Prof. Giuseppe Nibbi La sapienza poetica e filosofica dell’età alto-medioevale 2-3-4 aprile 2014
Tomba Baldassarre Cossa
SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ ALTO-MEDIOEVALE
NEL PAESAGGIO INTELLETTUALE DELLA LETTERATURA
DEL CORANO S’INCONTRA IL RACCONTO DEL MI‘RAGI E QUELLO DELLA SCALA,
CON LA PARTECIPAZIONE DI UN PIRATA DIVENUTO ANTIPAPA
E DELL’AVO DI DANTE ALIGHIERI CACCIAGUIDA …
Il ventiduesimo itinerario di questo viaggio sul “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età alto-medioevale” si svolge ancora di fronte al “paesaggio intellettuale della Letteratura del Corano”: questo vasto e complesso argomento lo stiamo affrontando seguendo la trafila narrativa con la quale la tradizione islamica illustra la vita di Muhammad, il protagonista [dopo Allāh] del Libro del Corano, un testo che prende forma alla metà del VII secolo, in Età Alto-medioevale.
Come abbiamo anticipato alla fine dell’itinerario della scorsa settimana questa sera dobbiamo conoscere una grande leggenda popolare e mistica che, secondo la tradizione islamica, ha preso spunto da due importanti avvenimenti verificatisi intorno all’anno 619 o 620. Questa leggenda, di grande fascino narrativo, racconta un episodio che caratterizza l’ultima fase dell’attività di Muhammad nella città della Mecca. Stiamo parlando del racconto del cosiddetto “viaggio notturno” del Profeta a Gerusalemme con la sua conseguente ascensione in Cielo. Le studiose e egli studiosi di filologia, in relazione all’episodio del “viaggio notturno” del Profeta a Gerusalemme con la sua conseguente “ascensione in Cielo”, c’informano che in origine c’erano due storie ben distinte: da una parte quella del “viaggio notturno [isra’] e dall’altra quella dell’ascesa in Cielo [mi’ragi].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
La parola araba “mi’ragi”, che significa “ascesa al cielo” è molto evocativa... Voi, anche senza trovarvi nel deserto, avete mai avuto un “miraggio”?...
Scrivete quattro righe in proposito…
Queste due storie [del “viaggio notturno” e della “ascensione in cielo”] trovano poi un punto di collegamento e un punto di partenza per essere sviluppate, difatti nel testo del Corano precisamente nella XVII. La sura del viaggio notturno al versetto 1 si leggono queste parole: «Nel nome di Dio, clemente misericordioso! Gloria a Colui che rapì di notte il Suo servo dal Tempio Santo al Tempio Ultimo, dai benedetti precinti, per mostrargli dei Nostri Segni. In verità Egli è l’Ascoltante, il Veggente».
Intorno al primo versetto della XVII. La sura del viaggio notturno l’esegesi islamica si è veramente sbizzarrita dando vita ad una lunga serie di dispute teologiche e letterarie molto interessanti. Due sono le questioni che emergono e che costituiscono tuttora motivo di dibattito.
La prima questione riguarda se Muhammad abbia fatto questo “viaggio notturno” proprio con il corpo, oppure se lo abbia fatto con lo spirito, in sogno.
La seconda questione riguarda i due Templi citati: il Tempio Santo e il Tempio Ultimo. Per quanto riguarda il Tempio Santo i commentatori sono tutti d’accordo nel sostenere che si tratti della Ka‘ba, mentre per quanto riguarda il Tempio Ultimo si fanno due ipotesi diverse e questa affermazione ci invita a riflettere.
I racconti più antichi della tradizione islamica narrano che Muhammad ha compiuto il suo “viaggio notturno” in carne ed ossa a cavallo di un animale miracoloso chiamato Buraq e definiscono come Tempio Ultimo la città di Gerusalemme. Da Gerusalemme, poi, sarebbe cominciato il vero e proprio “mi‘ragi” cioè l’ascensione e la visita del Cielo e dell’Inferno. Le studiose e gli studiosi contemporanei di filologia sostengono invece che si sia trattato di una “visione avuta in sogno” da Muhammad e che il Tempio Ultimo sia stato per lui la visione di un “misterioso luogo celeste”. L’idea che il Tempio Ultimo sia la città di Gerusalemme – ci spigano le studiose e gli studiosi di filologia – è difficilmente attribuibile a Muhammad, il quale, intorno all’anno 620, come certifica la Letteratura del Corano, considera sempre la dimora del Dio Unico collocata nell’alto dei Cieli. L’idea che il Tempio Ultimo sia la città di Gerusalemme entra in gioco sicuramente dopo la conquista della Città santa, nel corso del fenomeno dell’espansione araba, però la conquista di Gerusalemme è avventa al tempo della dinastia ommayyade, al tempo del califfo ‘Abd al-Malik, che ha governato dal 685 al 705, il quale ha fatto costruire a Gerusalemme la Moschea della roccia: ed è in questo momento storico che l’appellativo di “Tempio Ultimo” può essere riferito a Gerusalemme, circa settant’anni dopo il leggendario “viaggio notturno del Profeta”. Una tradizione narra che il viaggio notturno di Muhammad sarebbe stato di una rapidità fulminea e una brocca d’acqua, rovesciatasi vicino al letto del Profeta, non s’era ancora completamente svuotata che lui era già di ritorno: questa descrizione vuole significare che il “viaggio notturno” corrisponde ad un’intuizione immediata di Muhammad che si sveglia dopo aver fatto un sogno significativo.
Il testo del versetto 1 della XVII. La sura del viaggio notturno è alla base, oltre che d’interessanti dispute teologiche e di profonde allegorie mistiche, anche di una lunga serie di fantastici racconti leggendari che hanno messo insieme molti materiali narrativi già esistenti provenienti soprattutto dalla cultura persiana.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Avete fatto un “viaggio notturno” che vi è rimasto particolarmente impresso?...
Scrivete quattro righe in proposito...
Naturalmente questo straordinario materiale leggendario è stato raccolto dalla Sira, la vita-modello del Profeta. Che cosa ci racconta la Sira a proposito del “viaggio notturno di Muhammad”, di questa straordinaria cavalcata del Profeta? Leggiamo questo brano significativo.
LEGERE MULTUM….
Ibn Ishaq-Ibn Hisam, Sira - La vita-modello del Profeta
A Muhammad fu portato il Buraq, l’animale da sella bianco, metà mulo e metà asino, che ha accanto alle cosce due ali con cui porta in avanti le zampe posteriori, mentre quelle anteriori si posano dove giunge il suo sguardo. Il Buraq, l’animale che era già stato cavalcato da altri profeti prima di lui, e che posa lo zoccolo tanto lontano dove arriva il suo occhio. Muhammad ci si sedette sopra. Quindi il suo compagno [Gabriele] partì con lui, e vide i segni miracolosi tra cielo e terra, finché arrivò alla Casa Sacra [Gerusalemme?]. Qui trovò Abramo, Mosè e Gesù in mezzo a una schiera di profeti che si era riunita per lui, e pregò con loro. Poi furono portate tre coppe, una riempita di latte, un’altra di vino e la terza di acqua. Quindi il messaggero di Dio disse: «Quando mi sono stati offerti tre bicchieri, ho sentito qualcuno dire “Se prende l’acqua, lui e il suo popolo scompariranno; se prende il vino, lui e il suo popolo si perderanno; ma se invece prende il latte lui e il suo popolo prenderanno la strada giusta”. Così presi la coppa con il latte e ne bevvi. Quindi Gabriele mi disse “Prendi la strada giusta e con te il tuo popolo, Muhammad!”». …
Il racconto della “cavalcata di Muhammad sul Buraq” è un motivo particolarmente amato dalla tradizione islamica e questo avvenimento è stato molto ampliato dalla narrativa popolare prima orale e poi scritta.
L’adunata dei profeti e la loro preghiera insieme con Muhammad ha un forte significato simbolico e c’è un racconto della tradizione in cui si narra che Muhammad viene chiamato a “dirigere la preghiera”, e il nome di “colui che dirige la preghiera” in arabo corrisponde al termine “imam”. E la figura dell’imam [di colui che guida la preghiera] raccoglie in sé l’eredità del racconto del “viaggio notturno” e dell’adunata dei profeti intorno a Muhammad. L’episodio dell’adunata dei profeti va interpretato come un rito di iniziazione: Muhammad entra [attraverso questo grande racconto mitico] a far parte della “famiglia dei profeti” e in questa famiglia assume un ruolo di “guida” dopo aver sostenuto “l’esame delle coppe”. La tradizione ci racconta che, durante l’esame, Muhammad riceve un aiuto e qualcuno lo assiste perché non sbagli a scegliere la coppa giusta, sta di fatto che Muhammad è in uno stato di grazia particolare perché riesce a sentire la voce di qualcuno che gli parla dall’Al di là. Lo stile di questo racconto che stiamo commentando ha le stesse caratteristiche del genere letterario con cui viene scritta la Letteratura dei Profeti dell’Antico Testamento [del midrash nebijin] anche perché l’identità profetica di Muhammad ha un senso solo nell’ottica della “tradizione biblica”.
