi, ma, per ironia della sorte, nonostante un enorme dispiegamento di mezzi, questo desiderio non si avvera per l’individuo potente che rimane sempre inappagato, ma lo realizza, con Arte, la persona saggia che ha pochi mezzi materiali ma sufficienti competenze intellettuali. Questa volontà che hanno avuto gli imperatori persiani di “farsi creature divine” ha influito sulla decadenza del loro Stato, rendendolo fragile.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Perché, ora che siamo nel cuore dell’inverno, non disegnate una “primavera”?...
Rappresentatela attraverso un simbolo, oppure scrivete una parola, una frase, che possa richiamare questa stagione… Disegnare, scrivere una frase, leggere una pagina sono “investimenti in intelligenza” che - attuati quotidianamente - arricchiscono la mente...
Utilizzando la biblioteca sfogliate “La primavera di Cosroe” di Pietro Citati e leggetene qualche pagina: entrate nel mondo persiano…
E ora cominciamo insieme a fare questo esercizio: leggiamo alcune pagine da La primavera di Cosroe.
LEGERE MULTUM….
Pietro Citati, La primavera di Cosroe
Tra queste figure di sovrani, che la tradizione ha raccolto in una figura unica, solo l’ultimo grande imperatore di Persia sembra possedere un volto individuale. Cosroe II Aparvez indossava un abito ricamato color rosa, dei pantaloni color cielo e un diadema rosso; e i tardi poeti persiani raccontano che era bello, elegante, agile, ardente - «una gazzella quando ama, un fiore che il vento d’autunno non ha ancora colpito, una fresca primavera sul ramo della giovinezza». Forse era una di quelle nature geniali e disordinate, che si lasciano trascinare dai sogni troppo grandi, ai quali il loro carattere non sa essere uguale: forse era uno di quegli uomini leggeri e brillanti, che portano nascosto dentro di sé il seme della distruzione. L’«ebbrezza del potere» lo sopraffece; e risvegliò nel suo animo le passioni che un sovrano deve vincere e contenere. Era coraggioso e vile, avido e prodigo, pieno d’orgoglio e d’invidia, grandioso e meschino: incostante, temerario, insolente, feroce e irreparabilmente frivolo. Così fu condannato a conoscere gli estremi della sorte. L’Iran non estese mai tanto lontano i propri confini, come sotto il suo impero: l’idea di regalità non raggiunse mai una tale ampiezza cosmica; la corte persiana non brillò mai con un simile fasto teatrale. Poi l’impero, il trono, la sua stessa vita gli crollarono addosso, quasi fosse stato l’infimo dei sovrani.
Come tutti i temperamenti teatrali, fu un grande costruttore. La reggia di Ctesifonte, troppo legata al ricordo del primo Cosroe, non gli bastava; e ne costruì delle altre a Ganzak, a Dastgard, a Kasr-i Shi-rin, delle quali restano soltanto poche rovine. Doveva amare quelle regge gigantesche, quei laghi artificiali, quei parchi pieni di selvaggina, come una parte di lui stesso. Nelle sale d’udienza, il suo occhio si soffermava sui delicatissimi stucchi e sui tappeti colorati, che ornavano i muri. Ora guardava una pantera, un ariete che simboleggiava la sua Gloria, dei fagiani e degli aironi ornati con un collare e dei nastri, due grifoni accanto ad un albero sacro, o i fantastici uccelli Simurgh, che ornavano anche i suoi vestiti. Se il suo umore era più capriccioso, preferiva un cerchio di perle, due ali spiegate, una ghirlanda di palme: uno di quei motivi astratti, che lasciavano la fantasia libera di errare verso Bisanzio o i lontani paesi della Cina. Poi giungeva l’inverno. Una neve altissima nascondeva gli altopiani del Nord, la caccia nei parchi era impossibile, e il mondo gli sembrava chiuso ed ostile. Allora faceva distendere al suolo un tappeto chiamato «La primavera di Cosroe». L’orlo era ricamato di smeraldi, il centro rappresentava dei viali, dei corsi d’acqua, un giardino, un frutteto e un campo di grano. Contemplando i disegni, Cosroe cancellava la neve e il freddo, e le gioie della primavera gli sembravano già prossime e confidenziali.
Dietro la sala d’udienza, si stendeva la sala del trono, a forma di cupola, per ricordare ai sudditi dell’impero che stavano entrando nella sfera del cielo.
Sulla cupola, il pittore di corte aveva raffigurato Cosroe in trono, circondato dal sole, dalla luna, dalle stelle, e da un gruppo di dignitari che gli rendevano omaggio. Là in alto, in quell’immagine che i Bizantini giudicarono un «idolo spaventoso», Cosroe trovava finalmente rispecchiato se stesso. E non era soltanto «un uomo immortale tra gli dèi e un dio molto illustre tra gli uomini»: «colui che si leva col sole e dà alla notte i suoi occhi», come dichiarava nelle lettere inviate all’imperatore di Bisanzio. Non era soltanto l’immagine terrestre della luna e del sole. Era il «vero» sole, trascinato in cielo dai cavalli alati del trono, al quale gli astri rendevano omaggio.
Il trono era lungo ottanta metri. Durante la primavera e l’estate, stava in faccia ai giardini, in modo che i fiori e i frutti, che le gemme del tappeto aveva fino allora racchiuso in se stesse, penetrassero nella sala con la loro grande scia di profumi. Nel tempo della nebbia, della neve e del vento, era ricoperto di pellicce di castoro e di zibellino, e i valletti scaldavano al fuoco dei vasi d’oro e d’argento. Nel mezzo, un orefìce-astronomo aveva innalzato un baldacchino a cupola, con i segni dello zodiaco, le stelle fisse e stelle erranti, la luna e i pianeti, effigiati con gemme d’ogni specie e d’ogni colore, «che rendevano luminosa la notte dal viso cupo». Mentre Cosroe sedeva immobile in trono, il baldacchino rotava sopra lui: il cielo camminava sopra la terra, le stelle e i pianeti si inseguivano negli spazi, e la luna brillava nelle diverse costellazioni. Chi guardava lassù, poteva scorgere quanta parte della notte era passata, come spiasse nell’orologio del cosmo. Lì accanto, stavano tre seggi vuoti, che Cosroe aveva riservato per l’imperatore di Bisanzio, quello di Cina e il re degli Unni Bianchi, se il desiderio e il pericolo li spingeva alla corte dell’«Iran e del non-Iran». Durante la festa dell'anno nuovo, il trono diventava un teatro, che raccoglieva tra i suoi argenti e i suoi avori tutte le membra dell’impero persiano. Presso il sovrano, sedevano il primo ministro, i sacerdoti, i principi, i generali, gli scribi e i musicisti: in basso, i mercanti: più in basso ancora, chi guadagnava la vita col lavoro delle mani, e sugli ultimi gradini, gli storpi, i monchi, i mendicanti, i malati, gli sventurati, coloro che soffrivano nel corpo e nell’anima le miserie dell’esistenza.
Immobili come figure di cera od automi dorati, gli ospiti dell’anno nuovo guardavano verso l’alto, dove la cupola del baldacchino rotava con i suoi astri e le sue costellazioni sopra il capo di Cosroe.
Negli altri giorni dell’anno, un velo nascondeva il trono agli occhi dei cortigiani e degli invitati, come un velo aveva celato il pranzo di Dario e di Serse. Se Cosroe aveva un’udienza, la folla dei cortigiani si accalcava davanti alla cortina impenetrabile: il capo della corte, il maestro delle cerimonie, il guardiano del velo, i coppieri, i gustatori, il primo capo della cucina, gli intendenti, i ciambellani, il capo dei falconieri, il capo della caccia, il grande scudiere, il capo dei guardiani della porta, il capo delle guardie, gli astrologi e i medici; e portavano intessuto nel vestito il ritratto del re o un simbolo regale. Talvolta, l’attesa si prolungava. Cosroe indugiava nei suoi appartamenti o nei suoi giardini: forse un sogno inquietante aveva turbato il suo spirito, un piccolo avvenimento gli era parso un cenno inviatogli dagli dèi, una nuova concubina, giuntagli dall’Arabia o dalla Cina, lo tratteneva nelle sue stanze. Oppure lui, che desiderava tanto «apparire», si era stancato di mostrarsi, e avrebbe voluto conoscere quello che ignorava - cosa è una sfera celeste, cosa ci attende fuori dalle porte di questa terra, se dopo la morte l’anima ricorderà qualcosa della sua vita magnifica e tumultuosa o se, invece, tutte le parole pronunciate, tutte le azioni compiute, tutti i gesti sognati scompariranno dalla nostra memoria.
