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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ UMANISTICA POSSIAMO LEGGERE IL “LIBRO DELL’AMICO E L’AMATO” ..

Lezione N.: 
15

Prof. Giuseppe Nibbi   La sapienza poetica e filosofica dell’età umanistica  10-11-12  febbraio  2016

Stefan Zweig

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ UMANISTICA

POSSIAMO LEGGERE IL “LIBRO DELL’AMICO E L’AMATO”    ...

   Questo è il quindicesimo itinerario del nostro viaggio di studio sul “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età umanistica” [è iniziata la Quaresima] e siamo ancora in compagnia di Raimondo Lullo del quale la scorsa settimana abbiamo conosciuto la “Grande Arte” che consiste nel progetto di costruzione di una “logica universale”, di “un’Arte del ragionamento” che si possa applicare ad ogni forma del sapere, ad ogni segmento dello scibile umano: e questo è un pensiero, è un’intenzione, è un disegno già di carattere rinascimentale.

   A questo scopo Raimondo Lullo costruisce la [cosiddetta] “Macchina del sillogismo [del ragionamento]”  o “Arbor scientiae [l’Albero della scienza]” che risulta essere una grande “Tavole delle idee [formata da 18 principi generali, ognuno dei quali contiene 9 idee particolari per un totale di 180 termini-chiave]”: questa “macchina”, nella quale ogni termine è stato trasformato da Lullo in una formula algebrica, deve risolvere tutti i problemi e creare nuove idee, suscitare la nascita di “una nuova verità e una nuova morale universale” attraverso il gioco delle combinazioni, come se fosse una grande scacchiera sulla quale si gioca una partita a scacchi.

   Raimondo Lullo è un personaggio veramente eclettico [è già il prototipo dell’umanista]: è un poeta, un monaco, un eremita, un teologo, un filosofo, un matematico, uno scienziato, un instancabile viaggiatore, un intellettuale enciclopedico [autore di almeno 120 Opere documentate delle 250 che gli vengono attribuite], ed è un pioniere nel campo della contaminazione intellettuale che dà l’avvio ad una vera e propria “politica dell’ecumenismo”; ed essendo un profondo conoscitore delle tre grandi tradizioni monoteiste - l’ebraica, la cristiana e l’islamica, che hanno la figura di Abramo come capostipite - vuole favorirne l’unità perché queste culture hanno in comune i principi generali [e gli elementi di diversità non pregiudicano affatto il dialogo tra esse, anzi, lo arricchiscono]. Raimondo Lullo, contro i poteri forti che prosperano sulla divisione e sulla redditizia necessità di avere sempre un nemico da combattere, dimostra come sia possibile creare una nuova morale universale [un katolicos ethos] seguendo le regole della Ragione che sono universali.

   Come sappiamo, Raimondo Lullo espone il suo progetto al concilio di Vienne nel 1311, convocato da papa Clemente V, ma la sua dottrina suscita molta diffidenza e la sua proposta di superare l’idea che il mondo debba essere diviso in “fedeli ed infedeli” viene respinta con sdegno [Lullo mette anche in discussione, in termini esegetici, la natura del “primato di Pietro”, e questa è la goccia che fa traboccare il vaso, e di questo argomento ce ne occuperemo nel prossimo itinerario], ma il fatto è che Raimondo Lullo è già un umanista proiettato verso il Rinascimento e trova difficoltà a farsi capire.

   Di Raimondo Lullo noi dobbiamo prendere in considerazione ancora tre Libri [dei 120 che ha composto]: il primo s’intitola Libro dell’Amico e l’Amato che, a sua volta, è contenuto dentro ad un Libro più ampio, quindi, [come si suol dire] con una fava prendiamo due piccioni. Il Libro dell’Amico e l’Amato all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso è balzato in primo piano sulla scia della rinascita della cultura catalana: sapete che la regione spagnola [o per meglio dire “iberica”] della Catalogna ambisce a manifestare la propria autonomia culturale [e anche politica] a cominciare dalla lingua e, difatti, il Libro dell’Amico e l’Amato di Raimondo Lullo è stato scritto, nella sua prima versione, in catalano [il catalano è la lingua madre di Lullo, poi lui era solito fornire versioni delle sue opere in tutte le lingue che conosceva: in latino, in greco, in arabo, in ebraico].

   Il testo dell’opera di Raimondo Lullo intitolata Libro dell’Amico e l’Amato è un “cantico” in versi in cui l’autore si esprime secondo il genio poetico dei “trovatori” catalani che hanno fatto propria la tradizione lirica provenzale ed occitana: come i trovatori esprimono l’amore per la propria “donna amata” così Lullo esprime l’amore che intercorre tra l’anima della persona e Dio. Il filosofo, il teologo, il mistico e il poeta si fondono mirabilmente in quest’opera che Lullo ha composto per inserirla nella quinta parte del suo romanzo autobiografico e filosofico intitolato Blanquerna [Blancherna]. Raimondo Lullo si identifica con il protagonista, Blanquerna [Blancherna], di questo particolare romanzo utopistico, un personaggio che passa [come lui] attraverso varie fasi e condizioni di vita: prima è uomo di mondo e fidanzato [cavaliere, allevato da due genitori molto intelligenti, Evasto e Aloma, dei quali lo scrittore tesse l’elogio], poi diventa un religioso, quindi un vescovo, e infine papa che abdica per concludere la sua vita da eremita, e questa idea provocatoria è stata molto probabilmente ispirata a Lullo [tra il 1295 e il 1296] dal “gran rifiuto” di Celestino V che ha avuto un impatto sulle coscienze cristiane più attente.

   Questo espediente narrativo [il programma di papa Blancherna di cui fa parte anche il testo del Libro dell’Amico e l’Amato] Lullo lo utilizza al fine di suggerire riforme di ogni condizione di vita, secolare e religiosa, quanto del potere civile tanto della gerarchia ecclesiastica [Lullo è indignato per la corruzione che investe tutti settori della società].

   Il romanzo intitolato Blanquerna [Blancherna] ha un notevole valore psicologico e porta emozioni nuove nella tradizionale cultura medioevale ed è per questo che ha avuto un grande successo: è uno dei testi che è circolato di più, durante l’autunno del Medioevo e poi in Età moderna [un testo molto gradito a Miguel de Cervantes], tradotto dallo stesso Lullo dal catalano in latino, in ebraico e in arabo.

   Il personaggio di Blancherna incarna i tre grandi propositi di Raimondo Lullo: il primo proposito è quello di organizzare la Chiesa in tutte le sue categorie secondo i criteri evangelici, il secondo proposito è quello di promuovere la sua idea “di una logica e di una morale universale” per cui non esistono “gli infedeli” ma “persone amate in eguale misura dall’unico Dio”, il terzo proposito è quello di dedicarsi totalmente alla contemplazione di Dio che è Amante, Amato e Amico di tutti, ed è sulla scia di questo proposito che la quinta parte del romanzo intitolato Blanquerna [Blancherna] contiene il Libro dell’Amico e l’Amato.

   Quando Blancherna, scrive Lullo, decide di dimettersi da papa per diventare eremita, un monaco, giunto a Roma, gli chiede di scrivere un Libro “per mantenere la contemplazione e la devozione degli eremiti” e Blancherna esaudisce la sua richiesta mettendo in primo piano due significative parole-chiave: amico e amato.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Avete avuto o avete tuttora un’amica e un amico del cuore?…

Scrivete quattro righe in proposito…

   Il Libro dell’Amico e l’Amato è diviso in 366 frammenti poetici [brevi composizioni in versi], quanti sono i giorni dell’anno, in modo che la lettrice e il lettore possa quotidianamente meditare su uno di questi pensieri secondo una consuetudine che, dall’Età assiale della Storia [da 2500 anni fa], investe tutte le grandi culture del pianeta, delle quali in questi anni abbiamo avuto occasione di studiare il pensiero: l’orfico-dionisiaca, l’assiro-babilonese, l’egizia, l’iranico-zaratustriana, l’ebraica, l’indiana, la cinese. L’operazione di Raimondo Lullo è interessante, in primo luogo, perché - sebbene il suo testo sia centrato, nel suo complesso, sulla figura di Gesù Cristo [Amante, Amato, Amico] e sull’avvenimento determinante della sua passione, morte e resurrezione - tuttavia vuole includere più tradizioni di pensiero possibile nella sua esperienza mistica tanto da cercare di comporre una sorta di “catechismo universale”.

