Prof. Giuseppe Nibbi La sapienza poetica e filosofica dell’età alto-medioevale 28-29-30 maggio 2014
Giovanni Damasceno
SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ ALTO-MEDIOEVALE
COMPARE, A FINE VIAGGIO, IL PAESAGGIO INTELLETTUALE DELLA SCOLASTICA ALLE SUE ORIGINI …
Dopo circa otto mesi di cammino il nostro viaggio sta per concludersi e stiamo per incamminarci sull’ultimo itinerario [lungo], il ventisettesimo, di questo Percorso: il prossimo tragitto [il ventottesimo] sarà breve, compreso in un sobrio incontro conviviale.
La scorsa settimana abbiamo incontrato Alcuino di York – il più saggio consigliere di Carlo Magno – e questo autorevole personaggio ci ha fatte e ci ha fatti entrare in contatto con il terzo grande “quadro culturale” che compone e completa la scenografia di questo nostro viaggio: cioè il “paesaggio intellettuale della Scolastica alle sue origini”, e il movimento della Scolastica [un tema di cui ci occuperemo in modo specifico nel corso del prossimo viaggio che, da ottobre, ci porterà nel cuore del Medioevo] è stato il primo serio tentativo di combattere, in senso più ampio, l’ignoranza [foriera - allora come oggi - di molti mali] sul territorio dell’Ecumene. Iniziamo questo itinerario con una riflessione di carattere metodologico.
Il territorio della “sapienza poetica e filosofica dell’Età alto-medioevale” che, passo per passo, abbiamo attraversato si compone di tre paesaggi intellettuali, e i primi due – il “paesaggio della salvaguardia dei Classici greci e latini” e il “paesaggio della Letteratura del Corano” – li abbiamo osservati, a grandi linee, nella loro interezza mentre il terzo “paesaggio” [al quale siano dinnanzi] è il primo lembo di un nuovo spazio culturale [che va oltre l’Alto-medioevo e che cronologicamente appartiene a quell’età che chiamiamo il cuore del Medioevo] e questo “paesaggio” fa parte di un altro territorio, cioè del vasto territorio della Scolastica [sul quale viaggeremo quando ripartiremo ad ottobre] e questo nuovo grande scenario [la Scolastica medioevale] è formato da molti “paesaggi intellettuali”: quindi, in questo momento siamo di fronte al primo “paesaggio” di un nuovo grande territorio culturale. E, in primo luogo, che cosa possiamo osservare nel “paesaggio intellettuale della Scolastica alle sue origini”? Sulla scia di questo interrogativo prendiamo il passo.
La nascita della Scolastica è stato certamente l’evento più significativo che si è verificato in Europa al tempo di Carlo Magno. Nel 782, infatti, Carlo Magno istituisce, ad Aquisgrana, una Scuola denominata “Schola Palatina” su consiglio di Alcuino di York che ne diventa il direttore. Questo atto si dimostra fecondo perché, subito dopo, cominciano a fiorire “scholae [le scuole]” su tutto il territorio europeo. Le Scuole di “Palazzo” sono frequentate dai figli dei ricchi ma, tuttavia, nonostante questo limite, il movimento della Scolastica va considerato come il primo serio tentativo di combattere l’ignoranza generalizzata anche perché sulla scia delle “Scuole di Palazzo” nascono “Scuole parrocchiali, monacali, episcopali, di piazza” a seconda del luogo dove vengono impartite le Lezioni e, quindi, in queste sedi frequentano la Scuola pure ragazzi senza una dote ma intellettualmente meritevoli che riescono a fare carriera.
Quali discipline insegna la Scolastica? La Scolastica insegna, prima di tutto [secondo la tradizione classica], le materie del trivio che comprendono la Retorica, la Grammatica e la Dialettica e quelle del quadrivio ovvero l’Aritmetica, la Geometria, la Musica e l’Astronomia. La Scolastica diventa un movimento culturale che si radica sul territorio e dura nel tempo [e ci accompagnerà nei nostri prossimi viaggi]: ha inizio, abbiamo detto, nel 782 con Alcuino di York e arriva fino al Millequattrocento, fino agli albori del Rinascimento e termina con gli intellettuali dell’Età moderna [per una durata ci circa settecento anni].
A partire dal XII secolo il pensiero della Scolastica si adegua al cambiamento della società [nasce la borghesia, si moltiplicano i viaggi d’affari, si sviluppa il commercio] fornendo programmi adeguati alle richieste del mercato ed allargando il campo dei propri interessi dando vita a due correnti culturali: quella della “sapientia [coltivata dai monaci intellettuali]” e quella della “scientia [gestita dagli intellettuali laici]” ma, spesso, queste due realtà si sovrappongono con esiti assai creativi, per esempio con l’istituzione delle Università che, all’inizio, sono solo dei luoghi privati dove gli studenti possono acquisire ed acquistare “cultura [sapientia et scientia]” dai professori [magisteri]. Si perfeziona così il “metodo didattico” della Scolastica secondo il quale le Lezioni sono costituite da tre parti: la prima parte si chiama “lectio” nella quale, nel più assoluto silenzio, viene letto un brano di un testo classico [uno dei tanti testi salvati dalla distruzione nei secoli precedenti]; la seconda parte si chiama “quaestio” dove il magister spiega il significato delle parole-chiave e delle idee-cardine contenute nel brano ed espone le diverse interpretazioni che si possono dare dell’opera in questione; la terza parte si chiama “disputatio” dove intervengono gli studenti a dire quali riflessioni suggerisce loro il testo preso in considerazione [i pro e i contra] e la “disputatio” non va confusa con il dibattito ma è una vera e propria esposizione di argomenti per dar modo al magister di esporre meglio i temi del testo classico preso in esame.
Nella prima fase della Scolastica [quella che fa riferimento al paesaggio intellettuale al quale siamo di fronte] la filosofia viene vista come una “ancilla theologiae” ovvero come una “serva della religione” per cui la Fede deve avere sempre la precedenza sulla Ragione ma in breve tempo, con il fiorire degli studi, la situazione si modifica e la Fede e la Ragione cominciano a prendere le distanze e a definire ciascuna un proprio ambito autonomo di ricerca.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Con il movimento della Scolastica inizia, in Età medioevale, lo studio delle Opere classiche greche e latine: di quale opera classica proporreste lo studio ?…
Scrivete la vostra proposta…
Abbiamo detto che il pensiero della Scolastica prende forma quando, con il fiorire degli studi, il campo della Fede e quello della Ragione cominciano a distanziarsi e ciascun campo definisce il proprio spazio autonomo di ricerca [i propri confini e i propri limiti]. Come e chi favorisce questa operazione con cui ha inizio il lungo [e accidentato: ricco di “attributi”] cammino del confronto tra la sfera della Fede e quella della Ragione: come e con chi inizia a svilupparsi il “tema del rapporto tra Fede e Ragione”? [Un tema che continua ad essere di attualità].