Il testo della Sira, la vita-modello del Profeta oltre alla narrazione del “viaggio notturno di Muhammad”, ne riporta anche un’altra di grande interesse: il cosiddetto “racconto della scala”. Dopo che Muhammad ha pregato con i profeti gli viene portata una “scala” con la quale sale insieme a Gabriele – che gli fa da guida e da accompagnatore – fino alla porta del Paradiso. L’angelo che sorveglia la porta del Paradiso chiede a Gabriele se anche Muhammad è stato “mandato” e se ha un lasciapassare per poter entrare e solo quando Gabriele risponde di sì anche Muhammad può accedere. Con questa “scala” Muhammad e Gabriele salgono per sette cieli e lo stesso dialogo tra Gabriele e l’angelo sorvegliante che domanda se costui può entrare si ripete alla porta di ciascun cielo, e in ogni cielo Muhammad incontra un personaggio significativo di tradizione biblica.
Della “storia della scala” ci sono molte versioni che differiscono tra loro nei dettagli: le differenze riguardano soprattutto il tema degli incontri di Muhammad. Secondo il racconto della Sira [il racconto più accreditato dalla tradizione] Muhammad nel cielo più basso incontra Adamo, nel secondo cielo incontra Gesù e Giovanni il Battezzatore, nel terzo cielo incontra Giuseppe il figlio di Giacobbe, nel quarto cielo incontra Idris che è il nome arabo del patriarca Enoch, nel quinto cielo incontra Aronne, nel sesto cielo incontra Mosè e nel settimo cielo incontra Abramo.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
L’espressione “salire al settimo cielo” è molto significativa e indica uno stato di particolare gioia, felicità, realizzazione... Quale situazione vi permetterebbe di “salire al settimo cielo”: una buona cucina, delle belle vacanze, un bel divertimento, avere successo, coltivare lo spirito, curarsi bene, vivere di rendita, studiare ciò che piace, oppure che cosa?...
Scrivete quattro righe in proposito: la scrittura porta di per sé al settimo cielo...
La Sira poi racconta che Muhammad viene portato al cospetto di Dio che gli ordina di “pregare cinquanta volte al giorno”. Leggiamo il resoconto che il testo della Sira riporta di questa udienza sconvolgente. L’autore del racconto vuole, ancora una volta, mettere in evidenza il tema della preghiera e lascia che sia Muhammad [il Messaggero di Dio] – assistito da Mosè [il grande Legislatore] – a scegliere quante volte pregare al giorno e a mettere in evidenza il fatto che è la qualità [pregare con fede e speranza] più che la quantità [cinquanta volte al giorno] che conta.
LEGERE MULTUM….
Ibn Ishaq-Ibn Hisam, Sira - La vita-modello del Profeta
Il Messaggero di Dio disse: «Quindi mi voltai per tornare indietro. Quando passai davanti a Mosè, il quale mi chiese. “Quante preghiere ti sono state prescritte?” Io risposi: “Cinquanta preghiere al giorno”. Quindi disse: “La preghiera è pesante, e la tua comunità è debole; torna dal tuo Signore e chiedigli di alleggerire te e la tua comunità!”. Tornai indietro molto umilmente davanti a Dio e Lui nella sua infinita misericordia mi condonò dieci preghiere. Ma Mosè, che mi attendeva, non fu ancora soddisfatto, e disse: “La preghiera è ancora pesante e la tua comunità è debole; torna dal tuo Signore e chiedigli di alleggerire te e la tua comunità!” Tornai indietro molto umilmente davanti a Dio e Lui nella sua infinita misericordia mi condonò altre venti preghiere. Ma Mosè, che mi attendeva, ancora insoddisfatto, disse: “La preghiera è ancora troppo pesante e la tua comunità è ancora troppo debole; torna ancora dal tuo Signore e chiedigli di alleggerire te e la tua comunità!” Allora, assai intimorito, tornai ancora indietro molto umilmente davanti a Dio, e Lui nella sua infinita misericordia ridusse a cinque il numero delle preghiere. Ma per Mosè, in attesa, era ancora un peso troppo gravoso. Allora mi feci coraggio e dissi: “Sono tornato più volte dal mio Signore e gli ho fatto questa richiesta ma ora mi vergogno a tornare ancora al suo cospetto e dico che chi recita le cinque preghiere pieno di fede e speranza, avrà la stessa ricompensa delle cinquanta preghiere prescritte”». …
Questo racconto tradizionale serve senza dubbio ad esaltare il valore della preghiera e a prescriverla per “cinque volte al giorno”. Il comandamento che ordina ai fedeli islamici di pregare “cinque volte al giorno” viene dalla tradizione non dalla Letteratura del Corano: il testo del Corano non riporta il numero di quante volte si debba pregare durante la giornata. La tradizione vuole “dare ordine” alla vita del credente e il dedicarsi alla preghiera in modo regolare dà un senso religioso, spirituale, mistico alla vita quotidiana che deve essere vissuta “nel nome di Dio clemente e misericordioso”.
I significativi racconti che propone la Sira, la vita modello del Profeta sono di carattere pedagogico e, inoltre [come succede per la Letteratura biblica], stimolano riflessioni di carattere ironico e anche umoristico, e questo è un aspetto che ha curato lo scrittore Tahar Ben Jelloun.
Tahar Ben Jelloun è un poeta e uno scrittore nato a Fès in Marocco nel 1944 che scrive in arabo ma soprattutto in francese perché vive a Parigi dove nel 1987 ha ricevuto il premio Goncourt. Per capire meglio i valori e le contraddizioni delle società islamiche dell’Africa del nord è utile leggere i romanzi di Tahar Ben Jelloun che sono stati tutti tradotti in italiano tra cui: “Il razzismo spiegato a mia figlia”, “L’estrema solitudine”, “La preghiera dell’assente”, “La scuola o la scarpa”, “Creatura di sabbia”, “L’amicizia”, “L’albergo dei poveri”. In queste opere troviamo spesso l’eco dei grandi racconti popolari e tradizionali [le saghe, le leggende, i miti] che stanno alla base della Letteratura del Corano.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Navigando in rete trovate molte notizie sullo scrittore Tahar Ben Jelloun e in biblioteca potete richiedere le sue opere e leggerne qualche pagina…
Dopo l’11 settembre 2001, quando due aerei colpiscono le Torri gemelle a Manhattan, il mondo è sconvolto, la paura di altri attacchi terroristici si diffonde, ogni arabo diventa sospetto: davanti a questo scenario Tahar Ben Jelloun scrive, sotto forma di dialogo, una conversazione tra lui e sua figlia di dieci anni la quale è a disagio con se stessa, con le proprie origini musulmane, di fronte all’idea che si va diffondendo “che i musulmani sono tutti cattivi, sono tutti terroristi”. Questa conversazione è contenuta in un libro che s’intitola L’Islam spiegato ai nostri figli. E agli adulti che vogliono rispondere alle loro domande. L’autore spiega, con semplicità ma rifuggendo ogni semplificazione, che l’atto dell’11 settembre non ha niente a che fare con la cultura dell’Islam e tanto meno con la Letteratura del Corano e chiarisce che cos’è l’Islam, qual è la differenza tra arabo e musulmano, cos’è il fanatismo, cos’è il terrorismo, quale spazio ha la tolleranza nel mondo arabo e quali affinità ideali ci sono tra l’islam, l’ebraismo e il cristianesimo.
Ora noi leggiamo un frammento tratto da L’Islam spiegato ai nostri figli. E agli adulti che vogliono rispondere alle loro domande di Tahar Ben Jelloun per osservare come lo scrittore utilizzi ironicamente il racconto della Sira, la vita modello del Profeta che abbiamo appena letto per rispondere alla figlia che gli domanda: ma perché i musulmani devono pregare per ben cinque volte al giorno? La risposta, sostenuta da un tono umoristico, stempera la rigidezza della disciplina e ne umanizza il rispetto. Leggiamo questo frammento.
LEGERE MULTUM….
