Prof. Giuseppe Nibbi La sapienza poetica e filosofica dell’età alto-medioevale 19-20-21 febbraio 2014
Friedrich Nietzsche
SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ ALTO-MEDIOEVALE
NEL PAESAGGIO INTELLETTUALE DELLA LETTERATURA
DEL CORANO EMERGE IL TEMA DELLA “CONDIZIONE DELL’ORFANO” …
Questo è il sedicesimo itinerario del nostro viaggio sul “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età alto-medioevale” e ci troviamo di fronte al complesso “paesaggio intellettuale della Letteratura del Corano”. Prima di rimetterci in movimento di fronte allo scenario che stiamo osservando dobbiamo – per riprendere il filo del discorso – ricapitolare.
Sappiamo che la storia dei primi quarant’anni della vita di Muhammad – il protagonista, dopo Allah, della Letteratura del Corano – è legata ad un’enorme raccolta di “racconti mitici e leggendari”, in arabo “hadit”, scritti nei decenni successivi alla sua morte con lo stesso stile con cui è stata composta la Letteratura dei Vangeli apocrifi [un argomento che abbiamo più volte studiato in questi anni]. Sappiamo anche che la più antica compilazione di racconti [di hadit] è intitolata “Sira” che significa “vita-modello del Profeta” ed è stata scritta in due riprese da due importanti autori, Ibn Ishaq di Medina e Ibn Hisam di Bàssora, e la “Sira” è l’opera che dà origine a quella che si chiama la “tradizione islamica”. I primi dati che, secondo la tradizione, possediamo sulla vita di Muhammad riguardano le numerose e complesse “genealogie” che sono state scritte per far arrivare questo personaggio fino ad Adamo, in modo da farlo avvicinare il più possibile a Dio: abbiamo studiato la scorsa settimana che anche questa è un’operazione compiuta ad imitazione della Letteratura dell’Antico Testamento. Ci sono centinaia di “genealogie” di Muhammad e le studiose e gli studiosi islamici considerano questi testi come “esercitazioni leggendarie”, e poi sappiamo anche che nel Libro del Corano non ci sono genealogie del Profeta [è tradizione da conoscere, da raccontare ma non è dottrina in cui credere].
Un altro dato importante che conosciamo sulla vita di Muhammad è che – secondo la tradizione – sarebbe appartenuto alla grande e potente tribù dei Coreisciti [Quraish], i signori de La Mecca, ma abbiamo detto che questo dato fa nascere una contraddizione dalla quale scaturiscono alcuni importanti temi su cui è necessario riflettere. La contraddizione sta nel fatto che i primi anni di Muhammad, gli anni della sua infanzia [soprattutto dai sei ai dieci anni] sono descritti – tanto dalla tradizione e anche dal testo del Corano – come anni, per lui, di grande povertà, indigenza e tristezza: anni molto duri, difficili da vivere se non con grande forza d’animo, e questo fatto contrasta con l’appartenenza ad una grande e potente tribù. Di conseguenza le studiose e gli studiosi si domandano se Muhammad fosse davvero membro della tribù dei Quraish oppure se sia stato adottato: era forse un trovatello affiliato [come garzone] alla tribù dei Coreisciti? Dal punto di vista “storico” non abbiamo nessuna notizia certa. E sul piano della tradizione che cosa dicono gli “hadit”, che cosa si legge nell’enorme raccolta di racconti sulla vita del Profeta? La tradizione, naturalmente, cerca di “conciliare” le due situazioni: il Muhammad membro della potente tribù coreiscita con il Muhammad bambino povero, debole, indigente e triste. Sappiamo dai racconti della tradizione, dagli hadit, che il padre di Muhammad, Abdallah, sarebbe morto prima della nascita del figlio e la madre, Amina, sarebbe morta quando lui aveva sei anni. Quindi, tutta la tradizione prevede, per Muhammad, la condizione di “orfano”: e questa diventa una parola-chiave anche per la cultura islamica.
Nell’itinerario della scorsa settimana abbiamo imparato che pure il romanzo di Herman Melville intitolato Moby Dick o la balena si conclude con la parola “orfano”, una “qualità” che il protagonista, Ismaele, riserva a se stesso proprio perché è lo scrittore medesimo che si riconosce in questa condizione. E la parola “orfano” ci porta dentro ad una nuova interessante combinazione letteraria, e ci conduce a dipanare un intreccio filologico sulla scia della didattica della lettura e della scrittura e, quindi, prima di riflettere sulla “condizione di orfano” di Muhammad, dobbiamo aprire una parentesi che ci permette di incontrare un altro importante romanzo del quale proporre la lettura. Voi direte: ma se abbiamo appena messo in lettura, o in rilettura, Moby Dick come possiamo avventurarci su un altro testo magari altrettanto complicato? Possiamo farlo con il sistema del dimezzamento applicato al metodo del “legere multum” che consiste [come sapete] nella attenta lettura quotidiana di quattro pagine in circa dieci minuti. Se per la lettura di Moby Dick scendiamo a due pagine [applicandoci sempre per dieci minuti al giorno] possiamo dare spazio alla lettura di altre due pagine di un secondo libro.
L’esercizio che ci permette di dipanare un interessante intreccio filologico legato alla parola “orfano” comprende due fasi. La prima fase passa per la “Sira”, la più antica raccolta di racconti [di hadit] sulla “vita-modello del Profeta”, che riporta molti episodi relativi all’infanzia di Muhammad in relazione alla sua condizione di “orfano”. La tradizione islamica [come sappiamo, lo abbiamo già ripetuto più di una volta] narra che Abdallah, il padre di Muhammad, sarebbe morto prima della nascita del figlio e Amina, la madre del futuro Profeta, sarebbe morta quando lui aveva solo sei anni e, quindi, racconta la Sira, il trovatello Muhammad sarebbe stato affiliato [come garzone] alla potente tribù dei Coreisciti. Dai sei ai dieci anni, racconta la Sira, il piccolo Muhammad avrebbe fatto il “balio”: avrebbe badato ad un gruppetto di bambini della più potente tribù de La Mecca e, sebbene ricevesse un sufficiente nutrimento e fosse dignitosamente vestito, avrebbe però molto sofferto per la carenza affettiva: a lui non toccavano le carezze, né i baci, né gli abbracci delle madri di quei bambini – più piccoli di lui – sui quali vigilava e questo fatto lo rattristava molto e lo immalinconiva. A dieci anni, racconta la Sira, quando un bambino era ormai ritenuto capace di lavorare, gli viene affidato l’incarico di guidare uno dei molti greggi della tribù coreiscita e diventa un solitario, taciturno e meditabondo “pastorello”, ma ora noi dobbiamo rimanere nell’ambito della parola “orfano”: sul termine “pastorello” dovremo aprire, a suo tempo, un altro capitolo.
