Autorizzazione all'uso dei cookies

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ MEDIOEVALE IL PENSIERO CONTENUTO NEI "DIALOGHI" DI PLATONE, TRADOTTO IN LATINO, INFLUENZA IL MOVIMENTO DELLA SCOLASTICA ALLE SUE ORIGINI ...

Lezione N.: 
4

La Scuola di Atene - Platone

Prof. Giuseppe Nibbi  

La sapienza poetica e filosofica dell’età medioevale

 29-30-31 ottobre 2014

 

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ MEDIOEVALE IL PENSIERO CONTENUTO NEI "DIALOGHI" DI PLATONE, TRADOTTO IN LATINO, INFLUENZA IL MOVIMENTO DELLA SCOLASTICA ALLE SUE ORIGINI ...

 

    Siamo al quarto itinerario del nostro viaggio di studio sul "territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età medioevale" e ci troviamo di fronte al "paesaggio intellettuale della Scolastica alle sue origini". Che cosa abbiamo già osservato di interessante all’interno di questo scenario?

    Cerchiamo di fare ordine nei nostri pensieri perché gli argomenti sono molti, tutti intrecciati tra loro e influenzati dalla presenza di un certo numero di paradossi a cominciare da quello che la Scolastica, in quanto filosofia cristiana, dovrebbe solo descrivere una "Verità già data" rinunciando, quindi, alla ricerca della Verità stessa e questo contrasta con il "desiderio di conoscere" che è proprio dell’essere umano [con queste parole inizia la "Metafisica" di Aristotele e queste parole descrivono il significato del termine "eros" - ciò che chiamiamo "l’amor platonico" - in Platone].

    Continua ad accompagnarci lo studioso che viene considerato il primo intellettuale del movimento della Scolastica, Giovanni Scoto Eriùgena [detto "il Falco" della Scolastica], colui che – sfidando la scomunica – comincia a riflettere sul fatto che nel rapporto tra la Fede e la Ragione, che come sappiamo è il tema-chiave della Filosofia scolastica alle sue origini, sia la Ragione ad avere un ruolo primario e di fronte all’interrogativo se "bisogna avere Fede per poter ragionare correttamente" oppure se "sia necessario utilizzare la Ragione per acquisire il dono della Fede", ebbene, Giovanni Scoto Eriùgena sostiene la seconda opzione secondo la quale il compito dell’intellettuale non è quello di "raccontare una Verità già data" confidando sull’illuminazione divina [anche perché un dogma lo si esplicita pur sempre con un linguaggio elaborato dalla Ragione che, come la Fede, è anch’essa un dono di Dio] ma piuttosto il compito dell’intellettuale, sostiene Giovanni Scoto Eriùgena, dovrebbe essere quello di "dare un nome alle cose" facendo uso delle proprie facoltà intellettuali in modo che le verità di Fede siano rese meglio comprensibili per la mente umana.

    Per sostenere il suo pensiero Giovanni Scoto Eriùgena, che intanto è chiamato a dirigere la Scuola palatina ad Aquisgrana, utilizza in modo creativo la lezione dei classici greci [soprattutto quella derivante dal pensiero di Platone e di Aristotele] e – essendo il più esperto conoscitore della lingua greca presente nell’impero carolingio – traduce in latino, come sappiamo, una serie di importanti opere greche a cominciare dai quattro Trattati del Dionigi Areopagita, una delle opere che, tradotta in latino, influenza maggiormente, in termini neoplatonici, il movimento della Scolastica; poi Giovanni Scoto Eriùgena traduce in latino l’Isagoge di Porfirio [e prossimamente vedremo che importanza ha quest’opera] e le Enneadi di Plotino; inoltre Giovanni Scoto Eriùgena frequenta, molto probabilmente, più di un convegno presso la Casa della saggezza di Toledo [nel territorio iberico dei Califfati arabo-islamici] e lì può conoscere i testi originali dei principali Dialoghi di Platone, e i testi della Fisica e della Metafisica di Aristotele e può, quindi, fornirne una versione latina fedele agli originali, e su questi testi [platonici e aristotelici tradotti in latino] si concentrerà l’attenzione di tutti gli intellettuali scolastici a qualunque corrente appartengano.

    Abbiamo detto che Giovanni Scoto Eriùgena traduce in latino i testi dei quattro Trattati del Dionigi Areopagita, un’opera fondamentale per l’evoluzione del movimento della Scolastica a cominciare proprio dallo stesso pensiero di Giovanni Scoto Eriùgena il quale, come ben sapete, disegna nell’866, nell’opera intitolata De divisione naturae, il sistema delle "quattro nature dell’Universo" proprio semplificando il complicato "sistema triadico" di stampo neoplatonico [che abbiamo riosservato durante l’itinerario della scorsa settimana] disegnato dall’autore del Dionigi Areopagita [che comincia ad essere chiamato Pseudo-Dionigi].

    Il sistema delle "quattro nature" di Giovanni Scoto Eriùgena costituisce lo scenario mentale con cui la Scolastica medioevale concepisce la forma dell’Universo e questo scenario è ancora fortemente radicato nella nostra mente, e richiama quattro parole-chiave che tracciano ancora oggi la linea del nostro orizzonte intellettuale: Dio, il Mondo creato, l’Essere umano e l’Anima.

     Questi quattro concetti-cardine [Dio, il Mondo, l’Essere umano e l’Anima], che costituiscono i lati del perimetro che contiene l’immagine dell’Universo "medioevale [un Universo cristianizzato]", vengono utilizzati dagli intellettuali scolastici, a cominciare da Giovanni Scoto Eriùgena, per narrare "in termini cristiani" l’origine del Creato e per commentare la storia della salvezza ma c’è la consapevolezza che i piani della narrazione non combaciano perché le quattro parole-chiave [Dio, il Mondo, l’Essere umano e l’Anima] che gli intellettuali scolastici, a cominciare da Giovanni Scoto Eriùgena, hanno a disposizione, e che sono entrate gradualmente [secolo dopo secolo, e lo abbiamo studiato in questi ultimi anni] nella dottrina cristiana rafforzandola, sono termini di stampo neoplatonico.

