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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ ALTO-MEDIOEVALE NEL PAESAGGIO INTELLETTUALE DELLA LETTERATURA DEL CORANO S’INCONTRA “LA ESCATOLOGIA MUSULMANA EN LA DIVINA COMEDIA” CON ABBONDANZA DI FONTI INTERCULTURALI …

Lezione N.: 
23

Prof. Giuseppe Nibbi    La sapienza poetica e filosofica dell’età alto-medioevale    9-10-11  aprile  2014

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ ALTO-MEDIOEVALE

NEL PAESAGGIO INTELLETTUALE DELLA LETTERATURA

DEL CORANO S’INCONTRA “LA ESCATOLOGIA MUSULMANA EN LA DIVINA COMEDIA”

CON ABBONDANZA DI FONTI INTERCULTURALI

   Questo itinerario, il ventitreesimo del nostro viaggio di studio sul territorio della “sapienza poetica e filosofica dell’Età alto-medioevale”, prelude ad una lunga pausa: quest’anno la vacanza pasquale [Pasqua è domenica 20 aprile], il 25 aprile [è un venerdi] e il 1° maggio [è un giovedi] si susseguono e quindi il nostro viaggio s’interrompe temporaneamente [fino al 7, 8 e 9 maggio], tuttavia la “vacanza” è una “disponibilità” che deve favorire la nostra riflessione personale sull’idea pasquale del “risorgere [ognuna e ognuno di voi interpreti come meglio crede questo concetto]”, sul “ritorno alla democrazia [il 25 aprile]” e sul “diritto-dovere al lavoro [il 1° maggio]”.

   Nel “paesaggio intellettuale della Letteratura del Corano” che stiamo osservando [da dieci settimane] è emersa la figura di Dante Alighieri che nella Divina Commedia si occupa di cultura islamica: se ne occupa in senso negativo quando, come sappiamo, presenta la figura del suo “fantomatico” avo Cacciaguida che Dante fa morire eroicamente [per questo lo colloca in Paradiso e mi auguro che abbiate letto o riletto il Canto che lo ospita] ucciso dagli infedeli nella seconda Crociata, ma noi la scorsa settimana abbiamo studiato che non sarebbe stato possibile per Cacciaguida [anche se avesse partecipato a questa spedizione sotto le mura di Damasco] essere ucciso dai mussulmani: lì se le sono suonate di “santa” ragione i Crociati tra loro, Germanici contro Francesi. Ma sappiamo che l’opera di Dante è una “commedia”, non un trattato di storia.

   Fondamentalmente però l’atteggiamento di Dante verso il modo islamico è favorevole e non può fare a meno di mettere in evidenza quegli aspetti che tutti gli intellettuali cristiani ritengono positivi a cominciare dal grande rispetto che il mondo musulmano ha per il Libro e, quindi, per i libri in generale come “oggetti” da salvaguardare. Dante, come intellettuale, attinge a piene mani alla “cultura araba musulmana” che riconosce come “cultura sua” e un primo elemento positivo che Dante mette in rilievo nei confronti del mondo islamico è un riferimento di natura politica, e Dante [come sappiamo] è molto sensibile al tema politico perché in quanto cittadino fiorentino ha avuto un ruolo politico.

   Nel Canto IV dell’Inferno Dante – prima di entrare nell’Inferno propriamente detto, attraverso quella porta su cui c’è scritto: «Lasciate ogni speranza voi ch’entrate!» – attraversa, in compagnia di Virgilio, il Limbo: un lembo, un orlo, un bordo, una zona franca dove, come ben sapete, incontra molti uomini virtuosi, non battezzati, vissuti al di fuori della cristianità che non possono ancora essere in Paradiso e vivono nell’attesa. Tra questi ci sono tante personalità illustri del mondo greco, latino e arabo. Secondo la concezione medioevale dell’Aldilà – avvalorata da Tommaso d’Aquino – le anime dei “giusti non cristiani” sono scese al Limbo [stanno in questo “lembo”] e qui aspettano il Giudizio finale, e poi saliranno al Cielo pienamente redente.

   La presenza dei “musulmani” in un luogo di redenzione cristiano come il Limbo dimostra il rispetto di Dante [e degli intellettuali cristiani in genere] per persone che, indipendentemente dalla loro appartenenza religiosa, hanno dimostrato di possedere eccellenti competenze intellettuali. Tra queste persone troviamo anche il Saladino [Inferno, Canto IV, 129] cioè Salah ad-Din [1138-1193] il cui nome in arabo significa “integrità della religione [profondo rispetto per chi coltiva la propria fede]”. Salah ad-Din è stato sultano dell’Egitto e, prima di venire ricordato dalla tradizione popolare come un feroce guerriero [cercate in rete la figurina de “il feroce Saladino”], è conosciuto dai suoi contemporanei come esempio di liberalità religiosa verso i cristiani e come esempio di persona virtuosa che opera per la promozione della cultura: la “clemenza di Saladino” viene ricordata da Dante anche nella sua opera intitolata Convivio [nel Trattato IV al capitolo XI]. Cogliamo l’occasione – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – per conoscere meglio questa importante opera di Dante.

   Il Convivio è un’opera in prosa scritta in lingua volgare, composta da una serie di trattati che commentano altrettanti testi poetici, ed è concepita, secondo l’uso medioevale, in forma di “summa” cioè come una sintesi enciclopedica di un determinato sapere [secondo lo stile di Cassiodoro, di Proclo, di Isidoro di Siviglia]. Il Convivio è stato composto da Dante negli anni dell’esilio, dal 1304 al 1307, e secondo il progetto di Dante doveva comprendere quindici trattati di cui uno introduttivo e quattordici di commento a quattordici canzoni [in versi]. Quest’opera è rimasta incompiuta e Dante ha composto solo quattro trattati [assorbito dalla composizione della Commedia] ma il Convivio presenta comunque una sua organicità, non solo perché ha un forte impianto teorico e dotto, ma soprattutto perché ha un’origine autobiografica e nasce dal desiderio di Dante di risollevarsi intellettualmente dopo la condanna all’esilio e dalla necessità di ristabilire la sua autorevolezza di persona dedita alla cultura [Dante pensa di aver perso tutto meno che il patrimonio della sua cultura].

   Nel Convivio Dante si pone come una persona moralmente integra [ed effettivamente è stato un politico coerente e onesto] che soffre ingiustamente la pena dell’esilio come scrive nelle prime battute del testo: «Ingiustamente soffro la pena d’esilio e di povertà, peregrino, ormai mendicando per le parti quasi tutte d’Italia, mostrando la piaga de la fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata». Il Convivio è un’opera di attualità [e oggi è molto importante studiarne il valore] che ha uno scopo pratico in quanto si propone di diffondere la sapienza perché solo la “promozione dell’apprendimento” può portare al bene civile, e questo intento è già indicato nel titolo [di impostazione platonica]: con il Convivio Dante invita le lettrici e i lettori a un “banchetto di conoscenze [“convivio” significa “banchetto”]” e lo fa non per presunzione o perché egli si senta superiore in conoscenza ma vuole indicare la via dello “studio” come l’unica strada per dare un senso alla propria vita. L’opera consiste quindi nell’elenco e nel commento di tutte le Opere, le molte Opere classiche, che Dante ritiene siano state utili [fondamentali] alla sua formazione intellettuale e morale [“Se sono diventato un amministratore onesto - afferma Dante - lo devo allo studio di queste Opere”] e nell’elenco, ragionato e commentato, non potevano mancare il De consolatione Philosophiae di Severino Boezio, i Trattati di Cicerone, il Dionigi AreopagitaLe metamorfosi di Ovidio, la Farsaglia di Lucano, l’Eneide di Virgilio e, naturalmente, i Dialoghi di Platone e la Metafisica di Aristotele.

   Dante nel capitolo XI del IV trattato del Convivio elenca le personalità che, secondo lui, hanno favorito e favoriscono lo sviluppo culturale dell’Umanità e tra queste spicca anche la figura di Saladino.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Richiedete il “Convivio” di Dante in biblioteca [il testo di quest’opera lo trovate anche in rete] e leggete con calma [è un italiano del XIV secolo quello di Dante ed è necessario interpretarlo] l’ultima decina di righe del capitolo XI del IV trattato del “Convivio” per conoscere chi sono i personaggi che Dante cita insieme a Saladino come promotori di cultura…

Poi leggete le prime righe del primo capitolo del primo trattato [l’incipit] del “Convivio” e confrontatele con le prime righe [l’incipit] della “Metafisica” di Aristotele che trovate in biblioteca: questo esercizio serve per capire come Dante dia inizio alla sua opera, il “Convivio”, formulando lo stesso concetto con cui Aristotele dà inizio alla “Metafisica”: quale concetto  ?

Andate a scoprirlo e segnatevelo...       

