Prof. Giuseppe Nibbi La sapienza poetica e filosofica dell’età umanistica 27-28-29 gennaio 2016
SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ UMANISTICA
EMERGE IL PARADOSSO DELLE ANTICAGLIE ...
Questo è il tredicesimo itinerario del nostro viaggio di studio sul “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età umanistica”: ci troviamo agli albori del 1300 [in pieno autunno del Medioevo] e nell’itinerario della scorsa settimana abbiamo studiato come anche “il misticismo intellettuale” del domenicano Meister Eckhart così come l’analisi sociologica “sul valore del denaro” del francescano spirituale Pietro di Giovanni Olivi contribuiscano a creare una nuova mentalità ricca di germi produttivi che porta a far fiorire un’epoca che abbiamo chiamato l’Umanesimo e, a questo proposito, rinfreschiamo la nostra memoria su temi studiati perché ispirano più di una riflessione che ciascuna e ciascuno di voi può fare per conto proprio.
Secondo Meister Eckhart l’essenza di Dio è “l’intendere” e, quindi, la via che porta a Dio è intellettualistica, non è sentimentale: la forza che conduce a Dio non è l’amore ma “l’intellezione” che è l’attività conoscitiva dell’intelletto, ed è anche la scintilla divina che ogni persona, a immagine di Dio, porta dentro di sé. Di conseguenza lo strumento che avvicina il Creatore alle creature è l’Intelletto [che Meister Eckhart intende come la predisposizione dell’individuo verso lo studio] e la persona è gradita a Dio quando si impegna a riconoscere [ad intendere sul piano teoretico, a livello conoscitivo e non empirico] di essere una creatura di Dio e la persona è creatura di Dio nella misura in cui lo sa [non perché lo sente emotivamente]: quindi, la natura della Fede è intellettiva [non è un’emozione] e Dio è Intelligenza nel Padre, Vita nel Figlio e Essere nello Spirito Santo [dire che “Dio è amore”, secondo Meister Eckhart, è un’affermazione semplicistica di natura emotiva: i sentimenti rappresentano un fenomeno positivo se ne intendiamo il significato].
La persona non deve identificarsi in Dio associandolo ad un idolo [al quale chiedere favori], abbinandolo ad un feticcio [da rabbonire con sacrifici] ma deve far coincidere il proprio Io e la propria Anima a Dio con un atto dell’Intelligenza riflettendo sul fatto che l’essere umano fuori dall’esistenza di Dio è Nulla, è Non-essere, è solo un aggregato di particolarità incapace di cogliere l’unità del creato e la totalità del Creatore. Il valore che Meister Eckhart dà all’Intelletto e all’Intelligenza è un elemento dal quale si capisce che l’Umanesimo è sulla soglia.
Allo stesso modo si comprende che l’Umanesimo è sulla soglia quando Pietro di Giovanni Olivi - uno dei più attivi esponenti della corrente intransigente degli Spirituali francescani che abbiamo incontrato la scorsa settimana - afferma, nel suo breve Trattato delle compere e delle vendite [messo all’Indice da Bonifacio VIII ma conservato dai francescani dello Studium di Santa Croce a Firenze], che la rendita del denaro non può che essere “il bene” e non il bene singolo ma “il bene comune”, imbastendo un’analisi [che ha come base i Libri dell’Antico e del Nuovo Testamento, in particolare quello dell’Apocalisse nel modo in cui l’ha commentata Giovacchino da Fiore] in cui Pietro Olivi critica come le strutture ecclesiastiche facciano cassa vendendo, in modo blasfemo, le indulgenze e il perdono dei peccati, mascherando dietro l’ipocrita pratica della “donazione” il peccato di simonia. L’invettiva, ripresa poi da Dante nella Divina Commedia, di Pietro Olivi contro il peccato di simonia [la vendita delle cose sacre] è rivolta dalla corrente degli Spirituali [ma Olivi è già morto (forse)] verso la proclamazione del Giubileo del 1300 indetto da Bonifacio VIII e considerato dai Fraticelli francescani [i pauperisti più attivi] come un evento prettamente “di carattere simoniaco”.
È bene ricordare che il peccato di “simonia” contempla la volontà deliberata di comprare e di vendere le cose spirituali, e il nome di questo peccato deriva del personaggio di Simon Mago [o Simone di Samaria] descritto in un episodio raccontato in forma apologetico-pastorale dagli Atti degli Apostoli [che, come sapete, è il primo Catechismo della Chiesa di Roma redatto nella sua forma definitiva da papa Clemente Romano all’inizio del II secolo] nel quale il Mago Simone propone a Pietro e a Giovanni di vendergli “il potere di elargire lo Spirito Santo”: cosa che poi lui avrebbe fatto a pagamento.