La narrazione su “l’orfano Muhammad”, fatta attraverso gli hadit [i racconti] della tradizione islamica raccolti nella “Sira”, richiama un personaggio significativo della nostra storia letteraria contemporanea [un orfano emblematico] creato da una scrittrice che tutte e tutti voi conoscete o dovreste conoscere: Elsa Morante, ed è proprio attraverso un romanzo di Elsa Morante che passa la seconda fase dell’esercizio con cui vogliamo dipanare l’intreccio filologico legato alla parola “orfano”. E, con il primo passo di questa seconda fase, entriamo in contatto con questa scrittrice.
Elsa Morante è nata a Roma il 18 agosto 1912, in via Anicia, dove ha trascorso la sua infanzia nel quartiere popolare di Testaccio, e la “condizione dell’orfano”, tema di cui ci stiamo occupando, non la riguarda affatto perché ha addirittura due padri, difatti, è la figlia naturale di una maestra ebrea, Irma Poggibonsi, originaria di Modena e d’un impiegato delle poste, Francesco Lo Monaco, e alla nascita è stata riconosciuta da Augusto Morante, il marito della madre che era impiegato al riformatorio “Aristide Gabelli”. Elsa è cresciuta insieme ai fratelli più piccoli Aldo, Marcello e Maria [un primo fratello, Mario, era morto in fasce prima che lei nascesse]. Elsa ha iniziato giovanissima a scrivere filastrocche e favole per bambini, poesie e racconti brevi, che a partire dal 1933, sono stati pubblicati su varie riviste come il Corriere dei piccoli, il Meridiano di Roma, I diritti della scuola. Nel 1936 Elsa Morante conosce lo scrittore Alberto Moravia che ha sposato nel 1941, e alla fine del 1943, per sfuggire alle rappresaglie dei nazisti, Morante e Moravia lasciano Roma occupata e si rifugiano a Fondi, un paesino in provincia di Latina a pochi chilometri dal mare. Questa parte dell’Italia Meridionale appare di frequente nelle opere narrative successive dei due scrittori.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Con la guida del Lazio e navigando in rete fate una vista alla cittadina di Fondi che si trova lungo la via Appia, ai piedi dei monti Aurunci e in prossimità dell’omonimo lago… In questa cittadina, che conserva parte delle mura di origine romana del I secolo a.C., ci sono interessanti monumenti da visitare: il Duomo di San Pietro di origine romanica, il Castello, il Palazzo del Principe… Fate un’escursione a Fondi, buon viaggio…
Morante e Moravia hanno frequentato e lavorato insieme ad una serie di personaggi importanti della cultura italiana a cominciare da Pier Paolo Pasolini [la Morante fa un’apparizione anche nel film “Accattone”], Umberto Saba, Attilio Bertolucci, Giorgio Bassani, Sandro Penna, Enzo Siciliano. Il primo romanzo importante che Elsa Morante ha pubblicato s’intitola Menzogna e sortilegio, uscito nel 1948 tramite Natalia Ginzburg, e che ha ricevuto il Premio Viareggio. Nel 1957 pubblica il romanzo L’isola di Arturo [del quale fra poco parleremo], nel 1958 pubblica sedici poesie col titolo Alibi, e nel 1963 una raccolta di racconti, Lo scialle andaluso, mentre nel 1968 appare Il mondo salvato dai ragazzini che è un’opera molto originale formata da un misto di poesia, di canzoni e di dialoghi. Nel 1974 esce La Storia, un romanzo ambientato a Roma durante la seconda guerra mondiale, un testo che ha raggiunto una fama internazionale e che il regista Luigi Comencini ha, nel 1986, tradotto in un film. L’ultimo romanzo di Elsa Morante s’intitola Aracoeli ed è stato pubblicato nel 1982. Abbiamo solo citato le opere più importanti che meritano di essere lette e rilette. La vita di Elsa Morante dal 1983 è stata molto travagliata [ha tentato il suicidio, si è ammalata di depressione, ha subito la rottura del femore, è stata operata più volte, ha vissuto quasi sempre in ospedale], ed è morta in seguito ad un infarto nel 1985.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
In tutti i libri di Elsa Morante – dei quali si consiglia la lettura – trovate una cronologia della sua vita e delle sue opere, e, quindi, potete approfondire – anche utilizzando l’enciclopedia, la biblioteca e la rete - la vostra conoscenza di questa importante scrittrice contemporanea…
Tra le opere di Elsa Morante dobbiamo ora puntare l’attenzione sul romanzo intitolato L’isola di Arturo, pubblicato nel 1957, che si è aggiudicato in quell’anno il Premio Strega e dal quale è stato tratto un film omonimo diretto dal regista Damiano Damiani, ed è probabile che abbiate letto questo romanzo che oggi viene considerato un classico del ‘900 e che, quindi, è utile rileggere periodicamente.
Il romanzo di Elsa Morante intitolato L’isola di Arturo è stato composto tra il 1952 e il 1956 e, subito dopo la sua pubblicazione, tanto per l’equilibrio della forma quanto per la straordinaria limpidezza narrativa, è stato accolto come un classico del Novecento. Se prendete questo libro – che trovate in biblioteca [di sicuro ci sarà tra voi chi ha già fatto, anche involontariamente, questo esercizio] – potete constatare che il racconto è introdotto da una poesia della stessa Morante, intitolata “Dedica” [poi confluita nella raccolta “Alibi” del 1958], che contiene nell’ultimo verso la chiave di lettura dell’intero romanzo: «fuori del limbo non v’è eliso», come dire che bisogna rassegnarsi a vivere nell’incerta condizione [il limbo, il margine] che la vita ci riserva senza illuderci che ci attendano i Campi Elisi [l’eliso], un luogo di felicità nell’oltretomba. In epigrafe poi la Morante ha messo un verso dal Canzoniere di Umberto Saba [Io, se in lui mi ricordo, ben mi pare ...] e uno dalle Poesie di Sandro Penna [... il Paradiso altissimo e confuso], poeti prediletti e amici della scrittrice, scelti come “numi tutelari” del racconto.