Prima di affrontare questo argomento incontrando il personaggio che in Età alto-medioevale ha cominciato a trattare organicamente il “tema del rapporto tra Fede e Ragione” dobbiamo prendere visione della cornice storica nella quale il lavoro intellettuale di questa persona s’inserisce ma, prima ancora, prendendo spunto dalla domanda posta poco fa dal REPERTORIO ... – «di quale opera classica proporreste lo studio?» – torniamo [in funzione della didattica della lettura e della scrittura] a puntare l’attenzione sul fracappellano e numerista don Giuseppe Vella il protagonista del primo romanzo-apologo di Leonardo Sciascia [pubblicato nel 1963] intitolato Il Consiglio d’Egitto. Abbiamo incontrato la scorsa settimana questo curioso personaggio [realmente esistito] il quale, sollecitato dalla parola “impostura”, ha deciso di rispondere [con quattro righe in proposito] al quesito posto, poco fa, dal REPERTORIO ... e, difatti, alla domanda «di quale opera classica proporresti lo studio?» l’abate Giuseppe Vella ha risposto: «io propongo lo studio dei quattro trattati contenuti nel volume intitolato Dionigi Areopagita» … e voi dovreste sapere che quest’opera [che abbiamo studiato nella prima metà di dicembre dello scorso anno], elaborata da Proclo di Costantinopoli, è frutto di una straordinaria “finzione” perché mentre gli imperatori cristiani bizantini perseguitano il Neoplatonismo, il filosofo neoplatonico Proclo – attribuendo i suoi quattro trattati al falso mitico autore Dionigi Areopagita – fornisce, con un’abilissima impostura, alla dottrina cristiana, pur garantendone l’ortodossia, un carattere neoplatonico. Ed è facile capire perché don Giuseppe Vella scelga quest’opera e perché a lui quest’opera sia particolarmente cara.
Sappiamo che quando, nel dicembre 1782, l’ambasciatore del Marocco Abdallah Mohamed ben Olman viene ospitato a Palermo, a causa di una tempesta che ha fatto naufragare la sua nave sulle coste siciliane, nella mente dell’abate, di origine maltese, Giuseppe Vella, incaricato dal viceré Caracciolo di mostrare all’ambasciatore le bellezze di Palermo [il Caracciolo crede che don Vella conosca l’arabo], nasce un disegno audacissimo quello di far passare il manoscritto arabo di una qualsiasi “Vita del profeta [una Sira]”, conservato nella biblioteca del monastero benedettino di Monreale, per uno sconvolgente testo politico, “Il Consiglio d’Egitto”, che permetterebbe l’abolizione di tutti i privilegi feudali e potrebbe perciò valere da scintilla per un complotto rivoluzionario. Sulla scia di questo fatto Leonardo Sciascia coglie l’occasione per scrivere il primo, e il più celebrato, dei suoi “romanzi-apologhi”. Leggiamo ancora qualche pagina di quest’opera. Quando l’ambasciatore marocchino – accompagnato in visita alla biblioteca del monastero di San Martino da monsignor Airoldi amante della storia siciliana e delle cose arabe – esamina il codice e constata che contiene una qualsiasi “Vita del profeta [una Sira]” lo comunica a don Giuseppe Vella che intuisce di che cosa si tratta ma traduce a monsignor Airoldi che lo scritto è un importante documento riguardante il governo arabo dell’isola. Quando l’ambasciatore arabo riparte da Palermo [lui non vede l’ora di andarsene] don Giuseppe Vella, il quale non aspetta altro che l’ambasciatore se ne vada, comincia a tessere la sua “impostura letteraria”: vuole mettere alla prova la sua competenza filologica.
LEGERE MULTUM….
Leonardo Sciascia, Il Consiglio d’Egitto
Il 12 gennaio del 1783 Abdallah Mohamed ben Olman partì. Quando la feluca salpò, il suo stato d’animo era molto simile a quello del suo accompagnatore ed interprete: di liberazione, di felicità. Vero è che l’ambasciatore era come un sordomuto: ma don Giuseppe aveva passato giornate inquiete; il cuore in bocca, come si suol dire, nel timore che un gesto di insofferenza, un eloquente atteggiamento di disappunto, rivelasse a monsignor Airoldi e agli altri che l’interprete del tutto sicuro della lingua araba non era. … «Vattene col diavolo tuo» mormorò don Giuseppe mentre la feluca si fondeva nella linea di caldo rame del crepuscolare orizzonte. E improvvisamente scoprì di aver dimenticato, o di non aver mai saputo, il nome dell’ambasciatore. Lo ribattezzò, per la funzione cui lo aveva destinato nella pianificata impostura, Muhammed ben Osman Mahgia, facendo subito prova della reazione di monsignore. «Il nostro caro Muhammed ben Osman Mahgia» disse.
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Il tema più significativo che emerge dal testo di questo romanzo-apologo di Leonardo Sciascia riguarda il modo in cui si configura il “rapporto tra la Fede e la Ragione alla fine del XVIII secolo”, e in questo nostro viaggio [che si avvia alla conclusione] noi ora ci troviamo agli albori di questo argomento; e già sappiamo che il pensiero della Scolastica prende forma quando, dall’VIII secolo, il campo della Fede e quello della Ragione cominciano a distanziarsi e ciascun campo definisce il proprio spazio autonomo di ricerca [i propri confini e i propri limiti]. Come e chi favorisce [ci siamo domandate e domandati] questa operazione con cui ha inizio il lungo cammino del confronto tra la sfera della Fede e quella della Ragione: con chi e come inizia a svilupparsi il [tuttora molto attuale] tema del rapporto tra Fede e Ragione?