   Nel Limbo – nel Canto IV dell’Inferno della Commedia – Dante incontra due grandi filosofi musulmani, Avicenna e Averroè, posti accanto ai maggiori pensatori greci. Che cosa apprezza Dante di questi due importanti filosofi?

   Chi è Avicenna, e in che modo l’opera di Avicenna entra nel pensiero di Dante? Avicenna è il nome latinizzato di Abu Alì al-Husain ibn-Sina [980-1037] ed è noto nell’Occidente medioevale per due scritti di carattere medico-filosofico: il Canone e il Libro della guarigione.

   Il Canone è un’enciclopedia medica che riprende i principi di Ippocrate e di Galeno [i due grandi medici dell’antichità] e li uniforma alle teorie biologiche di Aristotele. Il Canone di Avicenna è stato tradotto in Occidente nell’XI secolo e questo libro resta fino al XVI secolo uno dei principali testi nelle facoltà universitarie di medicina.

   Il Libro della guarigione costituisce invece una “summa” della filosofia di Platone e di Aristotele che ha importanti riflessi in ambito teologico sia nel mondo musulmano che in quello cristiano: come per Aristotele anche per Avicenna la realtà è il risultato di un processo di emanazione ma, mentre per Aristotele questo processo parte dal Sommo Bene [dall’Intelletto universale], per Avicenna muove da Dio che emana “dieci Intelligenze celesti” a Lui sottostanti [è una visione di carattere neoplatonico, c’è l’influsso di Proclo di Costantinopoli] e queste “dieci Intelligenze” corrispondono a “dieci Cieli” secondo la visione che Aristotele ha dell’Universo [del Cosmo]  ma, mentre Aristotele ha una visione “fisica” del Cosmo, per Avicenna i “dieci Cieli” corrispondono ad entità angeliche e la decima Intelligenza è il supremo principio che dà forma alle Intelligenze umane per cui, se l’intelligenza umana è un frammento dell’Intelligenza divina, è logico che essa aspiri a ricongiungersi con il Sommo Bene, con Dio e, quindi “La persona umana per natura [scrive Avicenna] tende al Bene Assoluto” ed è evidente che i “viaggi verso il Paradiso” di Muhammad e di Dante sono metafore direttamente legate a questo concetto.

   Il pensiero di Avicenna viene accolto da Dante tramite la mediazione di Tommaso d’Aquino il quale inserisce in questo sistema il contenuto della creazione divina in senso biblico ma, per quanto riguarda la forma, conserva tutto l’impianto teorico dell’emanazione neoplatonica e Dante condivide e descrive queste idee nei capitoli dal IV al VI del II trattato del Convivio: queste idee – su come si conforma il Paradiso con i suoi Cieli – Dante le riversa nella terza Cantica della Divina Commedia.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Nulla impedisce – se lo avete richiesto in biblioteca o trovato in rete – di sfogliare e di provare a leggere qualche brano dai capitoli dal IV al VI del II trattato del “Convivio” perché anche il solo fatto di riconoscere il nome di un personaggio, di rintracciare una parola-chiave, di decodificare un’idea significativa emergente da questo itinerario costituisce la base di un investimento in intelligenza…

Il momento del “convivio” equivale a quello di una “cena”: nel corso di una cena a cui ultimamente avete partecipato qual è stato l’argomento preminente di conversazione?...

E [Argomento non secondario] qual era il menu?...

Scrivete quattro righe in proposito...

   Il secondo grande filosofo mussulmano citato da Dante nel Limbo – nel Canto IV dell’Inferno della Commedia – è Averroè. Chi è Averroè, e in che modo l’opera di Averroè entra nel pensiero di Dante?

   Averroè è il nome latinizzato del filosofo arabo-spagnolo Abul Walid Mohammad Ibn Rushd [1126-1198]. A lui dobbiamo i fondamentali Commenti alle opere di Aristotele che nell’Occidente latino gli valsero il titolo di “grande commentatore” [e, a questo proposito, lo rincontreremo quando, il prossimo anno, attraverseremo il territorio della Scolastica]. Verso il 1195 tanto i dottori della Legge musulmana quanto quelli della Dottrina cristiana lo hanno condannato all’esilio per le sue dottrine ma, poco prima della morte, è stato riabilitato [meglio tardi che mai].

   La visione filosofica di Averroè supera le teorie di Avicenna. Avicenna pensa ad un Dio che emana dall’alto verso il basso ed è un fattore di trascendenza e, quindi, tutta la realtà [il Mondo creato], la Natura e l’Umanità intera tende inevitabilmente a Dio [e la Fede inebria la Ragione], mentre Averroè pensa che, per interpretare la realtà, si debba cominciare a riflettere partendo dal basso, dall’intelletto umano, dall’intelletto “agente”: dalla capacità di produrre cultura coltivando le facoltà razionali [più che attendere l’illuminazione divina]. Per Averroè coltivare la fede in Dio non significa “abbandonarsi passivamente alla volontà divina” ma equivale a “produrre ricerca intellettuale” e la Ragione deve riflettere sui limiti che ha nel confrontarsi con la Fede.

   Le realizzazioni della ricerca e dell’Intelligenza umana [quando si producono buone idee volte al Bene comune] rimangono sospese come patrimonio dell’Umanità [contenute in un serbatoio intellettuale] e formano quello che Averroè chiama l’Intelletto universale: il grande deposito della Storia del Pensiero a cui l’Intelletto umano attinge per “fare ricerca” e che l’Intelletto umano continua ad arricchire con i frutti di “nuove ricerche”. L’Intelletto universale [il patrimonio culturale e intellettuale dell’Umanità] è immortale e trascendente ed è attraverso questo patrimonio che la persona può sperare di entrare in contatto con Dio. L’intelletto umano e anche l’anima umana [scrive Averroè] muore col corpo: l’anima è mortale e di immortale rimane il Pensiero che le persone sono state capaci di elaborare mediante lo studio e la ricerca scientifica volta al Bene [“Il Pensiero ha le ali - scrive Averroè - e nessuno potrà mai fermarlo”].

   Sappiamo che Dante, sebbene non possa che sostenere l’idea dell’immortalità dell’anima [ormai asse portante della dottrina cristiana dal tempo del Dionigi Areopagita], è fortemente affascinato dall’idea dell’Intelletto universale e anche la Divina Commedia è stata costruita come uno straordinario “deposito” che tende a raccogliere le migliori realizzazioni dell’intelligenza umana a cui poter attingere per intraprendere il “viaggio di studio” che favorisce l’avvicinarsi a Dio. Il pensiero di Averroè – ancora una volta filtrato da Tommaso d’Aquino – ha positivamente contaminato la formazione culturale di Dante.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

C’è una realizzazione dell’intelligenza umana alla quale attribuite un valore particolarmente positivo?... Bastano due righe per rispondere: scrivetele, senza dimenticare che anche la “scrittura” è una mirabile realizzazione dell’intelligenza umana capace di trasmettere il nostro pensiero che va ad arricchire l’Intelletto universale...

   Dante apprezza sinceramente il pensiero e l’opera dei due grandi filosofi musulmani, di Avicenna e di Averroè, degni, secondo lui, di aspirare al Paradiso.

   E ora leggiamo dal canto IV dell’Inferno i versi con i quali Dante descrive il Limbo come un territorio che – sebbene marginale – raccoglie, al tempo di Dante, tutto il patrimonio intellettuale dell’Umanità: l’attività culturale che produce beni spirituali per tutti [afferma Dante] è sempre marginale rispetto a quella affaristica che produce denaro per pochi. Il Limbo di Dante è un’immagine che raffigura l’Intelletto universale di Aristotele e di Averroè che si presenta come un grande contenitore di intelligenza e di saggezza, come uno spazio metafisico nel quale si raccoglie tutto il materiale necessario per promuovere il Percorso di studio utile perché ogni persona possa esercitarsi nelle azioni [conoscere, capire, applicare, analizzare, sintetizzare, valutare] con le quali coltivare il proprio Apprendimento. Nei versi di Dante sono rappresentate le radici per far germogliare l’esperienza della “Alfabetizzazione culturale e funzionale” attraverso la Scuola: «Così vidi adunar la bella scuola, di quei signor dell’altissimo canto», scrive Dante, ed è un chiaro ammonimento sulla necessità di promuovere – ora e sempre – Percorsi didattici che favoriscano l’attivazione delle facoltà cognitive. Il Limbo è una Scuola frequentata da straordinari personaggi, leggiamo [e rileggiamo] questi versi.

LEGERE MULTUM….

Dante Alighieri, Inferno  IV  85-146

            Lo buon maestro [Virgilio] cominciò a dire:

       «Mira colui con quella spada in mano

    che vien dinanzi a’ tre sì come sire.

 

Quegli è Omero, il poeta sovrano;

l’altro è Orazio satiro, che viene;

     Ovidio è il terzo, e l’ultimo è Lucano.

 

Però che ciascun meco si conviene

nel nome che sonò la voce sola,

       fannomi onore; e di ciò fanno bene».