Il testo del romanzo L’isola di Arturo è strutturato in modo funzionale al metodo del “legere multum” ed è diviso in otto capitoli [ciascuno dei quali ha un titolo] che, a loro volta, sono suddivisi in brevi sottocapitoli [sono 101] e anche ciascuno di questi segmenti [che corrispondono a dieci minuti di attenta lettura quotidiana] ha un proprio titolo. Leggendo l’indice emergono gli episodi salienti del romanzo e si definiscono i ruoli dei personaggi, vengono messi in risalto una serie di “oggetti magici” che aiutano il protagonista a superare le prove per il raggiungimento della maturità. La dimensione temporale del racconto non è definita in modo chiaro e, sebbene la vicenda sia ambientata negli anni immediatamente precedenti la seconda guerra mondiale [nel 1938], la storia rimane fuori dallo spazio mitico che è rappresentato da una piccola isola che racchiude in sé il tempo ciclico della natura e quello statico della favola. La voce narrante del romanzo è quella di Arturo Gerace, il protagonista che, da una distanza temporale imprecisata, rievoca le memorie della propria infanzia, trascorsa sull’affascinante isola di Procida.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Cogliete l’occasione per fare un’incursione sull’isola di Procida, situata nella parte occidentale del golfo di Napoli tra capo Miseno e l’isola d’Ischia... Potete utilizzare la guida della Campania [la trovate in biblioteca] e navigando in rete potete osservare delle belle immagini di questo luogo seducente... Buon viaggio...
Intanto ci facciamo subito accompagnare nella visita da Arturo Gerace. Arturo Gerace vive sull’isola di Procida per tutto il tempo della sua infanzia e della sua adolescenza: l’isola racchiude tutto il suo mondo, e tutti gli altri posti esistono per lui solo nella dimensione della leggenda. Arturo passa il suo tempo a leggere storie sugli “eccellenti condottieri”, a studiare l’atlante per progettare i suoi viaggi futuri e a fantasticare sulla figura del padre che crede il più grande eroe della storia. Tutto ciò che è legato al padre – che si chiama Wilhelm [come mai il padre ha questo nome nordico? Lo capiremo leggendo] – per Arturo è sacro, e anche gli amici del padre sono per lui delle figure mitiche: il fatto che siano degni dell’amicizia del padre li rende ai suoi occhi delle persone straordinarie. Arturo – e questo fatto determina la forma dell’intreccio filologico che stiamo dipanando – è orfano della madre, morta nel darlo alla luce, e non ha mai conosciuto una donna ed è stato allevato con latte di capra dal fedele balio Silvestro. Nei momenti di assenza del padre vive esclusivamente in compagnia della sua bianca cagna Immacolatella alla quale è molto legato. La situazione cambia quando il padre porta a casa una nuova sposa, Nunziatella, una ragazzina di soli sedici anni, proveniente dai quartieri poveri di Napoli e Arturo prova nei suoi confronti sentimenti contrastanti che non riesce a spiegarsi, non riesce nemmeno a chiamarla per nome ritenendola, almeno all’inizio, un essere brutto e inferiore e non tollerando che ella possa sostituirsi alla madre defunta. Durante le lunghe assenze del padre rimangono loro due soli a vivere nella grande casa dei Gerace, e Nunziata cerca di instaurare un rapporto con Arturo, ma lui è geloso delle attenzioni che Wilhelm le riserva nei primi mesi di matrimonio e, quindi, oppone un muro impenetrabile. Tutto si modifica quando Nunziatella rimane incinta e nasce il piccolo Carmine. Durante la notte del travaglio Arturo sente Nunziata urlare e disperarsi, ha il terrore che, come sua madre, anche lei possa morire, per via che le donne in quella casa sono soggette ad una maledizione, ma ciò non accade e dopo la nascita del bambino, Nunziatella si dedica completamente a lui e Arturo ne diventa terribilmente geloso. Soprattutto invidia al fratellastro il fatto di avere una madre affettuosa, che vive per lui e lo riempie di baci, cosa che in particolare colpisce Arturo che una madre non l’ha avuta e crede di non essere mai stato baciato [prova gli stessi sentimenti che - come ci racconta la Sira - ha provato il piccolo Muhammad?].
Adesso è necessario interrompere il racconto della trama di questo romanzo perché ci sono una serie di colpi di scena che non possono essere rivelati: bisogna lasciare che, chi non ha letto questo romanzo, li possa conoscere leggendone il testo. Abbiamo detto che nel testo di questo romanzo vengono messi in risalto una serie di “oggetti magici” che aiutano il protagonista a superare le prove per il raggiungimento della maturità, questi oggetti sono: la tenda, la valigia, la pasta, la ragnatela, il bacio, il viottolo, l’orecchino, il piroscafo.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Collegate un pensiero [scrivendo alcune righe] – preferibilmente di carattere autobiografico – a ciascuna di queste parole: la tenda, la valigia, la pasta, la ragnatela, il bacio, il viottolo, l’orecchino, il piroscafo…
Potrebbe prendere forma un piccolo racconto o una raccolta di brevissimi racconti, scrivete...
Adesso leggiamo qualche pagina di questo romanzo: entriamo in questo testo cominciando dall’inizio, dall’incipit. Il primo capitolo – che ha un ruolo introduttivo ed è diviso in ventuno segmenti narrativi – s’intitola Re e stella del cielo e sono due elementi [nell’ambito del mito] legati al nome di Arturo.
LEGERE MULTUM….
Elsa Morante, L’isola di Arturo
... E tu non saprai la legge
ch’io, come tanti, imparo,
- a me ha spezzato il cuore:
fuori del limbo non v’è eliso.
Re e stella del cielo.
Uno dei miei primi vanti era stato il mio nome. Avevo presto imparato (fu lui, mi sembra, il primo a informarmene), che Arturo è una stella: la luce più rapida e radiosa della figura di Boote, nel cielo boreale! E che inoltre questo nome fu portato pure da un re dell’antichità, comandante a una schiera di fedeli: i quali erano tutti eroi, come il loro re stesso, e dal loro re trattati alla pari, come fratelli.