Prima di affrontare questo argomento, e di incontrare i due personaggi che in Età alto-medioevale [uno a Oriente nell’VIII secolo e uno a Occidente nel IX secolo] hanno cominciato a trattare organicamente questo tema, dobbiamo prendere visione della “cornice storica” all’interno della quale si fa strada il movimento della Scolastica e, a questo proposito, ci dobbiamo domandare: come mai dura così poco l’unità del Sacro romano impero e quali sono le cause che rendono debole questa istituzione?
L’Impero sorto con Carlo Magno la notte di Natale dell’anno 800 dura soltanto 87 anni perché sono molte le cause che lo rendono debole. Tra le più importanti cause della debolezza dell’Impero carolingio c’è, per prima, la “mancanza di unità etnica” e la tendenza dei vari popoli a riacquistare la propria autonomia. La seconda causa di debolezza riguarda il “sistema di successione”, che è quello della tradizione franca, cioè la divisione del regno tra i figli del monarca, un sistema che porta inevitabilmente a fomentare guerre fratricide. La terza causa di debolezza dell’Impero carolingio è “l’inettitudine dei successori di Carlo Magno”: nessuno di questi eredita il suo ingegno, e l’ingegno di Carlo Magno è consistito soprattutto nella capacità che ha avuto di scegliere i suoi consiglieri tra le persone più capaci intellettualmente [Alcuino di York, Eginardo, Paolo Diacono, Paolino il patriarca di Aquileia] che lo hanno indirizzato a pensare che l’istituzione più utile in una società [e lui stesso soffriva di essere semianalfabeta] è la Scuola. I successori di Carlo Magno non hanno avuto cura per questa istituzione [per la Scuola] e, difatti, la Scolastica si è sviluppata in modo autonomo e, spesso, in maniera alternativa rispetto al potere costituito.
Carlo Magno muore il 28 gennaio dell’anno 814 e viene sepolto nel Duomo di Aquisgrana, e nell’813 aveva associato nel governo dell’Impero il figlio Ludovico incoronandolo personalmente per affermare, con questo atto, la piena indipendenza del potere imperiale di fronte a ogni pretesa di investitura da parte della Chiesa di Roma [anche se poi nell’816 Ludovico chiamerà papa Stefano IV in Francia e a Reims si farà ungere col sacro crisma insieme alla moglie Irmingarda]. Ludovico, detto il Pio [o anche il Bonario], è vittima della sua debolezza, degli scrupoli religiosi e, soprattutto, dell’avidità dei suoi figli [Lotario, Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico] i quali, dopo essersi combattuti con veemenza, decidono di accordarsi e di dividere l’Impero carolingio. Con il “Trattato di Verdun”, nell’843, il Sacro romano impero perde la sua unità e nascono tre regni: il regno di Francia [affidato a Carlo il Calvo], il regno di Germania [affidato a Ludovico il Germanico] e il regno d’Italia [affidato a Lotario].
Dobbiamo registrare il fatto che lo Stato carolingio trova l’unità ancora una volta, ma solo per nove anni dall’879 all’888, nelle mani di Carlo il Grosso ma, di fatto, l’autorità imperiale è ormai decaduta perché sta aumentando la potenza dei grandi “signori feudali” e questo succede perché nell’anno 877, con il celebre “Capitolare di Kiersy [Quierzy]”, Carlo il Calvo [che regnava sulla Francia] aveva concesso che i feudi maggiori da possedimenti “vitalizi” diventassero proprietà “ereditarie” e alla morte del feudatario passassero nelle mani del suo figlio primogenito, e l’appellativo di Conte e di Marchese diventa così un autentico titolo nobiliare: costoro [i Conti e i Marchesi] cominciano a desiderare di rendersi sempre più autonomi dal potere del sovrano per diventare, invece che dei funzionari, dei veri e propri “principi”. Nell’888 questi principi approfittano dell’inettitudine e della codardìa di Carlo il Grosso e lo depongono, e questo atto porta al definitivo smembramento dell’Impero e nascono cinque grandi regni – di Germania, di Francia, d’Italia, di Borgogna e di Provenza – e un certo numero di piccoli regni minori i cui sovrani vengono eletti dai Conti e dai Marchesi che sono diventati ormai i veri padroni del potere, e ognuno di questi re pretenderebbe di essere riconosciuto imperatore [dagli altri monarchi o dal papa] di un impero che, nei fatti per il momento, non esiste più. Questo frazionamento politico [accompagnato da continui tentativi per il ristabilimento dell’unità dell’impero] comporta una situazione di permanente conflittualità tra i feudatari che non favorisce lo sviluppo di una coscienza europea.
Il frazionamento ha inizio con il “Capitolare di Kiersy” e, oggi, quella che era la città di Kiersy – l’antica capitale dei Merovingi e poi dei Carolingi – è una minuscola località [di circa 480 abitanti] che si chiama Quierzy e si trova in Francia nel dipartimento dell’Aisne nella valle del fiume Oise, a est di Noyon.
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Utilizzando una guida della Francia e navigando in rete fate un’escursione a Quierzy: qualcosa resta [se non altro la sua posizione geografica] di un glorioso passato… Buon viaggio...
E ora dobbiamo domandarci: con chi ha inizio il movimento della Scolastica? Tradizionalmente, secondo la Storia della Filosofia, il personaggio che viene considerato il primo dei pensatori “scolastici” è un intellettuale che si chiama Giovanni [Duns] Scoto Eriùgena e, il primo impatto con questa persona riguarda l’enigma legato ai suoi nomi che, a sua volta, rimanda alla questione non risolta del suo luogo di nascita.
Fra le tante questioni non risolte della Storia della filosofia c’è anche quella che riguarda i nomi [i topònimi, i nomi derivanti da un luogo] di Giovanni Scoto Eriùgena, infatti c’è una corrente di pensiero che ritiene si chiami “Scoto” perché sarebbe nato in Scozia ma c’è pure una seconda corrente di pensiero che sostiene si chiami “Eriùgena [dalla forma celtica Eriu, che significa Irlanda]” perché sarebbe nato in Irlanda. L’enigma del luogo di nascita di questa persona [anche se c’è una tesi predominante] rimane irrisolto e così, a scanso di equivoci, i due nomi, Scoto ed Eriùgena, se li porta e se li porterà sempre con sé.