Tahar Ben Jelloun, L'Islam spiegato ai nostri figli. e agli adulti
che vogliono rispondere alle loro domande
È troppo pregare cinque volte al giorno? State attenti che erano previste cinquanta volte! Quindi dobbiamo proprio ringraziare Mosè, che di legislazione se ne intende, e che, da buon ebreo, è stato capace, per tutti noi, di tirare sul prezzo; di spingere Muhammad – che era davvero intimorito davanti a Dio – a contrattare; se no ci toccavano davvero, le preghiere, cinquanta volte al giorno! …
Il racconto della “cavalcata notturna e dell’ascensione in Cielo” di Muhammad si deve intendere anche – ed esistono molte varianti in questo senso – come un “viaggio dell’anima”, come un “itinerario spirituale” per purificarsi, per convertirsi e per cambiare stile di vita. C’è tutta una tradizione che considera il racconto della “cavalcata notturna e dell’ascensione in Cielo” di Muhammad come un “viaggio dell’anima” tanto di carattere religioso quanto d’impronta laica: facciamo due esempi in proposito in funzione della didattica della lettura e della scrittura.
Tutte e tutti noi siamo al corrente del fatto che, secondo la tradizione, nel settembre del 1224 Francesco d’Assisi ha “ricevuto le stimmate” sul monte della Verna, “entrando in piena conformità con la mente e con il corpo di Cristo”, ebbene, nell’ottobre del 1259 l’intellettuale francescano Bonaventura da Bagnoregio [eletto ministro generale dell’Ordine] compie un ritiro spirituale alla Verna e scrive un’opera intitolata Itinerarium mentis in Deum [Itinerario dell’anima a Dio] in cui rilegge, sotto forma di “viaggio mistico” in sei tappe [come le sei ali di un Serafino apparso a Francesco] il miracoloso avvenimento del “dono” delle stimmate. Bonaventura da Bagnoregio – che ha studiato alla Facoltà delle Arti di Parigi dal 1235 al 1243 – ha un posto di rilievo nella filosofia medioevale e noi lo incontreremo nel viaggio del prossimo anno.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Se richiedete in biblioteca “Itinerario dell’anima a Dio” di Bonaventura da Bagnoregio potete leggere le tre pagine del “Prologo” seguendo le note in modo da conoscere la provenienza delle numerose citazioni fatte dallo scrittore: così se farete un’escursione al Santuario della Verna, in Casentino, potrete interpretare con maggior consapevolezza i simboli presenti in questo luogo che si rifanno al tema del “viaggio [dell’ascesa] dell’anima”…
C’è [come abbiamo detto] anche una vasta tradizione laica di “viaggi mistici” e sicuramente uno dei più famosi è [e lo conosciamo bene] l’itinerario di pensiero che descrive il ritorno all’Uno di Plotino, in quella straordinaria opera che si chiama Enneadi [che comincia a prendere corpo intorno al 233]. L’opera Enneadi di Plotino [54 trattati ordinati da Porfirio di Tiro] insegna che dobbiamo vivere la nostra vita impegnandoci a favorire il “ritorno” della nostra mente [del nostro intelletto] ad una maggiore spiritualità possibile: dobbiamo “dare un’anima a tutte le esperienze della nostra vita materiale”. Il “viaggio di ritorno” dalla materia [dall’ignoranza] allo spirito dell’Uno [alla conoscenza] corrisponde al termine greco “epistrophe epistrophé [il viaggio verso la conoscenza]”: un viaggio di carattere mistico perché di natura intellettuale, un viaggio di studio.
E ora torniamo a prendere in considerazione il “racconto della scala” che, anche in questo caso, fa parte di una vasta tradizione che accomuna culture diverse. Il “racconto della scala” è in relazione con un’importante “questione culturale” legata tuttora ad un interessante dibattito.
Il tema del “viaggio in Paradiso” di Muhammad non può che indirizzare la nostra mente verso un altro viaggio [all’Inferno, in Purgatorio e in Paradiso] che è stato raccontato in versi da Dante Alighieri nella Divina Commedia. Quando “nel mezzo del cammin della sua vita, si ritrovò in una selva oscura, che la diritta via era smarrita” Dante, prima che fosse troppo tardi, ha pensato di far fare alla sua anima un bel viaggio: di farle percorrere un itinerario spirituale, intellettuale e culturale perché la sua anima, la sua mente e il suo intelletto si potessero purificare e anche il corpo potesse trarne giovamento.
Abbiamo detto che il “racconto della scala [il tema del viaggio in Paradiso]” è in relazione con un’importante e delicata “questione culturale” che dobbiamo affrontare: per far questo dobbiamo procedere con ordine incontrando uno studioso che si chiama Miguél Asín-Palacios. Chi è? L’intellettuale spagnolo Miguél Asín-Palacios [è un prete cattolico nato a Saragozza nel 1871 e morto a San Sebastiàn nel 1944] è stato un dotto arabista e islamista, docente all’Università di Madrid, fondatore [nel 1933] della rivista di studi arabistici al-Andalus [al-Qantara], autore [nel 1904] di un famoso saggio intitolato La teologia di Averroè in San Tommaso d’Aquino [un interessante argomento di cui ci occuperemo nel viaggio del prossimo anno]. Miguél Asín-Palacios è stato un rinomato studioso della Divina Commedia e nel 1919 ha pubblicato i risultati di una sua lunga ricerca in un volume intitolato La Escatologia Musulmana en la Divina Comedia [la traduzione italiana del 1994 s’intitola “Dante e l’Islam”]. Lavorando su testi arabi – soprattutto sul testo della Sira, la vita modello del Profeta [un testo fino ad allora quasi sconosciuto in Occidente] – Asín-Palacios ha messo in rilievo la somiglianza tra numerosi elementi simbolici presenti nella Divina Commedia di Dante e i racconti arabi sull’Aldilà, in particolare il racconto del “mi’ragi [del viaggio notturno e dell’ascensione al Cielo di Muhammad]”: un tema che abbiamo appena studiato. Addirittura lo studioso spagnolo formula l’ipotesi secondo cui lo spirito stesso della Divina Commedia sarebbe di ispirazione musulmana, e non è il primo a formulare questa ipotesi [Asín-Palacios basa la sua ricerca su studi già compiuti] perché un possibile legame tra la Divina Commedia di Dante e la Letteratura araba era stato già ipotizzato da altri studiosi, per esempio dall’abate spagnolo Andrès nel 1782, le cui intuizioni sono state poi raccolte dal letterato italo-francese Ozanam [nel 1839] e riformulate poi dallo storico delle religioni Blochet nel 1901.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Chi vuole può raccogliere informazioni su questi personaggi e sulle loro opere utilizzando l’enciclopedia, la biblioteca e navigando in rete...
Nessuno però, fino ad Asín-Palacios, aveva sostenuto che vi fossero precise concordanze tra il capolavoro dantesco e le opere [escatologiche, che trattano del tema dell’Aldilà] di origine musulmana. L’opera di Asín-Palacios è stata accolta con grande scetticismo perché a quell’epoca gli studiosi danteschi erano ancora fortemente condizionati da pregiudizi cristiano-centrici e in Occidente si pensava che nessun impulso positivo potesse venire dal di fuori della cristianità: questo pregiudizio è ancora radicato e si continua, sebbene in diversa misura, a perseguirlo. Secondo Asín-Palacios coltivare pre-giudizi [lui stesso ne aveva] significava tuttavia ricevere uno stimolo per intensificare le attività di studio perché il “pre-giudizio” deve avere la funzione di attivare la ricerca.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Richiedete in biblioteca il libro “Dante e l’Islam” di Miguél Asín-Palacios e sfogliatelo: leggete l’indice per constatare come il significato di alcune parole-chiave, tipiche della tradizione islamica che abbiamo incontrato nei nostri itinerari, vi risulti comprensibile e questo esercizio serve anche per tradurre in termini positivi il concetto di “pre-giudizio”…
Naturalmente una mentalità “pregiudiziale” l’aveva anche Dante [1265-1321]: la visione del mondo di Dante [come quella di tutti gli intellettuali occidentali della sua epoca] s’ispira all’idea della supremazia della cristianità, per cui la “verità” la si trova prima di tutto nel Cristianesimo e, difatti [probabilmente], siete al corrente del fatto che i riferimenti di Dante nei confronti del fondatore dell’Islam, di Maometto, sono molto negativi nel testo della Divina Commedia, e ci sono ragioni plausibili. I riferimenti di Dante nei confronti del mondo islamico si trovano nel Canto XXVIII dell’Inferno dove appare Maometto, il fondatore della religione islamica, con suo cugino e genero Alì Abi Talib, il fondatore della corrente sciita che si è staccato dall’ortodossia musulmana. I due personaggi sono posti da Dante nella bolgia dei “seminator di scandalo e di scisma” cioè nella bolgia degli eretici [i scismatici] perché, afferma Dante, hanno determinato con le loro idee un’ulteriore divisione religiosa tra i popoli: Dante, quindi, considera l’Islam come un’eresia del Cristianesimo e questa è una credenza [fondata su radici culturali che abbiamo studiato] diffusa nel Medioevo perché si considerava Muhammad come un cristiano che aveva abiurato la propria fede. Secondo un’altra versione riportata in un’opera di autore ignoto intitolata Ottimo Commento alla Commedia [uno dei primi commenti alla Divina Commedia] e copiata dal notaio fiorentino Andrea Lancia, contemporaneo di Dante, Maometto sarebbe stato un cardinale che aveva aspirato a diventare papa e non essendoci riuscito ha fondato una nuova religione cristiana, eretica in senso nestoriano, e noi sappiamo che Muhammad conosce bene il testo [di tendenza nestoriana] del Vangelo dell’infanzia armeno. Altre leggende poi [certamente conosciute da Dante] fanno del Profeta dell’Islam “un uomo licenzioso e un impostore” ma Dante non è influenzato da questi argomenti.