La contestazione degli Spirituali francescani nei confronti del Giubileo non ottiene risultati: il Giubileo è un evento che riscuote successo per molti motivi, non ultimo quello della gran massa di denaro che porta alla curia romana ma anche - e per questo sono grati al papa - ai commercianti romani che fanno affari d’oro.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Il denaro deve essere speso per il bene comune: per la scuola, la sanità, i trasporti, l’ambiente, la salvaguardia del territorio, o per che cosa secondo voi?…
Scrivete quattro righe in proposito…
La scorsa settimana abbiamo detto che c’è un argomento inerente al Giubileo che - secondo la natura del viaggio che stiamo compiendo, sulla strada che ci sta portando al territorio dell’Umanesimo propriamente detto - a noi interessa particolarmente: è il tema delle “anticaglie”. In che cosa consiste il tema delle “anticaglie”, un termine, per giunta, che sembra suonare come una brutta parola? Il cosiddetto tema delle “anticaglie” contiene due elementi significativi che dobbiamo mettere in evidenza e che riguardano da una parte la “furbizia o l’accortezza” politica di Bonifacio VIII e dall’altra la reazione degli intellettuali che li porta a riconcentrare l’attenzione, in modo nuovo, sul valore del Classici latini.
Prima di arrivare a definire queste questioni, però, dobbiamo pensare al fatto che stiamo leggendo un romanzo, che è anche contemporaneamente la base di un testo teatrale, dello scrittore [alias ex professore di Storia medioevale] Alan Bennett [sappiamo che ha scritto anche un significativo saggio su Meister Eckhart]: ebbene, della trama di questo romanzo, intitolato Nudi e crudi, ormai conoscete l’andamento.
Ai coniugi Ransome i ladri, o presunti tali, hanno portato via tutto: il loro appartamento è stato totalmente sgomberato e sono rimasti “nudi e crudi” [in abito da sera dato che tornavano da teatro dove avevano visto e ascoltato Così fan tutte di Mozart], e “nudi e crudi” è un’ espressione tratta [come sapete] da un aforisma di Meister Eckhart. Questo fatto costringe i signori Ransome a riflettere sull’esperienza di dover riorganizzare da capo la loro esistenza che dipende [e, forse, anche per tutte e per tutti noi è così] sostanzialmente dalle cose [gli oggetti] che si hanno a disposizione: se per il signor Ransome questa situazione risulta traumatica, per la signora Ransome invece questa coincidenza si presenta come un nuovo percorso - non ancora da lei ben definito - di liberazione, tanto che comincia a rendersi conto che la maggior parte degli oggetti trafugati, quelli che lei chiama affettivamente “le nostre cose”, erano in realtà imbalsamati e conservati solo “perché non diventassero un’anticaglia”. Questo pensiero comincia a farsi strada nella sua mente sotto forma di interrogativo: non è che, forse, lo erano già diventate delle anticaglie allo stesso modo in cui si presentava, come un’anticaglia, l’essenza della sua vita coniugale?
E ora andiamo avanti a leggere il testo di Nudi e crudi: al signor Ransome arriva una lettera, una fattura da pagare, che complica ulteriormente le cose.
LEGERE MULTUM….
Alan Bennett, Nudi e crudi
Il contenuto dell’appartamento era assicurato per cinquantamila sterline. Dopo aver iniziato con una cifra molto inferiore, da avvocato e uomo accorto qual era il signor Ransome aveva fatto sì che il premio stesse al passo con il costo della vita. Negli anni, dunque, quel modesto insieme di mobili, elettrodomestici e suppellettili varie era andato pian piano aumentando di valore; lo stereo e il frullatore, il servizio di posate, le insalatiere, le tovagliette, i centrini - insomma tutto l’apparato di quell’esistenza che, pur essendo perfettamente attrezzati allo scopo, i Ransome non erano mai riusciti a condurre - avevano discretamente seguito la curva dell’inflazione. Roba resistente, sobria, austera, comprata pensando alla praticità e non all’estetica, coscienziosamente spolverata e lucidata anno dopo anno, tanto da non recare quasi traccia d’usura; roba che non aveva mai subito sconvolgimenti di sorta, roba che non aveva assunto, come spesso succede per certe cose non ben conservate, il carattere dell’anticaglia e della quale ben poco era andato rotto o perduto fino alla tremenda sera dell’imboscata, quando la signora Ransome aveva perduto per sempre quelle che lei chiamava con modestia «le nostre cose».
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Prima di fare la conoscenza di Martin insieme ai signori Ransome [i quali vengono accolti con giubilo da questo giovanotto] torniamo al tema del Giubileo: un evento, come abbiamo detto, che riscuote molto successo e, difatti, dal 1300, i Giubilei [c’è n’è uno in corso] continuano a ripetersi puntualmente.
Del Giubileo del 1300, il primo della Storia del cristianesimo, abbiamo già avuto occasione di parlare nell’itinerario precedente alla vacanza natalizia adesso dobbiamo affrontare l’argomento in relazione - secondo la natura del viaggio che stiamo compiendo - al tema delle “anticaglie”: di che cosa si tratta? È una questione che ha una duplice valenza [e va presa un po’ alla larga] e per rispondere a questa domanda dobbiamo riflettere, prima di tutto, in termini filologici [le parole contano per il valore evocativo che hanno!].