    Questi concetti-cardine non hanno una natura propriamente cristiana a cominciare da "Dio" che è l’Uno al quale Proclo mette una maschera divina, mentre il "Mondo" è quello raffigurato da Platone nel Timeo e fatto funzionare con la Logica di Aristotele, e "l’Essere umano", poi, è un soggetto corredato dalle virtù prescritte dalle Enneadi di Plotino che ragiona con le categorie dell’Isagoge di Porfirio e "l’Anima immortale" è un oggetto di stampo orfico-dionisiaco: di fronte a questa situazione risulta evidente che è venuta a crearsi una forte discrepanza tra la dottrina sostenuta dal pensiero neoplatonico e la visione biblica della creazione [che costituisce il nucleo centrale della Verità già data] nella quale campeggia l’ambiguo episodio del peccato originale e dove non c’è traccia dell’anima immortale sebbene questa idea sia da tempo entrata, per opportunità, nella dottrina cristiana senza che ci sia mai stata una dichiarazione ufficiale da parte dell’autorità che vigila sul rispetto dell’ortodossia.

    La presa d’atto di questa dissonanza culturale all’interno della cristianità latina, ormai ideologicamente egemone, crea forti tensioni e induce la gerarchia a prese di posizione autoritaristiche e questo porta le persone impegnate intellettualmente [gli intellettuali protoscolastici e scolastici] verso un profondo stato di inquietudine ed è proprio questa condizione che determina quel metaforico abbassamento di temperatura per cui si parla allegoricamente di "inverno del Medioevo" [e ne abbiamo parlato a giugno nel corso dell’ultima Lezione, quella conviviale], un "inverno" che dura per circa due secoli [dall’843 al 1050 circa], e sappiamo che la stagione fredda, secondo il ciclo produttivo della terra, è tutt’altro che un periodo morto perché sotto le zolle i processi vitali continuano e ciò che vale per le colture vale anche per la "cultura".

    C’è da dire, inoltre, che lo stato di inquietudine ha sempre provocato positive reazioni in campo intellettuale e i membri di questo movimento di pensiero ritengono che sia venuto il tempo di uscire dall’ambiguità e di inserire, senza più finzioni, nelle forme di stampo neoplatonico i contenuti di natura cristiana e, naturalmente, questo esercizio porta a modificare anche il contenuto della Fede così come era stato codificato nell’epoca precedente [in Età tardo-antica] per cui diventa inevitabile che si scateni un animato confronto di opinioni che risulterebbe molto positivo se non venisse inficiato spesso dalla violenza praticata soprattutto da coloro che non vogliono che il contenuto della Fede si rinnovi.

 

 

    A proposito di violenza: molte e molti di voi sanno già quale brutta fine ha fatto Giovanni Scoto Eriùgena intorno all’anno 877. Il povero Giovanni Scoto Eriùgena viene ucciso da uno dei suoi allievi all’uscita dalla Scuola, ma non se ne conosce il motivo e, soprattutto, non si conoscono i mandanti. Il mandante potrebbe essere stato [e questa tesi ha fatto sviare le indagini] lo stesso re di Francia, Carlo il Calvo, perché offeso da una battuta di Giovanni nel corso di una cena. Si racconta che Giovanni Scoto Eriùgena e Carlo il Calvo stavano seduti ai due estremi del tavolo della sala da pranzo reale: Giovanni per tutta la sera aveva messo in difficoltà gli ospiti del re con molte domande imbarazzanti fondate sull’interrogativo: «Sapete che differenza c’è tra…?» e il re era fortemente contrariato. Giunti a fine della cena Carlo il Calvo gli ha chiesto provocatoriamente: «Che differenza c’è tra uno sciocco e uno Scoto?», e lui, sicuro, ha risposto: «La lunghezza di questa tavola, maestà». Il giorno dopo il magister Duns Scoto, fu trovato cadavere nei pressi della Scuola palatina, con un coltello conficcato nella schiena.

    Ma Giovanni Scoto Eriùgena [detto "il Falco" della Scolastica] è stato certamente ucciso su mandato dei membri della corrente cristiana conservatrice che contestavano le sue idee "eretiche" e soprattutto perché avrebbe partecipato, clandestinamente, a più di un convegno organizzato a Toledo dal califfo ommayyade. Il califfo di Toledo ha voluto far incontrare intellettuali arabo-islamici, ebrei-sefarditi e scolastico-cristiani affinché si confrontassero – intorno alle opere di Platone e di Aristotele – sui più importanti temi esistenziali superando le differenze dottrinali per trovare utili punti d’intesa.

    E siccome Giovanni Scoto Eriùgena è stato soprannominato "il Falco" perché ha saputo vedere lontano, leggiamo, per commemorarlo – e a lui l’idea non sarebbe dispiaciuta – un altro racconto da Storie dell’anno Mille, i cui protagonisti [e nostri compagni di viaggio], Millemosche, Pannocchia e Carestia, vivono virtualmente al tempo della Scolastica e anch’essi, per volontà dei loro autori [Tonino Guerra e Luigi Malerba], s’ingegnano più che a raccontare il mondo che li circonda, che non è un bel mondo, a "dare un nome alle cose" in modo da attribuire al loro mondo, se non altro, un tono di [seppur amara] surreale comicità; leggiamo.

 

LEGERE MULTUM….

Tonino Guerra Luigi Malerba, Storie dell’anno Mille

 

NERO IL FALCONE

Ci sono dei falconi neri che dal basso di una valle salgono in cielo a perpendicolo e vanno a scontrarsi contro delle anatre di passaggio. Le anatre colpite scoppiano in una nuvola di penne e poi precipitano giù con tutto il loro peso come se fossero dei sassi o delle scarpe, nel caso che dei sassi o delle scarpe si trovassero a quella altezza e potessero avere le penne. A terra c’è qualcuno che raccoglie le anatre, nel mentre che tre cavalieri fanno ripartire altri falconi togliendo il coperchio dalle ceste dove sono dentro.

Millemosche Pannocchia e Carestia stanno lì a guardare le anatre e i falconi. Si mangerebbero volentieri sia le une che gli altri. Ma ci sono i cavalieri e con quelli non si scherza, sono armati. Millemosche aguzza gli occhi sui falchi che adesso fanno larghi giri perché è finito il passaggio delle anatre e stanno cercando qualcosa come potrebbe essere una biscia uno scoiattolo o un altro animale selvatico come per esempio un cinghiale da cavargli gli occhi. Infatti si gettano a capofitto verso un punto preciso e Millemosche capisce subito che stanno arrivando su di loro e allora si butta a terra e si ammucchia con gli altri due per ripararsi dalle beccate. Si difendono alla disperata cacciando la testa nell’erba e proteggendosi gli occhi con le mani e le mani con le mani fino a quando arrivano dei cavalli e della gente che urla e fischia.