La punizione riservata a Maometto nella Divina Commedia riguarda soprattutto il suo operato in ambito religioso e la descrizione dantesca è brutale, è violenta, con rime aspre e perifrasi volgari che ne degradano ancor di più la figura. Dante descrive Maometto squarciato in due dal mento fino all’ano: e questa era una pena che spesso i tribunali cristiani comminavano agli eretici [agli scismatici]. Gli intestini pendono tra le gambe di Maometto e il suo cuore si confonde con lo stomaco e con l’intestino e Dante scrive: «la corata pareva e’l tristo sacco che merda fa di quel che si trangugia». Alla vista di Dante [Inferno XXVIII, 22-36] Maometto si apre il petto con le mani per meglio mostrare il modo in cui viene punito e invita il poeta a osservare Alì, il cui volto è spaccato in due dal mento alla fronte: in pratica, rispetto a quella di Alì, la punizione di Maometto è più atroce perché agli occhi di un cristiano medioevale appare più grave la lacerazione religiosa prodotta da lui. Maometto spiega poi a Dante che i dannati di quella bolgia sono costretti a percorrere una “dolente strada” durante la quale le ferite da squartamento si rimarginano finché non appare un demonio armato di spada che crudelmente sottopone ciascuno al medesimo supplizio: ad ogni giro un demonio risbudella il povero Maometto e rispacca in due la testa del povero Alì! [Inferno XXVIII, 34-40].
L’immagine di Maometto, seviziato all’Inferno da demonî feroci, avrà un certo seguito nell’Arte medievale in corrispondenza del periodo delle crociate [dal 1291]. Dobbiamo citare un particolare degli affreschi di Giovanni di Pietro Faloppi [o Falloppi] detto Giovanni da Modena dipinti [tra il 1410 e il 1420 circa] nella Cappella Bolognini della cattedrale di San Petronio a Bologna: questo particolare raffigura l’immagine “dantesca” di Maometto seviziato all’Inferno da demonî feroci che lo dilaniano: questa scena potrebbe risultare provocatoria per la Comunità islamica ma bisogna affrontare il tema dal punto di vista culturale.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Se vi collegate alla rete e mettete in ricerca la dicitura “Giovanni da Modena Maometto” trovate le immagini in questione dipinte nella Cappella Bolognini della cattedrale di San Petronio a Bologna e potete osservarle e commentarle…
Il fatto è che [così come ha fatto Dante] il pittore non ha intenzione di presentare una “vignetta” contro l’Islam ma bensì di fare una riflessione più complessa sul tema della “eresia” e sul tema dello “scisma”, tuttavia, soprattutto a causa dell’ignoranza dilagante, in relazione a queste immagini ci sono una serie di siti di presunti “difensori del cristianesimo” che le strumentalizzano per fomentare lo scontro tra civiltà: uno scontro che, purtroppo, è in atto e al quale sono estranei tanto l’Umanesimo cristiano quanto quello musulmano e, quindi, non lasciatevi invischiare nei meandri del fondamentalismo “cristianista” coltivato da certe “milizie cristiane” che attizza il fondamentalismo “islamista”: dobbiamo respingere lo “scontro di civiltà” in nome del “confronto intellettuale tra culture diverse”, un confronto che è sempre stato fecondo. L’immagine di “Maometto all’Inferno” dipinta da Giovanni da Modena in San Petronio a Bologna ha una storia che va studiata: c’è sempre una motivazione dietro alle cose che, dopo un po’ di tempo [dopo 500 anni], deve diventare argomento di riflessione storica. E la riflessione storica fa necessariamente allungare il nostro itinerario ma la cosa peggiore è vivere nell’ignoranza tanto da cristiani quanto da mussulmani e soprattutto da cittadine e cittadini del mondo.
La storia delle immagini degli affreschi di Giovanni da Modena nella cattedrale di San Petronio a Bologna, dove viene ritratto Maometto come lo descrive Dante nel Canto XXVIII dell’Inferno della Divina Commedia, è una storia molto interessante ma prima di occuparci di questo avvenimento [artistico, politico e giudiziario] e prima di incontrare l’avventuroso personaggio chiave che è il principale protagonista di questa vicenda, è doveroso, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, leggere il famoso passo di cui abbiamo parlato. Dante nel Canto XXVIII dell’Inferno interpreta la mentalità medioevale che in Occidente è maturata nei confronti dell’Islam e [come abbiamo detto] inserisce Maometto e Alì nella bolgia dei “seminator di scandalo e di scisma” cioè nella bolgia degli eretici [scismatici] per avere determinato con le loro idee un’ulteriore divisione religiosa tra i popoli. Leggiamo e commentiamo i versi di Dante.
LEGERE MULTUM….
Dante Alighieri, Inferno XXVIII 22-63
Già veggia, per mezzul perdere o lulla
[la veggia è la botte, che è formata da vari pezzi: il mezzule e lulle],
com’io vidi un, così non si pertugia,
rotto dal mento infin dove si trulla
[una botte che perde i pezzi non appare così squarciata come uno che ho visto io: s
quarciato dal mento fino all’ano, dove si trulla, dove si fanno certi rumori…]:
tra le gambe pendevan le minugia [le interiora];
la corata pareva e’l triste sacco
che merda fa di quel che si trangugia
[il cuore sembrava l’intestino che trasforma quello che si mangia in escrementi].
Mentre che tutto in lui veder m’attacco
[mentre mi fisso su di lui],
guardommi, e con le man s’aperse il petto,
dicendo: «Or vedi com’io mi dilacco [mi apro]!
Vedi come storpiato è Maometto!
Dinanzi a me sen va piangendo Alì,
fesso [squarciato] nel volto dal mento al ciuffetto.
E tutti gli altri che tu vedi qui,
seminator di scandalo e di scisma
fur vivi, e però son fessi così [squarciati].
Un diavol è qua dentro, che n’accisma [che ci concia così]
sì crudelmente, al taglio della spada
rimettendo ciascun di questa risma
[un diavolo taglia con la spada il corpo di ciascuno di noi],
quando avem volta la dolente strada [in una curva della strada];
però che le ferite son richiuse,
prima ch’altri dinanzi gli rivada [le nostre ferite si richiudono lungo il cammino
ma quando ritorniamo dinanzi a quel diavolo, lui ci risquarta].
[Maometto non s’accorge che Dante è ancora vivo, e si preoccupa perché crede che egli sia un dannato che si è perso, che è rimasto indietro, che sia in ritardo nel raggiungere il luogo della pena a lui destinata. Allora Virgilio - che sta accompagnando Dante - spiega a Maometto la condizione del poeta e lo scopo del suo viaggio e la funzione che lui ha di accompagnatore.
A questo punto più di cento dannati si stupiscono di questa novità, si fermano, meravigliati, dimenticando per un momento la loro pena, il loro martirio. E quindi Maometto interroga Dante].
Ma tu chi se’, che in su lo scoglio muse [mi fissi],
forse per indugiar d’ire [andare] alla pena
ch’è giudicata in su le tue accuse?».
[E allora Virgilio risponde a Maometto]
«Né morte il giunse ancor, né colpa il mena
rispose il mio maestro - a tormentarlo,
ma per dar lui esperienza piena,
a me, che morto son, convien menarlo
per lo inferno quaggiù di giro in giro;
e questo è ver così, com’io ti parlo».
Più fur di cento, che, quando l’udiro,
s’arrestaron nel fosso a riguardarmi
per maraviglia, obliando il martìro.
[A questo punto Maometto riprende a parlare perché Dante gli fa fare una predizione - è pur sempre un profeta - su un avvenimento già avvenuto, che Dante conosce già, un avvenimento contemporaneo a Dante che lo ha molto colpito nel bene e nel male. Maometto invita Dante, che è ancora vivo, a portare un messaggio a fra Dolcino].