Giovanni Scoto Eriùgena è nato o in Scozia o in Irlanda intorno all’anno 810. Di sicuro sappiamo che si trovava in Irlanda [ed è per questo motivo che la tesi che sia nato in Irlanda è la più accreditata] quando i Danesi hanno invaso questa terra e, quindi, lui è stato costretto, nell’846 o 847, a fuggire in Francia dove viene accolto da Carlo il Calvo [uno dei tre figli di Ludovico il Pio, uno dei nipoti di Carlo Magno] e per le sue competenze intellettuali Giovanni Scoto Eriùgena viene assunto a corte come magister e poco dopo viene nominato direttore della Scuola [Schola] Palatina.
Sappiamo che Giovanni Scoto Eriùgena è influenzato nei suoi studi da un’opera frutto del clima culturale che è maturato in Oriente [c’è una rete comunicativa tra Oriente ed Occidente che passa soprattutto per i percorsi aperti dagli Arabi in espansione dal Medio Oriente fino alla penisola Iberica] perché in Oriente, anche per lo stimolo delle dispute teologiche, il pensiero ha mantenuto un forte vigore speculativo, presente in particolare nell’opera [della quale abbiamo studiato, a metà del dicembre scorso, forma e contenuti] intitolata Dionigi Areopagita che ha la prerogativa di aver “contaminato” la dottrina del cristianesimo con la filosofia neoplatonica e aristotelica: l’autore del Dionigi Areopagita [lo scolarca neoplatonico Proclo di Costantinopoli che la compone restando anonimo e costruendo una delle più significative “imposture letterarie” della Storia del Pensiero, come sappiamo] pone l’importante questione se si possano fare con la Ragione delle ipotesi per indagare il territorio della Fede e, a questo proposito, perfeziona l’esercizio dell’intuizione [l’arte dell’inconoscenza]. Nei quattro trattati del Dionigi Areopagita – intitolati Teologia mistica, Gerarchia celeste, Gerarchia ecclesiastica, Nomi divini – emergono tre temi fondamentali: la “via per conoscere Dio”, le “caratteristiche delle cose create” e il “movimento per ascendere a Dio” e i testi del Dionigi Areopagita [avendo avuto un grande successo] circolano nella diaspora degli eremi dei Padri del deserto e nei monasteri siriani dove, prima che arrivi l’onda dell’Islam, ferve lo studio diretto delle Opere di Platone e di Aristotele [che erano giunte in Persia e in Siria dopo che Giustiniano aveva fatto chiudere, nel 529, la Scuola di Atene] e che erano state tradotte in lingua siriana.
Quando gli Arabi si insediano in Siria [dal 636] hanno cura di non distruggere questo patrimonio di ricerche ma, anzi, sono curiosi di prendere contatto con la filosofia greca con i Dialoghi di Platone e soprattutto con la Fisica e la Metafisica di Aristotele tradotte [in siriaco, lingua affine all’arabo] e conservate nei monasteri, e Aristotele diventa il “Filosofo per eccellenza” del mondo arabo-islamico e nel nostro prossimo viaggio [sul territorio della Scolastica nel cuore del Medioevo] studieremo come il risveglio filosofico delle Università occidentali, nel secolo XIII, avverrà proprio attorno al “Corpus dell’Aristotele arabo” preservato e divulgato, a suo tempo, dal diligente lavoro compiuto dai monaci siriaci.
Tra questi studiosi [traduttori e divulgatori] emerge un personaggio la cui opera influenza la riflessione di Giovanni Scoto Eriùgena: chi è questo personaggio? Questo personaggio si chiama Giovanni Damasceno [640-750 circa] il quale è nato a Damasco [in una famiglia araba di fede cristiana] ed è conosciuto anche con il nome di Yuhanna ibn Sarjūn nipote di Mansūr, e Mansūr è il nome [arabo] di suo nonno che è stato un funzionario dell’impero bizantino, al quale è toccato il compito di firmare la resa di Damasco assediata dagli Arabi omayyadi. Il califfo Abī Sufyān ha lasciato in piedi l’amministrazione bizantina e ha nominato “emiro [responsabile dell’organizzazione governativa]” Mansūr il nonno di Giovanni [riconoscendo la sua onestà e competenza]; lo stesso Giovanni, qualche anno dopo, è diventato responsabile delle finanze locali e il rappresentante dei cristiani di Damasco i quali godevano, in quanto “nazione cristiana”, di autonomia religiosa e culturale e, a questo proposito, Giovanni Damasceno [uno spirito libero e coraggioso] ha dato prova di grande determinazione soprattutto quando ha difeso “le immagini sacre [le icone]” contro la furia degli iconoclasti bizantini che le volevano distruggere e contro il divieto dell’Islam di adorare le immagini: gli Arabi hanno accettato che i cristiani di Damasco esponessero nei loro luoghi di culto le immagini sacre [le icone] perché Giovanni Damasceno ha saputo dare un significato teologico ad una pratica liturgica della quale anche gli islamici potessero essere rispettosi. Scrive Giovanni Damasceno: «La vera icona è Gesù Cristo, in quanto nel suo corpo trasfigurato l’invisibile si fa visibile a noi nella carne e nel sangue, e io non venero la materia, ma io venero il Creatore della materia che per me è divenuto materia e che mi salverà per mezzo della materia. In Gesù Cristo, in quanto Parola divina che ha assunto la natura umana, Dio è dunque rappresentabile», e su questa riflessione di Giovanni Damasceno si è sviluppato il culto delle icone dal Medio Oriente fino alla Russia. Da vecchio Giovanni Damasceno si è ritirato nel monastero di Mar Saba, nei pressi di Betlemme, e lì è morto ultracentenario intorno al 750 [secondo la tradizione il 4 dicembre 749].
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In rete, e anche su una guida di Israele che trovate in biblioteca, potete cercare “Mar Saba monastero” e trovate le immagini e le informazioni su questo luogo molto suggestivo che custodisce, in una grotta, la tomba di Giovanni Damasceno... Buon viaggio...
Giovanni di Damasco viene considerato l’ultimo Padre della Chiesa ed è un personaggio importante nella Storia del Pensiero Umano perché la sua opera principale [che avrebbe finito di scrivere all’età di cento anni], intitolata Fonte della conoscenza [Pege gnoseos, in greco, ma quest’opera è stata tradotta in molte lingue ed ha avuto un’ampia diffusione], ha posto le basi per la fase iniziale della Scolastica. Quali sono i temi che sviluppa l’opera di Giovanni Damasceno?
