Prof. Giuseppe Nibbi La sapienza poetica e filosofica dell’età alto-medioevale 5-6 giugno 2014
Gerberto d'Aurillac
SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ ALTO-MEDIOEVALE,
NEL CORSO DELLA LEZIONE CONVIVIALE, FACCIAMO TAPPA NELLA SCUOLA DI TOLEDO ...
Siamo in primavera inoltrata e oggi il nostro viaggio si conclude nell’imminente inizio dell’estate mentre se fossimo davvero vissute e vissuti in Europa al tempo del Sacro romano impero adesso ci troveremmo in una “stagione fredda”: e questa, naturalmente, è un’affermazione di carattere metaforico. Che significato ha questa metafora?
Con l’omicidio [avvenuto intorno all’anno 877] di Giovanni Scoto Eriùgena – del quale la scorsa settimana abbiamo studiato il pensiero contenuto nella sua opera De divisione naturae [La divisione della natura], un pensiero che, secondo la tradizione, costituisce un primo passo sul territorio della Scolastica –, l’Europa carolingia entra, allegoricamente, nella fase più dura di un inverno destinato a durare almeno altri due secoli [un inverno che era iniziato circa tre secoli prima con l’abbassamento della temperatura provocato dal fenomeno dell’implosione: le esplosioni la fanno alzare la temperatura mentre le implosioni la fanno gradualmente abbassare]. Noi sappiamo che l’inverno, in presenza dell’alta pressione, favorisce la limpidezza del cielo e procura notti particolarmente stellate che ci hanno permesso di osservare chiaramente i vari aspetti dei tre “paesaggi intellettuali” che abbiamo incontrato strada facendo. E poi [sappiamo che] la stagione fredda, secondo il ciclo produttivo della terra, è tutt’altro che un periodo morto perché sotto le zolle i processi vitali continuano e questo succede anche per quello che è stato chiamato [metaforicamente] il lungo “inverno alto-medioevale”, difatti, sotto traccia, sono molti i processi intellettuali che mettono in incubazione i loro frutti.
Il fatto è che, in superficie, il sistema feudale della servitù della gleba [un sistema socialmente squilibrato], con il quale vengono amministrati i territori del Sacro romano impero, si rivela asfittico, privo di dinamica, e la popolazione viene periodicamente decimata da carestie e da pestilenze, il commercio è quasi inesistente e la moneta è un oggetto pressoché sconosciuto; ecco perché in questo contesto la religione assume toni apocalittici e si esprime nell’ambito della superstizione secondo la logica dell’istinto di morte [finalmente - si pensa e si dice - finirà il mondo e avremo finito di soffrire] anche se, per fortuna [come sapete], dal VII secolo [su impulso delle Encicliche di papa Gregorio Magno], ci sono le abbazie benedettine a provvedere, almeno in parte, alla sussistenza di una popolazione che, sul territorio europeo, era in via di estinzione.
Che nell’ultimo giorno dell’anno Mille l’Europa cristiana attendesse terrorizzata la fine del mondo è una leggenda ma non è una leggenda che la paura e il desiderio della fine fossero lo stato d’animo dominante per una società che aveva perso la gioia di vivere e, soprattutto, aveva perduto la speranza di salvezza e, di conseguenza, è proprio in relazione a questa situazione che il periodo dall’anno 800 all’anno 1000 è stato denominato, nel perimetro dell’Europa carolingia, come “l’inverno dell’alto-medioevo” [c’è anche un “autunno del Medioevo” ma si tratta di un’altra stagione che studieremo a suo tempo perché è cronologicamente successiva] e, come abbiamo detto, “l’inverno alto-medioevale” è – per quanto riguarda il fenomeno della cultura – apparentemente un periodo fermo perché, in realtà, molte questioni intellettuali sono in movimento in questo organismo febbricitante. La circolazione delle idee è lenta [siamo in un periodo in cui domina la lentezza] ma è caratterizzata da un flusso continuo che procede attraverso la fitta rete delle abbazie benedettine sulle quali va ad innestarsi il movimento palatino della Scolastica [avviato da Alcuino di York]: non avviene una fusione tra queste le due realtà [tra Scuole abbaziali e Scuole palatine] ma piuttosto – a causa della concorrenza che nasce tra queste istituzioni – si verifica una sorta di cortocircuito che, come succede in questi casi, fa andare via la luce ma fa anche mettere le persone in azione per ripristinarla il prima possibile.