.........(continua la lettura).......

 

    Prima di rimetterci anche noi a "camminare a piedi" sul nostro sentiero specifico utilizziamo una probabile espressione di Millemosche, Pannocchia e Carestia utile per "dare un nome alle cose" in relazione alla morte di Giovanni Scoto Eriùgena.

    Millemosche, Pannocchia e Carestia, in relazione all’assassinio di Giovanni Scoto Eriùgena, avrebbero senz’altro pensato all’espressione "ultimo viene il corvo" senza sapere di agire in funzione della didattica della lettura e della scrittura parafrasando il titolo di un’opera di Italo Calvino intitolata proprio Ultimo viene il corvo. Ultimo viene il corvo è una raccolta di trenta racconti pubblicata nel 1949 e prende il titolo da un racconto uscito per la prima volta sul quotidiano l’Unità il 5 gennaio 1947. Questa raccolta non è suddivisa per temi né secondo un altro criterio, ma al suo interno sono riconoscibili tre filoni: il primo si riferisce all’ambiente e al clima proprio della Resistenza, il secondo è costituito da storie picaresche che vedono al centro personaggi semplici dai desideri elementari, ed infine il terzo, di ispirazione più autobiografica, si richiama all’infanzia dell’autore vissuta in Liguria, a Sanremo. Queste tre linee narrative spesso s’intrecciano e si congiungono come se Calvino si allenasse per diventare un autore che scrive, non solo per raccontare, ma soprattutto per "dare un nome alle cose": sta prendendo forma lo "stile calviniano".

 

 

    E ora rimettiamoci a "camminare a piedi [secondo lo stile espressivo di Millemosche, Pannocchia e Carestia]" sul nostro sentiero specifico.

    Abbiamo detto che gli intellettuali della Scolastica [ora stiamo parlando delle caratteristiche del movimento in generale, prossimamente incontreremo i singoli personaggi] ritengono che sia venuto il tempo di portare a completamento il processo di contaminazione intellettuale tra le forme ereditate dal Neoplatonismo e i contenuti della Fede cristiana – il compito che gli Scolastici si danno è quello di studiare il fenomeno, avvenuto nei secoli dell’Età tardo-antica, della contaminazione intellettuale tra il pensiero neoplatonico e la dottrina cristiana – in modo da produrre, attraverso una reale integrazione culturale, un pensiero nuovo, in funzione di una nuova epoca contrassegnata da una "Filosofia cristiana [e per la prima volta, nella Storia del Pensiero Umano, sentiamo usare questa dicitura]", perché si capisce che l’Età tardo-antica [allora non aveva ancora questo nome] è finita e che l’Età alto-medioevale [allora questo nome non esisteva] sta per concludersi: sta spuntando l’alba della, cosiddetta, "Epoca della cristianità latina".

    Gli intellettuali scolastici, in funzione della creazione di una "Filosofia cristiana", riflettono in primo luogo [visto che - come sappiamo - su questo tema la riflessione è già in corso da secoli] sull’idea dell’anima immortale, un concetto che è entrato ormai definitivamente nell’area dottrinale del Cristianesimo, un concetto di derivazione ellenistica profondamente radicato nella mente delle popolazioni dell’Ecumene e molto più affidabile di quello della risurrezione perché il messaggio che "il corpo risorgerà" fa riferimento ad una speranza proiettata dopo la morte [una morte che sembra riportare al nulla], mentre l’idea dell’anima immortale [e questo è un lascito ereditato dalla cultura orfico-dionisiaca che non si è mai estinta sul territorio dell’Ecumene] risulta essere una componente della vita stessa e il fatto che, nel presente, la persona pensi di "avere un’anima" incide positivamente sulla qualità dell’esistenza terrena: è un pensiero positivo quello di "avere un’anima [perché aiuta la persona ad "essere" meno materiale e più umana]" così come è un pensiero costruttivo [proficuo, provvidenziale] quello di avere la possibilità di "dare un’anima" alle cose che ci circondano [perché è un pensiero che dona creatività alla persona e dignità spirituale].

    E, a questo proposito, la scorsa settimana abbiamo osservato che il tema dell’anima immortale diventa l’oggetto di un gran numero di Trattati che vogliono dare a questo oggetto [ricordate?] una connotazione autenticamente cristiana: abbiamo preso in considerazione, come ben sapete, i sette Trattati sull’anima più significativi e abbiamo constatato come nei testi di queste opere [che risultano essere le prime esercitazioni di Filosofia cristiana nell’ambito della cristianità latina] tutti gli autori [intellettuali proto-scolastici che conosciamo e scolastici che, probabilmente, incontreremo] – l’anonimo Pseudo-Gerolamo, Cassiodoro di Squillace, Alcuino di York, Rabano Mauro, Ratramno di Corbie, Incmaro di Reims, Godescalco d’Orbais – affermano che "l’anima è un’idea sublime [eccelsa, preziosa]" e il significato del termine "Idea" corrisponde alla definizione che di questo oggetto ne ha dato Platone [in molti brani dei Dialoghi di Platone il termine "idea" e il termine "anima" sono in corrispondenza tra loro], e il pensiero di Platone [soprattutto dopo la traduzione in latino dei "Dialoghi" più significativi fatta da Giovanni Scoto Eriùgena] ha preso campo nel territorio europeo centro-occidentale e si è insediato dentro allo scenario culturale della Scolastica alle sue origini.

    Gli intellettuali scolastici si rendono conto che non è possibile alterare la natura intellettuale dei concetti della Filosofia greca [sono convinti che non possa esserci una Filosofia cristiana senza il fondamentale supporto dato dai concetti della Filosofia greca] sui quali – a cominciare dall’idea dell’anima immortale – il pensiero cristiano ormai si regge: se l’idea dell’anima immortale [anche se non c’è un riconoscimento ufficiale da parte dell’autorità ecclesiastica] viene ormai considerata come un principio cristiano e se "questa anima" è "un’idea sublime in senso platonico" ecco che diventa necessario prenderla per quello che è e, di conseguenza [si domandano gli intellettuali della Scolastica], – visto che il progetto della salvezza divina era in programma [nella mente di Dio] da principio [in principio è il Logos, è il Verbum, è la Parola ed è la Parola che crea] – perché non considerare "salvifico [visto che, da tempo, si riteneva proto-cristiana anche l’Eneide di Virgilio e un gran numero di testi classici conservati nelle biblioteche delle abbazie venivano letti come opere proto-cristiane]", perché non considerare "necessario sul piano della salvezza" anche il pensiero di Platone che ha [o, per lo meno, sembra avere], dal punto di vista ideale ed etico, delle caratteristiche affini al messaggio cristiano?