Purtroppo, venni poi a sapere che questo celebre Arturo re di Bretagna non era storia certa, soltanto leggenda; e dunque, lo lasciai da parte per altri re più storici (secondo me, le leggende erano cose puerili). Ma un altro motivo, tuttavia, bastava lo stesso a dare, per me, un valore araldico al nome Arturo: e cioè, che a destinarmi questo nome (pur ignorandone, credo, i simboli titolati), era stata, così seppi, mia madre. La quale, in se stessa, non era altro che una femminella analfabeta; ma più che una sovrana, per me.
... continua la lettura ...
E ora – senza però chiudere questa parentesi – sulla scia della descrizione, non ancora completata, dell’isola di Procida dove l’orfano Arturo ha trascorso la sua infanzia, riprendiamo il passo sul nostro sentiero specifico per riflettere sulla “condizione di orfano” di Muhammad.
Il testo del Corano, conferma la “condizione di orfano” di Muhammad. Questo “status” – il fatto che l’orfano sia socialmente debole [abbandonato - islàm, in arabo - nelle mani di Dio] – è una delle condizioni tipiche del “profeta” nella Letteratura dell’Antico Testamento: i “profeti [a cominciare da Amos e poi Isaia, Geremia, Ezechiele: sono quindici i Libri dei profeti - divisi in maggiori e minori - nella Letteratura dell’Antico Testamento]” vengono sempre descritti come personaggi “socialmente deboli”.
Nel testo del Corano lo spunto autobiografico sulla condizione di “orfano” di Muhammad lo troviamo nella XCIII. La sura del Mattino, che fa parte del gruppo delle ultime sure perché è corta: sono 11 versetti. Questa sura [secondo le studiose e gli studiosi di filologia islamica] è tra le primissime “sure rivelate” del Corano e, con molta probabilità, è antecedente alla “recitazione [Qu’ran]” pubblica di Muhammad. La sura del Mattino è, in lingua originale [come quasi tutto il testo del Corano], un bellissimo pezzo di poesia, composto secondo lo stile dei testi sapienziali e poetici della Letteratura dell’Antico Testamento [in particolare il Libro dei Salmi].
Il testo de La sura del Mattino ci presenta un “dialogo” nel quale si sente l’influsso dei caratteri ellenistici del pensiero della filosofia gnostica [un tema che abbiamo trattato nel corso del viaggio dello scorso anno scolastico]. Si tratta di un “dialogo mistico” fra il Profeta e Dio e, quindi, tra la persona materiale e l’Entità metafisica spirituale, ed è anche una riflessione esistenziale laica di un essere umano nell’ambito della propria coscienza individuale.
Questa considerazione – sul tema dei diversi piani di lettura [religioso, mistico, umanistico] – ci permette di fare adesso un ragionamento di carattere metodologico: la Letteratura del Corano, come tutti i grandi apparati culturali della Storia del Pensiero Umano, presenta livelli diversi di lettura. In questo caso dobbiamo individuare tre differenti livelli tradizionali di lettura.
Il primo livello di lettura è quello “religioso” [di carattere sacro] che, nel caso del Corano, è legato alla Rivelazione di Dio al Profeta, in lingua originale, e chi legge cerca la salvezza nella Fede, proprio in quella “professione di Fede” lì.
Il secondo livello di lettura è quello “mistico” [di carattere universale] legato alla riflessione che la persona fa sul tema dell’Essere e sul tema del senso che ha l’Esistenza in funzione della trascendenza, e chi legge cerca la salvezza metafisica [oltre la vita terrena] con l’esercizio di una vita ascetica che anticipi già la vita metafisica.
Il terzo livello di lettura è quello “umanistico” [di carattere esistenziale] legato alla riflessione della persona sulla sua condizione nel mondo in rapporto ai Valori assoluti, e chi legge cerca di dare un senso morale alla vita terrena, di costruire una morale laica fondata sull’Umanesimo.
La disciplina della didattica della lettura e della scrittura ci propone questi tre diversi livelli tradizionali di lettura: il religioso-sacrale, il mistico-universale e l’umanistico-esistenziale. Ogni lettrice e ogni lettore deve poter scegliere o un livello preciso di lettura oppure un intreccio di livelli a cui è interessata ed interessato. Non è compito della Scuola Pubblica dire quale livello, quale piano di lettura una persona debba scegliere: il compito della Scuola, il mandato istituzionale che deve avere un Percorso in funzione della didattica della lettura e della scrittura, è quello di insegnare a leggere nel modo più esaustivo possibile per favorire le scelte personali delle cittadine e dei cittadini che studiano.
E ora, prima di leggere il testo della XCIII. La sura del Mattino, dobbiamo fare alcune considerazioni introduttive necessarie. La XCIII. La sura del Mattino è, abbiamo detto, una delle primissime sure rivelate del Corano ed è stata recitata probabilmente da Muhammad dopo la guarigione da una grave malattia: Muhammad, da qualche tempo, non aveva più visioni mistiche, non sentiva più la voce di Dio ed era molto rattristato. I versetti 6, 7 e 8 di questa sura sono i più importanti, perché hanno un carattere autobiografico e da essi si deduce che Muhammad “era orfano, era idolatra ed era povero” all’inizio della sua missione.
La tradizione islamica non ha difficoltà ad ammettere che il Profeta fosse “orfano e povero”, ma non ammette che fosse “idolatra”, come però recita la versione più antica del testo coranico [quella di Utman, di cui parleremo a suo tempo], perché bisognava rispettare il dogma, che si era formato nel tempo, dell’infallibilità e dell’impeccabilità del Profeta. Così il versetto 7 de La sura del Mattino è stato modificato e la parola “idolatra” è stata sostituita con la parola “errante”: si interpreta questo versetto come se Muhammad avesse “perso fisicamente la strada [si fosse perduto] nel deserto” e non come se avesse smarrito “la retta via del monoteismo”.