 

Così vidi adunar la bella scuola

 di quei signor dell’altissimo canto

   che sovra gli altri com’aquila vola.

 

Da ch’ebber ragionato insieme alquanto,

volsersi a me con salutevol cenno;

e il mio maestro sorrise di tanto:

 

e più d’onor ancora assai mi fenno,

ch’essi mi fecer della loro schiera,

sì ch’io fui sesto tra cotanto senno.

 

Così n’andammo infìno alla lumiera,

parlando cose che il tacere è bello,

sì com’era il parlar colà dov’era.

 

Venimmo al piè d’un nobile castello,

sette volte cerchiato d’alte mura,

difeso intorno d’un bel fiumicello.

 

Questo passammo come terra dura;

per sette porte entrai con questi savi;

giungemmo in prato di fresca verdura.

 

Genti v’eran con occhi tardi e gravi,

di grande autorità ne’ lor sembianti;

parlavan rado, con voci soavi.

 

Traemmoci così dall’un de’ canti

in loco aperto, luminoso ed alto,

sì che veder si potean tutti quanti.

 

Colà diritto, sopra il verde smalto,

mi fur mostrati gli spiriti magni,

che del vedere in me stesso n’esalto.

 

Io vidi Elettra con molti compagni,

tra i quai conobbi Ettore ed Enea,

Cesare armato con gli occhi grifagni.

 

Vidi Cammilla e la Pentesilea

dall’altra parte, e vidi il re Latino

che con Lavinia sua figlia sedea.

 

Vidi quel Bruto che cacciò Tarquinio,

Lucrezia, Julia, Marzia e Corniglia,

e solo in parte vidi il Saladino.

 

Poi che innalzai un poco più le ciglia,

vidi il maestro di color che sanno [Aristotele]

seder tra filosofica famiglia.

 

Tutti lo miran, tutti onor gli fanno:

quivi vid’io Socrate e Platone,

che innanzi agli altri più presso gli stanno;

 

Democrito, che il mondo a caso pone,

Dìogenes, Anassagora e Tale,

Empedoclès, Eraclito e Zenone;

 

e vidi il buon accoglitor del quale,

Dioscoride dico; e vidi Orfeo,

Tullio e Lino e Seneca mortale,

 

Euclide geomètra e Tolomeo,

Ippocrate, Avicenna e Galieno,

Averroè, che il gran commento feo.

 

Io non posso ritrar di tutti appieno,

però che sì mi caccia il lungo tema,

  che molte volte al fatto il dir vien meno.

   “Spesso – scrive Dante – non si trovano le parole adatte per descrivere un fatto straordinario [che molte volte al fatto il dir vien meno]!”.

   Immagino che, del verseggiare di Dante, non abbiate capito proprio tutto, anche a me qualcosa è sfuggito del significato, tuttavia il “canto” di Dante ha sempre un fascino straordinario e ma bene [in funzione della didattica della lettura e della scrittura] eseguire un esercizio di approfondimento!

   Se apriamo il volume della Divina Commedia [tutte e tutti noi conserviamo nella nostra biblioteca domestica quest’opera, contrariamente possiamo contare sulla biblioteca pubblica] e puntiamo la nostra attenzione sulle pagine che contengono il canto IV dell’Inferno possiamo riconsiderare con calma i versi dall’85 al 146 che abbiamo appena letto seguendo le note per capire pienamente il significato di questi versi e per conoscere in modo più approfondito l’identità di tutti i personaggi citati. Concediamoci anche in questa lunga vacanza una mezzora di lettura dantesca: nel corso dell’itinerario scorso abbiamo letto i versi sul tema della “Fiorenza dentro dalla cerchia antica” ora facciamo due passi anche nel Limbo dove stanno insieme intellettuali ebrei, latini, greci, cristiani, mussulmani, e ciascuna di queste figure [afferma Dante] ha qualcosa da farci conoscere.

   Il messaggio di Dante [erede della Scuola di Toledo, della quale parleremo a suo tempo] consiste in un pressante invito ad uscire dai nostri inferni, dai nostri purgatori, dai nostri paradisi per incontrarci in un “lembo”, in un “bordo”, ai “margini delle divisioni”, mettendo in comune tanto la volontà di insegnare qualcosa [tutte e tutti noi abbiamo qualcosa da insegnare] quanto il desiderio di imparare qualcosa [tutte e tutti noi abbiamo qualcosa da imparare].

   Il clima psicologico che c’è nel Limbo è quello dell’attesa, e i personaggi che Dante ci fa incontrare nel Limbo vivono nell’attesa di essere salvati e i versi danteschi assumono il carattere di una metafora: il poeta intende lanciare un messaggio per affermare che questi personaggi vivono nella loro Opera [ciascuno di questi personaggi s’identifica con la propria Opera] e “l’attendere la salvezza”, in senso allegorico, corrisponde [secondo Dante] all’atto di “studiare le Opere dei Classici” perché “studiare” significa incamminarsi sulla strada della “salvezza”, sulla via del “prendersi cura” di se stessi e degli altri.

   Le studiose e gli studiosi islamici, a cominciare da Avicenna, da Averroè e da Ibn Arabi [1165-1240], segnalano anche nella Letteratura del Corano l’ipotetica presenza di un Limbo. Infatti c’è una sura, la VII, che viene tradotta con il nome di sura del Limbo: il titolo di questa sura è di incerta traduzione perché la parola araba “a‘raf” letteralmente significa “altura montuosa” ma significa anche “la frangia [o l’orlo] di un vestito” e, in questo caso, il senso di questa parola è molto simile al termine latino “limbus”, il lembo, il bordo, il margine.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

 Che cosa vi ricordano le parole: bordo, lembo, margine, orlo, frangia?...

Scrivete quattro righe in proposito…

   Sta di fatto che il contenuto – per quanto enigmatico possa essere – de La sura del Limbo parla di una zona situata tra l’inferno [il Fuoco] e il paradiso [il Giardino] e, quindi ci troviamo di fronte ad una specie di zona neutra, abitata da persone che vivono nell’attesa di essere salvate: sono quegli ebrei, quei cristiani e quei non credenti che si sono comportati in modo non-iniquo e, di conseguenza, fanno parte della schiera dei “compagni del Giardino”. E allora leggiamo i versetti 46 e 47 della sura VII. La sura del Limbo.

LEGERE MULTUM….

VII. La sura del Limbo   46-47

Nel nome di Dio, clemente misericordioso!

E fra i due [fra il Giardino e il Fuoco] vi sarà come un velo, come una cortina e sull’alto a‘raf [limbo] persone che tutti riconosceranno dal loro aspetto e chiameranno così i compagni del Giardino: La pace sia con voi, senza poterci entrare pur desiderandolo. E volgendo lo sguardo ai compagni del Fuoco diranno: Signore, non metterci insieme agli iniqui!”…

   Averroè, interpretando questi versetti, interrogativamente  afferma: «Ma non ci ripete il Corano che solo Dio conosce la Verità?». E Dante gli fa eco quando scrive [e lo abbiamo appena letto]: «Io non posso ritrar di tutti appieno…che molte volte al fatto il dir vien meno». Averroè ribadisce che: tutto si può “cercare” ma non tutto si può “trovare” anche perché il senso della vita sta più nel “cercare” che nel trovare perché il “trovare” non è altro che il presupposto per rilanciare la ricerca.

   E sulla scia di questa affermazione ricompare un personaggio che abbiamo già incontrato la scorsa settimana: don Miguel Asín-Palacios. Sappiamo che Miguel Asín-Palacios è un islamista e un “dantista” di fama internazionale il quale dal 1919 sostiene che Dante è stato influenzato dalla cultura islamica nella stesura della Divina Commedia e questa ipotesi ha avuto il merito di aprire le porte a un filone di ricerca fino a quel tempo trascurato. Asín-Palacios propone una questione di grande interesse: quali sono le “fonti” del racconto del “mi’ragi [il leggendario viaggio di ascensione al Cielo di Muhammad]” e, di conseguenza, quali sono le “fonti” più antiche della Divina Commedia di Dante? Noi sappiamo che Dante si è ispirato alle Opere dei Classici latini e greci, e ha usufruito anche di elementi letterari provenienti dalla cultura islamica. Il fatto che Dante sia influenzato dal racconto del “mi’ragi [il leggendario viaggio di ascensione al Cielo di Muhammad]” è inequivocabile e, di conseguenza, è interessante sapere a quali “fonti [orali e scritte]” si sono ispirati gli scrivani che hanno composto il racconto del “mi’ragi” perché questa conoscenza influenza positivamente la nostra comprensione del testo della Divina Commedia. Lo studio della Letteratura del Corano ha, quindi, una ricaduta positiva nel far aumentare le nostre competenze di lettrici e di lettori dei testi “sapienziali e poetici” della Letteratura medioevale.