Il Giubileo indetto da Bonifacio VIII invita i pellegrini a recarsi a Roma per “lucrare le indulgenze”: la categoria del “pellegrino” [e usiamo il termine al maschile perché, per motivi di sicurezza, le poche donne peregrinanti erano quasi sempre costrette a travestirsi da uomo], così come quella del “mercante” , esisteva da circa trecento anni ma era formata da non molti individui perché, come abbiamo già avuto occasione di dire, il verbo “peregrinare” non era in pratica facile da declinare: i rischi che si correvano erano moltissimi.
Perché il Giubileo abbia successo - secondo le aspettative economiche, politiche e religiose di Bonifacio VIII - bisogna che a Roma arrivi molta gente, è necessario che molte persone, che hanno la caratteristica di essere stanziali [come i contadini e gli artigiani], decidano di mettersi in movimento verso il centro della Cristianità magari aggregandosi tra loro e poi, per viaggiare più sicuri, seguendo le orme dei mercanti, dei membri della cavalleria e dei pellegrini esperti: il Giubileo - come sempre succede per gli eventi - andava, quindi, sponsorizzato.
Il papa Bonifacio VIII è anche un ottimo sponsor [termine adatto perché la parola “sponsor” è parola latina regolarmente usata in Età medioevale] e, quindi, pensa bene che per convincere il maggior numero di pellegrini a recarsi a Roma debba anche giocare la carta dell’attrattiva che può fornire quella che era stata la capitale del mondo intero [il Caput mundi], la “Città [l’Urbe] dei Cesari” - Roma, da secoli ormai, era una città caduta in disgrazia e bisognava risollevarne le sorti rievocando i suoi “antichi” fasti. Difatti Bonifacio VIII indìce il Giubileo con una bolla, datata 22 febbraio 1300, che inizia con una parola-chiave che, sebbene [naturalmente] sia scritta in latino, è evocativa per tutti - ignoranti e sapienti - su tutto il territorio dell’Ecumene da Oriente a Occidente: la parola “Antiquorum” [degli Antichi], e questo riferimento agli “Antichi” [con la A maiuscola] deve suscitare nelle menti [tanto degli illetterati quanto degli intellettuali] un’idea di potenza, di gloria, di magnificenza che inviti tutti i cristiani a partecipare ad un evento che - sotto l’apparenza dell’umiltà religiosa - possa dare forza e lustro alla Chiesa e, soprattutto, autorità al papato che [in lotta con la monarchia francese, come sappiamo] si trova in posizione di debolezza nell’agone politico internazionale. La scelta [scaltra] di Bonifacio VIII ha, dal punto di vista ideologico, un carattere di tipo “costantiniano”: il papa vuole che la sua persona richiami la figura di Costantino, il più noto tra i Cesari in Età medievale, che, sebbene abbia preferito Bisanzio [Costantinopoli] a Roma, ha tuttavia [nel IV secolo] affrancato il cristianesimo. In particolare viene esaltata la figura della madre di Costantino, Sant’Elena [ufficialmente santificata nel corso di questo Giubileo] - che riassume in sé tutte le caratteristiche [anche nell’aspetto iconografico] dell’antica matrona romana che ha abbracciato la fede cristiana -, la quale ha saputo, con grande abilità, viaggiando come pellegrina in Terra Santa, far materializzare “le reliquie della Passione di Gesù” facendole giungere anche a Roma in modo che questi “antichi oggetti salvifici” [non originali ma dotati di straordinaria forza rievocativa] potessero autenticare la Letteratura dei Vangeli per illuminare di luce nuova tutta la Civiltà antica della quale il messaggio salvifico evangelico diventa il compimento.
Il termine “Antiquorum” [degli Antichi], con il quale inizia la bolla istitutiva del Giubileo del 1300, produce l’effetto desiderato e il termine “antico” rafforza l’idea che la gloria dell’impero romano sia stata assorbita provvidenzialmente dal cristianesimo e, quindi, questa parola diventa sinonimo di qualche cosa di prezioso in termini salvifici, e tutt’oggi pensiamo che “una cosa antica sia preziosa”.
La bolla, datata 22 febbraio 1300, con la quale Bonifacio VIII indìce il Giubileo inizia con queste parole che fungono da titolo del decreto stesso: «Antiquorum habet digna fide relatio». Traduciamo esplicitando tutta la proposizione iniziale che indica anche il modo in cui si può lucrare l’indulgenza: «C’è una adesione degna di fede da parte degli Antichi verso coloro i quali accedono alla onoranda Basilica del principe degli Apostoli [San Pietro] e quella del beatissimo Apostolo delle genti [San Paolo] in Roma». Quindi il papa, nella bolla istitutiva del primo Giubileo, decreta che “coloro i quali vorranno ottenere l’indulgenza concessa debbano visitare due basiliche, quella di San Pietro e quella di San Paolo, per trenta giorni continui almeno una volta al giorno se sono romani e per quindici giorni se sono forestieri”.