Le studiose e gli studiosi di filologia islamica ritengono che Muhammad sia un esperto conoscitore del Libro dei Salmi ed è per questo motivo che la XCIII. La sura del Mattino va letta in concomitanza con il Salmo 5: “Al mattino tu ascolti la mia voce”.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
La parola “mattino” [indica la prima parte della giornata ma ha anche un’importante valenza metaforica] che cosa vi suggerisce, che cosa vi fa ricordare, su che cosa vi fa riflettere?…
Scrivete quattro righe in proposito…
Ora leggiamo il testo de La sura del Mattino e poi il testo del Salmo 5.
LEGERE MULTUM….
XCIII. La sura del Mattino
Nel nome di Dio, clemente misericordioso!
Per il Mattino! - Per la Notte che calma s’abbuia! - Il Signore tuo non t’ha abbandonato e non t’odia - e l’Altra vita ti sarà più bella della prima, - e ti darà Dio, e ne sarai contento. - Non t’ha trovato orfano e t’ha dato riparo? - Non t’ha trovato errante [idolatra] e t’ha dato la Via? - Non t’ha trovato povero e t’ha dato dovizia di beni? - Dunque l’orfano, non maltrattarlo - dunque il mendicante, non scacciarlo.
- Ma piuttosto racconta a tutti quanto è buono il Signore! -
Libro dei Salmi, Salmo 5
Ascolta, Signore, le mie parole; accogli il mio lamento. Non senti il mio grido?
A te mi rivolgo. Al mattino tu ascolti la mia voce, all’alba ti presento il mio caso
e aspetto la tua risposta. Tu non sei un Dio che gode del male. Tu non vuoi
la presenza dei superbi. Tu distruggi chi dice falsità, disprezzi chi inganna o uccide.
Grande è la tua bontà: io sono accolto nella tua casa, e ti adoro nel tuo santuario.
Guidami sul sentiero dei tuoi voleri, appiana davanti a me la tua strada.
I miei avversari dicono il falso, le loro intenzioni sono maligne; la loro bocca
è una trappola che attira con dolci parole. Fa che cadano vittime dei loro imbrogli;
e fa che si rallegrino e sempre cantino di gioia quelli che a te si appoggiano.
Trovino in te felicità e protezione tutti quelli che ti amano.
Tu, Signore, benedici i giusti, come scudo li protegge il tuo amore.
Se Muhammad è “orfano”, come si legge ne La sura del Mattino, dall’età di sei anni, a chi è stato affidato? Che cosa narra in proposito la tradizione degli hadit, la vastissima raccolta di racconti sulla vita-modello del Profeta? Secondo la tradizione Muhammad è stato affidato al nonno paterno Abd al-Muttalib, che, secondo la tradizione, era “custode della Ka’ba, del Santuario de La Mecca”, ma anche questo nonno muore due anni dopo. E così, secondo la tradizione, Muhammad passa sotto la tutela dello zio, Abu Talib. E ritroveremo strada facendo questi personaggi, e poi sul versetto 8 de La sura del Mattino [Non t’ha trovato povero e t’ha dato dovizia di beni?] torneremo tra due itinerari.
Ma, il futuro Profeta, data la sua condizione di “orfano” ha trascorso, secondo la tradizione, un’infanzia molto dura e ha dovuto lavorare per vivere e, secondo la tradizione, ha dovuto servire come “pastore” nella tribù dei Coreisciti che lo ha affiliato. Le studiose e gli studiosi affermano che Muhammad può aver fatto davvero l’esperienza del “pastore” ma c’è soprattutto – creata dalla tradizione islamica – una ragione “mitica” per cui è stato necessario attribuire la “condizione di pastore” al futuro Profeta. Perché, che significato ha questa affermazione? Sappiamo già, lo abbiamo già capito, che il modello letterario costruito dagli scrivani dell’Antico Testamento a Babilonia [durante l’esilio] presuppone che il “profeta” sia un “pastore”.
Prima di riflettere su questo tema leggiamo ancora alcune pagine da L’isola di Arturo. Arturo è un “orfano” [la madre è morta e il padre non c’è mai] che vuole dimostrarci di sapersela cavare da solo, ma prima ci deve narrare la storia della grande casa nella quale abita e in quale contesto si collocano le sue origini a cominciare da un certo “Romeo l’Amalfitano”, e noi ascoltiamo il suo racconto.
LEGERE MULTUM….
Elsa Morante, L’isola di Arturo
Notizie di Romeo l’Amalfitano.
La mia casa sorge, unica costruzione, sull’alto di un monticello ripido, in mezzo a un terreno incolto e sparso di sassolini di lava. La facciata guarda verso il paese, e da questa parte il fianco del monticello è rafforzato da una vecchia muraglia fatta di pezzi di roccia; qua abita la lucertola turchina (che non si può incontrare altrove, in nessun altro luogo del mondo). A destra, una scalinata di sassi e terra scende verso il piano carrozzabile.
Dietro la casa, si stende una larga spianata, giù dalla quale il terreno diventa scosceso e impervio. E attraverso una lunga frana si arriva a una spiaggetta in forma di triangolo, dalla sabbia nera. Non esiste nessun sentiero che porti a quella spiaggia; ma, a piedi nudi, è facile scendere a precipizio fra i sassi. Laggiù era attraccata una sola barca: era la mia, si chiamava Torpediniera delle Antille.
... continua la lettura ...
La prossima settimana leggeremo ancora alcune pagine di questo romanzo in funzione del concetto della “contro-informazione” e della “metafora visionaria”.
Perché tutta la tradizione islamica, attraverso gli hadit, narra che Muhammad, da bambino, è stato un “pastore”? Quale necessità culturale e quale esigenza mitica esiste per dover avvalorare il fatto che Muhammad sia stato un “povero pastorello”? Sappiamo che questa tradizione ha le sue radici nella Letteratura dell’Antico Testamento, una tradizione secondo la quale: tutti i profeti sono stati pastori.
Dobbiamo però approfondire questa questione perché il concetto del “profeta pastore” – così come il concetto di “messia” – gli scrivani dell’Antico Testamento [in esilio a Babilonia] lo mutuano dalla cultura che nasce e si sviluppa intorno alla saga filosofico-letteraria di quel grande personaggio della Storia del Pensiero Umano che si chiama Zarathustra e che, periodicamente, strada facendo, incontriamo nel corso dei nostri viaggi. Chi è Zarathustra? Abbiamo già studiato molte volte il pensiero che scaturisce dalla predicazione di questo significativo personaggio.