Quando il guardiano alzava il velo, Cosroe appariva davanti ai cortigiani, simile a uno di quegli animali meravigliosi e chimerici, che da decine di secoli gli artigiani iranici modellavano nell’argento e nell’oro. Una corona d’oro incrostata di smeraldi, di rubini e di perle stava sospesa sopra il suo capo; e una catena quasi invisibile la teneva attaccata al soffitto. La luce della sala mutava di colpo. La luce tenue e ombrosa che filtrava dalle piccole aperture della cupola, veniva assalita dallo scintillio rosso, verde, azzurro delle migliaia di gemme disposte sul baldacchino e sulla corona: le perle lasciavano cadere i loro raggi ondulanti sui capelli arricciati del re e lo splendore accecante dei carbonchi gettava gli ultimi riflessi sull’abito rosa ricamato e i pantaloni celesti. Cosroe era apparso davanti a tutti: eppure sembrava misterioso irraggiungibile come prima. I figli e i parenti restavano a dieci metri da lui: gli intimi, i commensali e gli attori ad altri cinque. Chiunque si presentasse nella sala, portava davanti alla bocca un fazzoletto bianchissimo, come quello che impediva al sacerdote di rendere impuro col respiro il fuoco sacro. In quell’atmosfera, vi era qualcosa di insostenibile. Quando un capo yemenita entrò nella sala, «quello splendore, quella corona, quel trono e quella maestà» lo sconvolsero. Per qualche minuto rimase pietrificato in uno stupore insaziabile; poi i sensi l’abbandonarono, svenne e cadde a terra davanti a colui che «si levava col sole e dava alla notte i suoi occhi». …
I cavalieri arabi, però, non sono rimasti pietrificati di fronte al trono della corte sassanide – nessun essere umano, neppure il Profeta, può pensare di essere Dio –, così come non hanno perso le forze quando, dopo aver attraversato il Nilo, hanno puntato verso l’Occidente e sono dilagati nell’Africa mediterranea conquistandola a scapito dell’Impero bizantino, il cui esercito, ridotto ai minimi termini, non ha opposto neppure resistenza, e così nel 711 gli Arabi – che erano anche abili navigatori – hanno varcato le mitiche Colonne d’Ercole.
Nel 711 i cavalieri arabi varcano le Colonne d’Ercole, lo stretto che separa l’Africa dalla Spagna, e che, dal nome del loro condottiero, ha preso il nome di Gibilterra [Gebel el Tarik, Monte di Tarik]. Il regno visigoto di Spagna non riesce ad opporre resistenza e crolla, e i Visigoti superstiti si rifugiano a nord della penisola iberica nella zona montuosa delle Asturie. Neppure l’impervia catena dei Pirenei ferma l’avanzata degli Arabi che, entrati in Francia, conquistano Narbona e Bordeaux, ma poi trovano un ostacolo invalicabile: il regno dei Franchi.
Anche quello dei Franchi è uno Stato giovane, vigoroso e in espansione: il popolo germanico dei Franchi si era stabilito in Gallia intorno al 450 guidato dal re Meroveo, fondatore della dinastia dei Merovingi. Suo figlio Clodoveo [481-511] allarga i possedimenti del regno franco e poi – soprattutto dopo il pontificato di Leone I [che, qualche decennio prima, aveva fermato Attila] – capisce l’importanza che sta assumendo la Chiesa romana e decide di convertirsi al cattolicesimo e di mettersi a disposizione del papa Anastasio II che apprezza il gesto e lo benedice: nasce, quindi, un rapporto privilegiato tra i Franchi e la Chiesa di Roma. I successori di Clodoveo sono però degli inetti tanto che si sono meritati il titolo di “re fannulloni” e, di conseguenza, il potere effettivo dello Stato passa nella mani dei Maestri di palazzo [i Maggiordomi] che sono gli amministratori della casa reale finché uno di questi, di nome Carlo, viene acclamato re dal popolo e dai nobili, e l’ultimo dei Merovingi, Childerico, viene deposto.
Ed è proprio questo Carlo, questo nuovo re, che, nel 732, a Poitiers, assesta agli Arabi un colpo decisivo ricacciandoli al di là dei Pirenei e, dopo aver occupato un territorio che sta tra i Pirenei e l’Ebro, costruisce un baluardo difensivo che chiama Marca Hispanica. Da questo momento Carlo viene soprannominato “Martello” perché ha saputo assestare un colpo prima ai fannulloni Merovingi e poi, soprattutto, agli Arabi: Carlo Martello è il padre di Pipino il Breve, è il nonno di Carlomanno e Carlo Magno [personaggi che abbiamo già incontrato e con Carlo Magno avremo ancora a che fare], ed è l’iniziatore della dinastia dei Carolingi.
Comunque, nel giro di un secolo dopo la morte del Profeta, gli Arabi hanno costituito un enorme impero che dall’India si estende fino alle coste dell’Atlantico, e dai Pirenei e dal Mar Nero giunge fino al deserto del Sahara.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Non è difficile trovare su un Atlante storico, reperibile in biblioteca, e sulla rete una carta dell’espansione araba dal VII al IX secolo: cercatela e andate ad osservarla perché questa azione favorisce l’esercizio cognitivo dell’analisi…
E ora – prima che l’Impero persiano venga definitivamente abbattuto – torniamo a leggere alcune pagine da La primavera di Cosroe.
LEGERE MULTUM….
Pietro Citati, La primavera di Cosroe
Cosroe non poteva vivere sempre sotto la luce gelida delle pietre preziose, simile a una fantastica statua incoronata. Un istinto furioso di vita lo spingeva a godere ogni piacere possibile: pranzi, cacce, musiche, profumi, e le migliaia di donne chiuse nel suo harem in attesa di una visita fuggitiva, come le migliaia di gazzelle e di fagiani che aspettavano di essere uccisi nel recinto dei parchi. Un’avidità egualmente sfrenata lo spingeva a possedere i tesori della terra e a racchiuderli nelle regge. Quanti tributi aveva ricevuto nella sua vita: quante offerte erano state deposte ai suoi piedi nelle feste dell’anno nuovo. Egli li raccoglieva e poi li spargeva intorno a sé con una folle sovrabbondanza, quasi volesse imitare la generosità di Dio, che ci regala tutte le cose distese sul tappeto variopinto della terra eppure ne resta l’assoluto padrone.