   Quali sono le “fonti” del racconto del “mi’ragi [il leggendario viaggio di ascensione al Cielo di Muhammad]” e, di conseguenza, a quali “fonti” della cultura islamica attinge il testo della Divina Commedia di Dante? Tra i tanti studiosi che si sono occupati di questo tema va citato l’orientalista Giuseppe Gabrieli che, pur essendo critico con le teorie di Asín-Palacios, tuttavia nel suo saggio intitolato Dante e l’Oriente [1921] distrugge una serie di luoghi comuni sulla presunta incomunicabilità tra intellettuali ebrei, cristiani e musulmani in epoca medioevale: Gabrieli sostiene e dimostra che questi “mondi culturali” comunicavano intensamente, molto più di oggi.

   Nel 1939 l’opera di Asín-Palacios [sulla quale abbiamo puntato l’attenzione la scorsa settimana] intitolata La Escatologia Musulmana en la Divina Comedia [“Dante e l’Islam” in traduzione italiana] comincia ad essere vista sotto una nuova luce quando un altro orientalista spagnolo, J. Muñoz-Sendino, e un ricercatore italiano, Enrico Cerulli, rivelano – lavorando ciascuno per conto proprio – l’esistenza di due codici, conservati uno alla Biblioteca Bodleiana di Oxford e l’altro alla Biblioteca Nazionale di Parigi, contenenti una versione in francese e una in latino del “mi’ragi di Muhammad [del viaggio di ascensione in Cielo di Muhammad]”. Il testo in francese è intitolato Livre de l’Eschiele Mahomet e quello in latino Liber Scalae Machometi, e la versione latina è stata tradotta in italiano e pubblicata [già dal 1951] con il titolo di Il Libro della Scala di Maometto. Che caratteristiche ha questo testo? Il Libro della Scala di Maometto racconta la tradizione del “mi’ragi [del viaggio notturno con ascensione al Cielo del Profeta Muhammad]”. La versione latina di questo testo proviene dalla traduzione castigliana messa a punto, insieme a quella francese, nel XIII secolo durante il regno di Alfonso X di Castiglia detto il Saggio [1221-1284] il quale ha fatto tradurre un grandissimo numero di opere arabe, letterarie e scientifiche, compreso Il Libro della Scala. I due manoscritti, scoperti [come abbiamo detto] da Muñoz-Sendino e da Cerulli, sono stati tradotti da un certo Bonaventura da Siena, notaio di Alfonso X, il quale ha tradotto in latino la versione castigliana eseguita nel 1264 da Abraham Alfaquim, un medico ebreo, un arabista che lavorava alla corte di re Alfonso X. Quindi il cristiano Bonaventura traduce il testo dell’ebreo Abraham che, a sua volta, ha tradotto un testo arabo di un autore di cui non conosciamo il nome: la cultura non ha confini, la cultura abbatte i confini.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Ricercate sulla rete il tema de “Il Libro della Scala” al quale sono dedicati molti siti, e richiedete in biblioteca “Il Libro della Scala di Maometto” e osservatene la forma: questo testo si compone di 85 brevi capitoli a loro volta divisi in 216 brevissimi paragrafi

Sfogliate questo Libro e leggetene qualche paragrafo   

   Ma quali sono le analogie tra il testo de Il Libro della Scala e quello della Divina Commedia di Dante? Sono evidenti le molteplici somiglianze tra le tappe del “mi’ragi” e le tappe celesti del “viaggio” di Dante e, in particolare, spicca l’episodio dell’incontro di Muhammad, nel Terzo cielo, con un angelo gigantesco e terrificante, un divino vendicatore delle offese umane, un guardiano dell’abisso infernale il quale mostra al Profeta i sette piani dell’Inferno elencando minuziosamente le categorie dei dannati e i diversi supplizi a cui sono destinati: questi piani e la stessa forma ad imbuto è analoga a quella dell’Inferno di Dante che si inabissa fino al centro della Terra, così come è analoga la “legge di contrappasso” che determina la punizione dei peccatori in base ai loro delitti. Questi elementi erano già stati considerati da Asín-Palacios come modelli di riferimento utilizzati da Dante per disegnare la pianta dell’Inferno della Commedia e il ritrovamento dei codici de Il Libro della Scala ha rafforzato questa ipotesi.

   E adesso leggiamo insieme sei paragrafi dei capitoli XII e XIII de Il Libro della Scala di Maometto.

LEGERE MULTUM….

Il Libro della Scala di Maometto   XII  XIII

[25] Quando io, Muhammad, e Gabriele giungemmo al primo cielo, ecco che guardando vedemmo che era tutto di ferro, e che aveva uno spessore corrispondente a cinquecento anni di cammino, e altrettanta distanza lo separava dal secondo cielo. E Gabriele batté ad una porta. E subito venne a noi un angelo così grande che la sua altezza era di mille anni di cammino, e la sua larghezza era altrettanta. E vedemmo che le porte del cielo erano mirabilmente belle, e che gli angeli che le custodivano erano splendidamente e riccamente adorni. Allora Gabriele si avvicinò a una delle porte per entrare. E allora un angelo gli chiese: «Gabriele, che vuoi, e chi porti con te?». E Gabriele rispose: «Con me porto Muhammad, sigillo di tutti i profeti e signore di tutti i nunzi celesti; e vogliamo entrare». E non appena ebbe detto questo, le porte ci furono aperte e noi entrammo.

[26] E quando fummo entrati, gli angeli lì radunati mi salutarono e mi annunziarono buone novelle, delle quali non poco mi rallegrai. E mentre mi parlavano, io guardandoli vidi che avevano volti umani e corpi bovini e ali d’aquila. E quegli angeli erano in numero di settantamila, e ognuno aveva settantamila teste, e ogni testa settantamila corna, e ogni corno settantamila nodi; e fra un nodo e l’altro c’era una distanza pari a quarant’anni di cammino. E inoltre vidi che in ognuna delle predette teste vi erano settantamila volti e ogni volto aveva settantamila bocche, e ogni bocca settantamila lingue. E ciascuna di quelle lingue conosceva settantamila linguaggi e lodava Dio settantamila volte al giorno.

[27] E quand’io, Muhammad, ebbi veduto tali cose, restandone grandemente stupito, ecco che fra quegli angeli vidi due persone, che stavano assise su due seggi di splendore, ed erano bellissime e mirabili per statura del corpo e per aspetto del volto. Avevano le chiome e le grandi barbe bianche come la neve; e le loro vesti erano di un tale candore che a stento si poteva guardare; e intorno al capo avevano un grandissimo splendore. E quando le ebbi mirate, chiesi a Gabriele chi fossero. E lui mi rispose dicendo: «Sappi, Muhammad, che quello che siede nel seggio più basso ha nome Giovanni figlio di Zaccaria [Yohanna ibn Zacharia], ed è uno dei profeti di Dio. E quell’altro che siede più in alto ha nome Gesù figlio di Maria [Yza ibn Marien]. Questo Gesù è lo spirito di Dio e fu generato mediante la sua parola». Ciò udito, andai verso di loro e porsi il saluto. Ed essi domandarono a Gabriele chi fossi; e Gabriele disse loro il mio nome. Allora essi subito mi salutarono e mi annunziarono molte buone novelle sul grandissimo bene che Dio aveva in serbo per me.

[28] Dopo io, Muhammad, e Gabriele giungemmo al secondo cielo, che era tutto di rame e aveva uno spessore di cinquecento anni di cammino; e altrettanto spazio lo separava dal terzo cielo. Gabriele batté alla sua porta. E subito un angelo venne ad aprirci. Quell’angelo era così grande che la sua testa stava nel settimo cielo e i suoi piedi nel profondo della terra. E l’angelo mi prese per mano e mi fece entrare in quel cielo.

[30] Ed ecco che guardando vidi una persona bellissima e mirabilmente formata in ogni sua parte, e nella piena maturità senza esser vecchia, che sedeva su un seggio di splendore, e aveva chiome e vesti di così abbagliante splendore che a stento le si poteva guardare. Costui era così bello a vedersi che nessuno sarebbe in grado di dirlo, e non appena lo vidi chiesi a Gabriele chi fosse. E Gabriele rispondendo mi disse che era Giuseppe, figlio di Giacobbe. Udito ciò, andai verso di lui e gli porsi il saluto. Allora lui chiese a Gabriele chi fossi. E saputolo, mi salutò molto cortesemente, annunziandomi buone novelle sul gran bene che Dio aveva in serbo per me. E quand’ebbe così parlato lo lasciammo, io e Gabriele, e andammo così oltre che giungemmo al terzo cielo.

[31] E quando io, Muhammad, e Gabriele giungemmo al terzo cielo, vedemmo che era tutto d’argento e che si estendeva per cinquecento anni di cammino, e altrettanta era la distanza fra esso e il quarto cielo. Gabriele si avvicinò alla sua porta e chiamò. E subito venne a noi un angelo che era così grande e forte che avrebbe potuto tenere su di un palmo tutto il mondo, con tutte le cose che contiene, senza neppure accorgersene. E quell’angelo ci aprì la porta e noi entrammo.