    La maggioranza degli ecclesiastici che governano la Chiesa di Roma, e sono i custodi del primato della Fede sulla Ragione, non la pensano così, ma gli intellettuali scolastici [anche quelli ligi all’autorità costituita], non potranno prescindere dal pensiero platonico e, con spirito di creatività, perseguiranno, spesso in forme semiclandestine, sulla via dell’elaborazione di una Filosofia cristiana di stampo latino; a questo proposito, gli intellettuali scolastici [impegnati ad elaborare una Filosofia cristiana], dopo aver preso atto che "l’anima è un’idea sublime di stampo platonico" ritengono necessario concentrare l’attenzione su quell’oggetto "sublime [eccelso e prezioso]" che è il concetto di "Idea" e su quel territorio "divino [e ultra-terreno]" che è il "Mondo delle Idee", e Platone [il pensiero di Platone] diventa il primo importante "profeta" della Scolastica medioevale. Entro quali termini [alla fine del IX secolo] il pensiero di Platone diventa "profetico" per il movimento della Scolastica alle sue origini?

 

 

    Che rapporto [che nuovo rapporto] s’instaura tra gli intellettuali della Scolastica latina che hanno quasi sempre opinioni diverse tra loro e il pensiero greco di Platone che ha un assetto molto eterogeneo? Possiamo dire che i Dialoghi di Platone tornano – ma dovremmo dire che "compaiono per la prima volta" – in Occidente nella loro integrità di significato, tradotti in latino in modo egregio da Giovanni Scoto Eriùgena che mette in evidenza come il pensiero di Platone sia diversificato: Platone nel risolvere un determinato problema dà sempre più di una risposta e il suo è un "pensiero aperto". Quindi conoscere e capire che rapporto s’instaura tra gli intellettuali della Scolastica latina e il pensiero greco di Platone significa rinfrescarsi la memoria sulle linee generali della filosofia platonica, ed è un esercizio necessario [che dobbiamo fare insieme agli Scolastici] perché Platone – e lo stesso discorso vale per Aristotele [ma ogni cosa a suo tempo] – in Età medioevale è [contrariamente al detto evangelico] come se fosse "profeta in patria". E, in questo momento, l’utilizzo della parola "profeta" nei confronti di Platone e l’uso del termine "profetico" nei confronti del suo pensiero non è una scelta casuale: la figura del "profeta", come ben sapete, non propone un pensiero prefabbricato dove tutto è già dato ma è un personaggio che parla per enigmi e invita la persona a mettersi in discussione per scegliere la propria via di salvezza.

    Ma, prima di compiere l’esercizio di rilettura delle linee fondamentali del pensiero platonico per capire come incida sulla riflessione degli intellettuali della Scolastica alle sue origini, dobbiamo aprire una parentesi prendendo spunto dall’insegnamento che ci viene dai Trattati sull’anima in quanto oggetti in possesso di determinate caratteristiche letterarie utili per la loro natura propedeutica adatta a creare significativi intrecci filologici in funzione della didattica della lettura e della scrittura [secondo la natura del nostro Percorso].

    I testi dei sette più importanti Trattati sull’anima [che abbiamo tirato in ballo la scorsa settimana e anche questa sera] non sono facili da leggere, ma questa constatazione, tuttavia, non significa che sia impossibile leggerli [per giunta possedete qualche chiave da utilizzare e quindi potreste anche sfidare l’inaccessibilità di questi testi che trovate in biblioteca]: noi abbiamo imparato che da questi Trattati possiamo far derivare un catalogo di interrogativi che ancora oggi continuiamo a porci sul tema dell’anima e, di conseguenza, sul tema dell’esistenza.

    Un percorso di Alfabetizzazione culturale in funzione della didattica della lettura e della scrittura deve sfidare la presunta inaccessibilità dei testi classici per utilizzarne le potenzialità formali e in questo caso, dal modo con cui queste opere sono scritte, deriva uno stile – il cosiddetto "stile del trattato medioevale [detto anche "summa"]", uno stile che prenderà campo –, un vero e proprio genere letterario che i redattori di queste opere hanno saputo creare: gli autori dei Trattati sull’anima sono scrittori che si sono prodigati cercando di "dare un nome alle cose".

    Che cosa significa "scrivere per dare un nome alle cose"? Abbiamo già utilizzato molte volte questa dicitura, "scrivere per dare un nome alle cose", e lo abbiamo fatto anche poco fa introducendo le Storie dell’anno Mille e poi invitando alla lettura dei racconti di Italo Calvino contenuti nel volume Ultimo viene il corvo. Ci sono scrittrici e scrittori che vogliono solo raccontare delle storie [e lo sanno fare anche molto bene] e ci sono autrici e autori che scrivono per "dare un nome alle cose", cioè per creare un mondo particolare attraverso un linguaggio speciale, cercando un modo di esprimersi esclusivo per dare vita ad un "universo" che sia proprio uno spazio caratteristico di quell’autrice e di quell’autore tanto da essere definito con un aggettivo corrispondente al nome della scrittrice e dello scrittore stesso e prima, difatti, abbiamo citato l’aggettivo "calviniano".

    E di fronte all’aggettivo "gaddiano" a che cosa pensate, o meglio, a chi pensate? Probabilmente state pensando a quel personaggio – uno scrittore noto a livello internazionale [anche per aver messo alla prova le traduttrici e i traduttori di tutto il mondo] – che si chiama Carlo Emilio Gadda, detto l’Ingegnere.

    Carlo Emilio Gadda, detto l’Ingegnere, è uno scrittore noto in tutto il mondo per essere uno dei più importanti autori che abbiano saputo "dare un nome alle cose" in modo da creare un mondo talmente esclusivo, attraverso un linguaggio veramente singolare che, chi comincia a leggere le sue opere senza una "chiave di lettura" in mente, dopo mezza pagina pianta lì e si domanda sconcertato: ma che cosa scrive e come scrive costui? Gadda scrive per costruire un mondo secondo la sua visione dell’esistenza umana, e il mondo come lo vede Gadda è imperfetto, incompiuto, difettoso, squinternato, privo di senso, e quante volte è successo anche a noi di dire: ma in che mondo stiamo vivendo? Gadda è stato un tipo polemico, rissoso, di carattere introverso e riflessivo fino all’esasperazione come certi "scolastici" che incontreremo strada facendo, e queste sue caratteristiche emergono, a livello autobiografico, in tutti i suoi testi.