La Roma trecentesca, per i pellegrini forestieri [immaginiamoci di essere tra questi], appare, dalle alture che la circondano, cinta di mura merlate, con nove porte maggiori, e poi vedono svettare settecento torri, fra le quali spicca quella delle Milizie, e duecento campanili. Passato il Ponte sul Tevere, sotto la Mole Adriana [Castel Sant’Angelo], che era stata trasformata anch’essa in una fortezza merlata, i pellegrini, attraverso anguste e contorte viuzze, giungono in una piazzetta irregolare, chiamata “la cortina di San Pietro” contornata da cappelle e da oratori per compiere gli atti di devozione e le donazioni per aumentare l’efficacia dell’indulgenza. Oltre quella cortina c’è la chiesa di San Pietro, che i pellegrini devono visitare [ben diversa da quella di oggi], ed è ancora la basilica costantiniana, “la regina delle chiese”, alla quale si sale attraverso trentacinque scalini di marmo che i pellegrini fanno in ginocchio e si trovano su un ripiano di pietre ben levigate [da sembrare preziose, dicono le cronache] che forma una specie di balcone dove venivano incoronati i papi e ricevuti i sovrani. A destra c’è il campanile romanico con ai piedi l’oratorio di Santa Maria in Turris, a sinistra c’è la famosissima “guglia di San Pietro” formata da un antichissimo [già allora] obelisco egiziano. Dinanzi alla basilica si apre un portico, detto “Paradiso”, con al centro una grande fontana a forma di pigna.
I pellegrini possono entrare all’interno della basilica da cinque porte [le porte sante], corrispondenti alle cinque navate: nel centro c’è la Porta Regia, detta anche Argentea, perché ornata d’argento, a destra c’è la Porta Romana, riservata ai cittadini romani che si attribuivano l’entrata d’onore. Ai trasteverini, che fra i romani formavano una popolazione a parte e venivano chiamati “ravennati” perché in quella zona [trans Tiberim, al di là del Tevere] c’erano stati, in età imperiale, gli accampamenti [Castra Ravennatium] dei soldati provenienti dalla città di Ravenna, per cui ai trasteverini è riservata la porta di sinistra chiamata perciò la Ravenniana. Dall’estrema porta di destra entrano i pellegrini condotti da speciali guide e perciò è detta Porta Guidonea, dall’altra, all’estrema sinistra, passano i funerali e viene chiamata la Porta del Giudizio.
La struttura interna di San Pietro è ancora, come abbiamo detto, quella dell’antica basilica “costantiniana” costruita nel IV secolo, con quattro file di colonne e il tetto a capriate di legno, e questo edificio viene ormai annoverato tra i monumenti antichi.
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In biblioteca su un catalogo di Architettura e navigando in rete potete trovare significative immagini di com’era la basilica di San Pietro [la basilica costantiniana] in origine, osservatele…
Dieci secoli di devozione hanno fatto di questo edificio uno scrigno di tesori, con profusione di pietre preziose e di metalli nobili venuti da tutte le parti del mondo e in special modo dall’Oriente. Non c’è stato papa che non abbia arricchito la basilica di suppellettili, non c’è stato sovrano che non le abbia donato opere d’arte. Ci sono fulgenti mosaici che ricoprono le mura, e dal soffitto pendono innumerevoli lampade votive. Da Costantino in poi, la nave di San Pietro è stata caricata all’inverosimile d’inestimabili tesori ed è venuto il momento di mostrarli come “antiche cose preziose”. Ma il tesoro dei tesori, per i devoti abbagliati da tanta ricchezza, è costituito dalle “antiche reliquie” - a cominciare da quelle portate dalla madre di Costantino, Sant’Elena - conservate nell’altare della Confessione [intorno ad una colonna chiamata di Sant’Elena]: c’è il legno della Croce, ci sono le spine della Corona, i chiodi del supplizio, la lancia di Longino [che ha squarciato il costato di Gesù dal quale è uscito sangue e acqua] e, meraviglia delle meraviglie, c’è la vera immagine di Cristo, impressa nel velo della Veronica [vera icon, in greco “vera immagine”].
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C’è un oggetto [o più di uno] che voi conservate [come si suol dire] come una reliquia?…
Scrivete quattro righe in proposito…
L’oggetto antico, l’antica reliquia che attirava maggiormente la curiosità e la devozione dei pellegrini era la Veronica e, probabilmente, tutte e tutti voi avete un’idea di che cosa sia “la Veronica”.
Dall’anno Mille la meta dei pellegrini detti “romei” [quelli che andavano a Roma] era il sepolcro degli Apostoli Pietro e Paolo, ma a Roma la cerimonia più spettacolare consisteva nella esposizione del “Volto di Gesù” dinanzi alla folla stupita e ammirata dei fedeli. Le cronache dell’epoca medioevale ci fanno sapere che: «Per la consolazione dei cristiani pellegrini, ogni venerdì o giorno solenne di festa si mostra in San Pietro il Sudario di Cristo della Veronica » così scrive un cronachista del 1200.