Le abbazie benedettine, come ben sappiamo, sono il contenitore di uno straordinario patrimonio librario: nelle biblioteche dei monasteri ci sono i testi [gelosamente conservati] di buona parte delle Opere classiche greche e latine salvaguardati, come abbiamo studiato, nel periodo dell’implosione determinata [nel V secolo] dalla “caduta” dell’Impero romano d’Occidente, ed è nelle abbazie che il ceto intellettuale ha trovato rifugio [Alcuino di York, il fondatore della Scuola palatina, si forma in abbazia e ne porta la spirito all’esterno] e lì, nei monasteri,, il ceto intellettuale si dedica – secondo la “Regola benedettina” scritta, come ben sappiamo, da Gregorio Magno [sotto forma di Enciclica che vale per tutta la Chiesa] – alla preghiera, allo studio, al lavoro; e un lavoro, oltre l’organizzazione delle attività agricole e artigianali, diventa anche la copiatura e la fabbricazione dei libri e lo “scriptorium” diventa il laboratorio tecnologicamente più avanzato [difatti “la mano che scrive” è il simbolo che caratterizza tutta l’Età medioevale].
Purtroppo, dal IX secolo, la “Regola benedettina” subisce un adattamento secondo i parametri del [mal funzionante] sistema feudale e anche nelle abbazie prende corpo una forma di gerarchia non più aderente allo spirito della Letteratura del Vangelo e della Regola benedettina originaria [in cui tutti - dall’abate all’ultima pastorella - devono pregare quattro ore, lavorare quattro ore, studiare quattro ore, prendersi cura di sé e dare cura per quattro ore e riposare otto ore] ma entra in vigore il sistema relativo ai dettami del regime imperiale per cui l’abate diventa una sorta di feudatario e la preghiera, lo studio e il lavoro cessano di essere equamente distribuiti e nascono, quindi, ruoli privilegiati e livelli subalterni.
Le abbazie prendono forma feudale [sul modello imperiale] ma, tuttavia [a cominciare dall’abbazia di Cluny alla quale fanno capo circa duemila monasteri nell’Europa centro-occidentale], sviluppano una caratteristica propria: gli abati dipendono direttamente dal papa e, di conseguenza, rivendicano la loro autonomia di fronte ai feudatari dipendenti dall’imperatore, quindi, nel loro insieme, i monasteri rappresentano non solo una parte consistente dell’apparato intellettuale europeo ma, soprattutto, quando manca un organismo di potere, sono i monaci la vera classe dirigente che esercita l’autorità in condominio con i signori feudali che spesso finiscono in secondo piano rispetto agli abati e anche ai monaci e voi capite che, su questi presupposti, si sta preparando uno scontro epocale: la lotta [senza esclusione di colpi] tra il papato e l’impero.
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Con la guida della Francia e navigando in rete fate una visita all’abbazia di Cluny...
E con la citazione di questo tema stiamo già penetrando con lo sguardo nel territorio del prossimo viaggio che partirà ad ottobre. Ma ora è necessario abbassare lo sguardo perché dobbiamo ancora fare l’ultimo passo sul territorio della “sapienza poetica e filosofica dell’Età alto-medioevale” [tuttavia cederemo ancora alla tentazione di alzare lo sguardo e a questa tentazione bisogna cedere] e, per compiere questo ultimo passo sul territorio della “sapienza poetica e filosofica dell’Età alto-medioevale”, dobbiamo uscire fuori dallo spazio del Sacro romano impero: ci dobbiamo spostare nella penisola Iberica dove governano, con un sistema, come sappiamo, economico e culturale molto più dinamico [tanto da aver gettato le basi per l’avvento di una imminente feconda primavera], i califfati arabi.
In compagnia di Giovanni Scoto Eriùgena [che, prima dell’anno 877, è ancora vivo e vegeto] partiamo alla volta di Toledo e il visto d’ingresso nel territorio dei califfati arabi della penisola Iberica – per gli intellettuali, per i mercanti, per i religiosi, per i contadini che riescono a fuggire dal sistema feudale carolingio – si ottiene facilmente: è uscire dai confini del Sacro romano impero che non è facile e bisogna farlo clandestinamente, attraverso il mercato [malavitoso] dell’emigrazione. Che strada abbiamo fatto, insieme a Giovanni Scoto Eriùgena [e ad altri intellettuali centroeuropei, e l’ipotesi che Giovanni Scoto Eriùgena sia stato a Toledo è ormai più che accreditata ed è proprio per questo motivo, si pensa, sia stato assassinato], per entrare nella penisola Iberica e per raggiungere Toledo?