L’opera di Giovanni Damasceno intitolata Fonte della conoscenza ha posto le basi per la fase iniziale della Scolastica. Quest’opera, nella sua prima parte, tratta dell’importanza della “dialettica” secondo il pensiero di Aristotele [le Categorie] e secondo Porfirio [l’Isagoge]; nella seconda parte descrive il “pensiero di cento eresie” tra le quali c’è anche l’Islam considerato come un’eresia cristiana [ecco da dove parte questa idea che Dante traduce in versi come abbiamo studiato qualche settimana fa, ad aprile]; nella terza parte lo scrittore riflette sul fatto che le affermazioni dogmatiche, i testi dei dogmi, si costruiscono con la Ragione e, quindi, “la Fede e la Ragione non possono ostacolarsi” ma stanno in un rapporto dialettico e la “dialettica” è per Giovanni Damasceno, come nella migliore tradizione aristotelica, non un sapere ma uno strumento del sapere.
Quindi Giovanni Damasceno si pone in modo consapevole il problema dei rapporti tra la filosofia e la teologia, assumendo una posizione che introduce il pensiero della Scolastica e anticipa perfino la tesi sostenuta [con forte determinazione e ce ne accorgeremo nel prossimo viaggio] da Tommaso d’Aquino che la filosofia è, sì, “ancella della teologia” ma possiede principi e metodi propri che conducono a conclusioni non contrarie ma preliminari a quelle della teologia.
Giovanni Damasceno sviluppa, su base aristotelica, le prove razionali dell’esistenza di Dio [è necessaria l’esistenza di un “motore immobile”, di un “atto puro”] affermando però che la Ragione deve arrestarsi impotente dinanzi al problema dell’essenza divina [come si fa ad avere conoscenza della forma e della natura di Dio!] e su questo tema Giovanni Damasceno si ricollega al concetto della “inconoscenza” descritto nel Dionigi Areopagita [“Dio non lo si conosce, lo si avverte”].
Particolarmente profondo e fecondo – ricco di “pathos esistenzialistico” – è poi il discorso che Giovanni Damasceno articola sui rapporti tra l’essenza e l’esistenza umana: un tema su cui i pensatori della Scolastica rifletteranno costantemente. Se la persona umana [riflette con un afflato modernissimo Giovanni Damasceno] fosse davvero convinta e consapevole della sua “essenza a immagine di Dio” vivrebbe in modo meno traumatico la sua tendenza ad esistere – farebbe più affidamento sulla sua essenza piuttosto che sulla sua esistenza [in pratica si tende ad esistere più che a essere] –, ed è per questo che la tendenza ad esistere genera l’angoscia e l’angoscia [scrive Giovanni Damasceno] è “la paura della caduta dell’esistenza”, paura da cui ci si salverebbe [scrive Giovanni Damasceno] avvicinandosi il più possibile a Dio [o all’Intelletto universale, direbbe in modo laico Aristotele], in cui essenza ed esistenza coincidono.
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Facciamo un esercizio di carattere empirico che, tuttavia, c’invita a riflettere: qual è un profumo che favorisce il vostro rapporto con l’essenza [che solleva il vostro spirito] e qual è un sapore che favorisce la vostra relazione con l’esistenza [che soddisfa le vostre papille gustative]?... Bastano poche parole per rispondere, scrivetele...
Ebbene, l’opera intitolata Fonte della conoscenza di Giovanni Damasceno ha contribuito in modo fondamentale alla formazione intellettuale di Giovanni Scoto Eriùgena. Il testo di Fonte della conoscenza di Giovanni Damasceno, scritto in greco e subito tradotto in siriaco, ha già più di un secolo di vita quando arriva sotto gli occhi di Giovanni Scoto Eriùgena [e degli intellettuali occidentali] attraverso la via araba della penisola Iberica [una linea di comunicazione che non smetterà mai di funzionare in Età medioevale]. Fonte della conoscenza di Giovanni Damasceno è un’opera che viene apprezzata dai sapienti arabi perché contiene molte citazioni di carattere aristotelico e altrettanti riferimenti provenienti dal Dionigi Areopagita, e la teologia del Dionigi Areopagita [spesso ripresa da Giovanni Damasceno] incuriosisce molto gli intellettuali islamici perché presenta un Dio che è un “Essere ineffabile” che sta “al di là di tutte le determinazioni” [e queste sono le caratteristiche di Allah]”. Sappiamo che la forma di Dio presentata dal Dionigi Areopagita è simile al concetto dell’Uno neoplatonico di Plotino e questo serve per garantire anche al “Dio trinitario cristiano” la caratteristica del “monoteismo assoluto”: Dio non può essere più dell’Uno e, quindi, sebbene in tre persone, non può che essere Uno perché l’Uno trascende tutte le cose e questo ragionamento permette al pensiero islamico di avvicinarsi, oltre che a quello ebraico, anche a quello cristiano
E adesso prima di occuparci del pensiero di Giovanni Scoto Eriùgena che costituisce [secondo la tradizione] il primo passo sul territorio della Scolastica, visto che abbiamo ancora a che fare con il Dionigi Areopagita e che quest’opera, essendo il frutto di una significativa “impostura letteraria”, piace molto a don Giuseppe Vella che ha architettato una “impostura” simile, leggiamo ancora alcune pagine dal romanzo Il Consiglio d’Egitto di Leonardo Sciascia. Siamo nel salotto di un palazzo signorile di Palermo punto d’incontro delle persone autorevoli della città: c’è un gruppo di nobili reazionari e sostenitori della “disuguaglianza tra gli uomini” che denigrano il viceré Caracciolo perché ridimensiona i loro privilegi feudali; c’è l’avvocato Di Blasi che invece coltiva simpatie giacobine, legge D’Alembert e simpatizza per la Rivoluzione francese; c’è il poeta Giovanni Meli che ha il dono dell’ironia e della provocazione, e naturalmente c’è l’arcivescovo monsignor Alfonso Airoldi, mecenate degli studi orientalistici, accompagnato da don Giuseppe Vella che, incaricato dal monsignore, ha cominciato a tradurre uno dei codici arabi conservato nel monastero di San Martino [una semplice Vita del Profeta che Vella è riuscito a far passare per un importante Documento politico]; ma lo studioso don Rosario Gregorio ha cominciato a sospettare che don Vella conosca davvero l’arabo: difatti l’abate non conosce la lingua araba ma, tuttavia, sta architettando segretamente, e con ingegno, la sua “impostura letteraria”.
LEGERE MULTUM….