Sappiamo che il desiderio di conoscere le sembianze di Gesù era vivissimo fin dai primi tempi del cristianesimo [e, quando abbiamo studiato a suo tempo l’Epistolario di Paolo di Tarso, sappiamo che lui cerca invano notizie sulla figura di Gesù]. Nessuno dei testi dei Vangeli canonici dice quali siano i caratteri fisici del “Figlio dell’Uomo”, se era alto o basso, se era biondo o bruno, se con gli occhi cerulei o corvini, se di pelle pallida od olivastra, se la piega della bocca era dolce o amara. La mancanza totale, assoluta, di particolari fisionomici nei testi delle cosiddette “sentenze” composte da anonimi scrivani ellenisti di Antiochia, di Cesarea e di Alessandria [abbiamo studiato a suo tempo come è andata formandosi la Letteratura dei Vangeli], sulle quali poi altri autori hanno lavorato per comporre [nel greco della koiné] i testi dei Vangeli stessi, dipende semplicemente dal fatto che Gesù lo avevano visto in pochi e quei pochi non sono mai usciti dalla Palestina e, quindi, successivamente, questa mancanza [irrilevante sul piano della dottrina] è stata surrogata, dal IV secolo, dalle descrizioni fantastiche e gratuite degli scrittori apocrifi e leggendari. I Vangeli cosiddetti “apocrifi” hanno ispirato le prime manifestazioni iconografiche e molti ignoti artisti [miniaturisti] o semplici devoti dal V secolo hanno dipinto il volto di Gesù non firmando l’opera ma scrivendo sotto: questa immagine non è stata fatta da mano d’uomo, è in greco “acheropita” [dipinta in modo miracoloso]. Una di queste opere acheropite [dipinte in modo miracoloso] si venerava a Roma, ed era ritenuta “vera immagine” di Cristo o, con un’espressione metà latina e metà greca, “vera icona”, che è diventata [facilmente] un nome di donna, Veronica.
E dietro al nome della donna è stato semplice immaginare l’episodio, che però non è mai stato registrato in nessun testo dei Vangeli, cioè l’incontro, sulla via del Calvario, di Gesù con un gruppo di pie donne, fra le quali Veronica, che, mossa da pietà, col proprio velo, deterge ed asciuga dal sudore, dal sangue e dagli sputi, il volto del condannato piegato sotto la Croce, e come ben sapete su quel velo, resta miracolosamente impresso l’adorabile volto di Gesù Cristo.
I cronachisti medioevali lasciano scritto che chi va in pellegrinaggio a Roma: «Vedrà l’effige del volto del Signore conservata nel velo della pia donna Veronica» ma il nostro informatore Dante Alighieri, che è preparato dal punto di vista dottrinale, non parla né di velo né di sudario, ma scrive che «Il pellegrino va a Roma a vedere una veronica» dove non si fa riferimento ad un nome di donna ma al primitivo significato filologico di “vera icona” cioè di presunta “vera immagine” del volto di Gesù: oggetto, comunque, degno di venerazione.
La bolla papale istitutiva del primo Giubileo, firmata da Bonifacio VIII il 22 febbraio 1300 intitolata Antiquorum habet digna fide relatio, invita i pellegrini a visitare anche la basilica di San Paolo che si trovava invece fuori dalle mura. La grande mole di questa basilica appare ai pellegrini come un vasto parallelepipedo collocato dentro ad un imponente complesso monastico [benedettino] che si staglia sulla suggestiva campagna romana. Dentro alla basilica di San Paolo i pellegrini possono ammirare una straordinaria opera d’arte, da poco portata a termine: il grande tabernacolo del Magister Arnolfus de Florentia, per quanto questo grande architetto e scultore, Arnolfo di Cambio, fosse nato a Colle Val d’Elsa.
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Con la guida di Roma e navigando in rete fate visita alla basilica di San Paolo fuori le Mura e, in particolare, osservate il famoso Ciborio di Arnolfo di Cambio realizzato nel 1285…
Solo più tardi, per i successivi Giubilei, alle due chiese degli Apostoli Pietro e Paolo sono state aggiunte le basiliche di San Giovanni Laterano e di Santa Maria Maggiore, che era stata eretta a «onore e gloria della Madre di Dio» dopo il Concilio di Efeso del 431.
Ma i pellegrini non visitano soltanto le basiliche e non frequentano soltanto le osterie dove si mangia abbacchio annaffiato con il vino dei Castelli ma colgono l’occasione - incentivati dal titolo della bolla papale stessa - per vedere i monumenti dell’antica città dei Cesari: i più, quelli che mai erano stati a Roma, vengono presi da un grande sconcerto nel trovarsi di fronte a grandi ammassi di ruderi e il termine che prende campo [ed ecco che siamo dove volevamo arrivare] è quello di “anticaglie”; a questo punto, si svela anche l’astuzia [o l’accortezza] papale: qual è il messaggio che ne viene fuori?
I grandi tesori antichi [la basilica costantiniana di San Pietro e quella di San Paolo fuori le Mura che hanno già mille anni] sono quelli della Cristianità che si è sovrapposta all’impero romano salvaguardandone la gloria, la potenza e la magnificenza che si è però ormai ridotta ad un cumulo di “anticaglie” e, quindi, il messaggio teocratico di Bonifacio VIII è chiaro: la Chiesa domina [è destinata a dominare] sugli imperi e i sovrani di tutto il mondo devono sottostare all’autorità del pontefice. Ma come è reso visibile questo fatto concretamente?