   Nel suo complesso il Libro dell’Amico e l’Amato esprime le gioie, le soavi comunicazioni e la fusione dell’anima con Dio nel corso dell’esercizio della contemplazione, un esercizio valido per ogni persona, ma Lullo tende anche ad applicare scientificamente le combinazioni prodotte dalla sua “macchina del sillogismo”, a cominciare da quella che ritiene la più importante sulla quale si regge tutto il suo “ragionamento poetico”.

   Raimondo Lullo [poeta e scienziato] nel comporre poeticamente il Libro dell’Amico e l’Amato vuole applicare scientificamente le combinazioni prodotte dalla sua “macchina del sillogismo” per definire una nuova idea di verità, un’inedita logica umana e un’inconsueta morale universale, e [il più eloquente sillogismo logico-morale] la più significativa combinazione sulla quale Lullo basa il suo “ragionamento poetico” [traducendo in versi delle formule algebriche] può essere definita in questi termini: l’Amico, sostiene Lullo, è l’anima della persona devota [è il devoto] e l’Amato è Dio, tuttavia non si deve dimenticare, afferma Lullo, che Dio è “l’Amante supremo” [e questa definizione è la sintesi degli attributi che la Ragione può assegnare a Dio] per cui la persona è anche l’essere Amato per eccellenza; di conseguenza, per antonomasia, anche Dio è l’Amico, ed è il principale Amico di tutti, per cui non è possibile, afferma Lullo, che esista una cultura, una religione che proclami un proprio Dio detentore di verità in competizione con un altro Dio falso e bugiardo. Dio, ribadisce Lullo, è l’Amante, l’Amato e l’Amico di tutti, e tutti quelli che si dedicano alla contemplazione sono uniti in un utopico “katolicos ethos”, uno stile di vita impregnato di una logica e di una morale universale.

   Raimondo Lullo riunisce le parole-chiave e le idee-cardine di questo nuovo assetto virtuoso di carattere planetario nel testo del Libro dell’Amico e l’Amato e «quando l’Amico domanda all’Amato se in lui rimaneva ancora qualcosa da amare, l’Amato risponde che tutto ciò che poteva moltiplicare l’amore dell’Amico rimaneva ancora da amare». Raimondo Lullo ci tiene a sottolineare che «in tutte le culture umane l’unione dell’anima con Dio è misteriosamente esaltata e descritta con acutezza come il luogo spirituale in cui si equilibrano tutti i contrasti, e la paura diventa audacia, l’abbandono unione, la perdita guadagno e la rassegnazione decisione» e, a questo proposito, Lullo cita espressamente, come rappresentativa, la corrente mistica dei Sufi mussulmani.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quale di questi contrasti - paura-audacia, abbandono-unione, perdita-guadagno, rassegnazione-decisione - volete scegliere per primo, e che cosa vi fa venire in mente il contrasto scelto?… 

Scrivete quattro righe in proposito…

   E ora leggiamo come Raimondo Lullo presenta il Libro dell’Amico e l’Amato, poi leggiamo il Prologo e venti Metafore morali, così le chiama Lullo. Non possiamo leggere tutte le 366 Metafore morali di quest’opera [c’è anche una dimensione ripetitiva in questi frammenti poetici], ne leggiamo quarantuno [venti adesso e ventuno tra poco] scelte in modo da mettere in evidenza tutti i principali temi e le parole-chiave più importanti che stanno a cuore all’autore.

LEGERE MULTUM….

Raimondo Lullo, Libro dell’Amico e l’Amato

COME BLANCHERNA EREMITA FECE IL LIBRO DELL’AMICO E L’AMATO

Avvenne un giorno che un monaco, trovandosi a Roma, andò a visitare la gente di clausura che viveva colà, e vide che per alcune cose avevano molte tentazioni perché non sapevano trovare il modo che più si conveniva alla loro vita. Decise dunque di andare a trovare l’eremita Blancherna perché scrivesse un Libro in proposito, con cui potesse mantenere la contemplazione e la devozione degli eremiti. E un giorno, mentre Blancherna stava pregando, il monaco venne alla sua cella e lo pregò di fare il Libro. Blancherna meditò a lungo su che argomento e in che modo avrebbe fatto il Libro. E mentre era assorto in questi pensieri la volontà lo mosse  profondamente a contemplare Dio affinché gli mostrasse nella preghiera il modo e l’argomento su cui fare il libro. Blancherna si sentì trasportato fuori di sé dal gran fervore e amore che sentiva, e capì che la forza dell’amore non segue una maniera determinata quando l’Amico ama molto il suo Amato. Per questo Blancherna decise di fare il Libro de l’Amico e l’Amato, in cui l’Amico è l’anima della persona devota, e l’Amato è Dio ma senza dimenticare che se anche Dio è l’Amante pure la persona è l’essere Amato e, per antonomasia, anche Dio è l’Amico.

Mentre così meditava, Blancherna si ricordò che una volta, essendo papa, un musulmano gli aveva detto che tra loro c’erano dei religiosi, alcuni dei quali, detti «sufis», erano tenuti in gran considerazione e con parole d’amore e brevi pensieri aiutavano ad essere più devoti; e quelle parole avevano bisogno d’essere spiegate affinché l’intelletto salisse in alto e quest’innalzarsi facesse più grande la devozione e infiammasse la volontà. Considerate queste cose, Blancherna si propose di fare il Libro in quel modo, e disse al monaco di ritornare a Roma poiché molto presto gli avrebbe mandato, tramite il diacono, il Libro con il quale avrebbe potuto far crescere il fervore e la devozione degli eremiti e infiammarli d’amore per Dio, Amante Amato Amico, com’era suo desiderio.

PROLOGO

Blancherna pregava e meditava il modo in cui contemplava Dio e le sue virtù; e quando finiva di pregare scriveva ciò in cui aveva contemplato Dio. E così faceva ogni giorno, dando alla sua preghiera motivi nuovi per poter scrivere il Libro de l’Amico e l’Amato in molte parti diverse e brevi, affinché in poco tempo l’anima ne potesse meditare molte.     E nella benedizione di Dio Blancherna cominciò il Libro e lo divise in tanti versetti quanti sono i giorni dell’anno. Ed ogni versetto è sufficiente per contemplare Dio un giorno intero, secondo L’Arte del Libro di contemplazione.

INIZIANO LE METAFORE MORALI

   L’Amico chiese al suo Amato se in lui c’era ancora qualcosa da amare; e l’Amato rispose che c’era ancora tutto ciò che poteva far più grande l’amore dell’Amico.

 

   Molti amatori si unirono per amare un Amato che li colmava d’amore. E il tesoro di ognuno era l’Amato e il dolce pensare a Lui, per cui pativano gioiose tribolazioni.

 

   L’Amato mise alla prova il suo Amico per vedere se l’amava totalmente; e gli chiese la differenza tra presenza e assenza dell’Amato.

Rispose l’Amico: - La stessa che c’è tra ignoranza e oblio, e conoscenza e ricordo.

 

   L’Amato chiese all’Amico: - Ricordi qualcosa con cui io ti abbia premiato per volermi amare?

Rispose: Sì, perché tra tribolazioni e gioie che tu mi dai non v’è per me differenza.

 

   L’Amico chiese all’intelletto e alla volontà chi dei due fosse più vicino al suo Amato. Corsero entrambi e l’intelletto giunse al suo Amato prima della volontà.

 

   Pensoso camminava l’Amico per le vie dell’Amato; e inciampò e cadde tra le spine, e gli parvero fiori e il suo letto, d’amore.

 

   Piangendo, l’Amico cantava il suo Amato, e diceva che è più pronto l’amore in cuore d’amatore che il bagliore del fulmine o il rumore del tuono; ed è più viva l’acqua del pianto che quella delle onde del mare; e il sospiro è più vicino all’amore che la neve al candore.

