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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ ALTO-MEDIOEVALE IL LIBRO DEL PROFETA AMOS SI PRESENTA NELLA SUA QUALITÀ DI MANIFESTO DI CONTRO-INFORMAZIONE …

Lezione N.: 
17

Prof. Giuseppe Nibbi  La sapienza poetica e filosofica dell’età alto-medioevale  26-27-28  febbraio  2014

Elsa Morante

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ ALTO-MEDIOEVALE

IL LIBRO DEL PROFETA AMOS SI PRESENTA

NELLA SUA QUALITÀ DI MANIFESTO DI CONTRO-INFORMAZIONE

   Questo è il diciassettesimo itinerario del nostro viaggio sul territorio della “sapienza poetica e filosofica dell’Età alto-medioevale”: ci troviamo di fronte al “paesaggio intellettuale della Letteratura del Corano” e stiamo percorrendo il sentiero che attraversa il complesso scenario che illustra la vita di Muhammad, il protagonista, dopo Allah, del Libro del Corano, un testo che ha preso forma nel VII secolo. Questo sentiero, per mezzo del quale stiamo attraversando lo scenario che illustra la vita di Muhammad, spesso si biforca in itinerari collaterali, perché la narrazione della “vita di Muhammad” e la vicenda della “formazione della Letteratura del Corano” si intersecano con le antiche culture dell’Età assiale che, circa 2500 anni fa, hanno caratterizzato la Storia del Pensiero Umano e hanno continuato ad incidere sulla Storia dell’Umanità fino ai giorni nostri. Ed è per questo motivo che – studiando la “vita di Muhammad” – abbiamo cominciato, da subito, ad addentrarci nella Letteratura dell’Antico Testamento [la sapienza poetica beritica - il termine deriva dalla parola ebraica “berit” che significa “patto” - è uno dei più grandi e straordinari apparati dell’Età assiale della Storia che sta alla base della Letteratura dei Vangeli prodotta in Età tardo-antica e della Letteratura del Corano prodotta in Età alto-medioevale], e poi, la scorsa settimana, studiando la vita del “Profeta da bambino”, ci siamo imbattuti nelle idee del pensiero di Zarathustra [altro importante apparato culturale dell’Età assiale della Storia] che delinea, per primo, il concetto e i caratteri del “profetismo”.

   Abbiamo studiato che la tradizione secondo la quale “tutti i profeti sono stati pastori” ha le sue radici più profonde nella cultura di Zaratustra, il benefattore, il sacerdote e il “profeta”, il quale, l’essenza del “pastore” – non di pecore ma di cammelli – ce l’ha proprio nel nome: Zaratustra, difatti, in lingua iraniana significa “colui che ha cura dei cammelli”. Sappiamo che il modello del “profeta pastore” concepito dalla cultura di Zaratustra viene travasato nella tradizione degli scrivani dell’Antico Testamento intorno al VI secolo a.C. [nel periodo dell’esilio a Babilonia] producendo esiti letterari straordinari [una fiorente Letteratura, il midrash nebiyim] e poi l’idea che “tutti i profeti sono stati pastori” entra, all’inizio del VII secolo, in Età alto-medioevale, nella tradizione islamica: i testi degli hadit [i racconti sulla vita-modello del Profeta] ribadiscono che anche Muhammad, il Profeta per eccellenza, è stato, e non poteva non essere, un “povero pastorello”.

   Come avviene questa operazione culturale? Le studiose e gli studiosi ci spiegano che il punto di riferimento culturale indispensabile per capire l’identità tra “l’essere profeta e l’essere pastore” è il Libro di Amos e tutte e tutti coloro che studiano l’esegesi e la filologia sostengono, in modo unanime, che tanto nella formazione culturale di Muhammad quanto in quella di coloro che hanno composto i racconti della tradizione islamica [gli hadit] c’è la conoscenza, non superficiale, del testo del Libro di Amos. Ancora una volta, quindi, nel corso dei nostri viaggi, dobbiamo entrare in contatto con il Libro di Amos: quest’opera è una delle fonti della Letteratura del Corano.

   Il testo del Libro di Amos merita di essere letto, o riletto, anche perché è il primo importante manifesto sul tema della “contro-informazione”. Dobbiamo riflettere sul significato di questa affermazione pensando che il termine “contro-informazione” prevede una “presa di coscienza” e un “cambiamento di mentalità”.

   Intanto, per quanto riguarda la forma, il Libro di Amos possiamo definirlo un “libretto” perché è contenuto in una decina di pagine ed è formato da nove capitoletti: quest’opera è molto significativa perché è il testo più antico della Letteratura dei Profeti [il midrash nebiyim]. Il Libro di Amos è il più antico dei quindici Libri appartenenti al gruppo dei “profeti maggiori”. I Libri dei “profeti maggiori” ci vengono presentati dal canone [dall’indice] dell’Antico Testamento in quest’ordine: Isaia, Geremia, Ezechiele, Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Naum, Abacuc, Sofonia, Zaccaria e Malachia. Anche se l’indice lo pone al sesto posto il “messaggio del profeta Amos” è il primo di questo genere che viene raccolto dagli scrivani d’Israele in un testo. Dove e quando avviene questo? La Letteratura profetica prende corpo durante l’esilio a Babilonia, dal 560 a.C., e questo tema, fra poco, lo approfondiremo.

   Il personaggio letterario di Amos [un corrispettivo storico di questa figura non esiste, è un personaggio leggendario ma è anche una metafora significativa] va perciò considerato come il primo dei profeti, e il Libro di Amos rappresenta il modello di questo particolare stile [del midrash nebiyim, della Letteratura dei profeti] e, naturalmente, la prima caratteristica della figura di Amos è quella di essere un “pastore” e questa condizione diventa un marchio [un logos] letterario. Il testo del Libro di Amos comincia proprio così: «Queste sono le parole di Amos, che era un pastore del villaggio di Tekoa». Da questo momento: “l’essere pastore” diventa una prerogativa essenziale per “essere profeta”, ed è chiaro, quindi, che il Profeta dell’islàm – che si presenta come il “Sigillo dei Profeti” – deve essere stato, almeno da bambino, un pastore, perché questo è il primo fondamentale segno d’iniziazione necessario per l’assunzione del ruolo profetico. Inoltre il testo del Libro di Amos descrive una serie di circostanze che sono affini a ciò che succede a La Mecca nel VII secolo al tempo in cui Muhammad inizia la sua vita pubblica “da profeta” facendosi non pochi nemici [un tema che, strada facendo, studieremo].

   Le studiose e gli studiosi di filologia islamica dichiarano che Muhammad si è completamente riconosciuto nella Letteratura del profeti e la “recitazione [qu’ran]” del Corano s’inserisce [per volontà divina] in questo percorso. Che cosa ha imparato Muhammad da questo genere letterario? Per rispondere a questa domanda dobbiamo conoscere [a grandi linee] il contenuto, la forma e il processo di formazione del testo del Libro di Amos.