I pellegrini vedono prima di tutto il “Culiseo” [il Colosseo] che però è stato ridotto a fortezza dalla famiglia Annibaldi [tre papi]. Poi vedono il “Mausoleo di Augusto” che è diventato covo della famiglia dei Colonna [due papi], poi vedono il “Teatro di Pompeo” e quello “di Marcello” ambedue diventati i nidi degli Orsini [due papi], mentre sulla via Appia la Tomba di Cecilia Metella è stata ridotta a fortezza dai Caetani [due papi], i parenti di Bonifacio VIII. Il Campidoglio ha l’aspetto di un castello feudale, accanto al quale si erge la grande chiesa dell’Ara Coeli. Gli Archi di trionfo, solitari lungo le vie consolari, ospitano i guitti della città, mentre i forni che scaldavano l’acqua delle Terme sono diventati luoghi dove si può coniugare il verbo “fornicare” con “prosperose popolane” [e anche in questo caso c’è un tariffario]. L’unica cupola che si vede dall’alto dei colli è quella schiacciata del Pantheon che però è assediato da tante misere casupole dove trova alloggio la plebe romana.
Di fronte a questa situazione assistiamo alla reazione degli intellettuali che si convincono pienamente del fatto che la vera civiltà latina non sta nelle “anticaglie” ma nelle “humanae litterae” cioè nelle Opere degli autori classici: sono le Opere dei classici le pietre con le quali costruire una nuova società fondata sull’idea dell’humanitas. E, ancora una volta, il testimone chiave della situazione è Dante Alighieri che nel Convivio, parlando di Roma scrive che: «…le pietre che nelle mura sue stanno son degne di reverenza, e il suolo dov’ella siede è degno d’esser ben predicato ma se ogni pietra dell’Urbe ha parola da dire, ha istoria da narrare, ha fabula da riportare, è merito e lume dell’ingegno dei li poeti sui». Questa dichiarazione è una di quelle che stanno scritte sulla porta che conduce al territorio dell’Umanesimo propriamente detto nel quale, poco per volta, stiamo entrando.
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C’è qualcosa che considerate un’anticaglia?…
Scrivete quattro righe in proposito…
Il Giubileo, quindi, è un evento che nella mente degli intellettuali serve a rafforzare i concetti di ecumenismo e di unità dei saperi: un “ecumenismo nello spazio” che porta con sé l’idea dell’unione tra culture diverse per creare un’autentica universalità [in greco, cattolicità] e un “ecumenismo nel tempo” che porta con sé l’idea che si debbano trattare come fossero nuove Opere antiche nelle quali poter trovare le radici di un modo diverso di intendere la vita, un modo che prenderà poi il nome di Umanesimo.
L’idea di creare “un’autentica universalità” [cattolicità] ci porta ad incontrare un altro singolare personaggio con il quale abbiamo appuntamento la prossima settimana perché ora dobbiamo fare la conoscenza di Martin che per i signori Ransome è un personaggio singolare in quanto li obbliga a pensare al fatto che il figlio che sarebbe potuto nascere da loro, avrebbe potuto essere così: “distinto e simpatico” per la signora, “una fastidiosa palla al piede” per il signore. Non ci resta che andare avanti a leggere il testo di Nudi e crudi.
LEGERE MULTUM….
Alan Bennett, Nudi e crudi
Martin aveva un bel viso aperto, e anche se sfoggiava quel pizzetto che alla signora Ransome faceva subito pensare a un avvelenatore, per essere un magazziniere aveva un’aria piuttosto distinta. Certo, portava l’irrinunciabile berretto da golfista americano, e lasciava il dietro della camicia penzoloni. Comunque, ciò che agli occhi della signora Ransome gli dava un tono era l’elegante cardigan bordeaux, non molto diverso da quello che lei aveva comprato per suo marito ai saldi dell’anno prima. Il giovanotto, inoltre, portava morbidamente legata al collo una sciarpa di seta gialla con una fantasia a teste di cavallo: anche questa somigliava a una sciarpa che la signora Ransome aveva regalato al marito, che però se l’era messa una volta sola perché la trovava volgarotta. Questo ragazzo però non sembrava volgarotto; anzi, aveva una certa classe.
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Per concludere questo itinerario passiamo dall’anonimo appartamento, sebbene messo misteriosamente in esposizione, dei signori Ransome, ad una celebre sala, ad un sito artistico che penso molte e molti di voi abbiano visitato: il cosiddetto Cappellone degli Spagnoli che è l’antica sala capitolare della chiesa di Santa Maria Novella a Firenze progettata da Jacopo Talenti intorno nel 1345. Questa sala ha cominciato ad essere chiamata Cappellone degli Spagnoli nel 1566 quando è stata ceduta alla colonia di spagnoli che era solita radunasi in questo luogo, sin dall’arrivo in città al seguito di Eleonora di Toledo, andata in sposa a Cosimo I dei Medici nel 1539, ma questa è un’altra storia che ora a noi non interessa.
Perché dobbiamo visitare questo sito che oggi fa parte del Museo di Santa Maria Novella? Perché qui possiamo ammirare il ricco ciclo di affreschi di Andrea di Bonaiuto, e perché lo dobbiamo ammirare? Per cogliere un particolare.