 

   L’Amico bussava alla porta del suo Amato con tocchi d’amore e speranza. L’Amato udiva i tocchi dell’Amico con umiltà, pietà, pazienza e carità. Divinità e umanità aprirono le porte, e l’Amico entrò a vedere il suo Amato.

 

   Solitudine voleva l’Amico, e se ne andò a vivere solo per stare in compagnia del suo Amato.

 

   Tutto solo stava l’Amico all’ombra di un bell’albero. Passarono di là delle persone e gli chiesero perché stesse solo. E l’Amico rispose che era stato solo quando le aveva viste e sentite, poiché prima era in compagnia del suo Amato.

 

   Prossimità e lontananza sono uguali tra l’Amico e l’Amato. Come l’acqua si confonde con il vino, così si fondono gli amori dell’Amico e dell’Amato; come la luce al calore, così sono legati i loro amori, che s’avvicinano e convergono come essere ed essenza.

 

   L’Amico disse al suo Amato: - In te è la mia guarigione e la mia pena. Dove più fortemente mi guarisci, là cresce di più la mia pena, e dove più mi ferisci maggior salute mi dai.

 

   L’Amico disse che l’Amato gli aveva preso la volontà e lui gli aveva dato l’intelletto; perciò gli era rimasta soltanto la memoria, con cui ricordava il suo Amato.

 

   L’Amato contò i pensieri, i desideri, i pianti, i pericoli e le tribolazioni che l’Amico aveva sopportato per amor suo. E vi aggiunse la beatitudine eterna.

 

   - Dimmi, Amico: Che cosa ti portò l’amore?

- Le belle fattezze e la bontà del mio Amato.

- Dove vennero?   - Nella memoria e nell’intelletto.

- Con che cosa le ricevesti?   - Con carità e speranza.

- Con che cosa le custodisci?   - Con giustizia, prudenza, fortezza e temperanza.

 

   Chiesero all’Amico dell’amore dell’Amato. Rispose che l’amore del suo Amato è comunicazione d’infinita bontà, eternità, potenza, sapienza, carità e perfezione; questo è ciò che l’Amato infonde nel suo Amico.

 

   L’Amico chiese al suo Amato che cosa fosse più grande: l’amore o l’amare. E l’Amato rispose che nella creatura l’amore è l’albero, l’amare è il frutto, e tribolazioni e desideri sono i fiori e le foglie; e in Dio l’amore e l’amare sono una sola cosa, senza tribolazioni né desideri.

 

   L’Amico andò in una terra straniera, dove pensava di trovare il suo Amato, e nel cammino l’assalirono due leoni. L’Amico ebbe paura di morire, giacché voleva vivere per servire il suo Amato; e a lui volse il ricordo perché l’amore fosse presente nel momento della morte, e con l’amore potesse sostenerla meglio. Mentre l’Amico ricordava l’Amato, i leoni gli s’avvicinarono mansueti, lambirono le lacrime che cadevano dai suoi occhi e gli baciarono le mani e i piedi. E l’Amico se ne andò tranquillo a cercare il suo Amato.

 

   Chiesero all’Amico che cos’era l’occasione, e disse: - Gioia nella penitenza, capacità d’intendere nella coscienza, speranza nella pazienza, salute nella temperanza, consolazione nel ricordo, amore nella perseveranza, lealtà nella modestia, ricchezza nella povertà, pace nella mitezza.

 

   L’amore illuminò la nube che s’era posta tra l’Amico e l’Amato; e la fece luminosa e risplendente come la luna di notte, la stella all’alba, il sole di giorno e l’intelletto nella volontà. E attraverso quella nube così luminosa si parlano l’Amico e l’Amato.  

   Lo stile di Raimondo Lullo è simile a quello della sapienza indiana dei Libri dei Veda, a quello della saggezza cinese della cultura delle Storie zen, a quello del lirismo buddista del Libro del Loto, a quello ironico del Libro ebraico del Talmud, ma soprattutto Lullo è venuto a contatto diretto con il sufismo islamico: una corrente della quale condivide la visione ecumenica.

   Raimondo Lullo condivide la visione ecumenica del sufismo che è un movimento islamico ad alta tensione mistica che si è sviluppato dall’VIII secolo partendo dall’area afgana: a Kabul si sviluppa la prima importante Scuola di sufismo, e il termine “sufi” deriva dalla parola araba “sūf” che è il pelo di cammello con il quale viene tessuto il bianco mantello che portano gli adepti di questa corrente.

   Raimondo Lullo conosce la spiritualità dei sufi nella penisola Iberica perché uno dei più grandi maestri del sufismo [un’autorità in campo mistico per le sue scelte, per il suo stile di vita e per la risonanza che hanno avuto le sue Opere] è Ibn ‘Arabi [1165-1241] che abbiamo incontrato alla fine di novembre.

   Ibn ‘Arabi è vissuto nella prima parte della sua vita in Andalusia [a Siviglia, a Cordova in amicizia con Averroè] e dopo la sua morte, avvenuta a Damasco, viene aperta dai suoi discepoli una Scuola di sufismo a Murcia, la sua città natale, che Raimondo Lullo ha frequentato traducendo in catalano e in latino le due più importanti Opere di Ibn ‘Arabi [Abenarabi de Murcia]: il Libro delle teofanie divine e il Libro delle gemme della sapienza, due trattati [dei quali abbiamo conosciuto il contenuto a fine novembre, durante l’ottavo itinerario] nei quali l’autore sviluppa l’idea della “unità dei saperi”, un concetto fondante del pensiero di Raimondo Lullo.

    I sufi vivono una vita eremitica, non strettamente legata alle regole della società islamica: sono alla ricerca di un’esperienza spirituale che li porti al di là della Legge promulgata da Maometto e dai suoi successori. I sufi vogliono superare la Legge, per entrare, come il Profeta, a contatto immediato con Dio, in comunione diretta con l’essenza di Dio. Se il Profeta, che è uomo come tutti gli altri [e lo ripete in continuazione nel Corano], è riuscito a entrare in contatto diretto con Dio, ci deve essere una via “mistica” per poter stare in comunione con la divinità.

   Per i sufi la strada per entrare in comunione con Dio è quella della riflessione, della meditazione, della contemplazione: un severo itinerario spirituale che insegna a eliminare il distacco che c’è tra il contingente e l’assoluto, tra il relativo e l’eterno, tra la creatura e il creatore, e gli strumenti di meditazione dei sufi sono soprattutto la musica, il canto, e la danza vorticosa roteando su se stessi fino allo stordimento.

   Gli slanci mistici e ascetici dei sufi che cercano una percezione diretta e inebriante dell’amore con cui Dio ama tutte le creature, i loro slanci mistici che considerano tutte le cose come luoghi della manifestazione di Dio, ebbene, questi atteggiamenti dei sufi sono poco tollerati dalla rigida e disciplinata società islamica, sono giudicati come sovversivi, come possessori di un’energia trasgressiva, di una forza destabilizzante e blasfema. E quindi, spesso, i sufi - quando dichiarano di sentirsi in comunicazione spirituale diretta con Dio - vengono condannati e subiscono il martirio, ed è in questo contesto che nasce la leggenda della lapidazione di Raimondo Lullo il quale sarebbe stato ucciso dagli arabi non perché “cristiano” ma in quanto eretico islamico, un seguace dei sufi considerati vicini al paganesimo.

   Il sufismo è particolarmente interessante per Raimondo Lullo perché è uno straordinario prodotto di contaminazione culturale: nasce dalla Letteratura del Corano [due anni fa abbiamo viaggiato sul territorio di questa Letteratura nata nell’Alto Medioevo] e noi sappiamo che il testo del Corano contiene un patrimonio di culture diverse, e il fatto che non sia un monolite sono proprio i sufi, per primi, a metterlo in evidenza.

   La riflessione dei sufi, che Raimondo Lullo segue con grande attenzione, fa emergere come il testo del Corano sia il risultato della convergenza di molteplici tradizioni, a cominciare da quella dei Libri del Pentateuco e del Profetismo biblico, e poi, come abbiamo studiato a suo tempo, sono alla radice della cultura dell’Islam il neoplatonismo greco, il monachesimo cristiano siriano, la religiosità della filosofia gnostica e poi la cultura di Zaratustra: tutto questo patrimonio fa del sufismo - che si tiene anche in stretto contatto con le tradizioni induiste e buddiste [in particolare con la scuola Yoga] - uno straordinario laboratorio di contaminazione culturale, e a contatto con i sufi Raimondo Lullo rafforza la propria idea di una logica e di una morale universale.