Zarahtustra è, prima di tutto, un pastore, vissuto nel VI secolo a.C., in una regione dell’altopiano iraniano, che oggi si chiama Afganistan. Zarathustra oltre ad essere un “pastore afgano” è soprattutto un importante pensatore che ha intrapreso una grande rivoluzione spirituale nell’area nella quale è vissuto. Le idee della “rivoluzione spirituale” di Zarathustra hanno influenzato per prima la cultura degli scrivani dell’Antico Testamento e poi, attraverso la civiltà iraniano-persiana, hanno influito sulla tradizione islamica e sulla Letteratura del Corano. Quindi dobbiamo fare una riflessione [per molte e molte di voi sarà un ripasso] sul pensiero di Zarathustra.
Gli abitanti del territorio che prende il nome di Afganistan, nel VI secolo a.C., vivevano di pastorizia e praticavano poco l’agricoltura, ed erano organizzati in tribù, con lo stesso modello di vita di quelle cananee e arabe. Ogni tribù dell’altopiano iraniano [c’informano le studiose e gli studiosi di antropologia] aveva una struttura gerarchica che comprendeva tre classi sociali: i pastori, i sacerdoti e i guerrieri. Questo territorio era anche esposto alle frequenti scorrerie di gruppi nomadi che depredavano greggi e coltivazioni e queste pessime condizioni sociali hanno avuto un riflesso sulla visione religiosa di queste persone le quali hanno cominciato a pensare che le sorti dell’Umanità dipendessero dallo scontro tra i due princìpi nei quali si era sdoppiato il dio supremo Ahura Mazda. Pensavano che nel cuore del dio supremo fossero presenti il princìpio del Male [altrimenti come si giustificherebbe la presenza del male nel mondo] e quello del Bene in eterna e drammatica lotta tra loro: questa idea avrà un largo respiro nella Storia del Pensiero Umano e l’abbiamo ritrovata lo scorso anno nella dottrina manichea e nella corrente gnostica del Cristianesimo [abbiamo studiato il pensiero contenuto nei testi tardo-antichi dei Vangeli gnostici, ricordarte?].
Nelle tribù iraniane si credeva che, a causa del dualismo divino, la sorte degli esseri umani e il loro destino fosse esposto all’andamento delle battaglie cruente che avvenivano nell’alto dei cieli tra la componente buona e quella cattiva presenti nel cuore del dio supremo. Zarathustra si oppone a questo fatalismo rozzo e superstizioso e predica che il conflitto tra i due princìpi, del Bene e del Male, non sta in dio ma è interno alla persona, quindi, il compito dell’essere umano è quello di affrontare la vita con responsabilità e con impegno [respingendo il fatalismo]. Secondo Zarathustra la persona responsabile combatte una “guerra santa” a favore del Bene contro il Male sapendo che questo conflitto avviene nel “cuore dell’Essere umano”. Il concetto di “guerra santa”, che consiste nell’essere “in lotta con il proprio egoismo personale”, viene ripreso dalla Letteratura dell’Antico Testamento, dalla Letteratura dei Vangeli e dalla Letteratura del Corano.
Nel pensiero di Zarathustra emerge con forza il primato del dio del Bene, Ahura Mazda, il quale, alla fine, riuscirà a prevalere sul principio della malvagità, a condizione però che le persone si assumano la responsabilità di schierarsi dalla parte del Bene, dalla parte di quei princìpi che sono presenti nell’etimologia del nome del dio di Zarathustra [il dio Ahura Mazda non è altro che un nome perché la potenza creatrice sta nelle parole?] perché nelle parole iraniane “ahùr” e “mazdà” ritroviamo i significati di “giustizia”, “sapienza” e “memoria”: questi sono i princìpi con i quali, secondo Zaratustra, l’Umanità deve e può combattere contro il Male. Il dio di Zarathustra è una voce interiore [Zarathustra è orfano di Dio?] che chiama gli esseri umani a fare una scelta in favore della “giustizia”, della “sapienza” e della “memoria”: non contano i culti, non valgono i rituali sacrali, quel che conta, quel che dà senso alla vita è una responsabile scelta per favorire una maggiore “giustizia”, per far crescere il livello della “sapienza” e per non perdere la “memoria”. Queste tre parole-chiave – “giustizia, sapienza e memoria” – che formano il nome del dio di Zaratustra, sono anche i tre valori ideali intorno a cui si forma la figura del “profeta pastore”.
Con Zarathustra, per la prima volta nella Storia del Pensiero Umano, il destino dell’Umanità viene visto come una crescita verso un fine positivo. All’origine della Storia dell’Umanità, secondo Zaratustra, c’è la decisione di un Dio “buono, misericordioso, clemente” che sprona, incalza, sollecita le persone a perfezionare la creazione, a completare il mondo creato. L’avvenire dipende dalle scelte individuali di ogni singola persona, la quale, se sceglie di perseguire il bene, di praticare la giustizia, di coltivare la sapienza, di salvaguardare la memoria, può contribuire a quella che Zarathustra chiama la “risurrezione cosmica finale” quando, “vinto il principio di morte”, ci potrà essere “un mondo totalmente rinnovato”. La Storia dell’Umanità [sostiene Zaratustra] è segnata dalla presenza di “personaggi luminosi”, i profeti: il profeta è una guida, è un pastore che via via indica agli Uomini la strada del Bene e della salvezza.
Dopo la morte di Zaratustra un suo discepolo [soprannominato “lo scrivano di Zarathustra”] ha trascritto le sue parole in 17 componimenti poetici detti Gatha [gli Inni] che sono entrati a far parte dell’Avesta, il libro sacro dei Persiani. Il pensiero di Zarathustra delinea, per primo, il concetto e i caratteri del “profetismo” e la tradizione secondo la quale “tutti i profeti sono stati pastori” ha, quindi, le sue radici più profonde nella cultura di Zarathustra. Questo personaggio – che viene descritto come un sacerdote, un benefattore e un profeta – l’essenza del “pastore”, non di pecore, in questo caso, ma di cammelli, ce l’ha proprio nel nome: Zarathustra, difatti, in lingua iraniana significa “colui che ha cura dei cammelli”. Il cammello è un animale che, per le sue caratteristiche, richiama la figura del “profeta”.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Il cammello è un animale che fa pensare a tre parole-chiave: la sobrietà, la resistenza e la sopportazione… C’è un episodio della vostra vita nel quale si rispecchiano queste parole?...