   Ma le analogie tra il testo de Il Libro della Scala e quello della Divina Commedia di Dante non riguardano solo l’itinerario celeste e infernale, ma riguardano soprattutto certe immagini simboliche come, per esempio, il gigantesco gallo incontrato dal Profeta, un’immagine che viene paragonata a quella dell’aquila vista da Dante nel cielo di Giove. E poi ci sono i cerchi concentrici degli angeli che, ordinati gerarchicamente, roteano attorno al Trono divino come nella visione dantesca: chissà se l’anonimo autore de Il Libro della Scala è stato condizionato [come e prima di Dante] dal testo del Dionigi Areopagita di Proclo di Costantinopoli? A questa domanda, oggi come oggi, non sappiamo dare una risposta ma il fenomeno dell’integrazione culturale è comunque in atto in Età alto-medioevale.

   Ma le analogie più significative tra Il Libro della Scala e la Divina Commedia si ritrovano nei fenomeni psicologici dell’itinerario celeste perché sia Muhammad che Dante, trovandosi dinanzi alla luce divina, sentono la vista offuscata e temono di diventare ciechi, come Dante anche il Profeta si sente incapace di descrivere quella visione e, in seguito, ricorda solo una specie di “sospensione” dell’animo [siamo di fronte ad una esperienza di inconoscenza, e conosciamo questo concetto].

   E a questo punto la domanda che ci dobbiamo porre è d’obbligo: è possibile che Dante conosca e abbia letto Il Libro della Scala? E in che modo Dante sarebbe arrivato a conoscere quest’opera della Letteratura islamica? Secondo gli studiosi che abbiamo citato Dante, molto probabilmente, ha sentito citare questo Libro dal suo maestro, Brunetto Latini [morto nel 1294] il quale è stato ambasciatore in Spagna nel 1260 e poi esiliato in Francia per motivi politici fino al 1265, e questa ipotesi è molto verosimile.

   Dobbiamo pensare che nei secoli XII e XIII [il 1100 e il 1200] l’Europa è presa da una vera e propria “moda musulmana” che spazia dalla favolistica all’abbigliamento, dalle armi ai profumi, dai giochi alle ricette gastronomiche, per non parlare degli apporti arabi alle scienze, alla medicina e alla filosofia, specie con Avicenna e Averroè, posti [come abbiamo appena studiato] dallo stesso Dante nel Limbo assieme ai grandi personaggi della storia e della cultura: certamente anche Dante è preso dalla moda della cultura mussulmana del tempo ed è quindi molto probabile che Dante abbia letto una versione de Il Libro della Scala tra le tante che circolano in Europa in quest’epoca.

   E oggi la confluenza nel testo della Commedia di Dante di elementi tratti dalla Letteratura islamica non è più considerata un’ipotesi ma un fatto reale accettato da tutte le studiose e gli studiosi. Questo non significa che la Commedia di Dante sia una rielaborazione del Libro della Scala: la Divina Commedia è un’opera assai più complessa.

   Quello che – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – dobbiamo domandarci adesso è quali possono essere le “fonti” de Il Libro della Scala? L’anonimo autore arabo de Il Libro della Scala quali riferimenti culturali poteva avere e quali “fonti” può aver utilizzato? Le studiose e gli studiosi di filologia osservano che Il Libro della Scala e anche la tradizione leggendaria del “mi’ragi [del viaggio e dell’ascensione in Cielo di Muhammad]” possono avere come punto di riferimento una famosa narrazione: un testo intitolato Apocalisse di Paolo, conosciuto anche come Visione di San Paolo, scritto nel V secolo [intorno al 431]. Questo testo ha avuto una grande diffusione in Età alto-medioevale e in molti monasteri d’Oriente [in Egitto, in Palestina, in Siria] è stato considerato e utilizzato come un Libro sacro.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Il testo della “Apocalisse di Paolo” è contenuto in una raccolta intitolata “Apocalissi apocrife” insieme ad altri dieci testi molto interessanti: ricercate in rete e in biblioteca questo testo del quale potete leggere qualche pagina – a cominciare dall’indice – per conoscere e per capire quanto sia vasto il campo della Letteratura dei Vangeli apocrifi, una Letteratura che si presenta spesso come punto d’incontro tra cultura ebrea, cristiana ed islamica...

   Il testo dell’Apocalisse di Paolo [ricordiamo che in greco “apocalisse” significa “rivelazione”] è il più noto fra gli scritti apocalittici apocrifi e ha dato origine a molte rielaborazioni e forse il suo prototipo è un testo, scritto in greco, che circolava già nel III secolo, difatti Origene [prima del 254] cita l’Apocalisse di Paolo nella sua opera più importante intitolata Peri-archon [Sui Principi].

   L’autore anonimo dell’Apocalisse di Paolo racconta di aver trovato miracolosamente un Libro, intitolato Testo di Tarso, in cui l’Apostolo Paolo di Tarso narra in prima persona il suo viaggio nell’alto dei Cieli per prendere visione del Paradiso e dell’Inferno. Della Apocalisse di Paolo se ne conoscono molte versioni scritte in copto [la lingua degli Egiziani], in siriaco, in arabo, in latino e in provenzale.

   Dove è stato scritto questo testo? Lo stile con cui è costruito il testo fa pensare che la prima redazione sarebbe siriana, opera dei Padri del deserto siriano e, visti i contatti tra Muhammad e i Padri del deserto siriano, è stata formulata l’ipotesi, molto accreditata, che questo testo in versione araba sia stato conosciuto da Muhammad. Il testo della Apocalisse di Paolo evita discussioni dottrinali soprattutto sulla natura di Gesù Cristo che [come abbiamo studiato] era motivo di scontri durissimi. Questo testo riporta costantemente descrizioni narrative e ciò spiega la sua fortuna e il suo successo perché viene accolto favorevolmente senza pregiudizi da tutte le persone che lo leggono.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Il testo della “Apocalisse di Paolo” è lungo venti pagine, è diviso in otto brevi capitoli per un totale di cinquantuno paragrafi e la lettura di quest’opera non presenta alcuna difficoltà …

   Ora leggiamo insieme un brano dall’Apocalisse di Paolo che riporta la visione del mondo paradisiaco.

LEGERE MULTUM….

Apocalisse di PaoloLa visione del mondo paradisiaco

[19] L’angelo rispose e mi disse: «Hai osservato tutte queste cose?». Ed io risposi: «Sì, Signore». E mi disse: «Sèguimi e ti guiderò per mostrarti le dimore dei giusti». Ed io seguii l’angelo ed egli mi sollevò fino al terzo cielo e mi pose dinanzi all’entrata di una porta; ed io guardai e vidi, e la porta era d’oro e vi erano due pilastri d’oro segnati con lettere dorate. E l’angelo si volse di nuovo a me e disse: «Benedetto sei tu se passi attraverso queste porte, perché non è consentito ad alcuno entrarvi, salvo a coloro che hanno conservato bontà e purezza nei corpi in ogni cosa». Ed io chiesi all’angelo e dissi: «Signore, spiegami, perché sono poste queste lettere su queste tavole?». L’angelo mi rispose e disse: «Questi sono i nomi dei giusti che servirono Dio con tutto il loro cuore e che dimorano sopra la terra». E di nuovo dissi: «Signore, allora i loro nomi sono scritti mentre ancora sono sulla terra?». Ed egli rispose non solo sono scritti i loro nomi, ma anche il loro volto, ed essi sono conosciuti dagli angeli, poiché gli angeli conoscono coloro i quali servono Dio con il loro cuore, anche prima che essi si distacchino dalla terra».

   Lo schema di base delle narrazioni dell’Apocalisse di Paolo, della Leggenda del mi’ragi e de Il libro della Scala di Maometto è simile e c’è un filo conduttore comune, tanto Paolo quanto Muhammad – prima di staccarsi dalla terra – hanno, secondo la tradizione, il privilegio di prendersi una vista dell’Aldilà: del Paradiso e dell’Inferno. Entrambi vengono portati nel “terzo cielo” che è una specie di terrazza con visione “paradisiaca”. Lo schema di questa narrazione contiene anche l’idea dell’Aldilà che ha la cultura ebraica descritta nel Libro del Talmud dove si afferma che nel “terzo” dei “sette cieli” c’è “il paradiso [il giardino]”.

   Ebbene: c’è una “fonte iniziale” dalla quale possono essere scaturite queste narrazioni che investono la cultura ebraica, cristiana e islamica? [Ora si capisce meglio quel simbolo che è raffigurato sulla prima pagina dei nostri repertori e che unisce la stella di Davide, la stella di Betlemme e la mezzaluna]. Esiste uno spunto di partenza, c’è un nucleo primario che ha dato origine alla saga dei “viaggi ultraterreni” ebraici, cristiani ed islamici? Naturalmente le studiose e gli studiosi di filologia lo hanno indicato questo punto di partenza.