Il re e gli invitati si riunivano a banchetto. Sopra i piatti d’argento intarsiato, i servitori portavano gli arrosti. La pernice di montagna, con patate e limoni dolci serrati gli uni contro gli altri: un vitellino profumatissimo di basilico, che era stato nutrito col latte di una pecora; o un’oca sulla quale scintillava una perla in polvere - la perla che tonifica gli umori del corpo. I coppieri portavano il vino rosso, e i convitati bevevano per ore intere, talvolta per tutta la notte «fino a quando l’alba gialla come un tesoriere cinese metteva un catenaccio d’oro sullo scrigno di smeraldi del cielo». Intanto i musicisti toccavano le corde del mandolino rivelando i segreti e le tristezze degli amanti. Il violino sospirava, come Mosè in preghiera: i suoni dell’arpa e del liuto si accordavano come il profumo si accorda con il colore: le vecchie canzoni mettevano un fuoco ardente nel cuore delle rocce; e l’oboe e il trombone facevano sentire sullo sfondo i loro suoni più vasti e più ricchi. Tra i musicisti, i quali allontanavano i terrori che talvolta gli comprimevano e gualcivano il cuore come un pezzo di carta, Cosroe preferiva ad ogni altro Barbadh. L’aveva conosciuto nel modo più singolare. Per la festa dell’anno nuovo, Barbadh si era vestito di abiti verdi, ed era salito sopra un cipresso della reggia, mentre ai suoi piedi Cosroe beveva e discorreva coi dignitari. Quando il sole incominciò a impallidire e a languire, Barbadh cominciò a suonare e a cantare sul liuto. La voce discesa dall’alto era sì perfettamente intonata, e i suoni così freschi e brillanti, che tutti rimasero affascinati. Il re diede ordine ai dignitari di cercare dovunque il cantore misterioso: ma essi cercarono invano. Quando il coppiere porse a Cosroe una nuova coppa di vino la voce nascosta tornò a versare su di lui una lieta onda di suoni, e il re lo ascoltava bevendo a piccoli sorsi, mentre i pensieri vaghi ed oscuri abbandonavano a sciami la sua mente, come una frotta di anatre appena nate. I dignitari frugarono ancora il giardino, illuminando con le fiaccole la tenebra degli alberi e delle macchie; e scorsero soltanto dei pavoni e dei fagiani fuggire spaventati sotto i roseti. La notte diventò più fonda. Il re chiese un’altra coppa di vino e levò la testa nell’attesa della voce sconosciuta. Come un usignolo inebriato, Barbadh accarezzò le corde del liuto, cantò Il verde nel verde, e i suoni lamentosi delle corde e la tenera modulazione della voce commossero così profondamente Cosroe, che di colpo si levò in piedi dicendo: «Certo questo musicista deve essere un angelo, composto d’ambra e di muschio…». Allora con un salto Barbadh discese dall’albero, e piegò il viso davanti al sovrano.
Se era giorno di caccia, tutti si svegliavano all’alba. Quanto erano lontani i tempi in cui Bahram Gur cacciava da solo le belve - leone tra i leoni, onagro tra gli onagri! Ora le cacce si svolgevano nei grandi parchi, presso le regge di Ctesifonte e Dastgard, dove il re teneva rinchiusi migliaia di leoni, di struzzi, di cervi, di cinghiali e di onagri. Il corteo sembrava uno di quei coloratissimi cortei di magi, che i pittori del nostro Quattrocento facevano snodare attraverso montagne, foreste e colline fittizie. Innanzi a tutti, camminavano i cacciatori a piedi, armati di giavellotto, di lancia e di spada: i falconieri con gli sparvieri e i falconi reali; e i cavalieri tenendo alla catena i ghepardi e i cani dal collare d’oro, che riuscivano a vincere le gazzelle nella corsa. Poi sopraggiungeva il corteo reale. Gli schiavi accendevano i bruciaprofumi, ardendo l’aloè, l’ambra grigia ed il muschio: cento servitori bagnavano d’acqua le strade, in modo che la polvere non potesse nemmeno sfiorare la figura del re; e altri giovani gettavano davanti ai suoi piedi narcisi e rose. Infine arrivava Cosroe, con i suoi abiti rosa e celesti, in mezzo ad un gruppo di giovani principi, vestiti di giallo, rosso e violetto: Cosroe, che solo poteva dare un senso a questi spettacoli trionfali ed assurdi. Una donna dell’harem teneva un parasole aperto sopra il suo capo, e decine di suonatori intonavano arie di caccia sull’arpa e sul tamburino.
La sera, un cortigiano portava al re la scacchiera di cento caselle. Cosroe disponeva le figure d’avorio: i due re, maestosi e coronati, con a fianco i precettori; gli elefanti, i dromedari, i cavalli, i cavalieri, i fanti e due torri. Malgrado il suo desiderio di dominare il mondo, egli preferiva contemplare le vicende della guerra sull’ebano immacolato della scacchiera. La mano cominciava a muovere una figura. Il precettore non si allontanava mai dal fianco del re: l’elefante percorreva tre caselle per volta alzando una polvere scura come l’acqua del Nilo: i cavalieri si gettavano nella mischia, gli uni pieni di ardore guerriero, gli altri con calma; mentre le torri attraversavano da una parte all’altra la scacchiera, con una furia che nessuno osava ostacolare. Ma, ad un tratto, la partita era decisa. Qualcuno giunse presso Cosroe gridando: «Attenzione, o re!», ed egli abbandonò la sua casella, fino a quando non poté più muoversi. Il re, il precettore e l’elefante nemici gli avevano sbarrato il passo, e lui si guardava intorno e vedeva i suoi uomini distesi al suolo, con le sopracciglia corrugate e il volto pieno di dolore, incapaci di porgergli aiuto. Così la figura d’avorio impugnata da Cosroe moriva di fatica, di fame e di sete, chiusa nella casella assegnatale dal destino. …
Dopo aver assistito a questa mirabolante “fiera della vanità” facciamo un altro passo in avanti per quanto riguarda la storia dell’espansione araba sul territorio dell’Ecumene: un’espansione che i sovrani sassanidi – troppo presi a rappresentare un’improbabile mondo degli dèi in terra – non hanno saputo prevedere ad arginare.
Durante e dopo la sua espansione l’Impero arabo – a causa dell’esplodere di vari conflitti interni – si divide in tre Califfati che hanno il loro centro in Bagdad [capitale del Califfato persiano], ne Il Cairo [la nuova città fondata dagli Arabi nel delta del Nilo come capitale del Califfato egiziano] e in Cordova [la capitale del Califfato spagnolo]. Successivamente l’Impero arabo si frantuma in una miriade di dinastie e di Stati pur conservando una profonda unità religiosa e culturale. L’ultima conquista araba nel Mediterraneo, dopo la Sardegna e la Corsica, è stata la Sicilia, occupata nell’827 e sottratta ai Bizantini.
Nella città di Damasco, entrata a far parte del Califfato persiano, era sempre in attività e si era rinnovata [di generazione in generazione] la Scuola filosofica greco-siriaca che conservava la tradizione ellenistica derivante dall’Accademia tardo-neoplatonica di Atene e gli Arabi mostrano subito un grande interesse per questo patrimonio intellettuale di stampo ellenistico [il concetto neoplatonico dell’Uno è confacente al principio monoteista].
Quando con la dinastia degli Abbàsidi, dal 750, Bagdad diventa una grande capitale, i califfi invitano in città gli intellettuali greco-siriaci perché fondino una Scuola e facciano progredire i loro studi, finché, nell’832, il califfo al-Mamun [Abū Ja’far Abdullah al Ma’mūm] finanzia la costruzione di uno dei centri di studio più importanti della Storia del Pensiero Umano, la “Casa della saggezza [Bayt al Hikma]”, che è un grande laboratorio culturale, un’attrezzata officina di traduzioni che tocca il suo culmine con la direzione del saggio Honayn [809-873], un intellettuale di straordinaria competenza, un umanista animato da un’inesauribile passione per il recupero degli antichi testi della cultura classica: per cercare, ad esempio, un testo di Galeno, Honayn viaggia in Mesopotamia, in Palestina, in Egitto finché ne trova la metà a Damasco. Il saggio Honayn agisce già come faranno gli umanisti italiani del Quattrocento e questo personaggio divide, quindi, il suo tempo tra il “paesaggio intellettuale della salvaguardia dei Classici” che abbiamo appena lasciato e il “paesaggio della Letteratura del Corano” nel quale stiamo entrando.