   I sufi pensano di poter superare “l’harf” [la lettura alla lettera del Corano], pensano di poter superare “l’ilm” [il potere della scienza] e anche “la ma’rifa” [la stessa esperienza mistica], e per “andare al di là” di questi elementi utilizzano come abbiamo detto la musica, il canto, e la danza vorticosa.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

I sufi utilizzano la danza vorticosa per poter entrare in un mondo che sta al di là di quello reale, ma la danza, il ballo, è anche un fenomeno di comunicazione per stare in contatto con l’al di qua: qual è il vostro rapporto con la danza, con il ballo?… 

Scrivete quattro righe in proposito…

   E ora leggiamo altre ventuno Metafore morali sulle quali puntiamo l’attenzione.

LEGERE MULTUM….

Raimondo Lullo, Libro dell’Amico e l’Amato

PROSEGUONO LE METAFORE MORALI

   Con penna d’amore, acqua di pianti e carta di passione, l’Amico scrisse una lettera al suo Amato.

 

   L’Amico era steso su un letto d’amore; di gioie era il lenzuolo, la coperta di desideri e il cuscino di pianti. E la domanda è se la stoffa del cuscino era quella del lenzuolo o quella della coperta.

 

   Nei segreti dell’Amico si rivelano i segreti dell’Amato, e nei segreti dell’Amato si rivelano i segreti dell’Amico. E la domanda è: quali dei due sono maggior occasione di rivelazione?

 

   Per l’amore particolare che aveva per l’Amato, l’Amico amava il bene comune al di sopra del bene particolare, perché il suo Amato da tutti fosse amato, conosciuto, lodato e desiderato.

 

   L’Amico amava tanto il suo Amato che voleva capire tutto ciò che gli sentiva dire, per «ragioni necessarie». E perciò l’amore dell’Amico stava tra fede e intelligenza.

 

   Colpe e meriti si combattevano nella coscienza e nella volontà dell’Amico. Giustizia e memoria facevano più forte la coscienza; misericordia e speranza facevano più grande la gioia nella volontà dell’Amato. E perciò, nella penitenza dell’Amico, i meriti vincevano le colpe.

   L’Amico affermava che nel suo Amato vi era ogni perfezione, e negava che vi fosse imperfezione alcuna. E dunque la domanda è: che cos’è più grande, l’affermazione o la negazione?

 

   L’Amico lodava il suo Amato, e diceva ch’egli era al di là del «dove», poiché egli è là dove non giunge il «dove». E perciò quando chiesero all’Amico dov’era il suo Amato, rispose: - È.   Ma non sapeva dove; se non nella sua memoria.

 

   L’Amico diceva che la scienza infusa proviene da volontà, fedeltà e preghiera, e la scienza acquisita proviene da intelligenza e studio. E perciò la domanda è: quale delle due possiede prima l’Amico, quale gli è più cara e quale in lui è più grande?

 

   L’Amato seminò semi diversi nel cuore del suo Amico e ne nacque, crebbe e fiorì un frutto solo. E la domanda è: da quel frutto possono nascere semi diversi?

 

   Al disopra dell’amore, molto più in alto, sta l’Amato, e al disotto dell’amore, molto più in basso, sta l’Amico. E l’amore, che sta nel mezzo, fa scendere l’Amato verso l’Amico e fa salire l’Amico verso l’Amato. E dal discendere e salire nasce e vive l’amore.

 

   L’Amico vedeva nell’uno e nel tre maggior concordanza che in qualunque altro numero, poiché ogni forma corporea dal non-essere veniva all’essere attraverso questi numeri. Perciò l’Amico contemplava l’unità e la trinità del suo Amato nella perfetta concordanza dei numeri.

 

   L’amore mise a prova la sapienza dell’Amico, e gli chiese se l’Amato l’aveva amato di più nel prendere la sua natura o nel redimerlo. L’Amico restò confuso, e infine rispose che la redenzione era necessaria per sconfiggere la sofferenza e l’incarnazione per portare la gioia. E da questa risposta nacque un’altra domanda: quale amore era stato più grande?

 

   L’Amico chiedeva l’elemosina di porta in porta, per ricordare l’amore del suo Amato per i suoi servi, e per praticare l’umiltà, la povertà e la pazienza, che sono molto care al suo Amato.

 

   Chiesero all’Amico se voleva vendere la sua volontà; e rispose che l’aveva venduta al suo Amato, a un prezzo così grande che si sarebbe potuto comprare il mondo intero.

 

   Chiesero all’Amico che cosa fosse più grande: la possibilità o l’impossibilità. Rispose che la possibilità era più grande nella creatura, e l’impossibilità nel suo Amato; giacché possibilità concorda con potenza, e impossibilità con atto.

 

   - Dimmi, Amico: hai visto un pazzo?  Rispose d’aver visto un vescovo che in tavola aveva molte coppe, tazze e piatti d’argento, in camera sua molti abiti e un gran letto, e nel forziere molto denaro; e alla porta del suo palazzo pochi poveri.

 

   - Amico, dimmi: che cos’è l’amore?

Rispose: l’amore è ciò che fa prigionieri coloro che sono liberi e che agli schiavi dà libertà. E la domanda è: a che cosa è più vicino l’amore, alla libertà o alla prigionia?

 

   Per le strade dell’esistenza, del sentimento, dell’immaginazione, dell’intelletto e della volontà, l’Amico andò a cercare il suo Amato. E su quelle strade l’Amico patì pericoli e pene per l’Amato, perché la sua mente e la sua volontà salissero verso il suo Amato, che vuole che i suoi amatori lo comprendano e l’amino profondamente.

 

   L’Amico ricevette l’essere dalla perfezione del suo Amato, e il non-essere dalle proprie colpe. E la domanda è: dei due movimenti, quale prevale, per natura, nell’Amico?

 

   La memoria, l’intelletto e la volontà legano gli amori dell’Amico e l’Amato, perché l’Amico e l’Amato non debbano separarsi quando l’Amante chiede all’Amato: «Mi ami tu?» .

   Certamente quest’ultimo frammento poetico che abbiamo letto dal Libro dell’Amico e l’Amato di Raimondo Lullo - La memoria, l’intelletto e la volontà legano gli amori dell’Amico e l’Amato, perché l’Amico e l’Amato non debbano separarsi quando l’Amante chiede all’Amato: «Mi ami tu?» - è quello che ha fatto più discutere le studiose e gli studiosi i quali, però, concordano, tutte e tutti, su due importanti motivi [sul tema filologico delle parole-chiave e sul tema esegetico della citazione].

   Il primo motivo di discussione, su cui però tutte le studiose e gli studiosi concordano, riguarda l’importanza che hanno le tre parole-chiave che compaiono in questo frammento - la memoria, l’intelletto e la volontà - che traspaiono in filigrana nel testo di tutto il Libro dell’Amico e l’Amato ma che sono in evidenza anche nel testo di un’altra opera di Lullo, il terzo Libro di Raimondo Lullo di cui questa sera, tra poco, ci dobbiamo occupare.

   Mentre il secondo motivo di discussione sull’ultimo frammento poetico che [poco fa] abbiamo letto dal Libro dell’Amico e l’Amato sul quale, anche in questo caso tutte le studiose e gli studiosi concordano, riguarda la citazione dal capitolo 21 versetto 16 del Vangelo secondo Giovanni - «Simone di Giovanni, mi ami tu?» [chiede Gesù - Amico, Amato, Amante - a Pietro] - e questa citazione rimanda provocatoriamente alla posizione critica che ha Raimondo Lullo nei confronti dell’istituzione del papato che, secondo il suo pensiero, andrebbe profondamente riformata in senso evangelico [e la discussione, non indolore, è ancora in corso a tutt’oggi …]. Ma procediamo con ordine analizzando il primo motivo [il secondo motivo lo analizzeremo nell’itinerario della prossima settimana, perché sapete bene che quando compare sulla nostra strada il testo del Vangelo secondo Giovanni bisogna sempre predisporsi a riflettere con la dovuta attenzione]. Ebbene, l’analisi del primo motivo, che stiamo per fare [l’analisi sul tema filologico delle parole-chiave], è anche foriera di novità in relazione alla didattica della lettura e della scrittura e, a questo proposito, stiamo per incontrare un personaggio con il quale abbiamo appuntamento [un appuntamento preso nel dicembre dell’anno 2012], ma affrettiamoci lentamente.