Il pittore Andrea di Bonaiuto per realizzare, dal 1365 al 1367, il suo ciclo di affreschi nella sala capitolare della chiesa di Santa Maria Novella, poi nota col nome di Cappellone degli Spagnoli, si è fatto indirizzare dal maestro di teologia Zenobi de’ Guasconi per non incorrere in errori. Nella parete che raffigura la Missione della Chiesa e dell’Ordine domenicano, il pittore disegna il fianco del Duomo fiorentino già con una sua cupola - quella del Brunelleschi è stata costruita quasi cent’anni dopo! -; ebbene, a ridosso del fianco del Duomo, Andrea dipinge due troni, che si alzano verso l’alto, per le due massime autorità del mondo: a destra il trono del papa, a sinistra quello dell’imperatore. Attorno al papa ci sono tutte le gerarchie ecclesiastiche con gli ordini religiosi, mentre attorno all’imperatore ci sono tutte le dignità civili e gli stati sociali: i re, i principi, i cavalieri, i giureconsulti, i letterati, gli artigiani, le donne nobili, sposate e vedove, i mendicanti e poi la bellissima figura di un pellegrino [ed ecco il particolare a cui volevamo arrivare] dalla lunga barba bianca divisa in due corni [che fa venire in mente i versi del Petrarca: «Movesi il vecchierel canuto e bianco / del dolce loco ov’ha sua età fornita» (ma anche questa è un altro storia)]. Andrea di Bonaiuto dipinge nel 1365 quando già ci sono stati due Giubilei e, quindi, la figura del “pellegrino” si poteva dire ben definita anche sotto il profilo religioso e civile. È stato certamente il frate teologo Zenobi de’ Guasconi, maestro di dottrina, a far mettere il pellegrino dalla parte dell’imperatore, cioè fra gli stati civili, mentre si sarebbe tentati di collocarlo fra i gradi ecclesiastici, magari il più basso. Era infatti il vescovo a consegnare “il bordone della penitenza” a chi si metteva in viaggio, benedicendo la sua intenzione di lucrare indulgenze in qualche parte della cristianità. Quello di “pellegrino” non è propriamente uno stato giuridico, però si poteva ritenere “uno stato di privilegio”, tanto da essere contrassegnato da un particolare “costume” e, inizialmente [ed è qui che vogliamo arrivare nella riflessione in corso], quelli che poi verranno chiamati “gli umanisti” - coloro i quali si muovono sul territorio per raggiungere le sedi delle biblioteche dove sanno di poter trovare le Opere dei Classici - si avvalgono di questo “costume” che costituisce una sorta di “lasciapassare”: mettersi in viaggio per motivi religiosi garantiva delle tutele mentre il viaggiare per motivi di studio suscitava comunque sospetti.
L’attributo più evidente del “costume del pellegrino” è quello del “bordone”, cioè del ricurvo bastone da viaggio, al quale viene attaccata la zucca dell’acqua. Il termine di “bordone” deriva dal tardo latino “burdo” che significa “mulo”, e afferrare il bordone è come attaccarsi ad un mulo resistente che ti aiuta nel cammino, mentre in testa il pellegrino porta il “pètaso” [dal greco “pètasos”, il cappuccio dei dio Ermes], un cappello di feltro a larghe falde spioventi [quasi fosse un cappuccio] per ripararsi dalla pioggia, dal sole, dal vento, legato sotto il mento, da un robusto cordone. Le gambe del pellegrino sono fasciate e i suoi calzari sono alti, di cuoio, come di cuoio è la cintura, alla quale tiene attaccata non la spada del guerriero, non la borsa del mercante, non il calamaio del notaio, ma una bianca conchiglia di mare, che serve come bicchiere per bere alle fonti incontrate strada facendo. Un indumento ha conservato fino ad oggi il nome di “pellegrina” ed è una specie di pastrano leggero con un mantelletto corto, all’altezza del petto.
Così vestito, dopo aver ricevuto la benedizione dal vescovo, il pellegrino veniva accompagnato in processione fuori della porta della città [e voi sapete che la parola “pellegrinaggio” deriva dal verbo latino “perègere”, che è formato dalla preposizione “per” nel senso di “attraverso” e dal sostantivo “àgeri, i campi”, per cui “pellegrinare” significa “camminare fuori dall’abitato, attraverso i campi, a stretto contatto con il paesaggio naturale”]. Gli itinerari medioevali preferiti dai pellegrini [come sapete] sono tre: quello di San Jacopo di Compostella, quello di Roma e quello di Terra Santa.
Se si osserva attentamente il pètaso a forma di cono del pellegrino raffigurato da Andrea di Bonaiuto nella Sala capitolare di Santa Maria Novella si notano infatti tre contrassegni: a destra una conchiglia, in alto il Volto di Gesù, a sinistra una palma. Sono gli emblemi dei tre più lucrosi pellegrinaggi.