   Il testo del Libro di Amos racconta la storia dei due regni ebraici: il regno di Israele e il regno di Giuda. Sappiamo che, dopo la morte del “grande re Salomone”, il regno degli Ebrei si divide [perde la sua unità] a causa di uno scontro per la successione e a causa dell’incapacità degli eredi. I governanti di questi due regni si sentono forti, pensano di essere ricchi e potenti, infatti, queste due entità statali [in virtù dell’eredità lasciata da Salomone] vivono un momento di grande prosperità economica e commerciale. Accenniamo al fatto che anche La Mecca del VII secolo [quando Muhammad legge il Libro di Amos] vive questa condizione di prosperità e di ricchezza. Il clima di sicurezza che s’instaura nei due regni ebraici [il regno di Giuda al sud e il regno d’Israele al nord], la situazione da miracolo economico che li contraddistingue, produce, nelle classi dirigenti, effetti di esagerazione che si riflettono anche nelle manifestazioni religiose: si sperperano risorse per celebrare un culto magnifico con grandiosi rituali di stampo idolatra che prendono il sopravvento [per magnificare il re e le classi dirigenti] a scapito della Fede nella Legge del Dio Unico, la Legge di Mosè, la “torà”, una parola-chiave che, letteralmente, significa “la Legge è uguale per tutti”. Una Fede che, quindi – secondo le radici del “profetismo” [lo abbiamo studiato la scorsa settimana] –, deve basarsi su la giustizia, la sapienza e la memoria [i tre termini dai quali scaturisce il nome del dio “ahùra-mazdà”] e non fondarsi sui rituali e sui culti sacrificali che diventano un modo per adorare il re e la classe dirigente dove il concetto di “uguaglianza di fronte alla Legge” viene calpestato. Accenniamo al fatto che anche nel Santuario de La Mecca [la Ka’ba] i rituali superstiziosi prendono il sopravvento sulla Fede nel Dio Unico provocando la perdita del senso del sacro e del divino e la lettura del Libro di Amos produce nell’animo di Muhammad, di fronte a questa situazione, una reazione simile a quella del profeta-pastore. Il Libro di Amos era stato composto nel VI secolo a.C. ma continuava ad essere [più di mille anni dopo] in Età alto-medievale, e continua ad essere tuttora, un significativo manifesto di contro-informazione.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Su quali temi avete svolto un intervento di contro-informazione?...

Scrivete quattro righe in proposito...

   Quali sono i temi per cui il Libro di Amos viene considerato un manifesto di contro-informazione?

   Il primo tema riguarda la “sperequazione economica [la disuguaglianza che riduce sensibilmente la solidarietà]”. Il testo del Libro di Amos mette in discussione il fatto che l’agiatezza economica di poche persone [della classe al potere] possa essere fatta passare come se fosse l’immagine di una condizione di benessere generale che riguarda l’intera popolazione perché in realtà [afferma il profeta-pastore] esiste [sebbene l’informazione di regime lo smentisca] una divisione tra le classi sociali che riduce sensibilmente la solidarietà e fa aumentare lo sfruttamento dei deboli da parte dei più forti.

   Il secondo tema riguarda la rimozione del principio che “tutti sono uguali di fronte alla Legge [alla torà]”. I tribunali [afferma il profeta-pastore] sono asserviti al potere, hanno perso l’autonomia di giudizio ed emettono sentenze ingiuste nei confronti dei più indifesi mentre [sebbene l’informazione di regime lo smentisca] i potenti reclamano e ottengono, mediante la corruzione, l’immunità.

   Il terzo tema riguarda l’aver soppiantato la “religione del cuore [la fede]” con la “religione degli affari” [con l’idolatria superstiziosa]. Il testo del Libro di Amos ribadisce che il culto non è quello di carattere idolatrico che si basa sui sacrifici a pagamento e rivendica [sebbene l’informazione di regime lo smentisca] che il culto gradito a Dio si esprime nell’umiltà e nella giustizia.

   E adesso leggiamo dal Libro del profeta Amos un primo brano molto esplicito che ha sicuramente colpito il cuore e la mente di Muhammad.

LEGERE MULTUM….

Libro di Amos 5 21-27

Il Signore dice: Io odio le vostre feste religiose, anzi le disprezzo! Detesto le vostre assemblee solenni. Quando mi presentate i vostri sacrifici sull’altare, non li accetto, quando mi offrite grano, lo rifiuto; quando mi portate bestie grasse da sacrificare come segno di pace, nemmeno le guardo. Basta! Non voglio più sentire il frastuono dei vostri canti, il suono delle vostre arpe. Piuttosto fate in modo che il diritto scorra come acqua di sorgente, e la giustizia come un torrente sempre in piena. Durante i quarant’anni passati nel deserto non mi avete presentato né sacrifici né offerte. Ma ora vi siete fatti delle statue del vostro dio-re Siccut e del vostro dio-stella Chijon. Perciò portatele con voi, quando vi manderò in esilio oltre Damasco! Ve lo dico io, il Signore, Dio dell’universo.

   Da questi sette versetti del capitolo 5 del Libro di Amos si prende atto di quali siano gli elementi che caratterizzano lo stile di questo genere letterario, ed  emerge, prima di tutto, il carattere del personaggio principale di cui la figura di Amos è il portavoce: il “Dio dei profeti-pastori”. Il “Dio dei profeti-pastori” è un Signore dotato di una spiccata ironia ed è piuttosto imbestialito [molto più che contrariato] il quale, con sarcasmo, si domanda a che cosa serva presentare un quadro di grande prosperità se poi, in realtà, non c’è giustizia sociale perché l’agiatezza economica è di poche persone e regna lo sfruttamento, domina la corruzione e la solidarietà viene meno. Di fronte a questa situazione il Signore si è imbestialito [non è un’affermazione che vuole mancare di rispetto] perché “ruggisce come un leone” e se ne trova conferma nell’incipit del Libro di Amos che ora andiamo a leggere per acquisire alcune chiavi, di stampo filologico, che ci sono utili per conoscere, per capire e per applicarci. Così inizia il Libro di Amos e Muhammad, nel leggerlo, si deve essere emozionato.

LEGERE MULTUM….

Libro di Amos   1 1-2

   Queste sono le parole di Amos, che era un pastore [rō’ehnābi’] del villaggio di Tekoa [a 15 km a sud di Gerusalemme nel regno di Giuda]. Due anni prima del terremoto [veniva tramandata la notizia di un forte terremoto che ci sarebbe stato, nella zona di Gerusalemme, verso il 750 a.C.], mentre Ozia era re di Giuda [Ozia ha regnato negli anni 781-740 a.C.] e Geroboamo figlio di Ioas era re di Israele [Geroboamo ha regnato negli anni 787-747 a.C.], Dio rivelò ad Amos tutte queste cose riguardanti Israele [Israele indica qui il regno delle dieci tribù del nord che si è formato dopo la morte di Salomone e ha come capitale Samaria]. Amos ha detto: «Il Signore ruggisce dal monte Sion, la sua voce tuona da Gerusalemme. Per questo i pascoli si seccano e la verde cima del monte Carmelo ingiallisce».