Le traduzioni di tutte le Opere classiche ritrovate sono state fatte in arabo o dal siriaco o direttamente dal greco sempre con la massima preoccupazione filologica della fedeltà al testo: succede così che, con un anticipo di secoli sulla cristianità latina, gli Arabi possono leggere nella loro lingua, già nel IX secolo, tutti i Dialoghi di Platone, tutta l’Opera di Aristotele [meno il trattato sulla Politica] e tutto il Commento al pensiero di Aristotele fatto da Alessandro di Afrodisia, le Opere scientifiche di Euclide, di Tolomeo e di Galeno, le Enneadi di Plotino e l’elenco potrebbe continuare a lungo. Assistiamo ad una sorta di straordinaria “girandola intellettuale” per cui [dal 529] l’eredità filosofica platonico-aristotelica ruota da Atene a Bagdad, da Bagdad a Toledo [nel IX secolo] e da Toledo a Parigi [nell’XI secolo]: ma fermiamoci qui perché questa è un’altra storia che racconteremo e studieremo strada facendo.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Nel 2010 è stato tradotto in Italiano e pubblicato un saggio intitolato “La casa della saggezza” scritto dallo studioso Jim Al-Khalili che ricostruisce con grande perizia la storia di quest’epoca nella quale menti geniali hanno portato la conoscenza scientifica a livelli molto alti: per circa settecento anni, la lingua della scienza è stata l’arabo…
Cercate in biblioteca questo testo e sfogliatelo, e poi leggetene qualche pagina…
Gli Arabi hanno sempre sentito interesse e ammirazione per la civiltà dei popoli con cui sono venuti a contatto e l’hanno assorbita apportandovi originali contributi.
I territori occupati dagli Arabi, in particolare quelli occidentali, erano in condizioni di sottosviluppo a causa dal degrado dovuto all’instabilità determinata dall’implosione dell’Impero romano d’Occidente e, quindi, le scelte fatte dai governi arabi di costruire “strutture pubbliche” utili per favorire il rilancio dell’agricoltura, dell’artigianato, del commercio hanno determinato un buon sviluppo economico dei paesi conquistati. Poi gli Arabi hanno saputo valorizzare le competenze dei vari gruppi etnici presenti sul territorio [i Cristiani e gli Ebrei] garantendo la loro indipendenza anche sul piano religioso: il gruppo etnico arabo si è occupato dei commerci perché gli Arabi erano esperti in questo settore, mentre il gruppo etnico ebraico si è occupato di far girare il denaro perché gli Ebrei erano esperti nel settore della finanza, e il gruppo etnico cristiano si è occupato di agricoltura e artigianato perché i Cristiani avevano un’esperienza in questi settori. Gli Arabi – per arricchire il territorio – hanno introdotto nuove colture nel bacino del Mediterraneo come l’arancio, la palma, l’albicocco, il cedro, il chinotto, il carciofo, l’asparago, lo zafferano, il riso, il cotone.
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Quale di questi prodotti – l’arancio, la palma, l’albicocco, il cedro, il chinotto, il carciofo, l’asparago, lo zafferano, il riso, il cotone – mettereste per primo nell’elenco?…
Scrivete quattro righe in proposito…
Gli Arabi hanno importato e impiantato – soprattutto nel sud della penisola iberica e in Sicilia – ingegnosi sistemi di irrigazione e, tanto l’Andalusia quanto la Sicilia, sono diventati dei territori fiorenti come giardini [pensate alla Conca d’Oro palermitana] e restano ancora oggi importanti avanzi di pozzi, di acquedotti, di bacini.
Gli Arabi hanno incentivato l’industria con la fabbricazione di oggetti di valore come le armature di Toledo, i leggeri tessuti di Mossul [la mussolina], le sete, i broccati, i tappeti di Damasco, i cuoi del Marocco, i mobili intarsiati in avorio, le vetrerie, i vasi smaltati, le lampade di Bagdad e di Cordova: sono questi i prodotti più raffinati di tutto il mondo civile tra il VII e il XII secolo. Gli Arabi hanno poi favorito gli scambi della produzione industriale tra Oriente e Occidente dotandosi di una potente flotta e promuovendo la navigazione, ristrutturando e attrezzando i numerosi porti romani e restaurando le antiche vie di comunicazione euro-asiatiche che erano cadute in disuso.
Mentre nell’Europa cristiana, in questi secoli alto-medioevali, le maggiori città [si pensi a Roma] vanno decadendo e la vita economica è ristretta al “campicello di Bertoldo”, gli Arabi creano nuove città e imprimono una nuova floridezza a quelle già esistenti e un grande sviluppo – oltre alle scienze come la matematica, la geometria, la geografia, l’astronomia, la medicina, la filosofia – ha avuto l’architettura, dalle linee armoniose e dalla ricchissima decorazione policroma: pensate [tanto per fare alcuni esempi] al palazzo dell’Alhambra a Granata, all’alcazar [la fortezza] di Siviglia, e alla Zisa [in arabo “aziz” significa “splendido”] e la Cuba [di forma quadrangolare] a Palermo.
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Con la guida della Sicilia e collegandovi alla rete fate un’escursione a Palermo e andate a visitare la Zisa e la Cuba... Buon viaggio...
Non ha avuto grande sviluppo la pittura per il divieto religioso di rappresentare la figura umana, per impedire l’idolatria: in compenso è fiorita una straordinaria arte decorativa – lo stile degli “arabeschi” – che ha, soprattutto, la forma della scrittura. La scrittura araba – in particolare la “sacra scrittura” – diventa l’elemento ornamentale fondamentale per adornare e onorare le strutture architettoniche.
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A questo proposito, utilizzando la guida della Spagna, un Catalogo che trovate in biblioteca, e collegandovi alla rete, fate un’escursione a Granata, entrate nel celeberrimo complesso architettonico dell’Alhambra e visitate il famoso “Patio de los leones [il Cortile interno dei leoni]” dove i soffitti e i muri sono ricoperti da una decorazione a stucco con versi arabi inneggianti all’amore, di grande leggerezza ed eleganza… Quegli abili artigiani hanno scritto quattro righe in proposito anche per implementare le forme e i contenuti del nostro viaggio…
Noi, insieme agli Arabi, abbiamo fatto una lunga galoppata e siamo andate e andati ben oltre lo spazio e il tempo [ci siamo proiettate e proiettati in avanti di due secoli], accelerando il passo rispetto al ritmo che dobbiamo tenere in questo viaggio: adesso, quindi, dobbiamo fare alcuni passi indietro [per avvicinarci al prossimo paesaggio intellettuale che dobbiamo iniziare ad osservare] e dobbiamo chiederci da dove sia venuto l’input e da che cosa è stata generata la spinta propulsiva che ha determinato [in meno di un secolo] l’espansione e la nascita dell’Impero arabo. Per rispondere a questa domanda dobbiamo tornare all’inizio del VII secolo, e l’impulso, che porta gli Arabi ad essere protagonisti sullo scenario dell’Età alto-medioevale, lo si deve ad un personaggio che si dedica alla “recitazione [in arabo “qu’ran”] di un messaggio”: da questo “significativo messaggio”, in principio trasmesso oralmente, scaturisce una Letteratura che è entrata a far parte della Storia del Pensiero Umano. Il personaggio che è al centro di questa storia di chiama Muhammad [Maometto] ed è proprio questa figura che, per prima, con il volto velato, ci appare nel nuovo, e assai vasto, paesaggio intellettuale al quale ci troviamo ora di fronte: il “paesaggio della Letteratura del Corano”.
Ma adesso, per tornare sui nostri passi, utilizziamo ancora, come veicolo, il contenuto di una pagina de La primavera di Cosroe per avvalorare il fatto che «La misura era ormai colma per i re della terra» perché si afferma l’idea che: “Dio [Allàh], clemente e misericordioso [rahmān, rahīm]” è il dominatore degli umani destini. Leggiamo come la dinastia persiana dei Sassanidi si avvia verso la sua fine.
LEGERE MULTUM….