Scrivete quattro righe in proposito...
Il cammello è un animale che viene considerato un “buon lavoratore”, ed è sulla scia di questa affermazione che adesso leggiamo un frammento dai Gatha [Gli Inni di Za rathustra].
LEGERE MULTUM….
Lo scrivano di Zarathustra, Gatha [Gli Inni di Zarathustra]
Colui che Ahura-Mazda preferisce è il buon lavoratore della terra degli Uomini. Io voglio essere una persona che parla con la bocca e la parola di un dio. Voglio creare delle opere che fin dall’alba lavorino per la crescita del giorno, delle opere che rallegrino lo sguardo di un dio alla luce del sole. Quale artista ha creato la luce e le tenebre? Chi ha fatto l’aurora, il mezzogiorno e la notte? Alla nascita del mondo, chi ha fatto le acque e le piante? Chi ha messo in moto le nuvole e i venti? Chi ha messo l’amore nel cuore di un padre quando gli nasce un figlio? O Ahura-Mazda, tu che fai progredire il mondo, accordaci i beni del mondo: l’eredità umana dei nostri avi e ciò che nasce dalle nostre azioni di oggi, dacci la forza, che è la tua, di creare la gioia futura degli Uomini. O dio della luce, donaci la gioia di compiere le tue opere di giustizia e di sapienza! Fino all’ultima rivoluzione del mondo, fino alla sua risurrezione, il Male non ce la farà a far morire il mondo un’altra volta. Tu donerai la potenza ai giusti, alla fine dei tempi. …
Il modello culturale del “profeta pastore”, attraverso il pensiero di Zarathustra, entra nella tradizione degli scrivani dell’Antico Testamento intorno al VI secolo a.C. [nel periodo dell’esilio a Babilonia] con degli esiti eccezionali: nasce un genere letterario straordinario, il “midrash nebiyim” [la Letteratura dei Profeti], un apparato formato da quindici Libri [facilmente reperibili sul testo della Bibbia] che hanno influenzato e continuano ad influenzare la Storia della cultura umana. Di conseguenza l’idea che “tutti i profeti sono stati pastori” entra, all’inizio del VII secolo, in Età alto-medioevale, nella tradizione islamica: i testi degli hadit [i racconti sulla vita-modello del Profeta] ribadiscono che anche Muhammad, il Profeta per eccellenza, è stato, e non poteva non essere, un “povero pastorello”. Come avviene questa operazione culturale? Nell’itinerario della prossima settimana imbastiremo un ragionamento progressivo per rispondere a questa domanda: la risposta ad un interrogativo di questo genere non può che venire da una articolata riflessione.
Abbiamo imparato – in questi trent’anni di viaggi – a non lasciarci sfuggire le coincidenze e le corrispondenze e, quindi, adesso non possiamo non ricordare che esiste una celebre opera che tutti abbiamo sentito nominare e che s’intitola Così parlò Zarathustra, scritta tra il 1883 e il 1885 da Friedrich Nietzsche [non è la prima volta che incontriamo questo personaggio]. Adesso ci soffermiamo brevemente su quest’opera in cui Nietzsche utilizza la maschera di Zarathustra per formulare alcune significative idee che però non possiamo approfondire [lo faremo a suo tempo] ma vogliamo comunque constatare che esistono e sono in sintonia con il cammino che stiamo facendo.
Così parlò Zarathustra è un’opera in quattro libri, composta senza un piano prefissato che ruota attorno a tre idee principali: l’idea della “morte di Dio”, l’idea che “bisogna essere fedeli alla terra”, e l’idea de “l’Uomo superiore o Superuomo” [avete senz’altro sentito parlare di questi concetti]. Nietzsche utilizza la figura di Zarathustra [dell’orfano di Dio?] per annunciare la morte di Dio [un tema fondamentale della filosofia contemporanea]: Dio è morto nel senso che non è più il protagonista del conflitto tra il Bene e il Male, perché, scrive Nietzsche, il protagonista di questo conflitto è l’Uomo superiore. Il “Superuomo” è l’individuo che sa assumersi la “responsabilità della scelta” orientata al Bene, ed è il simbolo di una umanità più matura [che non ha più bisogno degli dèi né degli idoli]. E il dio dei Profeti, il dio di Gesù di Nazareth, il dio di Muhammad non è un idolo ma è una “voce che viene dal profondo”, è un richiamo alla consapevolezza che l’essere umano è dotato di competenze da utilizzare a fin di Bene.
In Così parlò Zarathustra Nietzsche narra, con un linguaggio molto provocatorio, che, dopo dieci anni di preparazione passati in solitudine [in montagna], Zarathustra sente il bisogno di entrare in contatto con gli esseri umani col proposito di donare loro “il miele della sua sapienza”. Zarathustra scende in città e trova una gran folla adunata sulla piazza del mercato per assistere ad uno spettacolo di funamboli, lì comincia a predicare alla folla dicendo: «Io v’insegno il Superuomo. L’uomo [dice Zarathustra] è qualcosa che deve essere superato. Voi che cosa avete fatto per superarlo? Avete percorso il cammino dal verme all’uomo, e molto in voi ha ancora del verme. In passato foste scimmie, e ancora oggi l’uomo è più scimmia di qualsiasi scimmia. Il Superuomo è il senso della terra! Vi scongiuro, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di speranze ultraterrene! Un tempo il sacrilegio contro Dio era il massimo sacrilegio, ma Dio è morto, e così sono morti anche tutti questi sacrileghi. Oggi la cosa più orribile è commettere il sacrilegio contro la terra». Ma la folla si mette a ridere ascoltando queste parole e lo abbandona per seguire il funambolo che ora si libra sul cavo teso tra due torri.