«Or di’ a fra Dolcin dunque che s’armi,
tu che forse vedrai il sole in breve,
s’egli non vuol qui tosto seguitarmi,
sì di vivanda, che stretta di neve
non rechi la vittoria al Noarese,
ch’altrimenti acquistar non sarìa lieve».
[Mentre Maometto pronuncia queste parole, ha anche già levato il piede per andarsene perché non si può fermare e,
appena ha finito di parlare, compie il passo che ha incominciato e riprende il suo doloroso cammino
Poi che l’un piè per girsene sospese,
Maometto mi disse esta parola;
indi a partirsi in terra lo distese.
[Dante fa uscire di scena Maometto con una specie di passo di danza].
Nonostante Dante usi un linguaggio crudo per descrivere i personaggi dell’Inferno, tuttavia restituisce a tutte queste figure, mentre parlano, mentre si muovono, la loro dignità umana. Hanno peccato, sono stati condannati ma hanno comunque rischiato e si distinguono dalla “maggioranza silenziosa e qualunquista” che Dante odia profondamente. Dante condanna i metodi degli eretici – è il caso di fra Dolcino – ma gli eretici non gli sono antipatici. Ufficialmente Dante condanna il metodo dolciniano – ed è la stessa posizione che tiene il personaggio di Guglielmo di Baskerville nel romanzo Il Nome della rosa di Umberto Eco ma, probabilmente, che l’esercito contadino di fra Dolcino abbia fatto fuori un po’ di grassi preti e di ricchi vescovi, che avevano fatto del Vangelo “carta straccia”, a Dante ghibellino, sotto sotto, non dispiace. Dante usa versi crudi nei confronti di Maometto ma anche Maometto, come tutti i personaggi della Commedia, entra ed esce di scena con grande dignità. Dante cita – attraverso Maometto – fra Dolcino e questa citazione produce una serie di domande alle quali, attraverso una piccola ricerca, si può dare una risposta per poter conoscere questo personaggio e gli avvenimenti che lo hanno coinvolto e che hanno coinvolto anche Dante. Nel volume che possedete della Divina Commedia i versi dal 55 al 59 del Canto XXVIII dell’Inferno [che abbiamo letto insieme] sono supportati dalle note.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Leggendo le note potete certamente rispondere a tutte le domande che abbiamo lasciato in sospeso e che riguardano il personaggio di fra Dolcino…
Chi è fra Dolcino?… Di chi è discepolo?… Di quale movimento è fondatore?… In quali anni si svolge la sua storia?… Come si chiama la sua compagna?… In che cosa consiste, brevemente, la sua avventura?… Perché deve “armarsi di vivanda”?… Chi è il Noarese?… Quale papa gli bandisce contro una crociata?… Che fine fanno fra Dolcino e i suoi?… Perché c’è un’identità tra la pena [lo squartamento] che Dante fa subire a Maometto e fra Dolcino?…
Cercate le risposte leggendo le note riguardanti il testo dei versi dal 55 al 59 del Canto XXVIII dell’Inferno, potete anche utilizzare l’enciclopedia e la rete: lo studio è cura perché si alimenta con la ricerca…
L’immagine di Maometto nell’Inferno dipinta da Giovanni da Modena prende spunto dal testo dantesco: ma chi è questo pittore, chi è Giovanni da Modena e da chi riceve la commissione di dipingere questa scena truce in San Petronio, e perché? Per rispondere a queste domande dobbiamo procedere con ordine.
Si hanno notizie di Giovanni di Pietro Faloppi [o Falloppi] detto Giovanni da Modena dal 1398 quando si presume sia stato in viaggio verso il nord Europa lungo la via Francigena diretto nelle Fiandre; difatti il suo stile, tanto nei colori quanto nelle forme, s’ispira a modelli della pittura fiamminga: le opere di Giovanni da Modena sono caratterizzate da “vibranti tensioni cromatiche [da colori vivaci]” e da un “drammatico naturalismo [presenta la natura umana anche nel suo aspetto meno nobile]”. La storia delle immagini degli affreschi di Giovanni da Modena è legata a quella della costruzione della cattedrale di San Petronio a Bologna che, a sua volta, è connessa alla storia di un personaggio [che noi abbiamo già incontrato in un Percorso di qualche anno fa] che molte e molti di voi conoscono: ma la “storia” non finisce mai di essere “maestra” e, quindi, l’atto della sua riproposizione è un utile esercizio.
Nel 1403 la cattedrale di San Petronio era in parte già tutta in piedi e praticabile: gli assidui lavori di costruzione erano cominciati il 7 giugno del 1390 su un progetto faraonico perché anche i bolognesi volevano vantarsi di aver fabbricato la più grande cattedrale della cristianità, ed erano a buon punto. C’è in Età medioevale una gara tra le città nel costruire la cattedrale più grande e sulla realizzazione di quest’opera si misurava la forza della borghesia locale, della nuova classe dominante. I lavori proseguivano in maniera soddisfacente quando a Bologna arriva un cardinale, il “legato pontificio”, che fa bloccare i lavori. Chi è costui, e che intenzioni ha?
Costui è il cardinale Baldassarre Cossa, nato a Napoli [intorno al 1370] il quale oggi è nostro concittadino [fiorentino]: possiamo anche [con circospezione] andarlo a trovare. Baldassare Cossa è passato alla storia con l’appellativo di “il pirata” perché, in gioventù, ha “lavorato” come corsaro nella acque del Mar Mediterraneo e, per la sua competenza, è stato spesso a capo di gruppi di pirati saraceni con i quali depredava le navi mercantili dei cristianissimi Stati europei. Le cronache dicono che Baldassarre Cossa è un “uomo di larga coscienza [non si fa tanti scrupoli]” ed è abilissimo nel maneggiare la spada e nel comandare, però quando ha messo da parte un certo capitale decide di congedarsi dalla pirateria e di investire i suoi risparmi con oculatezza comprando il titolo, all’epoca, meglio quotato in borsa: quello di cardinale. Il mercato dei “titoli ecclesiastici” nella seconda metà del XIV secolo è assai fiorente perché la curia romana ha sempre più bisogno di risorse [si vendono anche le indulgenze e questo è il commercio più redditizio]. Baldassarre Cossa ha indubbiamente delle qualità e come cardinale fa subito carriera finché diventa “legato pontificio” a Bologna, una città che, come Firenze, ha sempre dato del filo da torcere a Roma e quindi ci voleva un “legato” che avesse anche delle competenze d’ordine militare. Appena entrato in pompa magna in città nel 1403 alla testa di una divisione dell’esercito pontificio Baldassarre Cossa smorza subito l’entusiasmo dei bolognesi dicendo che, nella scala delle scelte prioritarie, l’edificazione della cattedrale di San Petronio è la meno urgente: al primo posto ci sono le esigenze del legato pontificio e, difatti, fa subito sospendere i lavori, vende all’asta i materiali da costruzione e intasca i quattrini, e se qualche membro della borghesia protesta lo fa arrestare e lo fa eliminare con false accuse aizzandogli contro il popolo “sempre pronto [dicono le cronache dell’epoca] a credere agli imbonitori, ai lupi travestiti da agnelli”. L’accusa più forte, che colpisce profondamente la fantasia popolare, che Cossa lancia contro i suoi presunti nemici è quella di essere “venduti ai saraceni, simpatizzanti e complici dei mussulmani”, e che fine devono fare costoro se non la brutta fine che ha fatto Maometto nell’Inferno di Dante: squarciati in due, sbudellati, dilaniati dalle unghie dei demonî! Per rendere più chiaro questo concetto agli occhi del popolo bolognese, e facendo finta di far riprendere i lavori della Cattedrale, Cossa scrittura alcuni pittori tra cui Giovanni da Modena al quale commissiona una serie di affreschi da dipingere sulle pareti di una cappella la cui edificazione era sta finanziata dalla famiglia Bolognini: la famiglia più ricca della città che è anche in odore di dissidenza nei confronti del legato pontificio. Baldassarre Cossa [che diabolico personaggio!] fa dipingere nella cappella Bolognini anche la “orribile fine dell’eretico Maometto” come ammonimento contro i suoi nemici e il suo comportamento è esemplare [ha fatto scuola] per quanto riguarda l’uso strumentale delle immagini ai fini di una spregiudicata gestione del potere.
La conoscenza approfondita di un avvenimento come questo diventa fondamentale per capire che certi “oggetti culturali” vanno considerati alla luce delle vicende storiche che ne hanno determinato la produzione: così si possono evitare i malintesi forieri di eventuali “guerre di religione” causate dall’ignoranza. Quindi il compito della Scuola è quello di non lasciare le storie in ombra.