   Il punto di partenza letterario, che attraverso l’Apocalisse di Paolo e la Leggenda del mi’ragi e Il Libro della Scala di Maometto arriva fino alla Divina Commedia di Dante, lo troviamo nella Seconda Lettera ai Corinti di Paolo di Tarso, un testo scritto intorno all’anno 55 o 56. Il primo a sperimentare, in modo autobiografico su se stesso, un rapimento al “terzo cielo” è proprio Paolo di Tarso che, da buon fariseo, conosce bene il Libro del Talmud e ne utilizza il linguaggio apocalittico per condurre una polemica feroce con i membri della ekklesìa di Corinto che lo accusavano di predicare in nome di nessuna “autorità”, dicevano gli avversari di Paolo a Corinto: «Costui va a dire in giro di essere un “apostolo [un inviato speciale]”, ma chi l’ha nominato? Chi si crede di essere!». E Paolo, con grande sagacia intellettuale, risponde in stile allegorico [«Conosco un tale - scrive Paolo - del quale potrei vantarmi per il privilegio che ha avuto ma io mi vanto volentieri della mia debolezza…»] parafrasando il mito ebraico del “terzo cielo come sede del paradiso [del giardino]”. Il tema dello scontro tra Paolo di Tarso e i membri più autorevoli della ekklesìa di Corinto l’abbiamo già studiato più di una volta nei nostri viaggi [novembre 2010] e, quindi, adesso non ci resta che leggere la prima parte del capitolo 12 della Seconda Lettera ai Corinti perché è di qui che parte il genere letterario dei “viaggi ultraterreni”: un genere che ha dato i suoi frutti sul piano della “sapienza poetica e filosofica” in Età medioevale e moderna.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Il testo della “Apocalisse di Paolo” inizia proprio con le parole tratte dal capitolo 12 della “Seconda Lettera ai Corinti Se siete entrate ed entrati in contatto con il testo della “Apocalisse di Paolo” leggetene l’incipit contenuto nel primo capitolo intitolato “Scoperta della rivelazione” e formato da due paragrafi [l’uno e il due] della lunghezza di mezza pagina che permettono di fare un interessante esercizio di comparazione filologica...

   E ora leggiamo insieme i primi dieci versetti dal capitolo 12 della Seconda Lettera ai Corinti di Paolo di Tarso che rappresenta lo spunto di partenza della saga dei “viaggi ultraterreni” che hanno caratterizzato la Storia della Letteratura medioevale e moderna.

LEGERE MULTUM….

Paolo di Tarso,  Seconda Lettera ai Corinti  12  1-10

Non è bello vantarsi, eppure devo farlo. Perciò vi parlerò delle visioni e delle rivelazioni che il Signore mi ha concesse. Conosco un credente che quattordici anni or sono fu portato fino al terzo cielo. (Io non so se egli vi fu portato fisicamente o solamente in spirito: Dio solo lo sa). So che questa persona fu portata fino al paradiso. (Se lo fu fisicamente o solamente in spirito – lo ripeto – io non lo so: Dio solo lo sa). Lassù udì parole sublimi che per un essere umano è impossibile ripetere. Di quel tale sono disposto a vantarmi, ma io mi vanto soltanto delle mie debolezze.

Se avessi voglia di vantarmi non sarei un pazzo perché direi la pura verità. Tuttavia non lo faccio: voglio che la gente mi giudichi in base a quel che faccio e dico, e che non abbia di me un’opinione più alta. Io ho avuto grandi rivelazioni. Ma proprio per questo, perché non diventassi orgoglioso, mi è stata inflitta una sofferenza che mi tormenta come una scheggia nel corpo, come un messaggero di Satana che mi colpisce per impedirmi di diventare orgoglioso. Tre volte ho supplicato il Signore di liberarmi da questa sofferenza. Ma egli mi ha risposto: «Ti basta la mia grazia. La mia potenza si manifesta in tutta la sua forza proprio quando uno è debole».  è per questo che io mi vanto volentieri della mia debolezza, perché la potenza di Cristo agisca in me. Perciò io mi rallegro della debolezza, degli insulti, delle difficoltà, delle persecuzioni e delle angosce che io sopporto a causa di Cristo, perché quando sono debole, allora sono veramente forte.

   L’esperienza del “viaggio ultraterreno” riguarda le persone “in stato di debolezza” e accomuna tutte le protagoniste e i protagonisti delle grandi culture letterarie [fin dall’Età assiale della Storia] e rappresenta la manifestazione dell’inizio di una missione che prevede una competenza sul piano della conoscenza e della disponibilità all’Apprendimento: l’ebreo fariseo Shaul Tarsensis che studiando e scrivendo diventa l’Apostolo cristiano Paolo di Tarso, l’arabo Muhammad che studiando e scrivendo diventa il Profeta dell’islam e poi, molto più umilmente [a suo dire], anche Dante – che, studiando e scrivendo, ha saputo fondere insieme la cultura classica greca e latina, l’ebrea, la cristiana e l’islamica per costruire la Commedia – è stato protagonista di un “viaggio ultraterreno” che si manifesta [dichiara Dante] in un sogno. La tradizione del “viaggio ultraterreno” ha, quindi, una grande rilevanza sul piano della didattica della lettura e della scrittura e questo tema taglia trasversalmente tutti i grandi apparati culturali. Facciamo alcuni esempi significativi.

   Sapete che nella Letteratura dell’Antico Testamento troviamo due Libri che s’intitolano Primo e Secondo Libro dei Re. In queste due opere di Letteratura, scritte intorno al V secolo a.C. [nel viaggio dell’anno scolastico 2007-2008 abbiamo studiato il processo di formazione della Letteratura veterotestamentaria], gli anonimi scrivani ci presentano il racconto della Storia del popolo ebreo durante il periodo monarchico, nel tempo che va dalla vecchiaia e dalla morte del re David [intorno al 970 a.C.] fino al tempo dell’esilio, fino al tempo della deportazione in Babilonia della classe dirigente di Gerusalemme da parte di Nabuccodonosor [587 a.C.].

   Nei due Libri dei Re vengono raccolti dagli anonimi scrivani che li compongono materiali diversi [orali e scritti] provenienti da fonti e da codici molto antichi in cui si racconta: la vecchiaia e la morte del re Davide, la fastosa storia di re Salomone, la storia tragica dei due Regni [il regno d’Israele e il regno di Giuda] in cui si sono [imprudentemente] divisi gli ebrei. Se leggiamo i due Libri dei Re capiamo subito che non raccontano “la storia” perché sono scritti con lo stile del “midrash”: un genere letterario con il quale si utilizzano degli avvenimenti storici [o presunti tali] per costruire un “racconto cerimoniale [la parola “midrash” significa “racconto cerimoniale”]”, un racconto mitico, leggendario, epopeico, con il quale gli scrivani ebrei vogliono mettere in evidenza come i re d’Israele non abbiano rispettato la volontà di Dio e i comandamenti prescritti dalla Toràh, dalla Legge di Mosè [la Legge uguale per tutti]. Ai re viene rimproverato il fatto di essere stati “infedeli”, di avere istituito il culto a divinità pagane [il dio Baal] dimenticandosi del Dio Unico, del Dio dal “volto umano” che ha stabilito il patto [la berit] con Abramo e con Mosè. Il peccato dei re [di Geroboamo il figlio indegno di Salomone, di Acab e dalla regina Gezabele] è il peccato di idolatria, e per questo motivo scatta il castigo di Dio.

   Naturalmente [come sapete] i testi dei Libri dei Re vengono composti a posteriori quando il castigo di Dio è già avvento, quando la classe dirigente di Israele è già caduta in rovina ed è in esilio, e deve farsene una ragione della sconfitta, deve fare autocritica, deve trovare una “spiegazione” che possa creare una speranza, che possa dare un senso al passato, al presente e al futuro, e la principale caratteristica del genere letterario del midrash è proprio quella di favorire la creazione di testi che possano creare l’attesa e la speranza.

   E quali sono i personaggi [le figure letterarie] che emergono nella scrittura [lo strumento fondamentale che fa emergere la coscienza critica] se non i “profeti” che il Dio Unico invia, come suoi messaggeri, a preparare la strada del suo avvento e a rinnovare la sua alleanza? Ebbene, nei due Libri dei Re la figura letteraria più significativa è senz’altro quella di un personaggio che tutte e tutti noi abbiamo sentito nominare: il profeta Elia. Lo straordinario romanzo del profeta Elia [in coppia con Eliseo] lo possiamo leggere nel Primo Libro dei Re dal capitolo 17 al capitolo 22 [la parte finale del Libro] e nel Secondo Libro dei Re nei primi due capitoli.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

L’invito della Scuola è quello di rifuggire dalla pigrizia che la lunga vacanza può generare: andate a leggere questi capitoli che trovate nel volume della Bibbia presente nella vostra biblioteca domestica…

Potete anche scrivere quattro righe per dire quale episodio narrato vi ha colpito di più

   Naturalmente siamo venute e venuti a cercare il profeta Elia [che opera insieme al profeta Eliseo] perché ci stiamo occupando del tema dei “viaggi ultraterreni” e, in proposito, andiamo subito a leggere un brano dal secondo capitolo del Secondo Libro dei Re: il testo di questo brano è scritto con il ritmo ripetitivo della “ballata” e ciò significa che una parte consistente delle fonti dei Libri dei Re erano formate da materiali composti per essere cantati e ballati.