Che strada ha percorso [e noi con lui] Giovanni Scoto Eriùgena per entrare nella penisola Iberica e per raggiungere Toledo? Da Aquisgrana si è spostato a Parigi e poi è sceso fino a Tolosa, da Tolosa ha raggiunto Narbona [il porto principale della Gallia Narbonense] e si è imbarcato clandestinamente su una nave mercantile [come finto marinaio, pagando un pedaggio] che lo ha portato al porto di Tarragona nell’estremo territorio della Marca spagnola, e da lì, a bordo di una delle tante paranze di pescatori, in movimento nelle acque mediterranee della costa Dorada, ha raggiunto Tortosa risalendo la foce del fiume Ebro che segna il confine tra l’Impero carolingio e i Califfati arabi; a Tortosa [dove per ragioni commerciali la frontiera è aperta] è stato facile trovare un battello di mercanti arabi che, risalendo il corso dell’Ebro [in tre tappe] lo ha portato a Saragozza da dove, viaggiando in carovana, è arrivato a Toledo [dopo circa un mese di viaggio].
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Prendete l’atlante geografico, che trovate anche in rete, e percorrete virtualmente questo itinerario: chissà che non nasca in voi il desiderio di farlo davvero questo viaggio!...
Che cosa va a fare Giovanni Scoto Eriùgena a Toledo? Ha ricevuto [in grande segretezza] un invito per partecipare ad un convegno di studio.
Intorno all’anno 870 viene fatta edificare a Toledo dal califfo Omayyade, una “Casa della saggezza” per organizzarvi incontri culturali. Come noi sappiamo la “Casa della saggezza [Bayt al Hikma]” è un’istituzione fondata nell’832, a Baghdad, dal califfo al-Mamun [Abū Ja’far Abdullah al Ma’mūm]. La “Casa della saggezza” è un grande laboratorio culturale, è un’attrezzata officina di traduzioni che, a Baghdad, ha raggiunto il massimo splendore [come abbiamo già ricordato a suo tempo] con la direzione del saggio Honayn [809-873], un intellettuale di straordinaria competenza, un umanista animato da un’inesauribile passione per il recupero degli antichi testi della cultura classica [un personaggio già pre-rinascimentale]: le “Case della saggezza” si diffondono [su tutto il territorio dell’espansione araba] da Baghdad fino a Toledo e diventano centri di studio molto importanti perché accolgono studiosi che curano le traduzioni, dal greco in arabo o in siriaco, di tutte le Opere classiche ritrovate con la massima preoccupazione filologica per la fedeltà al testo, e questo permette agli Arabi, già nel IX secolo, in anticipo sulla cristianità latina, di leggere nella loro lingua, i Dialoghi di Platone, la Fisica e la Metafisica di Aristotele, le Opere scientifiche di Euclide, di Tolomeo, di Galeno, le Enneadi di Plotino e molti altri testi. Succede che [abbiamo detto più di una volta] una sorta di straordinaria “girandola intellettuale” si mette in movimento per cui l’eredità filosofica platonico-aristotelica, che ha già ruotato [da ovest a est] da Atene a Damasco fino a Baghdad, ora continua il suo moto [da est a ovest] da Baghdad a Toledo e poi [da sud a nord] da Toledo a Parigi [nell’XI secolo, e di questo avvenimento ce ne occuperemo a suo tempo], ma ora, con Giovanni Scoto Eriùgena, siamo arrivati a Toledo. La bella città di Toledo, sulle rive del Tago, con l’apertura della “Casa della saggezza” diventa il più importante laboratorio di integrazione politica, economica e culturale della parte occidentale dell’Ecumene.
Toledo è stata dal 193 a.C. una città romana [Toletum] che, durante la crisi dell’Impero, viene occupata dai Visigoti nel 418, e nel 579 il re Leovigildo la proclama capitale del regno Visigoto e diventa un importante centro della cristianità dell’Alto-medioevo [a Toledo tra il V e l’VIII secolo si sono tenuti ben diciotto Concilî ecumenici] e ancora oggi l’Arcivescovo di Toledo è il primate di Spagna. Nel 711 Toledo viene conquistata dagli Arabi guidati dal condottiero Tarik, e il califfato arabo di Toledo dura fino al 1085 quando la città viene conquistata dal re di Castiglia Alfonso V.