    Gadda lo abbiamo incontrato due anni fa quando abbiamo letto un certo numero di pagine tratte da quello straordinario romanzo [un’opera che viene considerata tra le più significative della Letteratura del ‘900, con un protagonista, il commissario Ingravallo, di grande spessore letterario perché sa dare un nome alle cose, a quelle cose che il regime fascista vorrebbe nascondere] che s’intitola Quer pasticciaccio brutto de via Merulana che contiene, già nel titolo, un preciso riferimento all’esercizio della "contaminazione linguistica".

    E, a questo proposito, dobbiamo prendere atto che l’esercizio della "contaminazione linguistica" è uno degli elementi fondamentali di quella Letteratura che ha come obiettivo quello di "dare un nome alle cose": gli scrittori della Scolastica operano mescolando forme provenienti dalla cultura greca, latina e araba, e Gadda scrive opere che stanno tra il racconto, il saggio, il grottesco, caratterizzati da un’inesausta e originale invenzione stilistica con la quale crea un elaborato e composito impasto linguistico, un misto di forme colte e illustri [Gadda è un fine umanista], di forme tecniche [Gadda è un ingegnere], di forme dialettali, vernacolari e gergali [Gadda è un lombardo che si diverte a giocare con i dialetti del sud e con le lingue straniere dei paesi nei quali è vissuto] e di forme neologistiche [Gadda è uno straordinario inventore di parole, ed è nato un formidabile glossario gaddiano, un dizionario dei termini inventati da Carlo Emilio Gadda]. La contaminazione intellettuale è un’intersezione, è un intreccio, è l’arte di saper mescolare le forme e i contenuti.

 

 

    Oggi si sta soprattutto riflettendo [a teatro, sui giornali, in campo letterario] sulla scrittura di Gadda come forma di denuncia feroce e sarcastica nei confronti del fenomeno dell’impoverimento del linguaggio [viviamo in un mondo nel quale si è perso il senso delle parole e Gadda è stato tra i primi a denunciare questo fenomeno], e questo impoverimento è, secondo Gadda, causato da un infausto uso dei mezzi di comunicazione, a cominciare dalla televisione [Gadda ha anche lavorato per la Rai]. Gadda, in uno dei suoi Elzeviri [brevissimi editoriali scritti per i giornali], mentre polemizza ferocemente con chi esalta la "brevità" dei nuovi mezzi di comunicazione, abbozza ad una sorta di manifesto letterario. Leggiamo che cosa scrive Gadda in uno dei suoi Elzeviri del 1955.

 

LEGERE MULTUM….

Carlo Emilio Gadda, Elzeviri

Stiamo morendo di troppa brevità perché ormai la brevità non coincide con la sintesi ma con la schizofrenia, non coincide con l’identificazione della parola-chiave e dell’idea perché, nella civiltà delle immagini, alla parola è rimasto un unico ruolo, quello di didascalia e di sottotitolo: corollario alla diffusione dell’imbecillità e alla proliferazione del sottosviluppo mentale. Non si può fare Lezione, né tanto meno progredire intellettualmente, a colpi di linguaggio smozzicato come quello, velato con continui riferimenti sessuofobici, che televisione e giornali ci rovesciano addosso di continuo. Oggi chiunque provi, ma non ci prova quasi più nessuno, a tessere un ragionamento o ad avventurarsi sul terreno della consecutio temporum [di un percorso di riflessione, di un itinerario di studio] viene considerato un tipo bizzarro e palloso: non c’è tempo per ascoltarlo, non c’è voglia, non c’è spazio nei cervelli saturi delle persone. Gli scrittori sopravvivono sulle carte dei cioccolatini, purché abbiano coniato qualche battuta memorabile: e povero Oscar Wilde e povero Tolstoj e povero Dostoevskij Ogni frase, sotto forma di slogan, viene estrapolata dal contesto e vive una vita propria, spesso antitetica alle intenzioni dell’autrice e dell’autore e usata unicamente in funzione del consumo. La morale di tutto ciò in che cosa consiste? Consiste in un discorso lungo: e io lo voglio fare e voglio dare un nome alle cose.

 

    Ecco anche da dove nasce l’esigenza che Gadda sente – come l’hanno sentita molte altre autrici e autori [che incontreremo strada facendo, perché questo filone sta sul percorso del nostro viaggio] –, l’esigenza di sfidare la "bieca mentalità convenzionale degli imbecilli [sono parole di Gadda]" ed è per questo che s’impegna nello scrivere per "dare un nome alle cose" senza avere preoccupazioni di carattere editoriale ma come terapia per se stesso, per "cercare di curare il suo malumore".

    Chi è Carlo Emilio Gadda? Rinfreschiamoci la memoria in proposito. Carlo Emilio Gadda è nato a Milano nel 1893 in una famiglia originariamente agiata, che poi si è ridotta in ristrettezze a causa di una serie di investimenti disastrosi fatti da suo padre. Nel 1912 Gadda si iscrive ai corsi di ingegneria del Politecnico di Milano e quando nel 1915 scoppia la prima guerra mondiale [siamo nel pieno delle celebrazioni del centenario di questa immane tragedia] viene arruolato come ufficiale degli alpini e partecipa a molte azioni belliche prima di essere fatto prigioniero e deportato in Germania: lì comincia a scrivere un diario. Dopo la dura esperienza della guerra torna a Milano riprende a studiare e nel 1920 si laurea in ingegneria elettrotecnica e come ingegnere lavora in Italia e poi – sono gli anni della dittatura [che lui non sopporta] – va a lavorare all’estero soprattutto in Argentina. Dopo la seconda guerra mondiale si trasferisce a Roma ma non vuole più fare l’ingegnere e, siccome ha tante amicizie in campo letterario che conoscono le sue competenze, viene assunto come redattore dei programmi culturali della Rai e contribuisce a creare il Terzo programma radiofonico: una rete, Radio Tre, che conserva ancora oggi una grande qualità. Nel 1955 Gadda, in polemica, lascia la Rai [l’avvento della televisione fin dalle origini lo disturba, fiuta i pericoli di un simile mezzo più che i suoi lati positivi] e comincia a scrivere a tempo pieno e a vivere appartato nel suo appartamento romano, che lascia molto raramente, assistito da una governante fino alla sua morte avvenuta nel 1973.