LEGERE MULTUM….

Secondo Libro dei Re  2  1-18

Un giorno il Signore rapì Elia in cielo in un turbine di vento.

Elia ed Eliseo stavano allontanandosi da Galgata. Elia disse a Eliseo: «Tu fermati qui: a me il Signore ha ordinato di andare a Betel». Ma Eliseo rispose: «Giuro davanti al Signore e davanti a te che non ti abbandonerò!». Così andarono tutt’e due a Betel. Il gruppo di profeti di Betel andò incontro a Eliseo: «Non sai che oggi il Signore ti porterà via il tuo maestro? - gli dissero»«Sì lo so - rispose Eliseo - ma state zitti, non parlatene».

Elia disse a Eliseo: «Tu fermati qui: a me il Signore ha ordinato di andare a Gerico».

Ma Eliseo rispose: «Giuro davanti al Signore e davanti a te che non ti abbandonerò!».

Così andarono tutt’e due a Gerico. Il gruppo dei profeti di Gerico raggiunse Eliseo: «Non sai che oggi il Signore ti porterà via il tuo maestro? - gli dissero». «Sì lo so - rispose Eliseo - ma state zitti, non parlatene».

Poi Elia disse a Eliseo: «Tu fermati qui. A me il Signore ha ordinato di andare al fiume Giordano». Ma Eliseo rispose: «Giuro davanti al Signore e davanti a te che non ti abbandonerò!». Partirono tutt’e due. Cinquanta profeti li seguirono. Elia ed Eliseo si fermarono in riva al Giordano.

I cinquanta profeti si tenevano a una certa distanza. Elia prese il suo mantello, lo arrotolò e lo sbatté contro le acque del fiume, e le acque si divisero in due; così Elia ed Eliseo poterono raggiungere l’altra riva all’asciutto. Mentre attraversavano, Elia chiese a Eliseo: «Dimmi che cosa posso fare per te, prima che il Signore mi porti via». «Vorrei essere l’erede del tuo spirito profetico - rispose Eliseo». «Non è poco! - disse Elia, e aggiunse - Avrai quel che chiedi, se riuscirai a vedermi mentre verrò portato via da te, altrimenti no».   Continuarono a camminare e a parlare. Un carro di fuoco con cavalli di fuoco passò in mezzo a loro. Elia fu rapito in cielo in un turbine di vento. Eliseo riuscì a vedere e gridò: «Elia, padre mio! Difesa e forza d’Israele». Poi non lo vide più. Allora, per il dolore, strappò i suoi vestiti. Raccolse il mantello che era caduto ad Elia, tornò indietro e si fermò in riva al Giordano. Prese il mantello d’Elia, lo sbatté contro le acque del fiume e invocò: «Signore, Dio d’Elia, dove sei?». Poi, come aveva fatto Elia, colpì le acque ed esse si divisero in due: egli poté attraversare. Da lontano i profeti di Gerico lo videro e dissero: «Lo spirito profetico di Elia è passato a Eliseo».

   Elia è stato “rapito in cielo su un carro di fuoco” e noi [secondo la tradizione] lo stiamo ancora aspettando e lasciamo sempre una seggiola vuota per lui quando ci sediamo a tavola per pranzo o per la cena [lo fate tutte e tutti voi, vero!].

   L’episodio del “viaggio ultraterreno” di Elia è famoso e ha ispirato moltissime artiste e artisti che, nel corso dei secoli, si sono cimentate e cimentati sul tema del “rapimento di Elia in cielo”. Ma prima di fare, in proposito, un accenno alla Storia dell’Arte non possiamo fare a meno di mettere in relazione “il carro di fuoco che porta in cielo Elia” con un altro “carro trainato da cavalle” perché questi due apparati culturali [questi due allegorici veicoli] sono contemporanei. Dove lo troviamo il “carro trainato da cavalle che vola verso la Luce”?

   Lo troviamo nel prologo di uno dei più grandi poemi dell’antichità intitolato Peri Physeos [Sulla Natura]: un’opera straordinaria [l’abbiamo studiata più volte in questi anni per la sua importanza strategica nella Storia del Pensiero Umano] che contiene il pensiero di una delle Scuole filosofiche più importanti della Storia della cultura universale: la Scuola eleatica. Chi è l’autore di quest’opera?

   L’autore del poema intitolato Peri Physeos [Sulla Natura] si chiama Parmenide ed è vissuto tra il 540 e il 463 a.C. nella polis di Elea. La polis di Elea [come sapete] oggi costituisce un sito archeologico che si chiama Velia [il nome che i Romani hanno dato ad Elea] e si trova nel bellissimo territorio costiero campano del Cilento in provincia di Salerno.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Fate, o rifate, un’escursione a Velia [ad Elea] utilizzando una guida della Campania e la rete...

Tenete conto che questo sito è una delle basi di lancio di un famoso “viaggio ultraterreno”…

   Parmenide è l’esponente di spicco della Scuola di Elea che propone il tema filosofico dell’esistenza di un Principio assoluto e critica la conoscenza basata sull’apparenza data dai sensi. La ragione [scrive Parmenide] ci fa capire che ci deve essere un Principio assoluto [un Ente supremo] che dà un senso a tutta la realtà, e [si domanda Parmenide] che cosa possiamo dire, mediante la ragione, di questo Principio assoluto, quali sono le sue caratteristiche? Del Principio assoluto [afferma Parmenide] possiamo dire solo una cosa fondamentale: “che è”. E, di conseguenza, lo possiamo definire solo con il termine “Essere”, e l’Essere è “la Realtà in sé [rappresenta tutto ciò che esiste]” ed è incorruttibile e immutabile. Di conseguenza il “molteplice” [tutte le cose], ossia ciò “che diviene e muta”, non è altro che “illusione in contrapposizione alla Realtà”: le cose così come ci appaiono, prese una per una e nel loro processo di trasformazione, sono il “Non-essere” [“Essere o non-essere, questo è il problema”, recita Amleto parafrasando Parmenide].

   Il pensiero di Elea poi affronta decisamente il tema [di grande attualità] del contrasto tra l’Essere e l’Apparire: la Scuola eleatica insegna ad andare oltre l’apparenza. Parmenide è un “poeta epico-liturgico” che – attraverso il testo del suo poema allegorico – ci porta in viaggio per farci riflettere sull’essenza della Realtà, e il suo stile ha condizionato Platone che ne tramanda il pensiero e gli dedica uno dei suoi Dialoghi, intitolato Parmenide, nel quale Platone cita il maestro di Elea [ogni volta che lo nomina] con un verso di stile omerico: “Parmenides ieratikos ka menitikos  [Parmenide venerando e terribile insieme]”. Nel XVI secolo [nel 1500] il dialogo Parmenide di Platone viene considerato dai Neoplatonici rinascimentali Marsilio Ficino e Giovanni Pico della Mirandola come una summa teologica, metafisica ed etica di straordinaria importanza [e quando torneremo, in avvenire, a viaggiare sui territori dell’Età moderna ne riparleremo].

   Adesso il nostro incontro con Parmenide è relativo all’argomento che stiamo trattando: il tema del “viaggio ultraterreno”. Parmenide nel prologo del poema Peri Physeos [Sulla Natura] immagina di prendere il volo su di un carro trainato da cavalle [che rappresentano il desiderio di conoscenza] e sotto la guida delle Figlie del Sole [che rappresentano le sensazioni] le quali indicano la via per passare dalle Tenebre alla Luce [la via della Giustizia] fino a varcare la porta dei sentieri della Notte e del Giorno [la porta della Ragione] per giungere al cospetto della Dea [Dike] che lo accoglie benevolmente e gli rivela la verità sulle cose.

   Per Parmenide il viaggio verso la conoscenza [sulla via della Giustizia governata dalla Ragione] è un vero e proprio “itinerario mistico”. Leggiamo [per molte e per molti di voi è un rileggere, ma l’esercizio della rilettura è una componente necessaria nel processo di apprendimento] il prologo del poema Peri Physeos [Sulla Natura] di Parmenide per cogliere le assonanze che ci sono con tutti gli altri “viaggi ultraterreni” di cui ci siamo occupate ed occupati finora. Il “viaggio” di Parmenide è “mistico” nella forma  [è raccontato allegoricamente con lo stile del “poema epico-liturgico di stampo orfico-dionisiaco”] ma ha un contenuto di natura “laica” e, quindi, il significato delle metafore poetiche [che abbiamo messo tra parentesi] è di stampo logico-razionale.