   Come potete constatare la lettura dell’incipit del Libro di Amos – che è uno dei cosiddetti “testi strategici” della Letteratura dell’Antico Testamento – ci obbliga ad imbastire una riflessione di carattere filologico per capire anche l’eventuale emozione provata dal giovane Muhammad [in Età alto-medioevale] nel leggere questo testo.

   L’affermazione «Il Signore ruggisce dal monte Sion, la sua voce tuona da Gerusalemme» colpisce non solo dal punto di vista poetico ma, soprattutto, perché ci troviamo al cospetto di un testo “poetico sapienziale [di sapienza poetica e filosofica]”: che cosa significa? Gli scrivani autori del Libro di Amos utilizzano il termine “Sion” per definire la sede del potere religioso e intellettuale, e il profeta Amos afferma che il Signore [il Dio dei profeti-pastori, degli autori della contro-informazione] si è insediato sul monte Sion al posto dei profeti di mestiere e degli scrivani di corte [degli autori dell’informazione di regime] e da questa posizione il “Signore ruggisce”: che significato ha questa eloquente figura allegorica? Significa che nella lingua ebraica – la lingua influenzata a Babilonia dalla contigua cultura mesopotamica e da quella egizia e iraniana – con la quale si esprimono gli autori della Letteratura dei profeti-pastori, l’espressione “sentir ruggire il Signore” significa: “alzare il tasso d’attenzione” e, quindi, “prendere coscienza”. [Se in questo momento sentissimo un ruggito di leone non ci lascerebbe indifferenti: attirerebbe la nostra attenzione e ci farebbe prendere coscienza del fatto che sarebbe stato meglio se avessimo acquisito delle competenze da domatrice e da domatore]. Il pastore che sente ruggire il Signore è il profeta che prende coscienza del suo ruolo e dà voce ai “ruggiti” dell’unico Dio dell’universo che si è indignato.

   E poi nell’incipit del Libro di Amos gli autori vogliono mettere bene in evidenza l’identità tra “l’essere pastore” e “l’essere profeta” mediante una oculata costruzione dei termini in modo da creare l’intreccio tra la parola “pastore” e la parola “profeta”. Infatti chi ha composto il testo del Libro di Amos, per definire la parola “pastore”, mette insieme due termini in modo da specificare bene il ruolo di questa figura intorno alla quale ruotano tutti i temi che riguardano l’intera Letteratura dei profeti ma anche l’intera Letteratura dell’Antico Testamento che poi deborda nella Letteratura dei Vangeli e in quella del Corano. In ebraico il termine “pastore” corrisponde alla parola “rō ’eh”, mentre la parola “profeta”  corrisponde al termine “nābi’” che coincide con il participio presente del verbo “proclamare” e, quindi, “nābi’” significa “colui che proclama”, il “proclamatore”. Nel comporre il primo versetto del Libro di Amos gli autori, per definire il personaggio, mettono insieme questi due termini [compongono un intreccio filologico], e costruiscono la parola “rō’ehnābi’” che tradotta letteralmente significa: “il pastore [rō ’eh] che proclama [nābi’]”, ed è in questa parola che troviamo l’identità tra “essere pastore” ed “essere profeta”.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Proclamare significa anche “annunciare qualche cosa che si ritiene sia importante”...

Avete fatto un annuncio ultimamente, oppure avreste voluto farlo ma avete rinunciato?...

Scrivete quattro righe in proposito: gli annunci fatti o quelli semplicemente pensati presuppongono testi brevi...

   Noi stiamo continuando ad annunciare che c’è un’identità tra “l’essere pastore” e “l’essere profeta”, ed è venuto il momento di domandarci perché, per quale motivo, deve risaltare questa identità: perché il profeta non può che essere un pastore? Per rispondere a questa domanda sull’identità tra “l’essere pastore” e “l’essere profeta” – alla quale non si può rispondere con una battuta [per rispondere è necessario affrontare un tema, piuttosto complesso, che abbiamo trattato durante il viaggio sul territorio della “sapienza poetica beritica” nell’anno 2007-2008] – è necessario partire da un altro interrogativo: chi sono gli autori del Libro di Amos?

   Gli autori del Libro di Amos sono gli “scrivani d’Israele in esilio a Babilonia”, e questa affermazione è vera ma è troppo generica perché l’esilio a Babilonia dura circa cinquant’anni, dal 587 al 539 a.C. e, in mezzo secolo, si succedono tre generazioni di scrivani: i padri [gli adulti che hanno subìto direttamente la deportazione a Babilonia], i figli [che sono arrivati in Mesopotamia o da bambini o sono nati e cresciuti in esilio] e i nipoti [che, senza dimenticare la loro origine ebraica, sono ormai diventati cittadini mesopotamici]. Gli scrivani della “Letteratura dei profeti-pastori” appartengono alla seconda generazione, quella dei figli che sono arrivati a Babilonia o da bambini o sono nati e cresciuti in esilio e questi scrivani assumono un atteggiamento molto critico nei confronti della prima generazione, quella dei padri, che è stata direttamente coinvolta e responsabile della sconfitta, della disfatta e della rovina d’Israele [gli scribi facevano parte della classe dirigente]. Gli scrivani della seconda generazione [i figli che contestano i padri] – attivi dopo il 560 a.C. – vogliono promuovere, per onorare la memoria del loro popolo, una vera e propria “autocritica” in modo da “prendere coscienza” degli errori fatti per poter “rilanciare la speranza”, e per resistere alla tentazione di omologarsi con la civiltà babilonese con il pericolo di perdere la propria identità culturale.

   La prima generazione di scrivani [quella dei padri direttamente coinvolti nella deportazione e completamente assimilati alla classe dirigente ebraica che ha causato la rovina] ha cominciato subito a produrre materiali [di genere poetico-sapienziale] con uno “stile” detto della “Lamentazione”, senza però prendere davvero coscienza delle proprie responsabilità, cercando giustificazioni e cadendo nella disperazione e nel pessimismo senza prospettive.

   Gli scrivani d’Israele della seconda generazione in esilio a Babilonia [i figli] vogliono superare le Lamentazioni dei loro padri e, per questo, mettono in primo piano il “pensiero dei profeti-pastori”. Gli scrivani d’Israele della seconda generazione in esilio a Babilonia fondano delle nuove Scuole di scrittura [Babilonia è una città intellettualmente evoluta] e cominciano a comporre la Letteratura biblica iniziando proprio dalla Letteratura dei profeti e, per compiere questa operazione, si basano [come sappiamo] anche sul pensiero di Zarathustra che circola da tempo in area Mesopotamica e di un nutrito materiale di carattere leggendario [la tradizione orale delle tribù cananee] dal quale emerge la figura di Amos.