   Raimondo Lullo nel testo del Libro dell’Amico e l’Amato vuole mettere in evidenza tre parole-chiave - la memoria, l’intelletto e la volontà - che contengono tre elementi cardine della “essenza umana” perché nel momento in cui perdiamo o la volontà o l’intelletto o la memoria ci sfugge anche una delle funzioni fondamentali, una delle attività che fa di noi un “essere umano nella pienezza delle proprie facoltà”. La memoria, l’intelletto e la volontà sono, secondo Raimondo Lullo, i tre pilastri dalla valenza universale su cui poggia tutta la Storia del Pensiero Umano e la presa di coscienza di questo fatto, che emerge nel Libro dell’Amico e l’Amato, ci fa capire che, sulla scia di queste parole significative, stiamo ormai per mettere piede nel territorio dell’Umanesimo propriamente detto [cosiddetto “filologico”]. Ma, in questo momento, le tre parole in questione [memoria, intelletto e volontà] diventano per noi il caposaldo di un intreccio filologico che dobbiamo dipanare perché come abbiamo detto all’inizio di questo itinerario di Raimondo Lullo noi, questa sera, dobbiamo ancora prendere in considerazione tre Libri [dei 120 che ha composto], il primo s’intitola Libro dell’Amico e l’Amato che, a sua volta, è stato collocato dall’autore nella quinta parte del suo romanzo autobiografico e filosofico intitolato Blanquerna [Blancherna], e della forma e del contenuto di questi due Libri ne siamo venute e venuti a conoscenza, manca, a questo punto, il terzo Libro di cui ci dobbiamo occupare.

   La terza opera di Raimondo Lullo di cui ci dobbiamo occupare s’intitola Libro degli scacchi nel cui testo l’autore ci mette al corrente che “gli scacchi” sono un gioco da tavolo di strategia che vede opposti due avversari, detti Bianco e Nero dal colore dei pezzi che muovono. Il termine, ci informa Lullo, deriva dall’occitano “escac” che proviene a sua volta, puntualizza Lullo, dal persiano “Shah” [il Re], termine che è passato attraverso un adattamento arabo diventando “eš-šāq”.

   Gli scacchi, ci informa Lullo, si giocano su una tavola quadrata detta scacchiera [una sorta di “macchina del sillogismo”], composta da 64 case di due colori alternati e contrastanti, sulla quale all’inizio si trovano trentadue pezzi, sedici per ciascun colore: un re, una donna [detta anche regina], due alfieri, due cavalli, due torri e otto pedoni. L’obiettivo del gioco, ci informa Lullo, è dare “scacco matto”, ovvero attaccare il re avversario senza che esso abbia la possibilità di sfuggire.

   Infine Lullo, nel suo breve trattato, informa la lettrice e il lettore che il gioco degli scacchi ha avuto origine in India attorno al VI secolo ed è giunto in Europa attorno all’anno Mille grazie alla mediazione degli Arabi [insieme alle Opere di Platone e di Aristotele] e si è diffuso nell’intero continente e poi Raimondo Lullo termina il suo scritto dicendo che la giocatrice e il giocatore di scacchi ha la possibilità, praticando questo gioco, di rafforzare la propria volontà, di rinvigorire il proprio intelletto e di consolidare la propria memoria.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quale di queste tre funzioni preferite mettere per prima: la volontà [perché c’è una cosa che vi sembra giusto imporre?], l’intelletto [perché c’è una materia di cui volete approfondire la conoscenza?] o la memoria [perché c’è una bella cosa che non volete dimenticare?]… 

Scrivete quattro righe in proposito per rafforzare la volontà, rinvigorire l’intelletto e consolidare la memoria…        

   E ora continuiamo a dipanare l’intreccio filologico di cui Raimondo Lullo sta tessendo le fila, perché c’è uno scrittore che ha già fatto questo compito a voi assegnato, e lo ha svolto a regola d’arte: si chiama Stefan Zweig e, anche lui, è una nostra vecchia conoscenza [l’ultima volta lo abbiamo incontrato a dicembre dell’anno 2012]. Questo scrittore è riconosciuto in modo unanime come un classico della Storia della Letteratura mitteleuropea del Novecento anche se per un lungo periodo di tempo gli editori italiani sono stati latitanti nei suoi confronti, e ora, dopo anni di richieste, le Opere di Stefan Zweig sono tornate [a settantatre anni dalla morte] disponibili, in nuove traduzioni, nella nostra lingua. Chi è Stefan Zweig?

   Stefan Zweig è un tipico intellettuale viennese dei primi decenni del Novecento che si presenta come un grande umanista di impronta classica. Stefan Zweig è nato a Vienna il 28 novembre 1881 in una famiglia agiata di origine ebraica [anche lui appartiene alla grande comunità intellettuale della diaspora ebraica mitteleuropea]. A Vienna si diploma e inizia gli studi universitari di filosofia che completa a Berlino nel 1904. Stefan Zweig, come tutti i giovani intellettuali della sua generazione, si occupa - in prospettiva storica - di problemi politici e sociali oltre che dedicarsi con impegno alla scrittura, e si sente portato soprattutto per la composizione di biografie [le vite di persone illustri, secondo il modello delle Letterature greca e latina] e le biografie di Stefan Zweig sono Opere di straordinario interessante [tutte in via di ripubblicazione] per il modo in cui presenta i personaggi di cui racconta la vita: sono molti e ora non possiamo ricordarli tutti [non vi sarà difficile, in biblioteca e utilizzando la rete, inventariarli]; diciamo che la sua attività di biografo viene universalmente riconosciuta quando scrive la storia del grande navigatore portoghese, al servizio del re di Spagna, Ferdinando Magellano [si occupa poi anche di Amerigo Vespucci e di Cristoforo Colombo].

   L’opera intitolata Magellano di Stefan Zweig [che sarebbe piaciuta molto a Raimondo Lullo] inizia con l’antico motto dei naviganti di ogni tempo che dice: «Navigare necesse, vivere non est necesse» [Navigare è necessario, vivere non è necessario], un ammonimento che accompagna la straordinaria impresa di Ferdinando Magellano, la prima circumnavigazione del globo terrestre [1519-1522], un’impresa compiuta anche per sfatare una serie di superstizioni che si erano annidate soprattutto nella mente di sovrani e di ecclesiastici [si pensava e si scriveva che ai tropici il calore del sole facesse incendiare le tavole e le vele, come se quello fosse il territorio di Satana nel quale i cristiani non sarebbero dovuti penetrare].

   Stefan Zweig, tra la fine della prima guerra mondiale , nel 1918, fino agli anni ’30, è stato un grande scrittore di successo, è stato tra gli autori europei più letti e ammirati e le sue Opere sono state tradotte in molte lingue: ha scritto, oltre alle numerose biografie, molte novelle, poesie, drammi, saggi, romanzi-brevi e un’autobiografia completata nel 1941, un anno prima di darsi la morte insieme alla sua giovane moglie Lotte Altmann con la quale si era rifugiato in Brasile per sfuggire alle persecuzioni naziste. Oggi Stefan Zweig è considerato un classico della cultura mitteleuropea e la sua Opera è ritenuta fondamentale per capire le tragedie del Novecento, del cosiddetto “secolo breve”.

   Stefan Zweig ha anche viaggiato molto nell’Europa del primo ‘900 che, pur essendo attraversata da tensioni belliche, mostrava di tendere, nella cultura e nell’arte, ad una spiritualità superiore che potesse andare oltre i confini delle nazioni e dei popoli [un’idea che Raimondo Lullo condivide pienamente]. Questi viaggi permettono a Zweig di conoscere i maggiori autori dell’epoca e le più importanti espressioni artistiche, e queste esperienze gli permettono di maturare una sensibilità che lo fa sentire partecipe di un’anima mitteleuropea e di un’idealità che sta oltre i singoli particolarismi che portano con loro il marchio dell’imperialismo.