Leonardo Sciascia, Il Consiglio d’Egitto
«Il marchese [di Geraci] ha il dente avvelenato, contro il viceré,» spiegò monsignor Airoldi a don Giuseppe Vella che gli stava accanto «figuratevi che ha ricevuto intimazione di non usare più certi titoli: primo conte in Italia, primo signore nell’una e nell’altra Sicilia, principe del Sacro Romano Impero … E si può continuare a vivere senza questi titoli?».
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E adesso dobbiamo occuparci del pensiero contenuto nell’opera di Giovanni Scoto Eriùgena che costituisce [secondo la tradizione] il primo passo sul territorio della Scolastica.
La singolarità di Giovanni Scoto Eriùgena dipende prima di tutto dalla sua formazione: conosce bene il greco [dopo di lui nessuno lo parlerà più così correttamente in occidente fino al XIII secolo] tanto da poter tradurre in latino il testo della Fonte della conoscenza di Giovanni Damasceno e il testo del Dionigi l’Areopagita. Nel tradurre queste due opere [ricche di citazioni provenienti dai Dialoghi di Platone, dalla Metafisica di Aristotele, dalle Enneadi di Plotino e dall’Isagoge di Porfirio] Giovanni Scoto Eriùgena eredita il gusto e l’ardimento delle grandi sintesi sistematiche fatte dai filosofi greci e dai Padri della Chiesa.
Tra l’862 e l’866 Giovanni Scoto Eriùgena scrive la sua opera principale intitolata De divisione naturae [La divisione della natura], e quest’opera è appunto una descrizione sistematica dell’Universo a partire dall’intuizione [mutuata dal pensiero neoplatonico contenuto nel Dionigi Areopagita,] del duplice movimento del Cosmo, discendente ed ascendente, il cui punto di partenza e di arrivo è Dio [secondo l’idea che Tutto è emanato dall’Uno e Tutto ritorna all’Uno]. Per Giovanni Scoto Eriùgena la Fede e la Ragione, in quanto emanano da un’unica fonte che è Dio, non possono mai ostacolarsi l’una con l’altra ma, in realtà, si rafforzano a vicenda perché l’autorità della Fede conferma la Ragione e, a sua volta, la facoltà della Ragione chiarisce il contenuto della Fede e, di conseguenza, il primo posto spetta alla Ragione che, al contrario della Fede, ha la possibilità di basarsi su se stessa ed è conscia del proprio perimetro e dei propri limiti. Questa riflessione sul rapporto tra Fede e Ragione – con il piatto della bilancia che pende, sebbene appena un po’, dalla parte della Ragione – costituisce il primo passo sul territorio della Scolastica.
Da questa riflessione dipende il fatto che la Filosofia [la Ragione] e la Teologia [la Fede] si intrecciano nel disegnare il quadro dinamico dell’Universo e interagiscono in modo che tocchi alla Fede, com’è nell’insegnamento dei Padri Apostolici e Apologisti, aprire il varco alla vera conoscenza e [secondo la visione dei Padri] la Scrittura e la Natura sono due oggetti in cui si manifesta la stessa Verità eterna, con perfetta consonanza ma poi, però [precisa Giovanni Scoto Eriùgena], tocca alla Ragione leggere la Natura; per quanto riguarda la Scrittura, siccome la sue pagine contengono molti significati – visto che i Padri della Chiesa offrono diverse interpretazioni della Scrittura – bisogna scegliere, e scegliere [afferma Giovanni Scoto Eriùgena] è ancora un esercizio che dipende dal “ragionare” e, quindi, è evidente che il primo posto, nel disegnare il quadro dinamico dell’Universo, spetta comunque alla Ragione. Questo modo di considerare [in senso dialettico] il rapporto tra la Fede e la Ragione diventa un metodo di lavoro con il quale Giovanni Scoto Eriùgena descrive, nel testo della sua opera principale intitolata De divisione naturae [La divisione della natura], la forma dell’Universo.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quale aspetto della Natura [la montagna, la collina, la pianura, il lago, il fiume, il mare, il deserto ... o quale altro aspetto] risulta più evocativo per voi...
Scrivete quattro righe in proposito...
E ora leggiamo un frammento tratto dal De divisione naturae [La divisione della natura] di Giovanni Scoto Eriùgena sul rapporto emblematico tra Fede e Ragione.
LEGERE MULTUM….
Giovanni Scoto Eriùgena, De divisione naturae [La divisione della natura]
Se noi apriamo bene i nostri occhi e ci guardiamo intorno vediamo un mondo che cresce, che si sviluppa, che ci parla e che stimola la nostra riflessione, e dobbiamo per forza ammettere che c’è stato Qualcuno che ne ha provocato l’origine. E noi, seguendo l’autorità dei venerabili Padri, siamo chiamati a credere che questo Qualcuno è Dio, e Dio è tutto quello che ci circonda: Dio è l’Acqua, l’Aria, la Terra, il Fuoco, le Stelle, il Sole, il Vento e il Leone. Ma è anche la Verità, la Bontà, l’Essenza, la Luce e la Giustizia. Questo non significa che dobbiamo sopravvalutare la Natura e trascurare la Fede ma significa che dobbiamo fare appello anche alla Natura perché ci sostenga nel coltivare la nostra Fede.
Dobbiamo prendere atto che senza la Ragione la Fede è lenta e senza la Fede la Ragione è vuota. La Fede è senza dubbio la massima virtù che esiste al mondo, tuttavia, è in virtù della Ragione che possiamo fare questa affermazione. …
Questo modo di considerare, in senso dialettico, il rapporto tra la Fede e la Ragione diventa il metodo di lavoro con il quale Scoto Eriùgena descrive, nella sua opera La divisione della natura, la forma dell’Universo. Giovanni Scoto Eriùgena distingue la Natura in quattro “specie” [ci sono quattro tipi di Natura] e il quadro che costruisce diventa il primo compendio, il primo prodotto intellettuale del movimento della Scolastica perché il modo con cui Giovanni Scoto Eriùgena descrive l’Universo comincia ad essere studiato, discusso e commentato in molte Scuole. Come si configura questo quadro? [Un quadro che, tutt’oggi, continua a condizionare il nostro modo di guardare all’Universo].
Giovanni Scoto Eriùgena nell’opera intitolata De divisione naturae [La divisione della natura] distingue quattro Nature diverse.