   Chi è Amos, e che cosa rappresenta questo personaggio? Ricondurre la figura di Amos ad un personaggio reale [abbiamo già detto] non è possibile: Amos, come tutti i profeti, è una figura allegorica [è un personaggio letterario tramandato nelle numerose mitiche saghe orali] che rappresenta però un fenomeno reale che era stato rimosso dagli scrivani in esilio a Babilonia della prima generazione [i padri coinvolti nella disfatta] ma che gli scrivani della seconda generazione [i figli desiderosi di fare contro-informazione] vogliono mettere in evidenza. Il personaggio di Amos è un prototipo e rappresenta gli scrivani di corte del re Salomone che, nel X secolo a.C., si ribellano agli scandali, alla lotta per la successione, al degrado morale, politico e sociale, all’ingiustizia generalizzata e, in dissenso, lasciano la corte: abbandonano una posizione di privilegio in coerenza con la Legge “uguale per tutti” [la toràh] codificata da un patto [la berit] tra il Dio Unico e Mosè.

   Nel X secolo a.C., difatti [e lo abbiamo studiato a suo tempo], è nato e si è sviluppato in Israele tra gli “antichi scrivani di corte” un movimento che entra in conflitto [in crisi di coscienza] con il proprio ruolo di asservimento al potere [lo scrivano di corte scrive la storia del regno e, per mantenere i propri privilegi, ritiene utile esaltare sempre le imprese del monarca e della sua classe dirigente, stendendo un velo di omertà sulle malefatte] e, di conseguenza, questi scrivani dissenzienti si allontanano dalla città, escono fuori dalla civiltà urbana, corrotta e corruttrice, e,  anche per sfuggire alla persecuzione, si rifugiano tra i pastori [la categoria subalterna per eccellenza] e lanciano una sfida al regime che vuole strumentalizzare la religione rimuovendo gli attributi [giustizia, memoria, sapienza] dell’Unico Dio dell’Universo, il quale non vuole far sentire la sua voce nello spazio ricco, comodo e assordante della corte, popolata di Idoli. Il Dio Unico dell’Universo si esprime fuori da questo contesto [che si auto-etichetta come “civile”] e parla al cuore della persona negli spazi deserti, sulle vie della transumanza, dove regnano il silenzio e la solitudine. Il primo “patto”, la prima “berit”, viene stipulata tra chi coltiva una cultura dissidente e si è allontanato dalla corte e il mondo della cultura pastorale che vive la marginalità.

   La conoscenza di questa situazione [che a grandi linee abbiamo raccontato] ci fa capire da dove nasce l’identità tra “l’essere pastore” e “l’essere profeta” e l’essenza di questa identità sta nella parola-chiave “berit [il patto]”. E, difatti, la prima parola-chiave del “pensiero dei profeti-pastori”, che diventa il filo conduttore di tutta la Letteratura biblica, è la parola “berit [il patto]”. La “berit” è, prima di tutto, lo strumento fondamentale per costruire la convivenza umana [la “religione del cuore”] e poi è anche il dispositivo essenziale con cui l’essere umano può contribuire a dare completezza alla creazione di Dio, facendo degli accordi con Lui: se le corti di Samaria e di Gerusalemme [pensano gli scrivani d’Israele della seconda generazione in esilio a Babilonia] avessero ascoltato l’ammonimento dei profeti-pastori [il “ruggito del Signore” trasmesso dal profeta Amos] e avessero seguito la “religione del cuore” la disfatta non sarebbe avventa.

   Come nasce l’idea del “patto”, il concetto della “berit”? Le studiose e gli studiosi di filologia biblica ci informano che, in origine, la parola “berit” è uno di quei termini che definisce gli accordi, i patti, sulla compra-vendita delle pecore, delle capre, degli agnelli e poi sulla compra-vendita della terra e dei pozzi. Il significato della parola “patto” [della parola “berit”], si modica gradualmente, passando da termine prettamente materiale a concetto intellettuale, da quando [dal X secolo a.C.] comincia a stabilirsi [come abbiamo detto] un rapporto tra il mondo della cultura del dissenso [della contro-informazione] e il mondo della cultura pastorale [della solitudine e della marginalità. Non è un rapporto facile quello che, in modo forzoso, si stabilisce tra i “pastori” che vivono ai margini della società civile e gli “scrivani dissidenti” che provengono dalla corte, dall’ambiente che ritiene di essere il centro della civiltà. Per facilitare la comprensione di questa situazione – il rapporto tra “l’ambiente pastorale” e “il mondo della dissidenza” – potremmo leggere, o rileggere, molte pagine di Letteratura.

   Ancora una volta la Scuola propone di puntare l’attenzione su un racconto [che abbiamo già incontrato in altre circostanze] e che dà il nome ad un libro che contiene altri dodici racconti e che s’intitola Gente in Aspromonte scritto nel 1930 da Corrado Alvaro [1895-1956], lo scrittore calabrese che rinnova una significativa tradizione letteraria, quella della narrativa meridionale, un fenomeno culturale che annovera scrittori [dei quali in questi anni abbiamo studiato vita e opere] come Giovanni Verga, Luigi Capuana, Federico De Roberto, Luigi Pirandello, Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Notizie utili su Corrado Alvaro e sulle sue opere le trovate con facilità sull’enciclopedia, i suoi libri li potete richiedere in biblioteca, e sulla rete ci sono molti siti che si occupano di questo scrittore: con questi strumenti potete fare, o rinnovare, la sua conoscenza

   Se leggete anche solo le prime pagine di Gente in Aspromonte capite che, quando si parla di “pastori”, il contesto profetico, fa sempre da sfondo. Leggendo anche solo le prime pagine di questo significativo racconto [è lungo sessanta pagine] potete incontrare il protagonista che è ancora un ragazzetto, un pastorello, che si chiama Antonello Argirò il quale si farà brigante a causa di un sopruso che subisce suo padre. Il personaggio di Antonello Argirò porta con sé tutte le caratteristiche tipiche dei “profeti” più che dei briganti, e queste caratteristiche si traducono in quattro parole-chiave che Corrado Alvaro fa spesso emergere nel testo del suo racconto: “il pastore” che vorrebbe liberarsi dall’asservimento, “la memoria” che emerge per dare consolazione, “la sapienza” che rimanda ad antiche tradizioni solidali e “la giustizia [parola scritta con la G maiuscola]” come unica speranza di riscatto. Sono le stesse parole-chiave che emergono nel Libro di Amos e in tutta la Letteratura dei profeti, e che continuano a riprodursi nella Letteratura contemporanea.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Leggete, o rileggete, le prime pagine del racconto “Gente in Aspromonte” di Corrado Alvaro che trovate in biblioteca…

   Adesso leggiamo l’incipit di quest’opera.

LEGERE MULTUM….

Corrado Alvaro, Gente in Aspromonte

Non è bella la vita dei pastori in Aspromonte, d’inverno, quando i torbidi torrenti corrono al mare, e la terra sembra navigare sulle acque. I pastori stanno nelle case costruite di frasche e di fango, e dormono con gli animali. Vanno in giro coi lunghi cappucci attaccati ad una mantelletta triangolare che protegge le spalle, come si vede talvolta raffigurato qualche dio greco pellegrino e invernale. I torrenti hanno una voce assordante. Sugli spiazzi le caldaie fumano al fuoco, le grandi caldaie nere sulla bianca neve, le grandi caldaie dove si coagula il latte tra il siero verdastro rinforzato d’erbe selvatiche.