   Stefan Zweig si toglie la vita [come Seneca] a Petrópolis vicino a Rio de Janeiro il 22 febbraio del 1942 per non rinunciare ad un’idea: per non assistere, a causa della dittatura, alla fine di un mondo, di un’epoca, di una cultura, di un’arte, di una vita che erano state la migliore espressione dell’Europa e soprattutto di Vienna.

   Zweig crede che solo la pace, solo l’Umanesimo possano animare la vita delle persone e delle Nazioni, ed è fermamente legato all’idea di un’Europa multietnica e multiculturale - com’era quella della Belle Époque, pur con tutti i suoi limiti - nella quale i diversi popoli sapevano mostrare i loro tratti comuni [un katolicos ethos, direbbe Lullo] piuttosto che le loro differenze, e invece vede insorgere prepotentemente la dittatura nazista con le leggi razziali, con le persecuzioni, con le invasioni e deve, quindi, rinunciare alle sue aspirazioni e convincersi che un’epoca è finita ed è anche per questo motivo che decide di far coincidere questa fine con quella della sua vita.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Le opere di Stefan Zweig dal 2004 – dopo anni di oblio in Italia – sono tutte in corso di pubblicazione, citiamo solo alcuni titoli: “Magellano”, “Amok”, “Momenti fatali”, “Bruciante segreto”, “Mendel dei libri”, “Lettera di una sconosciuta”, “Storia di una caduta”, “Paura” [un romanzo-breve che abbiamo letto durante il viaggio del 2012]…  Andate alla scoperta di Stefan Zweig e delle sue Opere utilizzando l’enciclopedia, la rete e frequentando la biblioteca

   Ma veniamo al dunque: per quale motivo Stefan Zweig si è presentato all’appuntamento con noi? Abbiamo già riscontrato delle affinità tra il suo pensiero [pacifista ed europeista] e quello “universalistico” di Raimondo Lullo ma c’è qualcosa di più specifico che giustifica il nostro appuntamento con lui perché nel 1941, durante l’esilio brasiliano, a pochi mesi dalla morte, Stefan Zweig compone un breve romanzo intitolato Novella degli scacchi: uno di quei racconti che è stato inserito nell’elenco delle opere “perfette” della Storia della Letteratura, dove il termine “perfetto” corrisponde alla parola greca “téleios” che esprime il senso della “completezza” [sono téleios le statue di Fidia a tutto tondo, sono téleios i templi dorici nell’armonicità delle loro forme], quindi, è più consono parlare di “opera esemplare per la sua completezza” [la perfezione non è di questo mondo, pensavano i Greci dell’Età di Erodoto], e alla “completezza” di questa Novella di Stefan Zweig concorre il fatto che le tre parole-chiave, sulla scia delle quali, questa sera, abbiamo viaggiato - volontà, intelletto e memoria -, si rincorrono tra le righe della incalzante narrazione per potenziare i significati delle allegorie in essa contenute.

   Cominciamo, quindi, a leggere questo romanzo-breve: siamo a bordo di una nave da crociera dove due contendenti si sfidano alla scacchiera, da un lato c’è Mirko C., il campione mondiale in carica, arrogante e venale, mentre dall’altro lato c’è l’enigmatico Signor B. colto, elegante, inquieto, dotato di un talento prodigioso e immaginifico, ma prima che questi due personaggi-chiave s’incontrino e si scontrino passa un po’ di tempo che l’autore utilizza per presentali e per inserirli in un complesso contesto narrativo, storico, politico e psicologico dal risvolto autobiografico.

   Ma, intanto saliamo anche noi su questo piroscafo in procinto di salpare, a mezzanotte, da New York per Buenos Aires [ho prenotato la cabina per tutte e tutti voi] in modo da poter fare conoscenza della storia singolare e del particolare carattere di Mirko C., il campione mondiale di scacchi. E poi non vorrete certo meravigliarvi del fatto che il colto umanista Stefan Zweig citi esplicitamente Raimondo Lullo: ci sarebbe da meravigliarsi se questo non avvenisse!

LEGERE MULTUM….

Stefan Zweig, Novella degli scacchi

Sul grande piroscafo in procinto di salpare a mezzanotte da New York per Buenos Aires regnava il solito affaccendato viavai dell’ultima ora. Gli ospiti da terra facevano ressa per accompagnare gli amici, i ragazzi del telegrafo, col berretto sulle ventitré, sfrecciavano da una sala all’altra chiamando i nomi a gran voce, fiori e valigie venivano trascinati a bordo, i bambini correvano curiosi su e giù per le scale mentre l’orchestra continuava a suonare imperturbabile Ero intento a conversare con un conoscente sul ponte di passeggiata, un po’ discosto da questo trambusto, quando accanto a noi guizzò per due o tre volte la luce di un flash - a quanto pareva, qualche personaggio importante era stato intervistato e fotografato dai reporter poco prima della partenza. Il mio amico lanciò un’occhiata in quella direzione e sorrise. «Avete un tipo raro a bordo». E dato che a quell’uscita dovetti fare evidentemente un’espressione piuttosto perplessa, aggiunse a mo’ di spiegazione: «Mirko C., il campione mondiale di scacchi. Ha fatto il giro dell’America da est a ovest per giocare nei tornei, e ora è in partenza per l’Argentina in cerca di nuovi trionfi». In quel momento mi ricordai del giovane campione, e mi sovvennero addirittura alcuni dettagli a proposito della sua fulminea carriera; il mio amico, un lettore di giornali più attento di me, fu in grado di completare il quadro con un’abbondante sfilza di aneddoti. Circa un anno prima Mirko C. era giunto di colpo allo stesso livello dei più noti e venerati maestri dell’arte scacchistica; era dal 1922 che l’entrata in scena di un perfetto sconosciuto non suscitava un simile scalpore all’interno della gloriosa gilda. Le doti intellettuali di Mirko C., difatti, non sembravano certo preannunciargli sin dall’inizio una tale, fulgida carriera. Ben presto trapelò il segreto che il campione, nella sua vita privata, non era in grado di scrivere una frase in una lingua qualsiasi senza errori di ortografia e, per citare le parole con cui lo schernì uno dei suoi stizziti colleghi, «la sua ignoranza era egualmente universale in tutti i campi». Figlio di un battelliere del Danubio povero in canna, uno slavo meridionale, che una notte era stato travolto con la sua barchetta da un vapore carico di granaglie, il ragazzo, allora dodicenne, dopo la morte del padre era stato preso per pietà in casa del parroco dello sperduto villaggio, che si era dato un gran daffare per rimediare, con ripetizioni casalinghe, a tutto ciò che quel bambino taciturno, ottuso, dalla fronte spaziosa, non riusciva a imparare nella scuola del paese. Ma tutti gli sforzi furono vani. Mirko continuava a fissare le lettere, che gli erano state spiegate per la centesima volta, come se non le avesse mai viste; al suo cervello, lento e pesante, sembrava mancare la capacità di fissare alcunché nella memoria. A quattordici anni, ogni volta che era costretto a far di conto doveva ancora aiutarsi con le dita, e la lettura di un libro o di un giornale rappresentava, per quel ragazzino già adolescente, uno sforzo immenso. Tuttavia, non si poteva assolutamente dire che Mirko fosse svogliato o recalcitrante. Eseguiva docile ciò che gli veniva ordinato, andava a prendere l’acqua, tagliava la legna, lavorava con gli altri nei campi, riordinava la cucina e sbrigava in maniera coscienziosa, seppur con una lentezza esasperante, ogni compito che gli veniva affidato. Ciò che tuttavia di quel ragazzo cocciuto irritava il buon parroco più di ogni altra cosa era la sua totale apatia. Non faceva nulla se non dietro precisa richiesta, non poneva mai una domanda, non giocava con gli altri ragazzi e non cercava alcuna occupazione di sua spontanea volontà, a meno che non gli venisse ordinato espressamente; non appena aveva sbrigato le faccende di casa, Mirko se ne stava seduto da una parte con le mani in mano, con aria ottusa e quello stesso sguardo vuoto che hanno le pecore al pascolo, senza il minimo interesse per ciò che accadeva intorno a lui. E quando il parroco, la sera, fumacchiando con gusto la lunga pipa da contadino, giocava le sue solite tre partite a scacchi contro il maresciallo della gendarmeria, il ragazzo, la testa arruffata di ciocche bionde, si rannicchiava lì accanto senza dire una parola, e da sotto le palpebre pesanti fissava, in apparenza sonnacchioso e indifferente, la scacchiera.