Zarathustra, se vuole che qualcuno lo ascolti, non deve cercare tra la gente che si raduna nella piazza del mercato: i suoi discepoli saranno pochi, perché pochi saranno capaci di intendere il suo messaggio e ad essi Zarathustra predicherà contro la debolezza d’animo dei mediocri, contro la metafisica che insegna l’astrazione, contro l’ascetismo che persuade alla morte, contro l’organizzazione che soffoca gli spiriti. La vita [dice Zarathustra] ha in sé il suo scopo, e l’essere umano deve liberarsi, vincendo se stesso, dall’istinto deleterio dell’obbedienza e deve affermare la propria volontà. Zarathustra predica contro il clero, contro i regnanti e i loro ministri, contro i ricchi approfittatori, contro i proletari che non si ribellano, contro i dotti saccenti, contro i poeti che insegnano i miti, contro la cultura del suo tempo, contro le Università, contro i mezzi d’informazione. La requisitoria di Zarathustra non risparmia nessuno e, infine, detta le “nuove tavole” dei valori che capovolgono quelli antichi, fondati sul principio del Bene e del Male.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quali sono – secondo Zarathustra [secondo Nietzsche] – le “nuove tavole” dei valori su cui fondare la convivenza umana?… Andate a scoprirlo: ora che avete qualche chiave in più, potete mettere in lettura, o in rilettura [al ritmo di una pagina al giorno], anche questo testo che trovate in biblioteca…
In quest’opera [come in tutte le opere di Nietzsche] c’è una forte e sincera tensione etica, un desiderio di superamento dei limiti dell’umano, un’ansia mistica e visionaria insieme, molto coinvolgente. Così parlò Zarathustra vuol essere anche una parodia [che però non ha niente di blasfemo] della Bibbia, del Vangelo, del Corano, opere dalle quali riprende tante immagini, tante sentenze, tante parole per deformarle, capovolgerle, ridicolizzarle e contrapporre al messaggio ultraterreno un messaggio terrestre. Così parlò Zarathustra è, in primo luogo, una raccolta di pagine liriche affascinanti e sublimi [un’autobiografia poetica], in cui “i moti dell’anima si riconoscono nei moti del cosmo” e quest’opera ha ispirato un famoso poema sinfonico composto, nel 1896, dal musicista Richard Strass.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Avete ascoltato il poema sinfonico “Così parlò Zarathustra” di Richard Strauss?…
Se ne consiglia l’ascolto così potrete scoprire di quante opere teatrali, cinematografiche, pubblicitarie questa musica è diventata la colonna sonora…
E ora, per concludere, lasciamoci provocare dalla prosa poetica paradossale di Friedrich Nietzsche e leggiamo una pagina da Così parlò Zarathustra [un’opera che va letta al ritmo di una pagina al giorno per capire i paradossi che propone].
LEGERE MULTUM….
Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra
Giunto a trent’anni, Zarathustra lasciò il suo paese e il lago del suo paese, e andò sui monti. Qui godette del suo spirito e della sua solitudine, né per dieci anni se ne stancò. Alla fine si trasformò il suo cuore, – e un mattino egli si alzò insieme all’aurora, si fece al cospetto del sole e così gli parlò: «Astro possente! Che sarebbe la tua felicità, se non avessi coloro ai quali tu risplendi! Per dieci anni sei venuto quassù, alla mia caverna: sazio della tua luce e di questo cammino saresti divenuto, senza di me, la mia aquila, il mio serpente. Noi però ti abbiamo atteso ogni mattino e liberato del tuo superfluo; di ciò ti abbiamo benedetto. Ecco! La mia saggezza mi ha saturato fino al disgusto; come l’ape che troppo miele ha raccolto, ho bisogno di mani che si protendano. Vorrei spartire i miei doni, finché i saggi tra gli esseri umani tornassero a rallegrarsi della loro follia e i poveri della loro ricchezza. Perciò devo scendere giù in basso: come tu fai la sera, quando vai dietro al mare e porti la luce al mondo intero, o ricchissimo fra gli astri! Anch’io devo, al pari di te, tramontare, come dicono gli esseri umani, ai quali voglio discendere.
Benedicimi, occhio pacato, scevro d’invidia anche alla vista di una felicità troppo grande! Benedici il calice, traboccante a far scorrere acqua d’oro che ovunque porti il riflesso splendente della tua dolcezza! Ecco! Il calice vuol tornare vuoto, Zarathustra vuol tornare uomo».
- Così cominciò il tramonto di Zarathustra.
È notte: ora parlano più forte tutte le fontane zampillanti. E anche l’anima mia è una zampillante fontana. È notte: solo ora si destano tutti i canti degli amanti. E anche l’anima mia è il canto di un amante. Qualcosa di insaziato, insaziabile è in me; e vuol farsi sentire. Un desiderio d’amore è in me; anch’esso parla il linguaggio dell’amore.
Luce io sono: ah, fossi notte! Ma questa è la mia solitudine, che io sia recinto di luce. Ah, fossi oscuro e notturno! Come vorrei succhiare alle mammelle della luce!
E allora vorrei benedire anche voi, piccole stelle scintillanti e lucciole lassù! – ed essere beato dei vostri doni di luce. Ma io vivo nella luce mia propria, io ribevo in me stesso le fiamme che da me erompono.
Io non conosco la felicità di colui che prende; e spesso ho sognato che nel rubare, più che nel prendere, dovesse essere beatitudine. Questa è la mia povertà, che la mia mano mai si riposi dal donare; questa la mia invidia, che io veda occhi in attesa e le notti rischiarate del desiderio. Oh, infelicità di tutti coloro che donano! Oh, eclisse del mio sole! Oh, brama di bramare! Oh, famelicità nella sazietà! Essi prendono da me: ma riesco io a toccare la loro anima? Un abisso è tra dare e prendere; e l’abisso più stretto è anche il più difficile da superare. Così parlò Zarathustra …
«E l’abisso più stretto è anche il più difficile da superare», questa affermazione che sa di paradosso è strettamente legata al Libro di Amos. Il Libro del profeta Amos è il punto di riferimento preciso della Letteratura dell’Antico Testamento che dobbiamo prendere in considerazione per capire a quali fonti attinge la tradizione islamica, e Muhammad stesso, per definire le caratteristiche che un “profeta” deve avere per essere considerato tale a cominciare dal fatto che “non c’è profeta che non sia stato pastore”. Perché proprio questo testo: che caratteristiche ha il Libro dei Amos?
Per rispondere a questa domanda bisogna continuare a percorrere la via dell’Alfabetizzazione culturale e funzionale che è un bene comune [come i cammelli]. Per promuovere l’Apprendimento permanente la Scuola è qui perché più importante che sapere è non perdere mai la volontà di imparare e il compito della Scuola è quello di insegnare a “imparare ad imparare”…