Pietro Citati, La primavera di Cosroe
La fine di questo «principe dei piaceri» fu triste. Nel 602, fece assalire Bisanzio, come se non tollerasse più che i due imperi - «costituiti dalla divinità dall’alto e fin dall’inizio» - dividessero fra loro il dominio del mondo. I suoi generali conquistarono l’Alta Mesopotamia, la Siria, l’Armenia, Gerusalemme, da cui Cosroe ordinò di asportare la reliquia della croce, suscitando l’odio religioso dei Bizantini: scesero da una parte in Egitto, e dall’altra attraversarono l’Asia Minore fino alle porte di Costantinopolì, che era minacciata anche dai Traci, dagli Slavi e dagli Avari. La fine dell’«illustre e venerabile città che brillava stranamente di una infinità di meraviglie»: la fine della città d’oro e di marmo, della città murata e turrita, che risuscitò il mito di Babilonia e di Ecbatana, sembrava ormai vicinissima. L’imperatore Eraclio dovette abbassarsi fino a riconoscere Cosroe come «padre», e a testimoniargli gli onori dovuti da un «figlio». Ma, all’improvviso, tutto si capovolse. L’armata navale degli Slavi venne distrutta davanti a Costantinopoli: Eraclio riconquistò l’Asia Minore, sconfisse i Persiani nell’Armenia e nell’Azerbaigian, prese la città di Ganzak, dove fece distruggere la reggia di Cosroe, il trono col baldacchino cosmico, la cupola con l’imperatore celeste, e il tempio di Atur Gush; poi rase al suolo l’altra reggia di Dastgard e discese fin nel cuore della Mesopotamia. Intanto Cosroe fuggiva col fuoco sacro verso le mura di Ctesifonte, solo e chiuso nella sua casella terrena, dove avrebbe presto conosciuto lo stesso destino del re d’avorio.
Come tutti gli uomini del mondo tardo antico credeva nell’astrologia. Aveva trecentosessanta indovini ed astrologhi, e sottoponeva loro i minimi avvenimenti della sua vita, gli oscuri cenni abbandonati sulla sua strada dal destino o dal caso: i presentimenti dell’animo; e i sogni che possono rivelarci l’avvenire, «come il riflesso di una fiamma sull’acqua». Il tempo dei presagi felici era finito per sempre, e Cosroe era perseguitato dalle predizioni nefaste, che gli si stringevano intorno formando una velenosa tela di ragno, nella quale si dibatteva come una mosca imprigionata. Gli astrologhi gli rivelarono che nella sua famiglia sarebbe nato un bambino con un difetto nel corpo, il quale sarebbe divenuto l’ultimo sovrano della dinastia: che suo figlio Kavadh-Sheroe gli avrebbe strappato il trono dopo trentotto anni di regno: che l’impero persiano sarebbe caduto tra le mani di un «uomo considerevole tra gli Arabi»; e che un generale della provincia di Nimruz l’avrebbe ucciso. Cieco come qualsiasi altro uomo, Cosroe cercò di rendere vani questi presagi. Rinchiuse i suoi figli in una fortezza, perché nessuno tra loro generasse l’ultimo imperatore di Persia: allontanò dalla corte il nipote Yazd, quando seppe che gli mancavano due ossa nel fianco sinistro; fece uccidere uno dei suoi più fedeli vassalli arabi, e tagliare la mano a Mardanshah, governatore di Nimruz. Ma chi può comprendere la lingua dei presagi? Mentre Cosroe credeva di renderli vani, collaborava senza saperlo con loro, guidato dal sovrano e sinistro influsso degli astri. Tutto quanto gli era stato rivelato si realizzò: egli venne ucciso, Kavadh-Sheroe gli prese il trono, Yazd III portò per ultimo la corona di Persia; e l’arabo Muhammad [Maometto] regnò per mezzo di Omar sopra l’impero sassanide.
«Era una notte d’inverno,» racconta un poeta «una notte cupa, che sembrava un monte tutto coperto di corvi dai movimenti pesanti, ognuno dei quali avesse un monte sopra l’ala. Era una notte che soffiava il freddo, come lo soffiano i cuori senza fiamma: una notte che annunciava le notti che il giorno non segue; una notte che stringeva nelle braccia tutto il cielo, dove il sole aveva dimenticato il Levante, gli astri del Sud non si muovevano più, come uccelli restati sul nido a covare le uova, la Grande Orsa aveva gli occhi chiusi, la Via Lattea sembrava paglia gettata sulla strada, tutte le costellazioni dormivano, la terra si nascondeva sotto un parasole nero. Il cielo era caduto in un barile di pece tutto impregnato di cenere, nel fumo del fuoco acceso dal Tempo, e non sapeva più uscirne». Quella notte, i generali e i principi destituirono «chi dava alla notte i suoi occhi».
«La misura era ormai colma per i re della terra». …
Abbiamo appena letto questa frase emblematica: «…e l’arabo Muhammad [Maometto] regnò per mezzo di Omar sopra l’impero sassanide».
Per incontrare Muhammad – nel paesaggio intellettuale in cui si trova – dobbiamo procedere verso Oriente [dobbiamo “orientare il viaggio”, e il termine “viaggio” in arabo corrisponde alla parola “safar”] e poi dobbiamo incamminarci verso sud in quel grande territorio desertico situato tra il Mar Rosso, l’Oceano Indiano e il Golfo Persico che prende il nome di Penisola Arabica [il termine ‘arab significa “chi vive nel deserto”]. Nella punta meridionale [a sud-ovest] della Penisola Arabica c’è lo Yemen [il mitico paese della regina di Saba, l’Arabia Felix], che si trova tra l’Africa e l’Oceano Indiano, e solo qui le sorgenti d’acqua e il regime dei venti monsonici, hanno reso possibile uno sviluppo di vita ad alto livello. Da qui, dallo Yemen – gran produttore di beni, soprattutto d’incenso [il più importante deodorante - si pensava fosse un disinfettante - dell’antichità] – parte una pista che segue, da sud verso nord, tutta la costa prospiciente al Mar Rosso [la cosiddetta “barriera, Hiğiāz”] ed è battuta da centinaia di carovane di cammelli dirette verso la Palestina, la Siria e il Mar Mediterraneo: questo itinerario si chiama la “via dell’incenso”. Lungo questa via, che lambisce i territori di tribù nomadi di beduini [gente del deserto], sono sorti due insediamenti in cui si conduce una vita sedentaria. Questi due insediamenti – che nascono come luogo di sosta per le carovane – diventano due città floride [tra questi due insediamenti c’è acqua, c’è la valle delle oasi] e si chiamano: La Mecca e Yatrib [che in seguito si chiamerà Medina].
La Mecca è, dal IV secolo a.C., una città sacra, e la vita de La Mecca si svolge attorno al suo Santuario, un tempio di forma cubica che, per questo motivo, viene chiamato Ka’ba [Cubo]. In questo tempio, nel VI secolo [nel secolo, alla fine del quale, nasce Muhammad], vengono adorati molti idoli, ma soprattutto viene venerata, già da secoli, una “pietra nera [un frammento di meteorite?]”. La religione delle tribù nomadi che abitano la penisola arabica [dal VI secolo a.C.] era di tipo feticista e animista, veneravano la Natura e, in particolare, le piante e le pietre secondo la loro forma e la particolarità del loro materiale [siamo in un deserto sassoso], e credevano che le piante e le pietre fossero la dimora di spiriti e di divinità. Quindi si capisce perché, da secoli, questa “pietra nera” sia particolarmente venerata e a La Mecca si diano convegno, periodicamente, i mercanti e i pellegrini, per cui, è sorta nei secoli la tradizione dei “pellegrinaggi-commerciali” che fanno concentrare intorno alla Ka’ba [al Santuario cubico] un gran numero di persone alimentando l’economia della città. La custodia del Santuario oltre ad essere un onore prestigioso diventa soprattutto un affare e questo compito se lo disputavano le tribù più nobili e, alla fine, una tribù, quella dei Quraish [Coreisciti], ne assunse il controllo.
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C’è una pietra che avete raccolto e avete conservato?… Per quale motivo?…
Scrivete quattro righe in proposito...