... continua la lettura ...

   Nel momento in cui gli scrivani [quelli che entrano in crisi di coscienza], in rotta con il regime al quale sono funzionali, escono dalla corte e fuggono dalla città, devono entrare in contatto con il mondo extra-urbano: con il mondo dei deserti, dei villaggi, delle migrazioni, del silenzio, della solitudine. In questo mondo, gli scrivani dissidenti, abituati a vivere nelle comodità e nell’ipocrisia della corte, sperimentano sulla loro pelle la vita dura: da questa esperienza [di diaspora, di esilio] – che tuttavia risulta molto stimolante per la loro mente e la loro intelligenza – sanno trarre le parole-chiave che daranno voce ad una riflessione intellettuale [contenuta nella Letteratura dei profeti] tra le più profonde della Storia del Pensiero Umano. Anche Muhammad, nel leggere il Libro di Amos, ha certamente riflettuto su ciò che stiamo dicendo.

   Questo fenomeno reale della diaspora, dell’esilio degli scrivani dissidenti d’Israele verso gli spazi deserti della transumanza – fenomeno che investe le corti dei due Regni in cui, alla morte di Salomone, si è diviso lo Stato degli Ebrei, tra l’VIII e il VII secolo a.C. – si coniuga con la tradizione “profetica” derivante dalla predicazione di Zarathustra e presente nella cultura pastorale: il grande merito che hanno gli “scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia” è quello di aver colto questo intreccio intellettuale – il concetto dell’identità tra “l’essere pastore” e “l’essere profeta” – e di averlo tradotto in Letteratura sapienziale e poetica. Infatti il testo del Libro di Amos comincia [e ne abbiamo letto l’incipit] proprio facendo questa affermazione: «Queste sono le parole di Amos, che era un pastore del villaggio di Tekoa». Con l’incipit del Libro di Amos – come se fosse un proemio, un’introduzione a tutta la Letteratura dei profeti [c’è chi sostiene, tra le studiose e gli studiosi, che potrebbe essere un’introduzione a tutta la Letteratura dell’Antico Testamento prodotta durante l’esilio babilonese] – “l’essere pastore”, nel movimento della “sapienza poetica beritica”, diventa una prerogativa essenziale perché una persona possa anche “essere profeta”, cioè una voce che non rappresenta [gl’Idoli] le divinità  racchiuse nei santuari nazionali ma che proclama il messaggio dell’Unico Dio dell’Universo. Questo modo di essere – la prerogativa di essere un “pastore” – serve per avvalorare tutte le parole che da Amos vengono pronunciate. E il profeta Amos afferma di parlare in nome di un “Signore” ironico, sarcastico e profondamente contrariato e annuncia il suo severo giudizio sui popoli e in particolare sul popolo di Israele colpevole di violenze ingiustificate e reo di aver dimenticato di essere stato prescelto per proclamare la giustizia. A questo proposito dobbiamo ricordare che quando il testo del Libro del Corano rimprovera gli Ebrei [i figli di Abramo attraverso Isacco] non fa un’operazione di antisemitismo ma fa l’esegesi dei testi della Letteratura dei profeti – a cominciare dal Libro di Amos – dove fioccano le invettive contro il comportamento delle classi dirigenti ebraiche.

   Gli scrivani [della seconda generazione in esilio a Babilonia] che compongono il Libro di Amos riflettono sugli errori politici delle classi dirigenti dei due regni ebraici i cui membri esiliati [i loro padri] si lamentano dicendo che il Signore era stato troppo severo, persino cattivo e irriconoscente [perché - si chiedevano ipocritamente - nonostante tutte le offerte votive che gli abbiamo fatto il Signore ci ha puniti?], e non vogliono riconoscere di essere stati castigati per la loro iniquità sul piano della gestione del potere. Il “Dio dei profeti” – secondo  lo stile del testo contro-informativo di Amos – non è un idolo e, di conseguenza, detesta che gli si paghino tangenti perché giustifichi i comportamenti illeciti ma si presenta come il “Signore delle buone pratiche politiche” generatrici di giustizia, solidarietà, sapienza e memoria.

   Leggiamo in proposito un terzo brano, molto esplicito, dal Libro di Amos.

LEGERE MULTUM….

Libro di Amos 2 4-16

Il Signore dice: La gente di Giuda ha commesso una violenza dopo l’altra; certamente io la punirò. Ha calpestato i miei insegnamenti e non ha rispettato i miei ordini. È stata sviata dagli stessi idoli che i suoi antenati avevano servito. Per questo darò fuoco alla terra di Giuda e brucerò le fortezze di Gerusalemme. Il Signore dice: Gli abitanti d’Israele hanno commesso una violenza dopo l’altra; certamente io li punirò. Hanno venduto come schiavi uomini onesti, solo perché non potevano pagare i loro debiti, perfino poveri che non erano in grado di saldare nemmeno il debito di un paio di sandali. Costringono il povero a strisciare nella polvere e rendono la vita difficile al debole. Padri e figli vanno con la stessa donna, e così profanano il mio santo nome. Nei luoghi di culto osano sdraiarsi sulle vesti avute in pegno dal povero. Nel mio tempio bevono il vino confiscato. Eppure, popolo mio, per la tua salvezza ho distrutto guerrieri alti come cedri e forti come querce. Li ho abbattuti e  sradicati. Io ti ho fatto uscire dall’Egitto, ti ho guidato nel deserto per quarant’anni e ti ho dato una terra. Ho scelto tra i tuoi figli i miei profeti. Non è forse così, popolo d’Israele?

Io, il Signore, te lo domando. Ma voi avete ordinato ai profeti di non annunziare il mio messaggio. E ora io vi schiaccerò come un carro carico schiaccia il terreno. Neppure i più agili sfuggiranno, i forti perderanno la loro forza, i coraggiosi non si salveranno. Gli arcieri non resisteranno, i soldati non potranno fuggire, neppure gli uomini a cavallo scamperanno. Quel giorno perfino il più valoroso getterà le sue armi per poter fuggire. Lo affermo io, il Signore.

   Il testo del Libro di Amos ricorda ai suoi contemporanei che il culto gradito a Dio si esprime nell’umiltà e nella giustizia. Dio ha stabilito un diritto che non può essere calpestato ed Egli è il difensore dei deboli.

   Al capitolo 3 del Libro di Amos troviamo il primo programma politico sulla “missione del profeta” che diventa un modello letterario la cui forma si rifà allo stile epico dei grandi poemi dell’Età assiale presentando un sostanzioso catalogo di similitudini metaforiche che servono [secondo lo stile delle nuove Scuole di scrittura degli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia] per denunciare l’indifferenza e il disappunto che, di solito, accompagna la missione del profeta, ed è facile, per il martellante sistema informativo di regime, far passare la contro-informazione per disfattismo. Leggiamo questo quarto brano.

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Libro di Amos 3 3-8

Possono due persone cominciare un viaggio insieme se non s’incontrano?