La prima è “la Natura che crea e non è creata”, cioè Dio, che è insieme Essere e non-Essere in quanto [come insegna il Dionigi Areopagita] Egli [l’Uno] è al di là delle categorie, e per esprimere questo “aldilà”, Scoto Eriùgena usa il termine latino “super” per cui Dio è “superessenziale”: il temine latino “super” diventa un concetto filosofico [il primo concetto di carattere scolastico]. Scoto Eriùgena sviluppa per un verso la “teologia negativa” e scrive [parafrasando il Dionigi Areopagita] che “Dio non sa nemmeno che cosa Egli sia perché Egli [l’Uno] non è nessuna Cosa, nessun Quid, è un puro non-Essere”, ma Scoto Eriùgena sente anche l’esigenza [dettata dalla Ragione] di impostare in senso positivo la riflessione teologica, per cui, secondo lui [e questo è un altro passo sul territorio della Scolastica], gli attributi con cui si designano le creature – derivanti dall’idea di Bontà, di Giustizia, di Bellezza – possono essere usati per parlare della Natura di Dio, a condizione che siano elevati al massimo del loro significato, applicando loro, appunto, il suffisso “super”.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Per designare chi e che cosa avete utilizzato, e utilizzate, il suffisso “super”?...
Scrivete quattro super-righe in proposito...
La seconda specie di Natura viene chiamata da Giovanni Scoto Eriùgena: “la Natura che è creata e che crea”, ed essa comprende il principio coeterno a Dio, creato da Lui e, di conseguenza, inferiore a Lui e che corrisponde al suo Pensiero, al Logos [al Verbum, alla Parola] e, quindi, alla persona di Gesù Cristo [che è l’incarnazione del Logos, del Verbo, del Pensiero e della Parola divina] il quale crea e diffonde la Fede. Giovanni Scoto Eriùgena riprende l’idea di Origene secondo cui [alla luce della Ragione] Gesù Cristo – in quanto creatura di Dio – appartiene ad una categoria divina inferiore rispetto a quella del Padre [è un deuteros-theos, un dio di seconda categoria]. Di fronte a questa affermazione il papa Niccolò I intenta un processo contro Scoto Eriùgena, dichiarandolo eretico; per fortuna Carlo il Calvo, che [in quel momento] non era in buoni rapporti con il papa, lo protegge ma non tanto per ragioni culturali ma solo per ripicca nei confronti del papato anche perché sembra che il magister Scoto Eriùgena, per la sua pungente ironia, stesse piuttosto antipatico al re di Francia [nipote di Carlo Magno che non ne aveva ereditato le qualità].
La terza specie di Natura viene chiamata da Giovanni Scoto Eriùgena: “la Natura che è creata e che non crea” e corrisponde all’insieme delle creature, visibili o invisibili, a tutte le cose sensibili e non sensibili la cui distribuzione ha un senso gerarchico, dagli angeli alla materia [secondo lo schema del Dionigi Areopagita], e ogni cosa creata è una “teofania” cioè una manifestazione di Dio e questa considerazione porta il sistema di Scoto Eriùgena verso il panteismo cioè ad identificare tutto con Dio. Per evitare questa conclusione, che lo sottoporrebbe ad una nuova accusa [e difatti la subirà] di eresia [visto che la dottrina dichiara che il Dio cristiano trascende tutte le cose], Giovanni Scoto Eriùgena sostiene che Dio è infinitamente più perfetto delle creature e pertanto afferma che “tutto il mondo è in Dio ma Dio non è nel mondo” [Ancora una definizione di carattere neoplatonico, mutuata dal Dionigi Areopagita dove si legge: “tutto il mondo è nell’Uno ma l’Uno non è nel mondo”]. E che ruolo ha [secondo Giovanni Scoto Eriùgena] l’essere umano in questo quadro? «L’essere umano [scrive Giovanni Scoto Eriùgena] riunisce in sé tutte le creature poiché intende come un angelo, ragiona con il proprio intelletto, sente come un animale e vive come un germe e, di conseguenza, l’essere umano è superiore agli angeli perché questi mancano della vita vegetativa e sensitiva»: da questa affermazione ha inizio il lungo cammino che porterà [in circa sei secoli] a collocare l’essere umano al centro dell’Universo.
La quarta specie di Natura viene chiamata da Giovanni Scoto Eriùgena: “la Natura che né crea né è creata” la quale corrisponde, ancora una volta, a Dio stesso in quanto è punto di arrivo della divinizzazione, un punto che si raggiunge e attraverso la conoscenza [la gnosis] e attraverso l’amore [l’agape] a condizione però che all’ascesi umana venga incontro la Grazia divina che dispensa la Verità, la Bontà, l’Essenza, la Luce e la Giustizia.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quale di queste parole-chiave – la Verità, la Bontà, l’Essenza, la Luce, la Giustizia – mettereste per prima in una scala di valori utili per abbellire l’Universo?…
Scrivetela…
La descrizione dell’Universo fatta da Giovanni Scoto Eriùgena è molto suggestiva anche se mostra molti punti deboli come quello relativo al tema del “panteismo” e poi a quello del “male”. Scoto Eriùgena identifica il “male” come se fosse un “puro non essere” perché Dio, l’Essere clemente e misericordioso per eccellenza, non può essere origine del male ma lo ignora addirittura e, di conseguenza, questa affermazione nega che nel sistema della dottrina cristiana possa entrare il peccato e la dannazione. Naturalmente Giovanni Scoto Eriùgena si rende conto di questa discrepanza con la dottrina ufficiale e allora dichiara che “è il peccato l’espressione suprema del male” e del peccato, appunto perché Dio lo ignora, è responsabile la libera volontà dell’essere umano che liberamente si è allontanata da Dio.
L’elemento che contraddistingue la personalità di Giovanni Scoto Eriùgena è quello di sottoporre il sistema della dottrina, l’autorità della Fede, al vaglio della Ragione e da questa scelta [pericolosa, perché ha cominciato a funzionare un tribunale ecclesiastico molto severo] prende il passo il movimento della Scolastica.
Leggiamo ancora un frammento tratto dal De divisione naturae [La divisione della natura] di Giovanni Scoto Eriùgena sul rapporto emblematico tra l’onniscienza divina e la libertà umana.
LEGERE MULTUM….