A questo punto del viaggio dobbiamo dire che, tra il 570 e il 572, in una famiglia di mercanti della tribù dei Quraish nasce Muhammad. E Muhammad è un bambino e poi un ragazzo molto disciplinato che esercita molti mestieri, soprattutto nel mondo del commercio, e questo gli permette di viaggiare [“safara” in arabo] e di studiare tanto che, oltre a conoscere la cultura delle tribù del suo popolo entra in contatto diretto – e questo è un elemento determinante della sua formazione intellettuale – con la cultura del Cristianesimo e dell’Ebraismo.
Le comunità cristiane ed ebraiche sono presenti nella penisola arabica soprattutto al nord, in Siria, e a sud, nello Yemen. Il contatto con la Letteratura dei Libri dell’Antico Testamento e con la Letteratura dei Vangeli permette a Muhammad di sviluppare le sua natura riflessiva, meditativa e mistica, che si confà con la sterminata solitudine del deserto e con il ritmo lento delle carovane e, difatti, prende l’abitudine di ritirarsi periodicamente, come monaco, in solitudine, dove ha delle visioni soprannaturali e, intorno ai quarant’anni, comincia a rivelarlo pubblicamente.
Dobbiamo precisare che il problema della definizione storica della vita di Muhammad – come per le vite di tutti i grandi personaggi – è legato al fatto che si è sviluppata una ricchissima tradizione agiografica [le agiografie sono le vite dei santi], mitica, leggendaria, anche perché la maggior parte degli elementi biografici veri e propri non sono reperibili e la vita di Muhammad si identifica con la Letteratura del Corano. Ciò che conosciamo della vita di questo personaggio è un “grande romanzo di natura storica, mitica e leggendaria”, ed è un “romanzo” di straordinario interesse dal quale emergono molti temi di carattere culturale che studieremo a cominciare dalla “formazione intellettuale” di Muhammad. E, siccome Muhammad nasce e cresce in una eminente tribù dell’Arabia, la prima domanda che ci dobbiamo porre è: quali sono i caratteri culturali in cui si riconoscono le tribù dell’Arabia?
Lo strato più antico della cultura delle tribù dell’Arabia è legato alla figura di Abramo e, quindi, alla Letteratura dell’Antico Testamento e, in particolare, al Libro della Genesi: è nel Libro della Genesi che compare il “romanzo di Abramo”. Quindi, il culto primordiale delle tribù dell’Arabia, prima di avere un carattere politeista, feticista e animista, è stato profondamente monoteista [Hunafa’]. Inizialmente è il “Dio Unico” dell’Antico Testamento il punto di riferimento religioso e culturale delle tribù dell’Arabia, e la figura di Abramo, il quale fa dei “patti [la berit]” con questo Dio, è la figura centrale del pensiero tribale arabico. Quindi la corrente spirituale che aveva dato origine – intorno al IV secolo a.C. – al centro religioso de La Mecca, e che aveva costruito il santuario della Ka’ba, era una corrente spirituale “abramitica”, rigorosamente monoteista fondata sul principio che “Dio è Unico e non ci sono altri dèi all’infuori di Lui”.
Però quando nasce Muhammad intorno alla Ka’ba si venerano, oltre alla “pietra nera”, anche trecentosessanta idoli di varia origine: un pantheon pagano di stile mesopotamico, in cui c’è un dio principale, Hubal, e tre divinità femminili dette “figlie di Dio” che si chiamano al-Làt, al-‘Uzza e Manàt. Un pantheon di idoli che, nel corso del tempo, si è allargato in relazione ai bisogni materiali della gente: e il “Dio Unico” che fine ha fatto? Il Dio Unico è stato gradualmente messo da parte perché rappresenta più esigenze spirituali che materiali e si sa che gli affari materiali sono più redditizi di quelli spirituali e La Mecca [quando nasce Muhammad] è un grande mercato. Il “Dio Unico”, che non ha un nome proprio ma viene chiamato con il termine che indica il concetto di “divinità”, in arabo “Allàh”, è stato da tempo relegato nell’alto dei Cieli, come una divinità astratta, spirituale, un “deus otiosus [che non serve a niente e non incide sulla vita delle persone]”.
A La Mecca, alla fine del VI secolo [quando nasce Muhammad], i membri delle tribù più eminenti ragionano in modo pratico: pensano che ci si debba occupare prima di tutto delle cose materiali e il culto degli “idoli” è l’espressione di questa mentalità impregnata di concretezza. Esiste, tuttavia, un gruppo – molto attivo al tempo della nascita di Muhammad – formato da una minoranza di persone che invece preferisce occuparsi di “cose spirituali”: costoro prendono il nome di “hanīf [i monoteisti, i puri]”, sono intellettuali, e coltivano la “sapienza poetica”. Questa corrente minoritaria vuole conservare la “tradizione abramitica”, vuole salvaguardare il culto monoteista [Hunafa’]: a questa cultura aderisce da giovane il futuro Profeta. Ma che cosa c’entra la figura biblica di Abramo con gli Arabi? Quando, come e perché la figura di Abramo diventa rilevante per le tribù arabe ed entra nella loro tradizione?
Per dare una risposta a queste domande dobbiamo fare un’incursione sul testo del Libro della Genesi perché è qui che troviamo la “storia di Abramo” ed è qui che ci sono le radici più profonde della Letteratura del Corano. Prima di tornare sul testo del Libro della Genesi, sui capitoli che c’interessano [e quante volte in questi trent’anni abbiamo utilizzato questo testo!], per capire come entrano in relazione la figura di Abramo e le tribù degli Arabi, dobbiamo [in modo sintetico] occuparci di un tema [relativo alla storia, all’antropologia culturale e all’esegesi biblica] che abbiamo già studiato in altri contesti e, quindi, per molte e per molti di voi si tratta di rinfrescare la memoria su modelli culturali già acquisiti.
Sappiamo [ed è un fatto risaputo] che nell’anno 587 a.C. il re babilonese Nabuccodonosor [scritto con due “c” per ricordare Giuseppe Verdi e il suo “Nabucco”] sconfigge gli Ebrei del regno di Giuda, conquista Gerusalemme e deporta a Babilonia la classe dirigente, gli scribi, i commercianti e gli artigiani, la parte più ricca della popolazione ebraica. Cinquant’anni dopo, il regno dei Babilonesi viene abbattuto e conquistato dal re persiano Ciro, il quale, nel 538 a.C. emana un famoso Editto [l’Editto di Ciro], con il quale proclama la liberazione degli eredi di quegli Ebrei che erano stati deportati a Babilonia da Nabucodonosor cinquant’anni prima: tutti questi avvenimenti noi li abbiamo studiati [a suo tempo] utilizzando il Libro di Esdra. Ma perché Ciro si preoccupa di fare un Editto per liberare costoro?
Ciro [ci dicono le studiose e gli studiosi di storia] non libera gli Ebrei per fare sfoggio di benevolenza ma vuole rimandare gli eredi della classe dirigente ebraica a Gerusalemme perché ha intenzione di creare uno Stato cuscinetto in Palestina [al confine tra la superpotenza egiziana e l’impero persiano]: vuole che se la governino gli Ebrei questa terra turbolenta di frontiera [non la considerano forse una terra “promessa” dove “scorre latte e miele”?] che, in realtà, è tutta sassi e non rende nulla: quindi, la mossa di Ciro ha una finalità di carattere strategico.