Può il leone ruggire nella foresta se non ha scovato una preda?

Può il leoncello farsi sentire dalla tana se non ha catturato qualcosa?

Può essere preso a terra un uccello se nella trappola non c’è esca?

Può chiudersi una trappola se qualcosa non la fa scattare?

Può suonare la tromba di guerra in città senza che il popolo s’allarmi?

Può abbattersi una sciagura in città se il Signore non l’ha provocata?

Ebbene, Dio, il Signore, non agisce senza aver prima rivelato le sue intenzioni ai suoi servi, i profeti. Quando il leone ruggisce chi può non aver paura?

Quando Dio, il Signore, parla chi può evitare di trasmettere il suo messaggio?

   Negli ultimi capitoli [dal 7 al 9], il testo del Libro di Amos, racconta di “cinque visioni” avute dal profeta che simboleggiano l’approssimarsi e l’attesa dell’intervento di Dio nella storia: un’altra caratteristica della figura del profeta è quella di essere un “visionario”.

   Le cinque visioni del profeta Amos descritte negli ultimi due capitoli [dal 7 al 9] del Libro omonimo rappresentano un importante modello letterario che nasce nelle nuove Scuole di scrittura fondate dagli scrivani d’Israele della seconda generazione in esilio in Mesopotamia, la generazione dei figli [dissidenti e visionari], quelli che sono nati, sono cresciuti e hanno studiato in esilio a Babilonia, una città progredita dal punto di vista culturale che permette loro di acquisire notevoli competenze intellettuali e formali per poter formulare le loro idee secondo lo stile della contro-informazione e della metafora presentata sotto forma di visione.

   Sappiamo [lo abbiamo ripetuto più volte] che gli autori del Libro di Amos contestano ai loro padri [i quali producono una Letteratura basata sulla “lamentazione”] di essere responsabili della sconfitta e della rovina perché sono stati complici dell’apparato di potere, sono stati al servizio di regnanti incapaci e corrotti e, quindi, dovrebbero, invece di lamentarsi, fare autocritica e riconoscere i loro errori e la loro mancanza di indipendenza intellettuale [la Letteratura dei profeti nasce e si sviluppa in questo clima].            

   Il modello letterario delle cinque visioni, descritte dal capitolo 7 al capitolo 9 del Libro di Amos, ha una forma particolare che si riproduce non solo in tutta la Letteratura profetica successiva ma anche nella Storia della Letteratura universale [la nota dissidente, contro-informativa e visionaria si trova in tutti i grandi romanzi dell’Età moderna e contemporanea]. Il testo di ogni “visione” del profeta Amos inizia con il motivo del pessimismo totale [con la lamentazione] in cui emerge un elemento ironico [basta lamentarsi: non serve a niente ed è una forma di ipocrisia], poi segue il motivo della presa di coscienza, della consapevolezza [l’ascolto del ruggito del Signore che invita a produrre una scrittura contro-informativa e visionaria], infine si delinea il motivo della speranza di salvezza. Ed è proprio nel testo delle “visioni del profeta Amos” che troviamo la prova della [molto accesa] polemica in corso tra la prima e la seconda generazione di scrivani in esilio a Babilonia. Dobbiamo dire che la scoperta di questa situazione [il violento scontro generazionale] deve aver fatto capire molte cose a Muhammad mentre leggeva il Libro di Amos da far nascere in lui una “vocazione profetica”.

   Gli autori del Libro di Amos adottano il genere della “visione allegorica” proprio per imbastire una riflessione su che cosa voglia dire “essere visionari” e utilizzano questo tema per poter proclamare la propria autonomia culturale rispetto alla mentalità con la quale i loro padri hanno supportato un regime corrotto rinunciando alla loro indipendenza intellettuale per mantenere i loro privilegi e il loro reddito.

   Per preparare l’esercizio della lettura del Libro di Amos [nove capitoletti in dieci pagine], un significativo esercizio che siete invitate e invitati a fare, enumeriamo i titoli [che corrispondono agli argomenti] delle “cinque visioni del profeta Amos”: “Le cavallette [la prima visione]”, “Il fuoco [la seconda visione]”, “Il filo a piombo [la terza visione]”, “Un cesto di frutta [la quarta visione]” e “Il giudizio del Signore [la quinta visione]”. Noi puntiamo la nostra attenzione sulla terza visione, “Il filo a piombo”, perché nel bel mezzo della terza visione gli autori del Libro di Amos – in funzione della “presa di coscienza” e della “assunzione di responsabilità” – introducono la famosa “dichiarazione d’indipendenza dello scrivano” che si identifica con la figura del “profeta-pastore”. La “dichiarazione d’indipendenza” si trova all’interno di un dialogo, molto conflittuale, tra il pastore Amos e il sacerdote Amasìa: la “dichiarazione d’indipendenza” corrisponde all’immagine del “filo a piombo” e questa bellissima metafora [sulla “dirittura morale”]  è facilmente comprensibile. Il testo di questo dialogo [tra il pastore Amos e il sacerdote Amasìa] è strutturato in modo allegorico: la figura del pastore Amos rappresenta gli autori stessi del Libro i quali parlano a nome di tutti gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia [in nome dei figli dissidenti e visionari]. La figura del sacerdote Amasìa rappresenta metaforicamente gli scrivani di corte della prima generazione, i padri, i quali [e lo si capisce dal testo] non gradiscono affatto la contestazione dei figli, non intendono fare autocritica e non hanno intenzione di assumersi le responsabilità della sconfitta.

   Gli autori del Libro, immedesimandosi nel pastore Amos, dichiarano [a nome di tutti gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia] di essere non dei “visionari, allucinati, vaneggiatori e paranoici” ma di essere “visionari” come i pastori-profeti che, in nome della propria autonomia intellettuale, si mantengono con il loro lavoro ed è per questa loro indipendenza culturale che il “Dio di giustizia” li sceglie come propri portavoce. La “dichiarazione d’indipendenza” degli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia, contenuta nel capitolo 7 del Libro di Amos, ha un carattere autobiografico, difatti, fondano nuove Scuole di scrittura a proprie spese [Amos rispose: - Non sono un profeta di mestiere. Sono un pastore e coltivo le piante di sicomoro. Il Signore mi ha chiamato mentre seguivo il gregge al pascolo.] e non vogliono, sul modello del pastore-profeta Amos [con il quale si identificano facendolo diventare un vero e proprio personaggio da romanzo], essere scrivani prezzolati, e il testo della visione de “Il filo a piombo” mette bene in evidenza lo scontro in atto con gli scrivani della prima generazione, con i padri, che sono stati scrivani di mestiere, i quali non vorrebbero essere giudicati e, per questo, stanno compiendo delle ritorsioni di tipo economico [fanno causa] contro le Scuole del proclama di Amos. E, difatti, nella quarta e nella quinta visione [che siete invitate e invitati a leggere] gli autori del Libro di Amos colpiscono con durezza la generazione dei padri scrivendo tre paragrafi allegorici i cui titoli sono eloquenti: “Contro i commercianti imbroglioni”, “Il giudizio del Signore” e “Dio castiga i colpevoli”. Queste chiavi di lettura sono necessarie altrimenti si finisce per scivolare sulle righe del testo di Amos senza renderci conto che, molto concretamente, il dibattito tra il pastore Amos e il sacerdote Amasìa – sul “tema dell’indipendenza intellettuale” – è ancora in corso e ci tocca da vicino: ci riguarda.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quale di queste parole – l’emancipazione, l’autonomia, la concessione, o quale altra parola – mettereste per prima accanto alla parola “indipendenza”?...  