Una sera d’inverno, mentre i due giocatori erano immersi nella loro partita quotidiana, dalla strada del villaggio risuonarono le campanelle di una slitta, che si accostavano via via sempre più rapide. Un contadino, il berretto impolverato di neve, si precipitò come una furia nella stanza: la vecchia madre stava morendo, e il parroco doveva affrettarsi per impartirle in tempo l’estrema unzione. Il prete lo seguì senza esitare un istante. Il maresciallo, che non aveva ancora finito di bere la sua birra, si accese una nuova pipa prima di andarsene e si accingeva per l’appunto a calzare i pesanti stivaloni quando si rese conto che lo sguardo di Mirko era fisso, senza staccarsene un solo istante, sulla scacchiera con la partita iniziata. … «Che c’è, vuoi terminarla tu?», lo prese in giro il gendarme, del tutto convinto che quel ragazzino indolente non fosse in grado di muovere neanche un pezzo in maniera corretta. Il ragazzo sollevò gli occhi intimidito, poi annuì e si sedette al posto del parroco. Dopo quattordici mosse il maresciallo era stato battuto e dovette per di più riconoscere che a causare quella sconfitta non era stata in alcun modo una mossa sciatta o sbadata, fatta sovrappensiero. La seconda partita non andò diversamente. «L’asina di Balaam!», esclamò sbalordito il parroco al suo ritorno, spiegando al maresciallo della gendarmeria, meno ferrato in materia biblica, che già duemila anni prima si era verificato un miracolo del genere, che una creatura priva di parola avesse ritrovato all’improvviso la lingua della saggezza. Nonostante l’ora tarda, il parroco non riuscì a trattenersi dallo sfidare il suo famulo semianalfabeta. Mirko batté anche lui senza difficoltà. Giocò con tenacia, lento, imperturbabile, senza sollevare una sola volta la fronte spaziosa dalla scacchiera. Ma giocò, tuttavia, con innegabile sicurezza; nei giorni che seguirono, né il maresciallo della gendarmeria né il parroco furono in grado di batterlo una sola volta. Il prete, capace di giudicare meglio di chiunque altro l’arretratezza del suo allievo in qualsiasi altra disciplina, divenne a questo punto seriamente interessato a vedere sino a che punto quel talento tanto insolito quanto unilaterale avrebbe retto a un esame più severo. Dopo aver fatto tagliare a Mirko dal barbiere del villaggio le ispide ciocche bionde e averlo reso così più o meno presentabile, lo condusse con sé in slitta nella cittadina vicina, perché sapeva che il caffè sulla piazza principale ospitava un angolo di appassionati giocatori di scacchi, dei quali egli stesso, per esperienza, non era all’altezza. Non fu poco lo stupore che si propagò nella cerchia lì riunita, quando il parroco spinse dentro il locale il quindicenne dalla testa biondo paglierino e le guance rosse, infagottato nel suo pastrano foderato in pelle di pecora e coi pesanti stivaloni ai piedi; il giovane, stranito, se ne stette impalato in un angolo, gli occhi chini a terra con fare timoroso, sino a quando non venne chiamato a uno dei tavoli per giocare. Durante la prima partita Mirko venne sconfitto, dato che durante il suo apprendistato dal buon parroco non aveva mai visto la cosiddetta Difesa siciliana. Ma già la seconda partita, che sostenne contro il miglior giocatore del circolo, si concluse alla pari. A partire dalla terza e dalla quarta batté tutti quanti, uno dopo l’altro. Ora: in una piccola città delle province slave meridionali accadono assai di rado avvenimenti eccitanti; così, la prima comparsa di quel campione rusticano si trasformò immediatamente in un evento sensazionale per i notabili lì riuniti. Si decise all’unanimità che il ragazzo prodigio doveva assolutamente restare in città sino all’indomani, di modo che si potessero convocare gli altri membri del club di scacchi e soprattutto informare il Vecchio Conte, un fanatico del gioco, presso il suo castello. Il prete, che osservava il suo protetto con un orgoglio tutto nuovo, ma che non voleva certo sottrarsi ai propri doveri di parroco per il servizio domenicale solo per la fierezza di quella scoperta, si disse disposto a lasciare Mirko in città per un’ulteriore prova. Così il giovane venne alloggiato in albergo a spese del circolo di scacchi e quella sera vide per la prima volta un WC. L’indomani, di domenica pomeriggio, il locale era strapieno. Mirko, seduto immobile da quattro ore di fronte alla scacchiera, batté, senza dire una parola o anche solo alzare lo sguardo, un giocatore dopo l’altro; alla fine qualcuno lanciò la proposta di una partita in simultanea. E non appena Mirko ebbe compreso il sistema vi si adattò in men che non si dica, spostandosi di tavolo in tavolo con i suoi pesanti scarponi scricchiolanti, per vincere alla fine sette delle otto partite. A quel punto cominciarono le grandi consultazioni. Forse, finalmente, quella piccola città, la cui presenza sulla carta geografica non era stata finora quasi notata, poteva avere per la prima volta l’onore di mandare nel mondo una celebrità. Un Impresario, che di solito si limitava a procurare canzonettiste e sciantose da café-chantant per il cabaret della guarnigione, si dichiarò pronto a far istruire di tutto punto il giovanotto nell’arte degli scacchi a Vienna da un eccellente maestro di sua conoscenza: a condizione, beninteso, che qualcuno garantisse la retta di mantenimento per un anno. …  Il Vecchio Conte, il quale in sessant’anni non aveva mai affrontato un avversario tanto degno, sottoscrisse immediatamente l’importo. Quel giorno ebbe inizio la straordinaria carriera del figlio del barcaiolo. Nel giro di sei mesi Mirko padroneggiava tutti i segreti della tecnica scacchistica, sia pure con una strana limitazione, difatti, non fu mai in grado di giocare una sola partita a memoria perché era del tutto privo della capacità di materializzare il campo di battaglia nello spazio sconfinato della fantasia. Doveva sempre avere davanti a sé, in maniera tangibile, il quadrato bianco e nero con le sessantaquattro case e le trentadue figure; perfino ai tempi in cui era ormai un campione di fama mondiale continuava a portare con sé una scacchiera pieghevole, in modo da materializzare visivamente la disposizione dei pezzi ogni volta che voleva ricostruire una partita o risolvere da solo un problema scacchistico. Questo difetto, di per sé trascurabile, tradiva in realtà una mancanza di forza immaginativa e veniva discusso in quella ristretta cerchia con la stessa veemenza con cui, tra musicisti, si sarebbe dibattuto di un illustre virtuoso o direttore d’orchestra che si fosse mostrato incapace di suonare o dirigere senza avere sott’occhio la partitura. Ma questa strana particolarità non rallentò in alcun modo la spettacolare ascesa di Mirko. A diciassette anni aveva già vinto una decina di premi scacchistici, a diciotto aveva conquistato il titolo di campione d’Ungheria, a venti finalmente il titolo mondiale. I fuoriclasse più audaci, ognuno dei quali straordinariamente superiore a lui in termini di capacità intellettive, fantasia e ardimento, soccombevano alla sua logica fredda e tenace come Napoleone dinanzi al lento Kutuzov, Annibale dinanzi a Fabius Cunctator, il quale, racconta Tito Livio, già dalla fanciullezza aveva egualmente mostrato simili segni di flemma e idiozia. Accadde così che nell’illustre galleria dei maestri di scacchi, che riunisce tra le sue fila le tipologie più disparate di superiorità intellettuale - filosofi, matematici, nature dedite al calcolo, immaginifiche e spesso creative - fece irruzione per la prima volta un vero outsider del mondo intellettuale, un goffo ragazzetto di campagna, dalla cui bocca nessuno, neppure il più scaltro giornalista, riuscì mai a cavar fuori una sola parola utile per un articolo. Se tuttavia Mirko C. privava i giornali di battute forbite, compensò ben presto, e generosamente, quella