Uno degli elementi virtuosi del governo arabo è stato quello di favorire l’integrazione tra islamici, ebrei e cristiani per utilizzarne le specifiche competenze: mercantili, finanziarie e agricolo-artigianali. Questa integrazione collaborativa ha reso il territorio del sud della penisola Iberica [l’Andalusia e la Castiglia], tra il 1000 e il 1500, la regione più ricca e più culturalmente avanzata d’Europa. Il prodotto dell’integrazione tra il pensiero mussulmano, ebraico e cristiano si chiama “cultura mudejiar” e gli oggetti artistici e architettonici di questo stile [che oggi sono quelli più in vista] li possiamo incontrare visitando le città di Toledo, di Cordova, di Granata.
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Fate una breve visita a queste città [Toledo, Cordova, Granada] utilizzando l’enciclopedia, la guida della Spagna e navigando in rete…
Quindi, a Toledo, in territorio iberico amministrato dagli Arabi, dalla fine del IX secolo, si riuniscono nella “Casa della saggezza” intellettuali arabi, ebrei, cristiani e laici per tenere convegni di studio e sul tavolo ci sono, apparecchiati, i testi delle Opere [Dialoghi, Fisica, Metafisica] di Platone e di Aristotele. Questi intellettuali di diversa provenienza, riuniti insieme, in primo luogo si domandano: che cosa unisce oggi le nostre culture? La risposta che si danno è esemplare: le parole-chiave e le idee-cardine del pensiero di Platone e di Aristotele possono essere un punto d’unione per i popoli europei e per i popoli che si affacciano sul bacino del Mediterraneo, e questa risposta diventa il programma di una Scuola.
La Scuola di Toledo, della quale noi possediamo poche notizie perché la sua attività procede sotto traccia, ha creato un movimento intellettuale che ha dato i suoi frutti nei secoli a venire: i secoli che, cronologicamente, appartengono al viaggio che intraprenderemo dall’autunno prossimo, nel cuore del Medioevo.
Tra gli intellettuali coinvolti nella significativa esperienza di studio delle Opere di Platone e di Aristotele – riportate in territorio occidentale dagli Arabi e pronte per essere nuovamente tradotte in greco e in latino – c’è anche un personaggio che questa sera vogliamo incontrare perché fa da battistrada ai nostri futuri itinerari: questo personaggio si chiama Gerberto d’Aurillac [non è la prima volta che lo incontriamo nei nostri viaggi: siamo in movimento da più di trent’anni e di gente ne abbiamo incontrata!].
Aurillac è una cittadina francese dell’Alta Alvernia, è un centro agricolo [famoso per i formaggi] che si trova nei pressi dei monti del Cantal. Aurillac è attraversata dal fiume Jordanne e il punto migliore per osservare le sue antiche e pittoresche case è proprio il pont Rouge [il ponte Rosso] che collega le due sponde del fiume Jordanne nei pressi del quale c’è una bella statua, opera dello scultore David d’Angers, che raffigura proprio Gerberto d’Aurillac.
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Fate una visita ad Aurillac con la guida della Francia, e navigando in rete…
Chi è Gerberto d’Aurillac per meritare una statua nel punto più significativo della cittadina dove è nato intorno al 938 [abbiamo di nuovo alzato lo sguardo al di là del punto del nostro arrivo]?
Gerberto d’Aurillac è una figura molto importante perché il 2 aprile dell’anno 999 è stato eletto papa: ha preso il nome di Silvestro II, ed è stato il pontefice che ha traghettato la Chiesa dal primo al secondo millennio. Gerberto d’Aurillac appartiene all’ordine benedettino ed è stato un eccellente studioso [è fiorita tutta una tradizione leggendaria intorno alla sua enorme cultura] e ha frequentato le Scuole arabe di Cordoba e soprattutto è stato un assiduo frequentatore [un animatore] dei convegni organizzati dalla Scuola di Toledo. Durante il suo pontificato – in base al programma platonico-aristotelico della Scuola di Toledo formulato in comunione intellettuale con il mondo ebraico e il mondo mussulmano [altro che fine del mondo!] – Silvestro II, insieme all’imperatore Ottone III di cui è amico e consigliere, prepara un piano di rinnovamento [la “renovatio imperii”], un progetto economico, sociale e soprattutto culturale per migliorare le condizioni di vita delle persone suddite del Sacro Romano Impero. Purtroppo Ottone III nell’anno 1002 muore e l’anno seguente, dopo un breve pontificato [999-1003] anche Silvestro II muore, e i successori non sono in grado di portare avanti questo progetto di riforma religiosa, politica e culturale che avrebbe potuto modificare il volto dell’Europa.