LEGERE MULTUM….

Parmenide,  Peri Physeos [Sulla Natura]  Proemio del Poema

Le cavalle [gli impulsi, i desideri di conoscenza] che mi portan fin dove il mio desiderio vuol giungere,

mi condussero sulla via che dice molte cose [sulla scia di un ragionamento filosofico]

e che porta ovunque la persona che sa. Là fui portato. Infatti, là mi portarono accorte cavalle tirando il mio carro,

e fanciulle [le sensazioni] indicavano la via. L’asse dei mozzi mandava un sibilo acuto, infiammandosi -

premuto da due rotanti cerchi [le orecchie] da una parte e dall’altra - quando affrettavano il corso nell’accompagnarmi,

e fanciulle Figlie del Sole [gli occhi], oltre le Tenebre verso

la Luce togliendosi con le mani i veli dal capo. Là è la porta dei sentieri della Notte

e del Giorno, una soglia di pietra, eretta nell’etere, rinchiusa da grandi battenti.

Di questi, Giustizia [la Ragione], che molto punisce, tiene le chiavi che aprono

e chiudono. Le fanciulle, allora, con accortezza soave la persuasero affinché togliesse

la sbarra del chiavistello, e questa, aprendosi, produsse una vasta apertura

dei battenti, e di là, subito, attraverso la porta, le fanciulle guidarono carro e cavalle per la strada maestra.

E la Dea [Dike] di buon animo mi accolse, e con la sua mano

la mia mano prese, e incominciò a parlare così e mi disse: «

O giovane, tu che, compagno di guidatrici immortali, giungi alla nostra dimora, rallegrati,

poiché non un’infausta sorte ti ha condotto a percorrere questo cammino - infatti esso è fuori dalla via che battono gli umani -

ma legge divina e giustizia. Bisogna che tu tutto apprenda: e il solido cuore della Verità ben rotonda

e le opinioni dei mortali nelle quali non c’è una vera certezza. Eppure anche questo imparerai: come le cose che appaiono

bisognava che veramente fossero, e che solo l’Essere ha un senso».

   Molte sarebbero le parole-chiave e le idee-cardine sulle quali riflettere ma ora noi dobbiamo rimanere fedeli al tema del viaggio ultraterreno: un argomento radicato nella Storia del Pensiero Umano fin dagli albori che non si può fare a meno di studiare nella sua evoluzione filosofica, letteraria e artistica. E per questo motivo torniamo al brano che abbiamo letto dal Secondo Libro dei Re.

   Il tema del rapimento di Elia in cielo ha ispirato, nel corso dei secoli, molte artiste ed artisti: una delle raffigurazioni più efficaci di questo episodio, databile intorno al 430, la troviamo scolpita su uno dei bassorilievi di legno del portale dell’atrio nella chiesa di Santa Sabina a Roma.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Utilizzando una guida di Roma e la rete andate a far visita a questa antica chiesa situata ai piedi dell’Avventino, verso il Tevere, finita di costruire nell’anno 425, e scoprirete molte notizie interessanti …

   Naturalmente il profeta Elia è presente anche nella Letteratura del Corano [siamo sempre dinnanzi a questo paesaggio intellettuale] e la citazione più precisa che lo riguarda la troviamo nella XXXVII. La sura degli Angeli a schiere dal versetto 123 al 132. Poi il nome del profeta Elia è citato anche in un elenco di personaggi nella VI. La sura dei Greggi al versetto 85. Inoltre le studiose e gli studiosi di filologia pensano che altre due figure molto popolari presenti nella Letteratura del Corano che portano i nomi di al-Hadir e Idris possano essere identificate con il personaggio di Elia. La Letteratura del Corano presenta Elia tralasciando la storia del suo “rapimento in cielo”: una storia che è certamente conosciuta ma la cultura islamica, a questo proposito, concede spazio solo al “viaggio ultraterreno di Muhammad”. Il testo del Corano calca la mano sul fatto che Elia è un grande difensore del monoteismo ed è fortemente schierato contro la “religione degli idoli” usata come strumento di potere economico e politico.

   La rivelazione su Elia che riceve Muhammad ha un’evidente impronta biblica e serve per affermare, ancora una volta, la potenza del Dio Unico dal volto umano: leggiamo il testo del frammento che contiene questa affermazione tratto dalla XXXVII. La sura degli Angeli a schiere.

LEGERE MULTUM….

XXXVII. La sura degli Angeli a schiere    123-130

Nel nome di Dio, clemente misericordioso!

E così anche Elia fu uno degli Inviati, allorché disse al suo popolo: «Non temete voi Dio? Voi invocate Baal e trascurate il migliore dei Creatori? È Dio il vostro Signore e il Signore dei vostri più remoti antenati! Ma lo trattarono da impostore, e saran consegnati al Castigo! Eccetto i servi di Dio, puri. E la sua lode perpetuammo fra i posteri: Pace su Elia!”».

   L’affermazione: “Pace su Elia!” è un’invocazione in nome della bontà e della necessità dell’integrazione culturale perché questo personaggio [che stiamo aspettando] costituisce un importante tratto d’unione letterario che serve ad allineare i testi del Secondo Libro dei Re [la Bibbia], della sura XXXVII degli Angeli a schiere [il Corano] e del Vangelo secondo Matteo [il Vangelo]. Nel testo del Vangelo secondo Matteo c’è una pagina ricca di patos [di intenso sentimento] che prefigura la risurrezione, non tanto come eterna immortalità, ma come dimensione del raggiungimento della qualità della vita terrena. Leggiamo questo frammento tratto dal capitolo 17 del Vangelo secondo Matteo.

LEGERE MULTUM….

Vangelo secondo Matteo  17  1 - 4

Sei giorni dopo Gesù prese con sé tre discepoli: Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in un luogo solitario. Là di fronte a loro, Gesù cambiò aspetto: il suo volto si fece splendente come il sole e i suoi abiti diventarono bianchissimi, come la luce. Poi i discepoli videro anche Mosè e il profeta Elia: essi stavano accanto a Gesù e parlavano con lui. Allora Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi stare qui. Se vuoi preparo tre tende: una per te, una per Mosè e una per Elia».

   A noi compete una celebrazione pasquale in funzione della didattica della lettura e della scrittura e, di conseguenza, bisogna prendere atto del fatto che – proprio in contesto pasquale – l’esperienza del “viaggio ultraterreno” [insieme a Parmenide, a Elia, a Muhammad, a Dante] non poteva non coinvolgere Gesù di Nazareth nel momento in cui diventa il “Cristo della fede” nella formulazione del Credo, del Simbolo Niceno [negli Atti del Concilio di Nicea del 325]. Conosciamo a memoria il testo del Credo, del Simbolo Niceno dove si legge: «Gesù Cristo patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto, discese all’inferno, il terzo giorno risuscitò, salì al cielo e siede alla destra del Padre». E non sarebbe potuto avvenire diversamente perché la tradizione del “viaggio ultraterreno” ha una grande rilevanza “dottrinale”. Il “viaggio ultraterreno” – nell’ottica di un Percorso di Alfabetizzazione culturale e funzionale – è [come c’insegna Dante] la metafora di un viaggio di studio che metta in esercizio le azioni cognitive, le azioni fondamentali per esercitarci ad apprendere e, a questo proposito nel celebrare la Pasqua, ancora una volta, non possiamo non ascoltare l’ammonimento di papa Gregorio Magno [nostro compagno di viaggio dal gennaio scorso].

   Gregorio nel Secondo Libro dei Dialoghi [che contiene la Regole benedettina] scrive: «Bisogna studiare [quattro ore al giorno] perché l’azione dello studio prepara a risorgere». Questo ammonimento di Gregorio ci fa capire che “studiare [curare la propria anima, il proprio intelletto e, di conseguenza, il proprio corpo]” è un gesto pasquale per eccellenza.

   E il nostro viaggio di studio riprende mercoledì 7 maggio [alla Scuola Redi di Bagno a Ripoli], giovedì 8 maggio [alla Scuola Primo Levi di Tavarnuzze] e venerdì 9 maggio [allo Spazio Soci Coop. di Ponte Greve a Firenze] perché la festa per “il ritorno alla democrazia” il 25 aprile e la festa per “la dignità del lavoro” il 1° maggio sono collegate, quest’anno, alla vacanza pasquale. Ci rivediamo nell’anno 620. Perché: che cosa succede nell’anno 620 che ci possa interessare? La Scuola è qui, tornate a frequentarla e lo saprete…

   Viva il 25 Aprile! Viva il 1° Maggio! E, naturalmente, buona Pasqua di “studio” a tutte e a tutti voi: studiare è cominciare a risorgere!

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Aprile 11, 2014