    La prima opera importante di Gadda sono i diari scritti durante la Grande Guerra pubblicati nel 1955 col titolo Giornale di guerra e di prigionia. Nel 1924 ha scritto il Racconto di ignoto italiano del Novecento, rimasto inedito fino al 1983. Seguono poi il romanzo La Meccanica e le prose intitolate Novella seconda che scrive tra il 1928 e il 1929 [ma che vedono la pubblicazione solo nel 1970 e nel 1971]. Nel 1931 compare il primo libro [pubblicato in vita] di Gadda che è una raccolta di racconti intitolata La Madonna dei filosofi, seguita nel 1934 dai racconti de Il castello di Udine. Fra il 1938 e il 1941 escono sulla rivista Letteratura alcune parti del romanzo La cognizione del dolore che appare in volume nel 1963 e che oggi viene considerato un classico [uno dei capolavori letterari del ‘900]. Nel 1944 appaiono i racconti de L’Adalgisa e nel 1946, sempre sulla rivista Letteratura, esce una prima redazione di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana che viene pubblicato in volume nel 1957. L’elenco degli scritti di Carlo Emilio Gadda è molto lungo, ricordiamo ancora un’opera, pubblicata nel 1967, che s’intitola Eros e Priapo [l’abbiamo incontrata qualche anno fa sul territorio della Tragedia] il cui testo – che analizza in modo sarcastico i deprecabili costumi fascisti che contrabbandano l’immoralità per "maschia virilità" –è stato portato recentemente a teatro per la sua attualità sul tema del rapporto tra sesso e potere e anche il Giornale di guerra e prigionia è diventato una rappresentazione teatrale con il titolo di L’ingegnere va alla guerra [in rete trovate molte notizie su questi avvenimenti].

 

 

    E adesso – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – vogliamo puntare l’attenzione sul romanzo intitolato La cognizione del dolore. Il testo del romanzo viene pubblicato in parte tra il 1938 e il 1941 sulla rivista Letteratura ed è stato pubblicato in volume, con un saggio introduttivo di Gianfranco Contini, nel 1963 e poi con l’aggiunta di due brani inediti nel 1970. Anche questo romanzo, come tutte le opere di Gadda, è incompiuto perché il concetto della "incompiutezza del mondo" fa parte del pensiero gaddiano.

    Prima di leggerne alcune pagine dobbiamo – a grandi linee – riferire di che cosa parla questo romanzo il cui protagonista, Gonzalo Pirobutirro, è ormai entrato a far parte del catalogo dei personaggi più importanti, ed emblematici, della Storia della Letteratura. L’azione si svolge in un luogo immaginario dell’America del Sud [i nomi dei luoghi – Lukones, Pastrufazio - sono tutte invenzioni gaddiane] che però assomiglia tanto alla Brianza e che è appena uscito da una lunga guerra contro un paese vicino, e l’ingegnere [c’è molto del carattere di Gadda in questo personaggio] Gonzalo Pirobutirro dà libero sfogo ai suoi rancori. Vive rinchiuso nella vecchia dimora di famiglia dai muri screpolati e circondata da campi ormai sterili, e si abbandona ad attacchi d’ira contro il mondo che lo circonda: contro i peones ladri e ubriaconi, contro i piccoli borghesi che sfruttano le dissolutezze del popolo per assecondarne i vizi, contro gli arricchiti di guerra, contro i militari guerrafondai, contro gli uomini d’affari che spiano la rovina dei nobili per depredarli. La sua collera non risparmia neppure la madre, che egli picchia, insulta, umilia accusandola di lasciarsi imbrogliare dal suo buon cuore, dal suo orgoglio di madre e di nobile, dalla sua preoccupazione di conservare la villa, anche a costo di portare alla rovina la famiglia. Gonzalo vuole essere l’ultimo dei Pirobutirro, e si sforza di comportarsi nel modo più individualista possibile, e rifiuta anche – ma questo è un atto di coraggio – la protezione dell’Istituto di vigilanza notturna [e questa è una metafora contro il regine fascista] incaricato di sorvegliare i possedimenti dei grandi proprietari terrieri del paese. Gonzalo respinge anche i saggi consigli del dottore che vede in lui un ottimo partito per una delle sue numerose figlie. Il racconto, rimasto incompiuto, doveva continuare con la fuga di Gonzalo e con l’assedio alla sua proprietà da parte degli uomini dell’Istituto di vigilanza notturna, mentre la madre sarebbe morta durante l’assedio con il sospetto che Gonzalo fosse stato l’istigatore dell’aggressione.

    Il "dolore" di Gonzalo Pirobutirro [il protagonista del romanzo di Carlo Emilio Gadda intitolato "La cognizione del dolore"] è quello dell’intellettuale che riflette lucidamente sull’insensatezza dell’esistenza, il cui rifiuto del mondo in cui vive giunge fino al desiderio di autodistruzione e di annullamento totale e, nello stesso tempo, la sua sofferenza diventa parte di una sofferenza universale. Gonzalo Pirobutirro attribuisce il suo disagio all’educazione ricevuta nell’infanzia attraverso il carattere passionale della "madre" italiana: una maleducazione che genera il "mammismo" e il "paternalismo", atteggiamenti che predispongono la persona al totalitarismo. In questo libro violento e grottesco, satirico ed esasperato, Gadda mette in gioco, con una raffinatissima operazione espressionistica, una pluralità di livelli e di codici linguistici [da quello aulico a quello colloquiale, da quello tecnico a quello dialettale] accostati in un continuo processo di deformazione e di arricchimento rispetto alla fissità e alla banalità della lingua comune: Gadda dà il nome alle cose e non vuole subire la convenzionalità di una lingua povera, fatta di luoghi comuni, e che rappresenta "un corollario [scrive Gadda] alla diffusione dell’imbecillità e alla proliferazione del sottosviluppo mentale". Il plurilinguismo gaddiano, la prassi del "dare un nome alle cose", non è, quindi, una pura operazione formale perché l’autore pensa che "la realtà è caos, la realtà è disarmonia" e, di conseguenza, la sua scrittura "polisemica [dai tanti registri mescolati insieme]" non fa che rendere, poeticamente, la drammaticità dell’esistenza.