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Che cosa avete rinnovato ultimamente nella vostra vita [qualcosa che riguarda il vestiario, l’arredamento, la dieta, le abitudini, gli interessi, le frequentazioni, le scelte politiche o che cosa]?...
Scrivete quattro righe in proposito...
Con la Scuola di Toledo comincia una lenta ma inesorabile divulgazione delle Opere di Platone e di Aristotele in Occidente. Le Opere di Platone e di Aristotele permettono negli anni a venire ad Averroè, ad Abelardo ed Eloisa, ad Alberto Magno, a Tommaso d’Aquino [tanto per fare alcuni nomi] di costruire i loro sistemi di pensiero [che studieremo dal prossimo autunno]. Dobbiamo dire che questi personaggi che abbiamo citato, per l’uso che hanno fatto soprattutto delle Opere di Aristotele, hanno vissuto molto pericolosamente, rischiando la galera, mettendo a repentaglio la propria vita: hanno, tuttavia, costruito un cammino che ha portato il Pensiero verso l’Età moderna. Perché mai: che cosa c’è di così “pericoloso” nelle Opere di Aristotele da mettere a repentaglio la vita di chi le studia? Ebbene [riflettiamo in senso interlocutorio], anche il prossimo viaggio che faremo si basa su un interessante “paradosso” e i “paradossi [nel senso della potenza dialettica che hanno le contraddizioni, le aporie]” sono utili alla riflessione, sono funzionali all’investimento in intelligenza.
Aristotele [interpretato in chiave platonica] diventa il grande protagonista della Scolastica medioevale: un movimento intellettuale che àncora la sua ricerca filosofica sull’elemento religioso, e su Dio: nel Medioevo, Dio è “vivo e crea il mondo”, l’arte è “sacra”, la Letteratura parla di “inferno, purgatorio, paradiso” e persino la donna è una “figura angelicata”, per cui se togliessimo la parola “Dio” dal mondo medioevale non capiremmo nulla di quel mondo. Dove sta il paradosso? Il paradosso sta nel fatto che per costruire una “teologia efficace” gli Scolastici [che vorrebbero credere da cristiani maturi a ragion veduta] rincorrono Aristotele che in modo “non religioso” ipotizza sul piano teoretico [con una riflessione razionale assolutamente laica] l’esistenza di un “Principio supremo” a cui tendono tutte le cose che: «se fossimo religiosi – afferma Aristotele – potremmo chiamare Dio», ma Aristotele ironizza sull’esistenza di Dio; eppure, la ricerca teologica prende il via, e la teologia comincia ad affermarsi come disciplina, sulle affermazioni principali del sistema aristotelico, libere da pregiudizi religiosi [mitici].
Come mai avviene questo? Quali sono i meccanismi che – in Età medioevale –fanno di Aristotele il fondatore della nuova teologia cristiana, e anche islamica e anche ebraica? È chiaro che non si può rispondere con una battuta a queste belle domande: lo faremo, strada facendo, nel corso del prossimo Percorso.
Tanto per cominciare [ma, ora, per concludere] andiamo ad indagare dove sta la “pericolosità” di Aristotele e, a questo proposito, leggiamo un significativo frammento dal Libro XII della Metafisica di Aristotele che rende, contemporaneamente, il filosofo greco un “demonio” per gli antidialettici cristiani [e islamici] e un “compagno di strada” per gli intellettuali [dialettici] del movimento della Scolastica.
LEGERE MULTUM….
Aristotele, Metafisica (Libro XII)
Noi possiamo pensare che esista un Principio supremo e che da un tale principio dipendano il cielo e la natura.
Possiamo pensare che il suo modo di vivere sia il più eccellente, che l’Atto del suo vivere sia un piacere: un modo di vivere che a noi è concesso solo per breve tempo, anche per noi la veglia, le sensazioni e la conoscenza sono in sommo grado piacevoli, proprio perché sono in Atto, e, in virtù di questi elementi, possiamo coltivare anche le speranze e i ricordi.