Scrivetela...

   E ora leggiamo il brano dalla terza visione,Il filo a piombo, che contiene il dialogo tra il pastore Amos e il sacerdote Amasìa che abbiamo commentato per capirne il significato, tenendo conto che la lettura di questo testo, di tutto il Libro di Amos, ha anche cambiato il modo di pensare di Muhammad.

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Libro di Amos  7 10-17

Il filo a piombo [terza visione]

Il Signore mi fece avere ancora un’altra visione: stava vicino a un muro, alto e diritto, e teneva in mano un filo a piombo. Il Signore mi chiese: - Amos, che cosa vedi?

- Un filo a piombo, - risposi.  - Ho misurato con esso il mio popolo, - disse il Signore, - e non posso più perdonarlo. Io devasterò i luoghi sacri dei discendenti di Isacco, i santuari d’Israele saranno distrutti e porrò fine con la spada alla dinastia del re Geroboamo.

   Amos e Amasìa [terza visione]

Amasìa, sacerdote di Betel, fece pervenire al re Geroboamo questo messaggio: «Amos è qui nel regno d’Israele e congiura contro di te. La gente non sopporta più i suoi discorsi. Infatti egli dice: Geroboamo morirà in battaglia, e la popolazione d’Israele sarà deportata, lontano dalla sua patria».       Allora Amasìa disse ad Amos: - Visionario, vattene, ritorna nella terra di Giuda per guadagnarti il pane, e fai là il profeta. Non profetizzare più a Betel. Questo è il santuario del re, il tempio della nazione!       Amos rispose: - Non sono un profeta di mestiere, e non faccio parte di un gruppo di profeti. Sono un pastore e coltivo le piante di sicomoro. Il Signore mi ha chiamato mentre seguivo il gregge al pascolo, e mi ha ordinato di portare il suo messaggio a Israele. E ora tu vuoi che io non profetizzi più contro il popolo d’Israele, e che non parli più contro i discendenti di Isacco. Allora ascolta queste parole del Signore: «Tua moglie diventerà una donna di strada, i tuoi figli e le tue figlie saranno uccisi in guerra. La tua proprietà sarà divisa fra altre persone, tu stesso morirai in terra straniera, e la popolazione d’Israele sarà deportata lontano dalla sua patria».

   Però, nonostante questa durezza, il Libro si conclude con un annuncio di salvezza: Dio ricostruirà il regno di Davide ridotto come una casa in rovina.

   Ma prima di occuparci di questo ultimo tassello che, in Età alto-medioevale, ha fortemente influenzato il modo di pensare di Muhammad, dobbiamo ricordarci che, la scorsa settimana, abbiamo aperto una parentesi in funzione della didattica della lettura e della scrittura, una parentesi che non abbiamo ancora chiuso: abbiamo presentato e letto alcune pagine del romanzo di Elsa Morante intitolato L’isola di Arturo. Questo romanzo appartiene ad una stagione letteraria in cui l’elemento della “contro-informazione” e della “metafora visionaria” sono ben presenti. Elsa Morante è una specialista, e sa utilizzare ad arte il tasto della contro-informazione per trattare il tema dei ruoli parentali: come può, per esempio, Arturo mitizzare un padre che è sistematicamente assente e insensibile? Come reagirà quando verrà a conoscenza della vera natura di quest’uomo? Lo potrete scoprire leggendo, o rileggendo, L’isola di Arturo.

   Inoltre, in tutto il testo del romanzo, la scrittrice produce contro-informazione sui luoghi comuni che riguardano il “genere femminile [leggeremo ora una pagina significativa in proposito]”, e poi Arturo, in quanto orfano, non può che avere uno straordinario rapporto visionario con la figura di sua madre [e la seconda pagina che ora leggeremo è esemplificativa in proposito]. Bisogna tener conto di queste chiavi nel leggere, o nel rileggere, il testo di questo romanzo che nella forma assomiglia ad un poema epico e nello stile si avvicina alla Letteratura dei profeti.

   Adesso, per il tempo che abbiamo a disposizione, possiamo dedicarci a leggere solo poco più di due pagine di questo romanzo, ma non è la lunghezza, bensì, è l’intensità quella che conta, un’intensità resa dal fatto che Arturo, sebbene sia un ragazzo “selvaggio e impulsivo” è, però, molto “riflessivo” in virtù della sua forte esperienza di lettore: lui non ne è consapevole ma la lettura è la sua ancora di salvezza, e potremmo anche dire – utilizzando una metafora che conosciamo contenuta nel Libro di Amos – che la lettura è per Arturo “un filo a piombo”.

   Stiamo per leggere il sotto-capitolo intitolato “Donne”; ebbene, ciò che Arturo pensa delle donne [almeno fino a quando non entra in scena Nunziatella, la giovanissima nuova moglie del padre, e nel suo rapporto visionario con la figura della madre morta] è legato ad una serie di luoghi comuni che nel 1957 [all’uscita del romanzo] imperversano nella mentalità comune e sui quali la scrittrice, con ironia e con sarcasmo, produce “contro-informazione”: siamo sicure, siamo sicuri che oggi sia stato fatto un salto di qualità in proposito? Sta di fatto che Elsa Morante è morta con la disperata consapevolezza che la Letteratura “contro-informativa e visionaria”, che lei ha contribuito a produrre, non sia servita a nulla, e ci piacerebbe smentire, almeno nel nostro piccolo microcosmo dell’alfabetologia, questa sua sconfortata constatazione.

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Elsa Morante, L’isola di Arturo

   Donne.

Del resto, facendo un’eccezione per la Maternità di mia madre, nulla, nell’oscuro popolo delle donne, mi pareva importante; e non m’interessava molto d’indagare i loro misteri. Tutte le grandi azioni che m’affascinavano sui libri erano compiute da uomini, mai da donne. L’avventura, la guerra e la gloria erano privilegi virili. Le donne, invece, erano l’amore; e nei libri si raccontava di persone femminili regali e stupende. Ma io sospettavo che simili donne, e anche quel meraviglioso sentimento dell’amore, fossero soltanto un’invenzione dei libri, non una realtà. L’eroe perfetto esisteva davvero io ne vedevo la riprova in mio padre; ma di donne splendenti, sovrane dell’amore, come quelle dei libri, io non ne conoscevo nessuna. L’amore, dunque, la passione, questo famoso grande fuoco, era forse un’impossibilità fantastica.

 

... continua la lettura ...