Ciro [ricordate?] deve, però, faticare assai [ci racconta il Libro di Esdra] e deve dare molti incentivi economici e politici [oro, argento, la promessa di finanziamenti per la ristrutturazione del Tempio di Gerusalemme] perché gli Ebrei – gli eredi di quelli che erano stati deportati cinquant’anni prima, nati e cresciuti in esilio – non si vogliono muovere da Babilonia e, difatti, solo un quarto di loro, e molto remunerati [ci racconta il Libro di Esdra] si muoveranno. Gli eredi dei deportati ormai si erano sistemati per benino in Mesopotamia, e si erano anche fatti una posizione e, quindi, non hanno intenzione di ritornare a Gerusalemme, nella terra di Canaan, dove era rimasto, a morire di fame su quel territorio povero, il maggior numero della popolazione cananea [agricoltori, pastori e pescatori]: Nabucodonosor non aveva deportato in Mesopotamia i diseredati [gli ebionim, i morti di fame] ma aveva trasferito solo la classe dirigente d’Israele e gli scribi [gli scrivani], i quali, a Babilonia – e questo è un avvenimento molto importante nella Storia del Pensiero Umano [che abbiamo studiato a suo tempo], utilizzando la cultura mesopotamica [quella dell’Epopea di Gilgamesch e dell’Emuma Elish] raccolgono le loro tradizioni orali e mettono per iscritto la prima versione dei “Libri del Pentateuco”, dei primi cinque Libri della Bibbia: scrivono perché questo gruppo etnico in esilio non perda la memoria di sé e non si disperda socialmente, e scrivono questa storia usando lo stile letterario mesopotamico del “racconto cerimoniale [del midrasch]”, un genere che permette di rielaborare le proprie origini [sconosciute] e la propria storia [nebulosa] in modo mitico, leggendario, epopeico.
L’autore del Libro di Esdra ci fa capire che, nel 538 a.C., in occasione dell’Editto di Ciro, tra gli eredi ebrei dei deportati a Babilonia sorge una disputa molto accesa tra la maggioranza che voleva restare in Persia e una minoranza nazionalista che, se ben incentivata, sarebbe partita. Questa disputa è incentrata su una serie di significativi interrogativi: dobbiamo tornare a Gerusalemme a ricostruire il Tempio oppure il Tempio è ormai un ricordo [un midrash] presente nel nostro cuore e nella nostra memoria sotto forma di Scrittura e, quindi, perché tornare? E la Scrittura [la Toràh, la Legge] deve essere portata materialmente a Gerusalemme nel Tempio per diventare parola di Dio oppure la Scrittura ha già in sé il valore di parola di Dio perché maturata in esilio? Questa disputa pubblica provoca una forte eco in tutta l’area mesopotamica e determina la prima pubblicizzazione dei racconti contenuti nel testo della Genesi, anche perché questi racconti [ci racconta il Libro di Esdra] vengono chiamati in causa nella disputa a sostegno delle varie tesi.
Le studiose e gli studiosi sono concordi nel ritenere che le tribù beduine del deserto arabico, al tempo dell’Editto di Ciro [dal 538 a.C.], vengono a contatto con i grandi racconti contenuti nel Libro della Genesi, perché stazionano periodicamente in area persiana sulla riva occidentale del fiume Eufrate, prima di tutto per commerciare, e poi perché, da tempo, le tribù della penisola arabica forniscono [come sappiamo] manodopera militare agli Imperi che si sono avvicendati in quest’area. Quindi, i racconti mitici delle grandi saghe contenute nel Libro della Genesi [che è uno straordinario contenitore di romanzi], soprattutto attraverso le narrazioni dei soldati mercenari, entrano a far parte della cultura orale delle tribù dell’Arabia, e quando le tribù si spostano da un’oasi all’altra, incontrandosi, trasformano queste saghe – attraverso una rielaborazione orale che si mescola con racconti autoctoni – in uno specifico “immaginario collettivo” nel quale si configurano gli elementi costitutivi della propria storia mitica, dell’epopea delle tribù dell’Arabia.
I protagonisti [le grandi metafore letterarie] del Libro della Genesi [il Dio Unico, Adamo, Eva, il Serpente, Caino, Abele, Noè, Abramo] vengono interpretati nell’ottica di un’epopea pan-araba: cioè le tribù dell’Arabia cominciano a sentirsi culturalmente unite perché hanno in comune un grande racconto mitico che si è andato costruendo sulla scia delle storie contenute nel Libro della Genesi. I racconti del Libro della Genesi diventano, quindi, il primo patrimonio narrativo comune delle tribù dell’Arabia e questo fatto fa emergere alcune questioni fondamentali: l’importanza di avere un Capostipite comune che unifichi le tribù e che le diversifichi dagli altri gruppi etnici, l’importanza di avere un Santuario comune dove ritrovarsi e l’esigenza di avere una Lingua [e una scrittura] comune. Queste tre questioni fondamentali [il Capostipite, il Santuario e la Lingua] sono alla base della formazione della Letteratura del Corano e alla base della formazione culturale di Muhammad.
Per quanto riguarda l’importanza di avere un Capostipite comune, che unifichi le tribù arabe e che le diversifichi dagli altri gruppi etnici [dalle tribù cananee], i grandi racconti della Genesi propongono per tutti, in quell’area e in quel tempo, la figura di un grande Capostipite, una figura letteraria che nasce dalla rielaborazione delle grandi saghe della cultura egizia e mesopotamica: un personaggio chiamato dal Dio Unico a fare dei “patti” che prevedono la creazione futura di grandi nazioni. Gli scrivani d’Israele in esilio a Babilonia hanno composto la struttura di base dei “Libri del Pentateuco” per darsi un passato [e hanno raccontato una storia gloriosa] e un futuro [hanno scritto un messaggio che contiene una speranza di salvezza]. Come sappiamo la “storia di Abramo” la troviamo e la possiamo leggere dal capitolo 12 al capitolo 23 del Libro della Genesi, e la Scuola non può che raccomandarne ancora una volta la lettura [questi testi fondativi della nostra identità culturale sono dei Classici che vanno periodicamente riletti]. Il Libro della Genesi è un classico e [come scrive Italo Calvino] un classico è un testo che ha sempre qualche cosa di nuovo da dirci e da insegnarci. La “storia di Abramo” contiene anche [per quanto riguarda la Storia del Pensiero Umano] una definizione più precisa del concetto di “monoteismo”. Abramo [indipendentemente dai suoi caratteri specifici] rappresenta la persona che rifiuta i sacrifici agli dèi, ed inaugura un rapporto di mente e di cuore, razionale e sentimentale con un Essere superiore, dando a questa divinità un “volto umano”, e questo è il significato più autentico dell’idea monoteistica.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Leggete o rileggete il “romanzo di Abramo”: dal capitolo 12 al capitolo 23 del “Libro della Genesi” ... Quale episodio vi colpisce di più?...
Scrivete quattro righe in proposito…
Cominciamo a farlo insieme questo esercizio perché, per concretizzare la riflessione che abbiamo fatto sulle fonti più antiche della Letteratura del Corano, dobbiamo puntare la nostra attenzione sul capitolo 16 e sul capitolo 21 del Libro della Genesi. Il materiale letterario di questi due capitoli costituisce la base sulla quale i depositari della cultura orale delle tribù arabe hanno elaborato un’epopea che è diventata patrimonio culturale comune delle genti della penisola arabica.
E la prima parte di questa epopea è costituita dal riconoscimento del Capostipite: dell’elemento che possa dare la possibilità di differenziarsi dalle tribù cananee e dagli altri gruppi etnici. La figura di Abramo rappresenta l’Umanità intera: è il padre di tutti ma la dinamica umana prevede che l’elemento vitale sia garantito dalla differenza e gli scrivani d’Israele, nel comporre questo testo, avevano già provveduto a differenziare il loro popolo dagli altri gruppi etnici, infatti, la figura letteraria di Isacco [il figlio di Abramo], dell’erede legittimo, è un’operazione culturale di “differenziazione” perché Abramo ha anche un altro figlio [e la Letteratura beritica fa in modo che ce l’abbia].
La storia di Abramo e dei suoi eredi: Ismaele e Isacco è scritta, comunque, in modo “curioso”, e va letta con attenzione. Differenziati sì, Ismaele e Isacco, perché figli di madri diverse e di diversa condizione, però è vero anche che tutti siamo diversi e ogni figlio è diverso dagli altri figli, ma tutti, comunque, siamo legati ad una “umanità comune” e il testo di questo bellissimo romanzo ci fa notare come Abramo sia attaccato a questi due figli che sono istituzionalmente diversi [lo sono per il patto, per le madri, per l’eredità] ma per la sua mente, per il suo cuore, per la sua ragione e per i suoi sentimenti sono uguali, e li ama tutti e due, e soffre del fatto che la vita sia inesorabilmente fatta di distacchi.