La conchiglia è il simbolo del pellegrinaggio verso la creduta tomba di San Giacomo il Maggiore, il quale non era certo galiziano, ma galileo come suo fratello Giovanni. Gesù li aveva chiamati “figli del tuono” e la loro madre, Salomè, era ambiziosissima e desiderava per i suoi figli i posti d’onore accanto al Messia, e Gesù aveva risposto loro: «Voi non sapete ciò che domandate», loro domandavano, senza saperlo, il martirio, che Giacomo riceve, ucciso a Gerusalemme, primo fra gli Apostoli, dai soldati di Erode Antipa [come si racconta nei primi due versetti del capitolo 12 degli Atti degli Apostoli, andate a leggerli]. Come mai la tomba di Giacomo il Maggiore si trovava in Spagna? Perché nell’830, in età carolingia, nella regione della Galizia, a Compostella, era stato scoperto un sarcofago romano, ritenuto la tomba del primo Apostolo martire della fede cristiana. Compostella si protendeva verso la Spagna occupata dagli Arabi “infedeli”, e quel sarcofago romano, ritenuto arbitrariamente la tomba d’un martire cristiano, viene ad assumere il valore di un simbolo [Santo Jacopo matamoro], che i feudatari carolingi - desiderosi di impossessarsi delle fertili terre iberiche - strumentalizzano come pretesto per combattente contro i mori “infedeli”. Ed è così che, soprattutto durante l’autunno del Medioevo, il santuario di Compostella diventa la meta preferita dei pellegrini italiani, francesi e spagnoli: la banca europea delle indulgenze, lucrate da migliaia e migliaia di penitenti che nella cintola, sul pètaso e sulla pellegrina portano il distintivo della bianca conchiglia.
Invece il Volto di Gesù, detto - come abbiamo già studiato - la Veronica, è il distintivo dei “romei”, cioè dei pellegrini che si recano a Roma sulla tomba degli apostoli Pietro e Paolo.
Infine, chi fa il “passaggio” in Terrasanta, per visitare il Santo Sepolcro, compiendo il viaggio “d’oltremare”, viene chiamato “palmario”, perché tornava - se tornava - con una palma, a dimostrazione d’aver toccato i lidi orientali.
Abbiamo detto che tra i pellegrini - o compostelliani o romei o palmari - ci sono anche [e via via saranno sempre più numerosi] quelli che verranno chiamati “gli umanisti”, i quali non vogliono, in primo luogo, lucrare indulgenze, ma abbeverarsi nelle biblioteche alla sapienza dei Classici e, quindi, anche il fenomeno [duraturo] del pellegrinaggio durante l’autunno del Medioevo diventa un germe che contribuisce a far germogliare l’Umanesimo.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
E ora non ci resta che andare a visitare il Cappellone degli Spagnoli in Santa Maria Novella per individuare dal vero il pellegrino dipinto da Andrea di Bonaiuto del quale abbiamo un’immagine in REPERTORIO... Sul pètaso a forma di cono del pellegrino si notano tre contrassegni: a destra la conchiglia, in alto il Volto di Gesù e a sinistra una palma… Sono gli emblemi dei tre più lucrosi pellegrinaggi… Quale preferite di questi tre emblemi?...
La prossima settimana abbiamo appuntamento con un singolare personaggio il quale, intorno a 1286, inizia una lunga peregrinazione culturale che lo porta in molte città [a Parigi, a Tunisi, a Napoli, in Oriente] con l’intento di propagandare i risultati dei suoi studi: le mura di quella fortezza che è la cristianità [con la sua forza centripeta] cominciano a sgretolarsi e nasce una spinta [una forza centrifuga] verso orizzonti più ampi verso contatti diretti con altre culture [pensate che, nel frattempo, sulle rotte ardimentose del commercio i veneziani fratelli Polo con il loro nipote Marco, Marco Polo, sono arrivati in un altro mondo, in Cina]. Chi è il pioniere dell’ecumenismo culturale - che porta già in sé tutti i caratteri dell’umanista - con il quale abbiamo appuntamento la prossima settimana? I catalani lo chiamano Rámon Llull, i castigliani Raimundo Lulio, nel mondo latino lo chiamano Raimundus Lullus, noi lo chiamiamo Raimondo Lullo - è un tipo che ha molti passaporti - e noi ci domandiamo: in che cosa consiste l’Ars Magna o La Grande Arte di Raimondo Lullo e chi è costui?
Per rispondere a queste domande ci troviamo a Palma di Maiorca la prossima settimana, che è un bel posto dove la volontà d’imparare per acquisire una testa ben fatta si rafforza [anche per la dolcezza del clima, mite e secco].
La Scuola è qui per coltivare lo spirito utopico che lo “studio” porta con sé procedendo sulla scia dell’Alfabetizzazione culturale e funzionale che ha come obiettivo anche quello di incentivare la memoria: ed è percorrendo il nostro cammino, da ottobre a giugno, che noi celebriamo la Giornata della memoria, il viaggio della memoria. Primo Levi, appena torna a Torino dall’Inferno del Lager, prende un quaderno, prende una penna e comincia a scrivere per ridare la parola a tutte le persone [milioni di persone] che l’avevano persa.
E allora, per non perdere la parola, per non perdere la volontà d’imparare, per non perdere la memoria, dopo un breve momento di silenzio [antitesi che permette alla parola di esistere, il silenzio] ……… ebbene: il viaggio deve continuare…