mancanza con un serie di aneddoti sulla sua persona. Infatti, nell’istante stesso in cui si alzava dalla scacchiera, davanti alla quale era un maestro senza pari, Mirko C. si trasformava inesorabilmente in una figura grottesca e quasi comica; nonostante il suo compassato abito nero, la pomposa cravatta con tanto di sgargiante spilla di perle e le mani dirozzate a fatica dalla manicure, egli rimaneva, nei modi e nell’atteggiamento, lo stesso limitato ragazzo di campagna che spazzava la stanza del curato al villaggio. In maniera maldestra e addirittura spudoratamente grossolana cercava, per la gioia e l’irritazione dei suoi colleghi, di ricavare dal proprio talento e dalla propria fama quanto più denaro possibile, con un’avidità meschina e spesso perfino gretta. Viaggiava di città in città, alloggiando sempre negli alberghi più economici, giocava nei più miserandi circoli scacchistici, purché gli pagassero l’onorario richiesto, si lasciava ritrarre sulle réclame del sapone e vendette addirittura la sua firma - senza badare allo scherno dei suoi colleghi, i quali sapevano bene che egli non era in grado di scrivere tre frasi di fila in maniera corretta - per una Filosofia degli scacchi, scritta in realtà da uno studentello galiziano per conto di un editore con un certo fiuto per gli affari. Come tutte le nature caparbie non aveva il senso del ridicolo; da quando aveva vinto il campionato mondiale si considerava l’uomo più importante del pianeta, e la consapevolezza di aver sconfitto tutti quegli arguti, intellettuali, brillanti oratori e scrittori sul loro stesso terreno, e soprattutto il dato oggettivo di guadagnare più di loro, trasformò l’originaria insicurezza in un orgoglio freddo, ostentato per lo più con una certa goffaggine. … «Ma d’altro canto, com’era possibile che un successo così fulmineo non desse alla testa a una zucca vuota come quella?», concluse il mio amico, dopo avermi appena confidato alcune classiche dimostrazioni della puerile prepotenza di Mirko C.   «Com’era possibile che un ragazzo di campagna di ventun anni fresco fresco di titolo mondiale non si gonfiasse di boria, se d’un tratto gli basta muovere qua e là un paio di pedine su una tavola per guadagnare più di quanto intasca tutto il suo villaggio in un anno, tagliando legna e sgobbando a destra e a manca per sbarcare il lunario? E poi, diciamocelo: non è forse maledettamente facile credere di essere un grand’uomo se non si ha la minima idea dell’esistenza di un Rembrandt, di un Beethoven, di un Dante, di un Michelangelo? Questo ragazzo, dentro al suo cervello murato, sa soltanto una cosa: che da mesi non perde una sola partita, e dato che per l’appunto non sospetta che a questo mondo ci siano altri valori oltre ai soldi e agli scacchi, ha tutte le ragioni per essere entusiasta di sé». Le informazioni del mio amico non mancarono di risvegliare la mia straordinaria curiosità. Per tutta la vita sono sempre stato affascinato da ogni genere di individui monomaniaci, completamente assorti in un’unica idea: poiché più un essere umano si limita, più, d’altro canto, si avvicina all’infinito; e proprio questi personaggi, in apparenza staccati dalla realtà, si costruiscono nella loro specifica disciplina - scavando come fanno le termiti - una straordinaria e del tutto irripetibile miniatura del mondo. Così, non feci mistero della mia intenzione di esaminare un po’ più da vicino quel singolare esemplare di potenza intellettiva, volontaristica e mnemonica, circoscritta all’estremo, durante i dodici giorni di traversata fino a Rio. … «Non avrà molta fortuna», mi mise in guardia il mio amico. «Da quanto ne so, nessuno è mai riuscito a cavar fuori anche il minimo materiale psicologico da quel Mirko C. Dietro tutta la sua smisurata limitatezza, il nostro scaltro contadino ha dato prova di grande intelligenza scegliendo di non esporsi in alcun modo: e questo grazie alla semplice strategia di evitare qualsiasi genere di conversazione, se non con i corregionali del suo stesso ambiente, che va a scovare qua e là nelle piccole osterie. Se fiuta gente colta, striscia di nuovo nel suo guscio; così, nessuno si può vantare di avergli mai sentito dire qualcosa di stupido o di aver misurato gli abissi a quanto pare insondabili della sua ignoranza». Come si dimostrò poi, il mio amico aveva ragione. Durante i primi giorni di viaggio si rivelò del tutto impossibile avvicinare Mirko C., a meno di non dar prova di una sfrontata invadenza, il che non è proprio nel mio stile. Certo, a volte lo si vedeva camminare sul ponte di passeggiata, ma sempre con le mani incrociate dietro la schiena, in una postura orgogliosamente assorta, a mo’ di Napoleone nel celebre ritratto, e ancora: non si vedeva mai nei saloni, al bar, nella sala fumatori Dopo tre giorni cominciai in effetti a innervosirmi, constatando che la sua tenace tecnica di difesa era più efficace della mia volontà di avvicinarlo. In tutta la mia vita non avevo mai avuto la possibilità di conoscere di persona un maestro di scacchi, e mi appariva inconcepibile un’attività mentale che per un’intera esistenza ruoti esclusivamente attorno a uno spazio di sessantaquattro caselle bianche e nere. Conoscevo bene, per mia stessa esperienza, la misteriosa attrazione del Gioco dei Re, l’unico, tra tutti i giochi, che si sottrae in maniera superlativa a ogni tirannia del caso e concede la palma della vittoria soltanto all’intelletto, alla volontà e alla memoria o, meglio, a una determinata forma di talento intellettuale, volontaristico e mnemonico. Ma non ci si rende già colpevoli di una limitazione offensiva, definendo gli scacchi un gioco, considerazione già fatta in età medioevale dal geniale Raimondo Lullo in uno dei suoi trattati sillogistici? Non sono forse anche una scienza, un’arte, un ponte che si libra tra queste due categorie come la salma di Maometto tra cielo e terra, un’eccezionale unione di tutte le coppie di contrari; antichissimo eppure eternamente nuovo, meccanico nel suo impianto eppure efficace solo attraverso l’immaginazione, limitato in uno spazio geometrico fisso e allo stesso tempo illimitato nelle sue combinazioni, in continua evoluzione eppure sterile, un pensiero che non porta a niente, una matematica che non calcola nulla, un’arte priva di opera, un’architettura priva di materia, e ciò nonostante, come si è dimostrato, più duraturo nel suo essere ed esistere di qualsiasi altra opera o libro, l’unico gioco che appartiene a ogni popolo e a ogni tempo e a proposito del quale nessuno sa da quale dio sia stato portato in terra per ammazzare la noia, affinare i sensi, avvincere l’anima. E ora un fenomeno del genere, un genio straordinario o un folle imperscrutabile, mi era per la prima volta fisicamente vicinissimo, sei cabine più in là sulla stessa nave, e io, sciagurato, per il quale la curiosità nei confronti di tutto ciò che è psicologico degenera in una sorta di passione, non ero capace di avvicinarlo. Cominciai a escogitare gli stratagemmi più assurdi

   Vedremo quali sono gli stratagemmi che il nostro narratore mette in atto per avvicinare il campione ma ci sarà più di un colpo di scena a movimentare le cose.

   Il Vangelo secondo Giovanni si conclude in modo misterioso ed ambiguo [ci sono due conclusioni, due epiloghi] e Raimondo Lullo, esperto di lingua greca, non può fare a meno di rimarcare questo fatto per trarne degli insegnamenti: quali?

   Per rispondere a questa domanda [e ad altre che si profilano all’orizzonte dell’autunno del Medioevo] dobbiamo seguire la via dell’Alfabetizzazione culturale e funzionale: una via dove la volontà d’imparare, l’intelletto e la memoria possano interagire per farci aspirare ad acquisire una testa ben fatta.

   E la Scuola è qui, e il viaggio continua…

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Febbraio 12, 2016