Giovanni Scoto Eriùgena, De divisione naturae [La divisione della natura]
Alcuni sono convinti che Dio, volendo, in quanto onnipotente, potrebbe fare in modo che gli umani non commettano più peccati. Ma poi, ci dobbiamo domandare, che valore avrebbe una vita portata a termine senza peccati se non ci fosse la possibilità di farli e di non farli? Se Dio garantisce la libertà dobbiamo ammettere anche l’esistenza della libertà di peccare perché non avrebbe senso proibire una cosa che non si può commettere.
Gli esseri umani si possono dividere in due gruppi distinti, gli eletti e i malvagi. Per i primi Dio ha già deciso il futuro: una vita senza peccati e finiranno tutti in Paradiso.
Per i secondi, invece, continua ad esserci un filo di speranza dal momento che è sempre possibile pentirsi. Nascere malvagi, quindi, non è una condanna senza appello: ci si può sempre aggregare al gruppo degli eletti negli ultimi istanti di vita.
Il fatto, poi, che Dio lo sappia in anticipo non rappresenta di per sé un condizionamento. …
Il rapporto emblematico tra l’Onniscienza divina e la Libertà umana sarà uno dei temi più dibattuti sul territorio della Scolastica. I temi del rapporto tra Fede e Ragione e tra Onniscienza divina e la Libertà umana traspaiono anche nel romanzo intitolato Il Consiglio d’Egitto del quale leggiamo ancora due pagine. In un certo senso, poi, Giovanni Scoto Eriùgena, contro il quale si rinnoveranno puntualmente le accuse di eresia, e Giuseppe Vella, che sfida la cultura del suo tempo pagandone le conseguenze, un po’ si assomigliano. Leggiamo.
LEGERE MULTUM….
Leonardo Sciascia, Il Consiglio d’Egitto
Nella casa che monsignor Airoldi gli aveva fatto avere, spaziosa, piena di luce, da un lato affacciata alla campagna e con un piccolo orto recintato in cui scendeva a sgranchirsi o fare la siesta, una camera era diventata come un antro di alchimia.
Giuseppe Vella vi teneva i diversi inchiostri; le colle graduate per colore, intensità e tenacia; i sottilissimi, trasparenti, lievemente verdicanti fogli d’oro; le intatte risme di vecchia, pesante carta; i calchi, le matrici, i crogioli, i metalli: tutte le materie e gli strumenti dell’impostura.
... continua la lettura ...
Abbiamo letto insieme i primi capitoli di questo romanzo: proseguitene la lettura perché i contenuti e i temi che tratta sono congruenti a quelli di questo viaggio.
Dobbiamo chiudere questo itinerario con una cattiva notizia riguardante il povero Giovanni Scoto Eriùgena il quale muore di morte violenta: viene ucciso da uno dei suoi allievi all’uscita dalla Scuola, ma non se ne conosce il motivo. Si presume però che il mandante sarebbe stato lo stesso re di Francia perché offeso da una battuta scappata a Giovanni nel corso di una cena. Si racconta che Giovanni Scoto Eriùgena e Carlo il Calvo stavano seduti ai due estremi del tavolo: Giovanni per tutta la sera aveva messo in difficoltà gli ospiti del re con molte domande imbarazzanti e il re era fortemente contrariato. Giunti a fine della cena, Carlo il Calvo gli chiese provocatoriamente: «Che differenza c’è tra uno sciocco e uno Scoto?», e lui, senza starci troppo a pensare, rispose: «La lunghezza di questa tavola, maestà». Il giorno dopo il magister Duns Scoto, fu trovato cadavere nei pressi della Scuola palatina, con un coltello conficcato nella schiena.
C’è chi sostiene che Giovanni Scoto Eriùgena sia stato ucciso su mandato dei membri della corrente cristiana conservatrice perché avrebbe partecipato, clandestinamente, ad un convegno organizzato a Toledo dal califfo ommayyade. Il califfo di Toledo ha voluto far incontrare intellettuali arabo-islamici, ebrei sefarditi e cristiani affinché si confrontassero sui più importanti temi esistenziali riguardanti l’essere umano superando le spesso incongruenti differenze dottrinali per trovare punti d’intesa.
A Toledo succede qualcosa di significativo: ce ne occuperemo, con una breve Lezione, la prossima settimana nel corso dell’ultimo itinerario [conviviale] di questo viaggio. L’itinerario della prossima settimana è un punto di arrivo ma, contemporaneamente, è anche un invito – dopo una necessaria “vacanza [nel senso della disponibilità]” – a ripartire e, a questo proposito, avete già ricevuto un “calendario ragionato e dettagliato” per intraprendere un prossimo viaggio.
La sera del 14 giugno dell’anno scorso, nell’ambito dell’iniziativa IMPRUNETA CHE SCRIVE e in occasione della celebrazione dei trent’anni di attività dei “Percorsi di Storia del Pensiero Umano in funzione della didattica della lettura e della scrittura”, è stato proposto un Questionario sul tema dell’esercizio della lettura.
Ci ritroveremo nella Biblioteca di Impruneta [che si trova sulla piazza della Basilica] mercoledì 11 giugno alle ore 21 per leggere i risultati del Questionario: le scelte fatte sono state nette e i dati fanno emergere alcuni aspetti significativi perché “divergenti” rispetto all’opinione comune [ai luoghi comuni] sul tema della lettura e della scrittura e su quell’oggetto che è “il libro”. Le scelte fatte mettono in evidenza che il libro viene pensato come “una materia prima” [piuttosto che come un oggetto di consumo] e la persona che legge viene considerata come “un’industria di trasformazione”. Che significato hanno queste affermazioni? Dobbiamo riflettere in proposito.
Dopo la presentazione dei risultati del Questionario accompagnata da alcune riflessioni, sarebbe molto utile che le cittadine e i cittadini che frequentano e animano la Scuola pubblica degli Adulti comunicassero le loro riflessioni. Quale materia prima [quale parola-chiave e quale idea-cardine, quale libro o che cosa] ha stimolato la vostra capacità di trasformazione? Comunicatelo, intervenite: la biblioteca è il posto giusto per fare questo esercizio [di deposito del materiale trasformato] .
Gli spazi [mentali e logistici] per la realizzazione di Percorsi di Alfabetizzazione funzionale e culturale sono assai ristretti in una società assoggettata alla dittatura dell’ignoranza: è doveroso [forse anche necessario], finché sarà possibile, mantenere in funzione questa Scuola che apre, come è tradizione, la sua porta sulla strada.
E ora non ci resta che percorrere l’ultimo tratto del nostro cammino che ci ha portate e portati nel cuore del Medioevo.