 

 

    Leggere il testo del romanzo La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda non è un’impresa facile: ci si riesce meglio con il metodo del LEGERE MULTUM, quattro pagine al giorno affrontate con la massima attenzione e con il dizionario a disposizione. Proviamo ora a leggerne tre pagine: facciamo conoscenza con Gonzalo Pirobutirro, un personaggio davvero speciale che assomiglia molto al suo autore.

 

LEGERE MULTUM….

Carlo Emilio Gadda, La cognizione del dolore

 

Il disinteresse ogni volta rinnovato con cui ascoltava il racconto, da ognuno che glielo ricoceva, per poi buttar là, lui [il buon dottore], come niente, quelle tre o quattro parolette secche da uomo di scienza, che sa il fatto suo, ed enuncia in termini impeccabili il dato, dondolando il capo in atto di pietosa diagnosi come potrebbe fare un economista sulla agonizzante legge di Ricardo; tutta quella inapparente ma estremamente eccitata curiosità, e l’ardore eucaristico della propalazione delle ultime notizie, erano stati anzi motivo, in quei giorni, a rimandare di due altri giorni il radersi: ch’era una liturgia del giovedì e domenica, ma trascurata già da sei giorni, in quella circostanza, (più il primo, che non conta), e però di più in più paventabile, e acerba nel pronostico; e d’angosciosa predisposizione. Arrivò quindi a una barba di dieci giorni, caso del resto non infrequente nella sua biografia, specchio d’una vita impegnatissima e tutta dedita al bene, o per dir meglio al male, del prossimo.

.........(continua la lettura).......

Il medico ridacchiò: gli parve, pensandoci, che il figlio Pirobutirro stesse per troppo a rimuginar malanni, chiuso in sé: malanni ormai rugginosi nel tempo: e i pensieri gli attossicavano l’anima, come una spazzatura irrancidita.

 

    Leggeremo ancora qualche pagina di questo romanzo nel testo del quale l’autore inserisce sistematicamente metafore mutuate dal pensiero platonico, aristotelico, scolastico: Gadda è anche un erudito umanista. E ora torniamo a scarpinare sul nostro sentiero specifico.

    Abbiamo detto che gli intellettuali scolastici sono impegnati ad elaborare una Filosofia cristiana a partire dal concetto dell’anima immortale che rafforza il quadro della dottrina che il Cristianesimo propone per indicare la via della salvezza e, a questo proposito, gli intellettuali scolastici prendono atto del fatto che "l’anima è un’idea sublime [eccelsa, preziosa] di stampo platonico" e noi, a questo punto, ci dobbiamo domandare: entro quali termini [alla fine del IX secolo] il pensiero di Platone diventa "profetico" per il movimento della Scolastica alle sue origini? Che rapporto s’instaura, quindi, tra gli intellettuali della Scolastica latina che coltivano opinioni diverse l’uno dall’altro e il pensiero greco di Platone che lascia spazio a diverse interpretazioni: che cosa insegna Platone agli Scolastici?

    Leggendo i Dialoghi [tradotti in latino da Giovanni Scoto Eriùgena] gli intellettuali della Scolastica scoprono che Platone ha imparato da Socrate che esistono i "concetti", intesi come conoscenze di valore universale, valevoli per tutti: i "concetti" [secondo Socrate] sono nozioni, immagini, astrazioni, giudizi, visioni, significati che, attraverso il dialogo, vanno identificati e condivisi. Ma Platone va oltre il pensiero di Socrate e riflette sul fatto che i "concetti" che noi abbiamo in mente – appunto perché "universali" – non possono in alcun modo essere ricavati dalla realtà che ci circonda perché la realtà che ci circonda è sempre particolare e sensibile: infatti i concetti della morale [la bontà, a gata àgata] e quelli dell’estetica [la bellezza, kallas kallas] presuppongono che noi abbiamo già un "ideale" di Bene e di Bello con il quale mettiamo a confronto la realtà esterna per giudicare se un dato oggetto sia buono e sia bello. Ma siccome un oggetto, pensa Platone, appare sempre inferiore all’ideale con cui noi lo commisuriamo, abbiamo la conferma che questo "ideale" non può derivare dalla realtà esterna. Lo stesso, pensa Platone, avviene per i concetti della matematica [per le figure geometriche a cui, secondo il pensiero pitagorico, corrispondono i numeri]: i triangoli, i quadrati, i rettangoli, i cerchi che noi osserviamo nella Natura – per esempio: il tronco circolare di un albero – sono sempre inferiori come perfezione ai triangoli, ai quadrati, alle circonferenze "ideali" che noi concepiamo nella nostra mente. Ne consegue quindi, pensa Platone, che i concetti di triangolo, di quadrato, di cerchio [i concetti matematici] non derivano dalla realtà esterna perché altrimenti non risulterebbero superiori in perfezione ai triangoli, ai quadrati, ai cerchi reali, ma apparirebbero pari se non inferiori.

    Da questa riflessione sulla natura dei "concetti in quanto universali" nascono nella mente di Platone una serie di interrogativi. Platone pensa che i "concetti", in quanto "universali", non possono derivare dalla realtà sensibile che è sempre particolare e, quindi si domanda Platone, è ipotizzabile che esista un’altra Realtà universale come lo sono i "concetti" e dalla quale noi possiamo attingere i concetti stessi? E, ammesso che questa Realtà universale esista si domanda Platone, come possiamo noi conoscerla e ricavarne i "concetti"? Se i "concetti", pensa Platone, non derivano dalla realtà sensibile deve esistere davvero un’altra Realtà fatta di Enti universali, eterni, immutabili, da cui noi ricaviamo i "concetti". Questi Enti o Essenze immutabili, pensa Platone, devono anche essere "spirituali": infatti se fossero materiali sarebbero sensibili e, quindi, particolari, come sono tutti gli oggetti che ci circondano in questo mondo.

    Con questo ragionamento Platone trova un modello per definire i "concetti" della nostra mente e a queste Essenze spirituali, eterne, universali e, quindi, assolute, Platone dà il nome di "idee". La sede delle "idee", di conseguenza pensa Platone,, non può trovarsi in questo mondo materiale, ma in un mondo trascendente, che sta al di sopra del firmamento e che Platone chiama perciò "Iperuranio". Nell’Iperuranio le "idee", che sono molteplici, sono legate tra loro da una rete che è a forma di tetraedro [di piramide] con l’idea del Bene che sta al vertice: questo significa che le varie idee non sono indipendenti l’una dall’altra, ma sono collegate fra loro da rapporti "logici" e da rapporti "morali".