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Utilizzando una guida della città di Bologna fate una visita alla cattedrale di San Petronio che è ricca di opere d’arte da conoscere…
Giovanni da Modena è un buon pittore di seconda fascia e lavora, come tutti i bravi pittori di seconda fascia di quest’epoca, per assicurarsi la sussistenza quotidiana: a pranzo e a cena mangia gratuitamente alla mensa di un convento vicino alla cattedrale dove va anche a dormire e ogni quindici giorni riceve un piccolo salario dalla fabbrica di San Petronio, e questo trattamento è di suo gradimento per cui cerca di tirarsela un po’ per le lunghe la commissione che ha ricevuto, anche perché nessuno lo controlla e lo assilla, e il cardinale committente Baldassarre Cossa è piuttosto affaccendato. Che cosa sta succedendo? Adesso non possiamo scendere nei particolari [come abbiamo fatto in precedenti Percorsi] sul tema che stiamo per trattare ma, a grandi linee, dobbiamo affrontare questo argomento per capire fino in fondo il carattere del personaggio che commissiona a Giovanni da Modena la raffigurazione dantesca di “Maometto all’Inferno”.
Dal 1378 al 1417 il mondo della cristianità è in subbuglio a causa di un tragico avvenimento che prende il nome di “scisma d’Occidente”. Ci sono due papi in scena, uno a Roma e uno ad Avignone, ciascuno con i suoi preti, i suoi vescovi e i suoi riti: liturgie romane contro liturgie avignonesi. Per sanare questa dolorosa e scandalosa frattura si riunisce un concilio a Pisa nel 1409 che depone i due papi – il romano Gregorio XII e l’avignonese Benedetto XIII – e al loro posto i padri conciliari ne nominarono un terzo: Alessandro V. Ma i due detronizzati, spinti dai loro sostenitori, negano la validità del concilio, negano di essere decaduti e così, invece di due papi, ce ne sono tre. Alessandro V, il papa eletto dal concilio di Pisa – quello che dovrebbe essere il papa legittimo –, non si sa imporre, è un uomo piuttosto timoroso, e viene subito invitato a Bologna dal cardinale Cossa che s’incarica di proteggerlo ma, da “da ex corsaro”, ha un piano “piratesco” da perseguire. Alessandro V si sente tranquillo accanto ad un tipo così energico come Baldassarre Cossa: prende coraggio e inizia a governare la Chiesa da papa legittimo ma – sebbene sia in buona salute – non campa a lungo perché muore improvvisamente l’anno dopo la sua elezione, nel 1410. Raccontano le cronache che una sera il papa, a cena, mangia i funghi e, sapete come succede, i funghi sono un prodotto ambiguo…e pensare che questi funghi li aveva raccolti personalmente Baldassarre Cossa, a scanso di equivoci e li aveva mangiati anche lui [per crearsi un alibi?].
Baldassarre Cossa lavora con impegno a tessere la sua rete: minaccia i pusillanimi, tratta con i potenti, paga tangenti, ricatta i cardinali che hanno qualcosa da nascondere e, dopo i funerali di Alessandro V, il conclave, riunito a Pisa, lo elegge papa e lui prende il nome di Giovanni XXIII. A questo punto entra in scena l’imperatore Sigismondo di Lussemburgo il quale è assai disgustato dalla situazione che si è venuta a creare perché sa benissimo, attraverso i suoi informatori, chi è Baldassarre Cossa e considera il fatto che sia stato eletto papa un vero scandalo. Sigismondo, persona illuminata ed energica, sta al gioco del papa-pirata e si fa incoronare da lui re dei Romani [e Cossa crede di avere in pugno l’imperatore] ma a Sigismondo questa carica dà la possibilità di intromettersi negli affari della Chiesa e chiede che venga convocato un concilio a Costanza per mettere fine alla tragedia dello “scisma in Occidente”: ci sono tre papi in carica [intanto Giovanni da Modena, da questi avvenimenti, trae molti spunti per raffigurare “gli scismatici” in San Petronio]. Baldassarre Cossa, alias Giovanni XXIII, cerca di opporsi alla convocazione del concilio indetto da Sigismondo, non ci vorrebbe andare sulle rive del lago di Costanza, è preoccupato, e dichiara: «Lì si pigliano le lepri [sono abili a costruire trappole per catturar le lepri]». Ma Baldassarre Cossa ha il carattere di un giocatore d’azzardo e quindi – dopo aver firmato la Bolla di convocazione – parte alla volta di Costanza fiducioso di poter imporre la sua autorità di papa contando sull’omertà di tutti quelli che ha corrotto e sull’appoggio del duca d’Austria [che rivaleggia con Sigismondo] ma a Costanza, nel 1414, le cose vanno diversamente: i padri conciliari votano a grande maggioranza [la Tesi di Sigismondo] per la decadenza dei tre papi in carica.
Ma Costanza per Baldassarre Cossa, come temeva, diventa una trappola perché interviene contro di lui la magistratura imperiale che ha raccolto un nutrito dossier di pesanti accuse nei suoi confronti [con prove inequivocabili suffragate da una cinquantina di testimoni attendibili]: sono settantadue i capi di imputazione contro di lui, poi ridotti a cinquantaquattro. Baldassarre Cossa è accusato di simonia, di fornicazione, di adulterio, d’incesto, di sodomia, di negazione dell’esistenza dell’anima, di furto e di assassinio [l’assassinio di Alessandro V].
Come si giustifica l’accusa d’incesto? Si giustifica col fatto che Cossa aveva una decina di figli e una quindicina di figlie [dal 1400 al 1700 i cardinali sono sempre stati una categoria molto prolifica]. Dicono le cronache giudiziarie [e qui si rasenta la comicità] che in un anno Cossa avrebbe sedotto duecentoventi tra nubili, maritate, vedove e monache: una al giorno, se escludiamo la quaresima, le domeniche e le altre feste comandate [era pur sempre un cardinale e doveva rispettare le regole del calendario liturgico]. Ma prima di essere arrestato Baldassare Cossa riesce a fuggire dalla “trappola” di Costanza: scappa in sella ad un ronzino vestito da mendicante approfittando di un torneo organizzato fuori città in onore dei padri conciliari, nella notte tra il 20 e il 21 maggio del 1415. Scatta immediatamente il sistema di allarme ma Cossa, che è un “pirata”, riesce a farla franca e a rifugiarsi presso un suo amico di avventure, Federico, duca del Tirolo che lo tiene ben nascosto nei suoi molti castelli. Il concilio di Costanza non solo licenzia Giovanni XXIII come anti-papa ma lo condanna in contumacia come simoniaco, dissipatore di beni ecclesiastici, amministratore [spirituale e temporale] infedele della Chiesa.
Ma l’aria montana del Tirolo ha un effetto miracoloso su Baldassarre Cossa, il quale comincia a pentirsi dei suoi peccati tanto che quando viene catturato dal conte palatino e consegnato al nuovo unico papa, Martino V [Oddo Colonna], eletto a Costanza nel 1415, si mostra talmente pentito [o, per lo meno, così sembrava] che ottiene il perdono dal papa che gli lascia anche la porpora cardinalizia: è l’anno 1417 e anche lo “scisma d’Occidente” può considerarsi quasi concluso. Questo “torbido” personaggio – il cui nome, Giovanni XXIII, è stato riscattato dopo cinque secoli da Angelo Giuseppe Roncalli [ma non se ne è parlato molto nel 1958] – ha trascorso l’ultima parte della sua vita a Firenze. Il nuovo papa Martino V [Oddo Colonna] non può da Costanza tornare subito a Roma e quindi si ferma due anni a Firenze [1419-1420]. Baldassarre Cossa viaggia insieme al papa – che lo ha perdonato ma lo tiene sotto controllo – e muore a Firenze nel 1419 e il papa incarica uno scultore, Donatello, il quale [sublime ingiustizia dell’arte] crea un formidabile monumento funebre [con la collaborazione di Michelozzo], e così Baldassarre Cossa [certe cose capitano solo ai pirati] ha avuto anche l’onore di essere sepolto nel Battistero di Firenze, uno dei più celebri e visitati monumenti del mondo.