Chi scrive questo testo riflette appassionatamente, e si esercita su un profondo pensiero esistenziale che diventa una chiave e un modello per le Letterature successive. Gli scrivani che hanno composto questo testo classico hanno costruito degli straordinari personaggi letterari che sono diventati stupendi modelli culturali, e questi scrivani [dei quali noi non conosciamo il nome] ci hanno lasciato in eredità un insegnamento importante sul quale oggi dobbiamo riflettere: siamo tutte e tutti diversi, ma siamo tutti figlie e figli di questa Umanità, di cui la figura di Abramo è un prototipo culturale fondamentale. Ma il concetto della “differenziazione” – che è quello che garantisce le dinamiche vitali – è anch’esso essenziale.
Leggiamo, dal capitolo 16 del Libro della Genesi, il punto di partenza della storia sacra degli Arabi e l’atto del loro “differenziarsi” avviene, curiosamente, nel contesto di “differenziazione” attuato dagli scrivani d’Israele per distinguersi come popolo che, in esilio, potrebbe perdere la propria identità. E la “diversità identitaria” – aggiungiamo noi oggi – è fonte di ricchezza e chi ne fa terreno di scontro ha sbagliato indirizzo, si è perso. Leggiamo.
LEGERE MULTUM….
Libro della Genesi
Sarai, moglie di Abram [Padre eccelso], non aveva potuto dargli dei figli. Aveva però una schiava egiziana di nome Agar. Perciò Sarai disse ad Abram: «Vedi bene che il Signore mi ha resa sterile. Va’ dunque dalla mia schiava. Forse lei potrà darti un figlio al mio posto». Abram accettò il suggerimento di Sarai, …erano già dieci anni che abitavano nella terra di Canaan. Abram andò dunque da Agar, che rimase incinta. E quando essa se ne rese conto ne fu orgogliosa e cominciò a guardare con disprezzo la padrona. Sarai allora disse ad Abram: «Sei tu il responsabile di questo disprezzo. Io stessa ti ho messo tra le braccia la mia serva. Ma da quando sa di essere incinta mi considera inferiore a lei. Decida il Signore chi ha ragione fra noi due». Le rispose Abram: «La schiava è tua. Pensaci tu. Trattala come meglio ti pare!». E Sarai maltrattò Agar, che fuggì lontano da lei. L’angelo del Signore la vide nel deserto, vicino a una sorgente, quella che si trova sulla via di Sur, e le disse: «Agar, schiava di Sarai, da dove vieni? E dove vai?». «Fuggo da Sarai» rispose Agar. «Torna invece da lei» ordinò l’angelo del Signore, «e a lei ubbidisci». Poi aggiunse: «Io renderò così numerosi i tuoi discendenti, che non sarà possibile contarli. Tu sei incinta e partorirai un figlio. Lo dovrai chiamare Ismaele, perché il Signore ti ha ascoltato nella tua disperazione. Egli vivrà come un puledro selvatico, pronto a battersi con tutti, e tutti si batteranno con lui. Resterà separato da tutti i suoi fratelli». Allora Agar esclamò: «Ho veramente visto colui che mi vede?». E diede al Signore che le aveva parlato questo nome: Tu sei il Dio che mi vede. Perciò è chiamato pozzo di Lacai-Roi [il Vivente che mi vede]. Esso si trova tra Kades e Bered. Poi Agar partorì un figlio ad Abram e questi lo chiamò Ismaele. Abram aveva ottantasei anni quando nacque Ismaele. …
Spostiamo ora la nostra attenzione sul testo del capitolo 21 del Libro della Genesi per completare la riflessione di questa sera e per cogliere nuovi spunti.
LEGERE MULTUM….
Libro della Genesi 21 1-21
Come aveva detto il Signore agì in favore di Sara [Madre di re]. Fece per lei quel che aveva promesso. Anche se Abramo [Padre di molta gente] era già vecchio, Sara rimase incinta, e nel tempo che Dio le aveva annunziato diede alla luce un figlio. Abramo chiamò Isacco questo figlio avuto da Sara. Quando ebbe otto giorni lo circoncise, come Dio aveva comandato. Abramo aveva cento anni quando gli nacque Isacco. Sara disse: «Dio mi ha dato la gioia di ridere. Chiunque verrà a saperlo riderà con me». E aggiunse: «Chi avrebbe mai detto ad Abramo: Sara allatterà figli? Eppure io gli ho dato un figlio nella sua vecchiaia». Isacco cresceva. Nel giorno del suo svezzamento Abramo organizzò una grande festa. Sara notò il figlio che Abramo aveva avuto da Agar: stava scherzando con suo figlio Isacco. Allora disse ad Abramo: «Manda via questa schiava e suo figlio. Egli non deve spartire l’eredità con mio figlio Isacco!». Questo dispiacque molto ad Abramo, perché anche Ismaele era suo figlio. Ma Dio gli disse: «Non rattristarti per la tua schiava e per il ragazzo. Accontenta Sara in tutto quello che ti chiederà, perché per mezzo di Isacco tu avrai discendenti. Ma anche il figlio di questa tua schiava darà origine a un grande popolo, perché anche lui è tuo figlio». Allora Abramo si alzò di buon mattino, prese del pane e un otre d’acqua, li pose sulle spalle di Agar e con suo figlio la mandò via. Essa se ne andò e si smarrì nel deserto di Bersabea. Quando non ci fu più acqua nell’otre, prese il figlio e lo lasciò sotto un cespuglio. Si allontanò e si mise seduta di fronte a lui, a un centinaio di metri. Diceva tra sé: «Non voglio veder morire mio figlio». E standosene lì seduta si mise a piangere. Dio udì il lamento del ragazzo, e l’angelo di Dio chiamò Agar dal cielo e le disse: «Agar che hai? Non temere perché Dio ha udito la voce del ragazzo. Alzati, prendi il ragazzo e abbi cura di lui, perché io lo farò diventare padre di un grande popolo». Poi Dio le aprì gli occhi e Agar notò una sorgente d’acqua. Andò a riempire l’otre e diede da bere al ragazzo. Dio protesse il ragazzo che cresceva e abitava nel deserto di Paran. Diventò un esperto cacciatore. Sua madre gli diede in moglie un’Egiziana. …
Dio fa sgorgare una fonte d’acqua fresca, che è la salvezza di Agar e di Ismaele e questo è il punto di partenza della storia sacra degli Arabi. Questo luogo è stato identificato con la valle di Baka [wādī al-qurà, la valle delle oasi], dove si trova La Mecca, a circa cinquanta giornate di cammello a sud della terra di Canaan, sulla pista percorsa dai mercanti di spezie e d’incenso, e la presenza dell’acqua ne fa un luogo privilegiato, intorno al quale sorge un punto d’incontro per mercanti e per pellegrini: un luogo sacro, un Santuario.
A questo punto abbiamo un Capostipite [Ismaele, chi è Ismaele?], abbiamo un Santuario [la Ka’ba, che caratteristiche ha questo santuario?] e abbiamo una Lingua [l’Arabo, come si configura la sapienza poetica di questa lingua?].
Abbiamo constatato – e tutte le studiose e gli studiosi lo confermano – che la cultura del Corano è “cultura nostra”, le radici sono comuni. E allora come mai questa Letteratura risulta essere per noi come “qualche cosa di altro”? È un problema che riguarda le strutture proprie del testo del Corano?
Per rispondere a queste domande bisogna continuare a percorrere la via dell’Alfabetizzazione culturale e funzionale che è un bene comune [come la Casa della saggezza di Bagdad] perché lo studio è un’attività utile per promuovere l’Apprendimento permanente che è un diritto e un dovere di ogni persona: per questo la Scuola è qui, per spronarci ad investire in intelligenza…