    Sono collegate da rapporti "logici" perché tutte le idee, proprio in quanto "esistono", sono attuazioni dell’idea dell’Essere e, quindi, essendo tutte frutto di quest’idea, sono in "comunione", sono in "parentela reciproca" e partecipano all’Unità dell’Essenza e, di conseguenza, la realtà vera è il Mondo delle Idee.

    Sono poi collegate da rapporti "morali" in quanto il Mondo delle Idee è dominato dall’Idea del Bene [Àgaton, Àgata] e questo significa che tutte le idee sono disposte secondo una scala di Valori e sono ordinate proprio come è "bene che siano ordinate", affinché ciascuna possa contribuire, facendo la sua parte, a realizzare quel complesso armonico che è il Mondo delle Idee, che è l’Iperuranio. Questo significa che ogni "idea" partecipa in certa misura dell’Idea del Bene, e questo vale a stabilire una comunione e un rapporto intimo fra le varie idee e Platone con un’immagine poetica, nel dialogo intitolato Repubblica, afferma che: «Come il sole dà vita e illumina le cose, così l’Idea del Bene dà vita e rende intelligibili [cioè illumina] tutte le altre idee».

    Questa affermazione, oltre ad essere poetica, custodisce un principio [logico e morale] fondamentale nella Storia del Pensiero Umano: se l’Idea del Bene illumina tutte le idee questo significa che quando un pensiero non è illuminato dal riflesso dell’Idea del Bene [quando un pensiero non è volto al bene comune] non può essere considerato un’idea, perché "l’idea" è una forma buona e bella e, quindi, quando un pensiero non è illuminato dal riflesso dell’Idea del Bene, afferma Platone, diventa un prodotto che assume i contorni di una furberia [di una furbata], diventa il risultato dell’astuzia della Ragione e non il frutto della Ragione pura e, di conseguenza, non tutti i pensieri sono "idee" ma solo quelli illuminati dall’Idea del Bene, quelli in funzione della realizzazione del Bene comune.

    L’obiettivo educativo che deve perseguire una Filosofia, afferma Platone, è quello di insegnare, attraverso tutte le discipline, a distinguere i "pensieri sottomessi alla furbizia" dalle "Idee sublimi" e questa conoscenza è fondamentale per aspirare a "trasformare il mondo". Certamente, pensa Platone,, noi non viviamo nell’Iperuranio, noi non viviamo nel Mondo delle Idee che è spirituale ed eterno ed è illuminato direttamente dall’Idea del Bene: noi viviamo, afferma Platone, a contatto con la Natura [Phisis] e dipendenti dalla Città [Polis] che sono due mondi materiali, caduchi, precari e sensibili, che percepiscono solo marginalmente il riflesso dell’Idea del Bene.

    Che rapporti esistono [si domanda Platone nei suoi Dialoghi] fra le idee delle cose che sono eterne e immutabili e risiedono nell’Iperuranio, e i vari oggetti materiali che vivono la loro vita provvisoria su questa terra? A questa domanda, ammette Platone, – così come a molte altre domande – non è facile rispondere e, difatti, il pensiero di Platone al riguardo non è molto preciso e non è omogeneo: di volta in volta, di Dialogo in Dialogo, egli adotta soluzioni diverse e si domanda se le Idee siano prodotti del pensiero umano, o se esistano solo fuori della nostra mente, o se esistano nelle cose sensibili; il pensiero di Platone è "aperto" e gli intellettuali entrano con interesse dentro a questo territorio diversificato.

 

 

    Quando gli intellettuali della Scolastica scoprono che Platone ha le idee chiare sulla natura delle idee [spirituali, eterne, immutabili, sublimi] ma è incerto nel definire la loro provenienza decidono di esprimere in proposito il loro parere: il tema dell’anima immortale passa in secondo piano – si dà per scontato che l’anima sia "un’idea sublime", ma il problema che ora si pone è quello di capire da dove vengano le Idee – ed esplode così un vivace dibattito che ben presto diventa un duro scontro tra diverse opinioni.

    Il tema della incerta provenienza delle Idee – con le diverse soluzioni che emergono nei testi dei Dialoghi di Platone – mette in moto la prima significativa questione affrontata dagli intellettuali scolastici nell’intento di fondare una Filosofia cristiana: la famosa "questione degli universali". Di che cosa si tratta? Non si può certo rispondere con una battuta: è un tema di vasta portata di cui ci occuperemo la prossima settimana, ora ormai è tardi.

    Per Millemosche, Pannocchia e Carestia l’unico posto dove mettere l’anima è nell’espressione "anima viva" che per i protagonisti delle Storie dell’anno Mille risulta essere molto più reale dell’espressione "anima immortale". Leggiamo che Millemosche – a proposito di idee – ha un’idea in testa, ma un’idea ce l’hanno anche Pannocchia e Carestia, un’idea che gli parte dalla testa e gli arriva alla pancia, ma la pancia può essere il posto delle idee? Sarà meglio che Platone non ci senta: leggiamo, quindi, sottovoce.

 

LEGERE MULTUM….

Tonino Guerra Luigi Malerba, Storie dell’anno Mille

 

IL CAVALLO IN TESTA

Dopo tre o quattro giorni di camminate senza incontrare anima viva, Millemosche si mette a pensare che sia Pannocchia sia Carestia gli portano scalogna. E allora una mattina si sveglia prima degli altri e decide di scappare. Si avvia lungo il sentiero ai piedi della montagna di sabbia e zolfo dove si erano fermati a dormire e raggiunge alcuni massi coperti di ortica. Li oltrepassa e già si sente tranquillo e solitario.

.........(continua la lettura).......

 

    E se Platone li sente non può che mettersi a ridere.

    Sapete dove porta la famosa "questione degli universali" e perché dobbiamo scomodare [ma lui si scomoda volentieri] Porfirio di Tiro?

    Per rispondere a queste domande dobbiamo studiare e, quindi, il nostro viaggio, il nostro Percorso di Alfabetizzazione culturale e funzionale continua con lo spirito utopico che lo "studio" porta con sé consapevoli del fatto che non si debba mai perdere la volontà d’imparare…

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Ottobre 31, 2014