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Fate una visita [potete anche utilizzare la rete ma il “bel San Giovanni” ce l’abbiamo in casa] a Baldassarre Cossa e vi farà capire di essere molto lusingato perché sono pochissime le persone, tra i milioni di turisti che visitano ogni anno questo monumento, a sapere chi sia questo personaggio… Viene da pensare che non meriterebbe di essere sepolto in un luogo così importante ma ha comunque il merito, anche se involontario, di far risaltare il nome e l’opera di Donatello e di Michelozzo: andate ad osservare il monumento funebre dell’antipapa-pirata Baldassarre Cossa…
Ma torniamo a San Petronio dove abbiamo lasciato Giovanni da Modena ad affrescare le pareti della cappella Bolognini; abbiamo detto che se la fa durare [circa un decennio] questa commissione e, quindi, dipinge contemporaneamente allo svolgersi degli avvenimenti che abbiamo raccontato per cui comincia a lavorare [nel 1410] seguendo il diktat di Baldassarre Cossa che gli impone di dipingere un’immagine che possa intimidire i suoi oppositori: l’uso della figura di Maometto, dilaniato dai demonî nell’Inferno secondo l’indicazione di Dante, è puramente strumentale [non è propriamente una rappresentazione anti-islamica ma è un manifesto intimidatorio contro la borghesia bolognese che si oppone al mal-governo di Cossa e sta commerciando pacificamente col mondo arabo]. Poi, anno dopo anno, Giovanni da Modena, affrescando le pareti della cappella Bolognini, comincia a documentare la situazione storica e dipinge anche [sopra il finestrone] la scena dell’elezione a papa di Giovanni XXIII [nel 1411] e negli anni successivi [sulla parete di sinistra] dipinge un realistico Inferno con dentro papi, cardinali, re, prelati, tutti condannati alle pene più crude: infilzati nello spiedo [i lussuriosi], bersagliati da frecce [gli invidiosi] e costretti ad ingoiare una colata d’oro fuso [gli avari]. Giovanni da Modena in quest’opera [conclusa nel 1420] ha documentato, attraverso la sua sensibilità artistica, il dramma dello “scisma d’Occidente” e la scena di Maometto, inglobata nel tutto, diventa davvero un particolare secondario.
Che cosa ha ancora da dirci la Divina Commedia sul mondo mussulmano? C’è anche un brano nella Cantica del Paradiso che, ancora una volta, contiene un giudizio critico e, anche in questo caso, c’è una giustificazione legata al fatto che Dante si vanta di discendere da un certo Cacciaguida [morto intorno al 1147] il quale, stando a quello che il poeta scrive nel Canto XV del Paradiso [dal verso 130 al 148], aveva partecipato alla seconda Crociata in Terrasanta ed era morto per mano di “quella gente turpa”: così chiama Dante i musulmani. Dante colloca Cacciaguida in Paradiso nel quinto cielo, il cielo di Marte, dove troviamo i combattenti per la fede, i “martiri cristiani”. Dante fa dire a Cacciaguida che lui ha seguito l’imperatore Corrado III di Germania, il quale con Luigi VII di Francia ha organizzato la seconda Crociata [1147-1149]. Ma, in relazione a questi cenni storici, dobbiamo fare una riflessione.
Il fatto è che l’imperatore Corrado III non è mai passato da Firenze e risulta [dalle cronache del tempo] che nessun fiorentino fosse presente a quella Crociata, ma la Divina Commedia [lo sappiamo] è “commedia”, non è un trattato di storia. Probabilmente Dante confonde volutamente Corrado III con Corrado II che ha soggiornato a Firenze intorno al 1039 e [dicono le cronache] ha nominato “cavalieri” molti cittadini fiorentini e poi ha effettuato anche una spedizione in Terrasanta. Ma continuiamo a riflettere in funzione della didattica della lettura e della scrittura.
Nel Canto XV del Paradiso della Divina Commedia – detto “Canto di Cacciaguida” – si trova, dal verso 97 al 148, la famosa esaltazione della “Fiorenza dentro dalla cerchia antica”. A quale “cerchia di mura” si riferisce Dante, quali sono le “mura della cerchia antica”? Quelle innalzate al tempo di Carlo Magno intorno all’anno 800? Queste mura sono forse troppo vecchie: e allora Dante parla della Firenze dentro la cerchia di mura del 1173 [la cerchia che descrive Giovanni Villani nelle sue Cronache]? Ma in quel tempo Cacciaguida è morto da quasi venticinque anni: queste mura, di cui parla, per lui non sono mai esistite, ma la Divina Commedia non è “un trattato di storia” e Dante tira le fila del racconto [in senso aristotelico] mediante il “genere della commedia”. Fatto sta che qui Dante vuole cogliere l’occasione per fare [e ogni tanto lo fa] un’esaltazione del “bel tempo antico”, di come si stava bene allora a Firenze.
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Leggete questo brano: dal verso 97 al 148 del Canto XV del Paradiso...
Voi che cosa rimpiangete di quello che considerate il vostro “bel tempo antico”?…
Scrivete quattro righe in proposito...
Cacciaguida, capostipite di Dante, esalta il “bel tempo antico” quando Firenze era pacifica, buona, fida e casta, quando le donne fiorentine [sono sempre le donne la causa del disordine] erano sobrie e pudiche, non facevano sfoggio di abiti succinti, di trucchi e di ricca gioielleria in competizione tra loro per attirare gli sguardi maliziosi degli uomini sui loro corpi più che sulla loro persona. Bei tempi [dice Cacciaguida] quando le donne fiorentine si “velavano”, uscivano a capo coperto!
Cacciaguida [secondo l’immaginazione di Dante] avrebbe partecipato alla seconda Crociata contro gli infedeli [però questo fatto non trova riscontri storici e difficilmente sarebbe stato ucciso dagli infedeli: perché?] ma per quanto riguarda il tema della “pudicizia” il modo di pensare di Cacciaguida [secondo Dante] è in linea con la Letteratura del Corano. Il testo della XXIV. La sura della Luce è attinente nel contenuto a ciò che Dante fa dire a Cacciaguida: leggiamo i versetti 30 e 31 di questa sura.
LEGERE MULTUM….
XXIV. La sura della Luce 30-31
Nel nome di Dio: clemente misericordioso!
Dì ai credenti che abbassino gli sguardi e custodiscano le loro parti sessuali; questo sarà, per loro, la cosa più pura, perché Dio sa quel ch’essi fanno. E dì alle credenti che abbassino gli sguardi e custodiscano le loro parti sessuali e non mostrino troppo le loro parti belle eccetto quello che si vede all’esterno, e si coprano i seni d’un velo e non mostrino le loro parti belle altro che ai loro mariti. …
Questo è il passo coranico principale che interdirebbe alle donne di “mostrare il volto” e sarebbe alla base di quell’annullamento del corpo femminile che, oggi, è uno degli argomenti principali di discussione sull’islam. In questi [celebri] versetti non vi è nulla di tutto questo ma c’è un ammonimento ad “abbassare gli sguardi” tanto per i maschi quanto per le femmine di fronte alle parti più intime del corpo: alle donne si richiede di velarsi i seni e anche l’ammonimento coranico a non mostrare le “parti belle” se non ai mariti sembra più che altro un invito a non ostentare la propria bellezza fisica e a coltivare le virtù della sobrietà e della modestia. L’idea che impedisce alle donne di “mostrare il volto” non ha un fondamento coranico, anzi, le donne arabe del VII secolo sono piuttosto decise a mostrarsi, a farsi desiderare.
L’usanza di impedire alle donne di mostrare il volto è pre-coranica: deriva da un’antichissima tradizione persiana e bizantina e costituisce una forma di difesa per le donne: una donna “coperta” [già sotto protezione di un padre, di un fratello, di un marito] non può essere toccata e chi viola questa convenzione viene severamente punito. L’usanza che obbliga le donne a non “mostrare il volto” costituisce un elemento di subalternità, una forma di recinzione ed è un costume legato non soltanto alla civiltà islamica. Se leggiamo la Letteratura italiana veniamo al corrente che [e non solo nelle regioni del sud] le donne si coprono i capelli, il viso, le “parti belle” con lo stesso identico intento protettivo delle donne persiane, bizantine e poi islamiche.
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Leggete il romanzo di Dacia Maraini intitolato “Bagheria” – dove la scrittrice racconta la sua vita di bambina in Sicilia – e vi troverete immerse ed immersi in una realtà di questo tipo… E se leggete i racconti di un’opera intitolata “Il modo dei vinti” di Nuto Revelli, che racconta la vita contadina in Piemonte, ebbene, troverete situazioni analoghe…
L’usanza delle “donne coperte” è purtroppo legata ad un pessimo costume: quello per cui gli uomini [senza voler generalizzare] si sentono autorizzati a violentare le donne “libere”, non “protette”: e questa continua ad essere una piaga che affligge la società odierna.