   Abbiamo detto che il Libro di Amos si conclude con un annuncio di salvezza, nel senso della speranza: Dio restaurerà il regno di Davide, ridotto come una casa in rovina e, per concludere la nostra incursione nel Libro di Amos che costituisce il primo importante tassello nella formazione culturale del giovane Muhammad, leggiamo quest’ultimo brano significativo.

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Libro di Amos  9  11-14

Il Signore dice: In quel giorno io restaurerò il regno di Davide, ridotto come una casa in rovina. La rialzerò, riparerò i suoi muri, e la ricostruirò com’era prima

Così parla il Signore, che farà tutto questo. Verrà il giorno in cui – dice il Signore – non si finirà di seminare il grano, che sarà già ora di mietere; non si finirà di pigiare l’uva, che sarà già ora di vendemmiare di nuovo. Dai monti stillerà il vino dolce, e scorrerà giù per le colline. Farò tornare il mio popolo nella sua terra. Ricostruirà le sue città devastate, e vi abiterà. Pianterà vigne, e ne berrà il vino. Coltiverà giardini, e ne mangerà i frutti.

   Alla fine del Libro di Amos si parla di “una casa in rovina da restaurare, da rialzare, da ricostruire come era prima”. E secondo le studiose e gli studiosi di filologia queste affermazioni hanno certamente influenzato il modo di pensare di Muhammad: c’era da restaurare, da rialzare, da ricostruire la Ka’ba [il Santuario de La Mecca], e non materialmente, ma spiritualmente: era necessario riportare nella Ka’ba il culto abramitico del Dio-Unico, bisognava rimuovere il politeismo affaristico in nome della “religione del cuore”. Muhammad conosce la Letteratura dei profeti fin da giovane durante i suoi frequenti viaggi in Siria [e lo seguiremo nei suoi viaggi] e nel Libro di Amos trova una forte motivazione per sperimentare la vita mistica, e per cercare la sua vocazione al profetismo, la sua disponibilità a “sentire la voce di Dio [come dice la tradizione islamica]”.

   E, a questo proposito, leggiamo un brano [sono cinque righe] tratto dalla Sira, la più antica e autorevole raccolta di hadit [di racconti] sulla “vita-modello” del Profeta scritti da Ibn Ishaq e Ibn Hisam. Soltanto dopo aver percorso l’itinerario [piuttosto faticoso] di questa sera è possibile capire il senso di questo famoso racconto mitico [hadit] sull’iniziazione del Profeta bambino e pastorello. Leggiamo   questo brano.

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Ibn Ishaq-Ibn Hisam,  Sira - La vita-modello del Profeta

Il Profeta bambino, mentre con altri coetanei pascolava il gregge, fu afferrato da due uomini [angeli] vestiti di bianco, che lo gettarono a terra; gli aprirono il petto, ne estrassero un grumo di sangue nero, e, presa un po’ di neve che avevano portato con sé in una tazza d’oro, ne lavarono il cuore e il ventre. Poi, rinchiuso il seno di Muhammad, scomparvero.

   Questo significativo racconto [un po’ chirurgico ma poetico] della Sira, la vita-modello del Profeta, sviluppa [circa un secolo dopo] in modo mitico un versetto del testo del Corano che parla della necessità di “purificarsi dal male e dal peccato [t’abbiamo aperto il petto e abbiamo deposto il peso che t’aggravava il dorso]”. Questo versetto si trova nella XCIV. La sura dell’Apertura del quale leggiamo il testo e poi facciamo alcune osservazioni necessarie per capire.

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XCIV. La sura dell'Apertura

Nel nome di Dio, clemente misericordioso!

O non t’abbiamo aperto il petto e abbiamo deposto il peso che t’aggravava il dorso? E non facemmo alto il tuo nome? Perché è vero che, con l’avversità, viene la gioia. Sì, con l’avversità, viene la gioia. Così, finito il tuo lavoro, sforzati ancora, e supplica il Signore!

   La XCIV. La sura dell’Apertura [come “La sura del Mattino”, che abbiamo letto la scorsa settimana] è tra le più antiche sure rivelate al Profeta, e anche questa sura è corta: è formata da otto versetti molto poetici sullo stile del Libro dei Salmi, della serie dei “Salmi di purificazione” di cui il più noto è il Salmo 51 [50], detto “Miserere [che, in latino, significa “Pietà di me”], ed è il Salmo per chiedere la “purificazione interiore e il perdono” per eccellenza. La traduzione latina detta la Vulgata [un tema che abbiamo studiato nella prima settimana di novembre] eseguita da Gerolamo nel V secolo ha fatto del Salmo 51 [50], e dei Salmi in generale, un capolavoro di poesia della tarda latinità: «Asperges me, Domine, issopo et mundabor, lavabis me et super niventer albabor [Aspergimi, o Signore, con l’issopo e sarò puro, lavami e sarò più bianco della neve]». Gli autori della Sira, la vita-modello del Profeta, utilizzano esplicitamente la tradizione biblica dei Salmi e riprendono l’idea della “neve” che è una delle invenzioni filologiche di Gerolamo, lui che, essendo illirico, le qualità della neve le conosce bene.

   Dobbiamo capire che la Letteratura del Corano è una grande operazione intellettuale, un’importante impresa esegetica [di lettura attenta e di commento] dei testi biblici ed è un raffinato esercizio di scrittura poetica e sapienziale in lingua araba [una lingua dalle grandi potenzialità poetiche]. E ora concludiamo leggendo sette versetti dal Salmo 51[50].

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Libro dei SalmiSalmo 51[50]

Pietà [Miserere] di me, o Dio, nel tuo amore; nella tua misericordia

cancella il mio errore. Lavami da ogni colpa, purificami e liberami dal male.

Tu vuoi trovare verità dentro di me, e nel profondo del cuore m’insegni la sapienza.

Aspergimi, Signore, con l’issopo e sarò più bianco della neve.  Fa’ che,

dopo la giusta punizione, io ritrovi la gioia della festa. Crea in me, o Dio,

un cuore puro; dammi uno spirito rinnovato e saldo. Non respingermi lontano da te,

non privarmi del tuo spirito generoso, o Dio, clemente e misericordioso.

   E la tradizione islamica ci racconta che “il povero pastorello, il misero, l’indigente orfano Muhammad” riesce a entrare in comunicazione con questo “Dio clemente e misericordioso” e tutto cambia nella sua vita, ma come succede questo? Per rispondere a queste domanda dobbiamo studiare che cos’è di preciso la raccolta detta Sira, la vita-modello del Profeta: non abbiamo ancora detto come è stata costruita questa interessantissima opera letteraria.

   Per rispondere a queste domande bisogna continuare a percorrere la via dell’Alfabetizzazione culturale e funzionale che è un bene comune [come il ruggito del leone quando significa allegoricamente che dobbiamo “prendere coscienza”].

   Per promuovere l’Apprendimento permanente la Scuola è qui perché più importante che sapere è non perdere mai la volontà di imparare e il compito della Scuola è quello di insegnare a “imparare ad imparare”…

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Febbraio 28, 2014