Se, dunque, in questa felice condizione, in cui noi ci troviamo talvolta, il Principio supremo si trova perennemente la sua sarebbe un’esistenza meravigliosa e noi possiamo pensare che Egli sia la vita, perché l’attività dell’Intelligenza è vita, ed Egli sarebbe appunto quest’attività, un’attività ottima ed eterna che sussisterebbe di per sé.
E possiamo, dunque, affermare che questo Principio supremo, vivente ottimo eterno, che disegniamo con l’Intelletto, se fossimo religiosi, potremmo consideralo come un Dio. …
Aristotele, nel testo della Metafisica [come ristudieremo a suo tempo] continua la sua riflessione affermando che se Dio fosse l’Atto puro [l’anello iniziale del sistema dialettico aristotelico] non avrebbe più nulla da attuare e, quindi [afferma Aristotele], per mettere in moto e per creare l’Universo non è necessario un Dio ma basta un Atto, e poi, afferma Aristotele, se Dio fosse Pensiero [il Logos], quando pensa, penserebbe solo valori assoluti, e non potrebbe che contemplare se stesso, sarebbe Pensiero del suo Pensiero, sarebbe un Intelletto che pensa solo se stesso e non potrebbe essere, quindi, né “creatore” né “provvidenza” perché [afferma Aristotele] non guarderebbe mai verso il basso e, se lo facesse, non sarebbe più un Dio, di conseguenza, se un Dio c’è, afferma Aristotele, non è né creatore, né provvidente.
Quindi voi capite le difficoltà che gli intellettuali e le intellettuali [c’è Abelardo ma c’è anche Eloisa] del movimento della Scolastica hanno avuto nel far digerire il “pensiero” di Aristotele agli apparati di potere che preferiscono la definizione mitica piuttosto che la riflessione teoretica. L’immagine del presunto Dio di Aristotele risulta “blasfema” in rapporto ai testi della Letteratura dei Vangeli dai quali emerge un Dio che è soprattutto “provvidenziale” perché “creatore”, dispensatore di karis [di grazia] e istitutore di agape [di amore solidale]. In che modo il movimento della Scolastica si accosta alle Opere di Aristotele, come affrontano i “dialettici che considerano Aristotele un loro compagno di strada” queste contraddizioni [queste aporie]? Ma ora dobbiamo porre ancora il nostro sguardo sul punto d’arrivo di questo viaggio che si conclude.
Per portare avanti un progetto di rinnovamento [la “renovatio”, e noi sappiamo quanto ne avremmo bisogno oggi!] in Età alto-medioevale bisognava avere dell’ardimento intellettuale e non era da tutti: le Opere di Platone e soprattutto quelle di Aristotele viaggiano clandestinamente nel bacino del Mediterraneo e a Toledo vengono raccolte, studiate, commentate in modo ecumenico: è stata un’operazione culturale straordinaria. Se Silvestro II [Gerberto d’Aurillac] avesse detto pubblicamente di avere studiato e riflettuto insieme agli Ebrei e agli Arabi sui testi delle Opere di Platone e di Aristotele per costruire una piattaforma di “valori comuni” sulla quale costruire la convivenza pacifica, gli scambi commerciali e culturali e la tolleranza religiosa sarebbero nati molti incidenti diplomatici in questo momento storico in cui gli apparati di potere sono nemici tra loro: è questo il tempo in cui ha inizio il fenomeno delle Crociate con tutto ciò che di negativo comporta. I governi dei vari Stati si fanno la guerra ma, per fortuna, piccoli gruppi d’intellettuali di culture diverse s’incontrano, attraversando clandestinamente le frontiere, e comunicano tra loro ravvivando lo spirito utopico che lo “studio” porta con sé, scoprendo che la Storia del Pensiero Umano ha una base comune e molte sono le “cose che uniscono”, molte di più di “quelle che dividono”.
Ed è con lo spirito utopico che lo “studio” porta con sé che dobbiamo ripartire ad ottobre per un nuovo viaggio sulla scia dell’Alfabetizzazione funzionale e culturale perché non dobbiamo mai perdere la volontà d’imparare.
Scrive, nel I secolo, Plutarco di Cheronea negli Opuscoli morali: «Insegnare non è riempire un vaso ma è accendere un fuoco» e, quindi [io spero], ci dobbiamo augurare che almeno un focherello, in quello straordinario braciere che è l’intelletto di ciascuna e di ciascuno di noi, si sia acceso per dare luce alla nostra volontà di imparare ad imparare.
Buona vacanza di studio a tutte e a tutti voi…