Se leggete [o rileggete] i versi dal 97 al 148 del Canto XV del Paradiso di Dante vi troverete di fronte ad una mentalità simile a quella coranica: c’è lo stesso invito a non perdere il senso del pudore. Ma [per bocca di Cacciaguida] Dante va oltre – approfondisce l’analisi sociologica – e spiega che “chi ha fatto i soldi” coltiva solo orgoglio a dismisura e questo fatto produce una ricaduta negativa su tutta la società per cui il popolo non può che essere ignorante: gli uomini sono maligni, avari, invidiosi, superbi e le donne fiorentine sono sfacciate e svergognate. C’è un lusso sfrenato in città [continua Dante per bocca di Cacciaguida] e sembra arrivato Sardanapalo, il re d’Assiria [nel 667 a.C.] che ha fama di essere lussurioso, rammollito, dissoluto. Ci sono numerosissime case vuote in città [continua Dante per bocca di Cacciaguida] perché troppo grandi rispetto al numero dei componenti delle famiglie e questo è uno spreco inaccettabile. Le figlie non ubbidiscono più ai padri e “rifiutano il fuso ed il pennacchio”: non tessono e non risparmiano, ma anche i padri però non hanno altro intento che maritare le figlie solo per interesse, le fanno maritare a dieci anni mettendole sul mercato con una dote di ben quattrocento fiorini “come se fossero fave o lupini”, è lecito questo, si domanda Dante? Firenze ormai [continua Dante per bocca di Cacciaguida] ha superato Roma in magnificenza e in corruzione e, quindi, la supererà anche nelle rovine. I fiorentini, oggi, sono tutti in Francia [scrive Dante] non “a cambiare e a mercare [non ad esercitare il commercio e a favorire l’economia della propria città]” ma vanno a Parigi a divertirsi e le mogli le lasciano a casa “derelitte nel letto maritale”. E le madri [continua Dante per bocca di Cacciaguida] non li curano più i bambini come una volta: non usano con loro un linguaggio infantile, non cantando loro le ninna-nanne e non raccontano loro le fiabe tradizionali facendoli diventare cittadine e cittadini disadattati, senza radici, senza una coscienza civica. Meno male [fa dire Dante a Cacciaguida] che la Vergine Maria, invocata da mia madre con alte grida nel momento del parto, mi ha fatto nascere in quella bella e pacifica cittadina di allora e mi ha fatto battezzare nell’antico Battistero [nel bel San Giovanni].
In questo punto della Divina Commedia Dante approfitta del personaggio di Cacciaguida anche per comunicare da dove deriva il suo cognome: Alighieri. Cacciaguida dice a Dante: mia moglie venne dalla valle del Po, dalla città di Ferrara, e si chiamava Madonna Alleghiera, quindi, dal suo nome venne il tuo cognome “Alighieri”. Andate a leggete [o a rileggere] i versi dal 97 al 148 del Canto XV del Paradiso di Dante. Negli ultimi versi di questo brano di cui si consiglia la lettura [o la rilettura] Dante fa dichiarare a Cacciaguida di essere stato ucciso dagli infedeli nella seconda Crociata e di essere arrivato in Paradiso in quanto “martire cristiano”. Il fatto è che, se andiamo ad informarci su come si è svolta la “fantomatica” seconda Crociata, ciò che scopriamo ci costringe ad una amara e tragica riflessione [consapevoli del fatto che nelle tragedie c’è sempre anche qualcosa di comico].
La seconda Crociata è una famosa spedizione, comandata da Corrado III di Germania e da Luigi VII di Francia, che arriva sotto le mura di Damasco. Lì i valorosi feudatari cristiani, germanici e francesi [tra loro non correva buon sangue], cominciano a litigare sulla spartizione del bottino ancor prima di cominciare a combattere [alla faccia dell’ideale religioso]. E, sotto le mura di Damasco assediata, cominciarono a darsele di “santa” ragione, davanti agli occhi sbigottiti degli infedeli che, occhieggiando dalle mura, non capiscono bene la situazione e s’interrogano dicendo: «Ma non potevano darsele a casa loro, senza fare tutta questa strada?». Questa zuffa, in cui cristiani ammazzano altri cristiani, procura gravi perdite all’esercito crociato. Ad un certo punto arriva sul campo di battaglia, davanti alle mura di Damasco assediata, anche l’esercito dell’imperatore bizantino Manuele I il quale non è venuto a dar manforte ai crociati ma a cacciarli via. L’imperatore bizantino Manuele I aveva appena firmato un trattato commerciale con gli Arabi mussulmani e faceva ottimi affari con loro e, quindi, non gradisce che altri cristiani vengano ad intromettersi nello svolgimento delle sue attività commerciali. A questo punto non si capisce più niente: i crociati se le danno tra loro, i cristiani bizantini le danno ai crociati, e gli abitanti di Damasco, appollaiati sulle gloriose mura romane [inaccessibili] non sanno per chi convenga fare il tifo.
E, a proposito di tifo: il tifo [in quanto epidemia] è il protagonista dell’atto finale di questa fantasmagorica e anacronistica spedizione. I crociati superstiti della guerra fratricida, decimati dall’epidemia, tornano a piccoli gruppi in Europa e cala un velo sulla sorte di questa spedizione ma i feudatari europei non hanno comunque imparato la lezione: non si voleva ragionare sul fatto che il Dio Unico non si riconosce in nessuna presunta “guerra santa”, né cristiana né islamica, perché tutte le guerre sono sempre “sporche”, causate da interessi economici, e sono l’opposto rispetto alla clemenza e alla misericordia di Dio. Pensate che la seconda Crociata l’aveva “predicata” Bernardo di Chiaravalle: ma tutte le guerre sono sempre “sporche”, anche quelle predicate dai Santi.
Adesso noi capiamo quale operazione abbia fatto da Dante. Dante fa morire Cacciaguida come “eroe della seconda Crociata”, lo fa uccidere da quella “gente turpa” [i mussulmani] e così può collocare il suo “capostipite” in Paradiso tra i “martiri cristiani”. È improbabile [per non dire impossibile] che Cacciaguida abbia partecipato a questa Crociata svoltasi circa cinquant’anni prima che Dante cominciasse a scrivere la sua Commedia. Se Cacciaguida fosse morto là, sotto le mura di Damasco, da quale “gente turpa” sarebbe stato ucciso: dai crociati germanici, francesi o dai bizantini? Ma la Commedia è “commedia” non è un trattato di storia e Dante trova conveniente, per fare “commedia”, utilizzare elementi del mondo mussulmano anche in modo “negativo” [contrariamente, in tempo di crociate, poteva incorrere nella scomunica e allora: addio Commedia!]. Leggete [o rileggete] i versi dal 97 al 148 del Canto XV del Paradiso di Dante, e gli ultimi dieci versi di questo brano ora, per concludere questo itinerario, li leggiamo insieme. È sempre Cacciaguida che Dante fa parlare.
LEGERE MULTUM….
Dante Alighieri, Paradiso XV 139-148
“Poi seguitai l’imperador Currado;
ed ei mi cinse della sua milizia [mi fece cavaliere],
tanto per bene ovrar gli venni in grado [tanto gli piacqui per il mio valore].
Dietro gli andai incontro alla nequizia
di questa legge il cui popolo usurpa,
per colpa dei pastor, vostra giustizia
[andai a combattere la nequizia della legge mussulmana che usurpa il nostro diritto,
per colpa dei papi che non fanno le Crociate].
Quivi fu’ io da quella gente turpa
disviluppato dal mondo fallace,
il cui amor molte anime deturpa;
e venni dal martìro a questa pace”
[Dopo essere stato ucciso da quegli infedeli, e tolto dal mondo ingannevole che travia molte anime,
sono arrivato qui in questo luogo di pace, in Paradiso].
Ma fondamentalmente l’atteggiamento di Dante verso il modo islamico è favorevole e il poeta non può fare a meno di mettere in evidenza quegli aspetti che tutti gli intellettuali cristiani ritengono positivi a cominciare dal grande rispetto che il mondo mussulmano ha per il Libro e, quindi, per i libri in generale. Dante, come intellettuale, attinge a piene mani alla “cultura araba mussulmana” che riconosce come “cultura sua”. E di questo argomento ce ne occuperemo ancora la prossima settimana.
Accorrete perché, dopo il prossimo itinerario, ci sono quattro settimane di pausa: quest’anno la vacanza pasquale, quella del 25 aprile [è un venerdì] e del 1° maggio [è un giovedì] si susseguono e sono legate tra loro.
Ma il nostro viaggio continua comunque, prima e dopo la vacanza, sulla scia dell’Alfabetizzazione culturale e funzionale che è un bene comune [come il libro] e favorisce l’acquisizione del diritto-dovere all’Apprendimento permanente, quindi, accorrete e non perdete la volontà d’imparare…