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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ UMANISTICA S’IMBOCCA, IN PARTENZA, IL SENTIERO NEL BOSCO ...

Lezione N.: 
2

Prof. Giuseppe Nibbi          La sapienza poetica e filosofica dell’età umanistica        14-15-16  ottobre  2015

Adalbert Stiffert

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ UMANISTICA

S’IMBOCCA, IN PARTENZA, IL SENTIERO NEL BOSCO  ...

 

   La scorsa settimana abbiamo dato inizio a questo Percorso di studio cominciando a celebrare il tradizionale e ripetitivo “rituale della partenza” - del quale dobbiamo compiere ancora alcuni atti - perché questa esperienza didattica ha, metaforicamente parlando, le caratteristiche di un viaggio e non c’è viaggio che non inizi con la partenza. A proposito di “viaggi” immagino che durante la vacanza abbiate fatto uno o più viaggi affrontando anche, di conseguenza, la “partenza” dell’andata e quella del “ritorno”.

   Questo Percorso di studio ha, metaforicamente parlando, le caratteristiche di un viaggio e come sapete, dal punto di vista filologico, la lingua greca [che mira ad essere significativa, espressiva, indicativa, efficace, eloquente] puntualizza e distingue il viaggio “di andata ” [poreìa] e quello “di ritorno ”, [nostos] utilizzando due termini diversi perché “l’andare [poreia-poreìa, come il virgiliano viaggio di Enea]” e “il ritornare ” [nostos, come l’omerico viaggio di Ulisse] rappresentano due situazioni differenti.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Avete fatto un viaggio [o più di uno] quest’estate: verso dove?... Con quale motivazione avete viaggiato?… 

Scrivete quattro righe in proposito…

 

   Il Percorso di studio, il viaggio virtuale, che ci accingiamo a compiere è suddiviso in itinerari settimanali e ogni itinerario, ogni Lezione, ha la forma di un “ragionamento progressivo”, ed è bene domandarsi ancora una volta che significato ha questa affermazione.

   Le persone trovano spesso delle difficoltà a seguire un “ragionamento progressivo” che è il dispositivo virtuoso [il meccanismo specifico] proprio dei “percorsi di natura intellettuale” come: leggere un libro, seguire un discorso articolato, osservare un’opera d’arte, trovare la soluzione di un problema, costruire un proprio catalogo di conoscenze, scrivere frammenti della propria autobiografia. Per favorire la propria “attività intellettuale” è necessario che la persona impari a “ragionare ordinatamente”, a “riflettere in profondità”, ad “esprimersi con chiarezza”: come ben sapete, “soffrire di analfabetismo” non significa tanto non essere un grado di leggere e scrivere [condizione nella quale si trovano tuttavia circa due milioni e trecentomila cittadini italiani adulti] ma significa soprattutto non essere competenti nella gestione di queste tre importanti “azioni intellettuali”: ragionare, riflettere, esprimersi; e questa incompetenza, secondo la ricerca Eurostat del 2009, riguarda l’81% della popolazione nella fascia dai 18 ai 65 anni. Questo Percorso didattico [il nostro viaggio di studio del quale stiamo ancora celebrando il rituale della partenza] ci propone di esercitarci a selezionare “le parole-chiave”, a catalogare “le idee-cardine”, a controllare consapevolmente “il flusso dei nostri pensieri” perché è attraverso questa dialettica che procede un “ragionamento progressivo”. Quindi, i passi virtuali con cui ci muoviamo nel nostro [allegorico] viaggio intellettuale si identificano con i segmenti di un “ragionamento progressivo” e, di conseguenza, i nostri itinerari, le Lezioni, devono svolgersi secondo questa dinamica, in modo pertinente a questo andamento.

   Ogni Lezione proposta nell’ambito dell’Alfabetizzazione funzionale e culturale deve svolgersi secondo la dinamica del “ragionamento progressivo” che corrisponde al metaforico “susseguirsi dei passi” di un Percorso da compiere. Ogni Lezione si configura come un itinerario didattico che ricalca l’attività del nostro intelletto, e l’intelletto corrisponde alla “capacità di comprendere”, una facoltà mediante la quale si sviluppa il processo dell’apprendimento, un procedimento che, come ben sapete, si concretizza facendo entrare in attività le sei principali azioni [le azioni cognitive] attraverso le quali s’impara: conoscere, capire, applicare, analizzare, sintetizzare, valutare.

   In ogni itinerario che di settimana in settimana percorreremo, faremo in modo di attivare la dinamica delle “azioni cognitive [attraverso le quali si sviluppa l’apprendimento]” cercando di governare la loro potenzialità tenendo conto che la scansione delle azioni dell’apprendimento non ha un andamento regolare - non è che prima si conosce poi si capisce poi ci si applica poi si analizza poi si sintetizza e infine si valuta - ma le sei principali “azioni cognitive”, accompagnate da altre quaranta azioni secondarie, interagiscono simultaneamente nella nostra mente e noi dobbiamo essere il più possibile consapevoli del funzionamento di questo “meccanismo” straordinario che è “l’imparare”, e l’obiettivo fondamentale per cui è utile frequentare la Scuola è quello di “imparare ad imparare”, è quello di saper amministrare la nostra capacità cognitiva [la Scuola più che ad imparare cose serve ad imparare come s’imparano le cose], la Scuola opera per far acquisire alla persona la competenza di investire in intelligenza.

   E, quindi, concretamente [lo abbiamo già detto la scorsa settimana ma è bene ripeterlo perché: repetita ivant, il ripetere le cose nell’ambito dell’investimento in intelligenza giova all’apprendimento che deve distinguersi dall’addestramento e dall’ammaestramento], nel corso di ogni tappa, ci eserciteremo a “conoscere le parole-chiave” più rappresentative [una o due] del REPERTORIO... perché,  come ben sapete, “conoscere” il senso delle “parole chiave” della Storia del Pensiero Umano giova all’investimento in intelligenza.

   Ci eserciteremo a “capire le idee più significative” elaborate nel corso della Storia dell’Umanità e presenti nei REPERTORI... delle nostre tappe perché, come ben sapete, “capire” le idee-cardine della Storia del Pensiero giova all’investimento in intelligenza.

   Ci eserciteremo ad “applicare”, e questa azione, nell’ambito del nostro Percorso, significa “leggere e scrivere”, due attività, come ben sapete, fortemente trascurate dalla stragrande maggioranza delle cittadine e dai cittadini del nostro Paese [solo il 14% delle Italiane e degli Italiani adulti si dedica a scrivere e a leggere costantemente]. Bisogna prendere la buona abitudine di applicarsi nella lettura e nella scrittura almeno per dieci minuti al giorno, utilizzando, per guida, la “trama” del REPERTORIO... proposto [scrive Rita Levi Montalcini: «La lettura di almeno quattro pagine giornaliere di buona Letteratura e la scrittura di almeno quattro righe contenenti un pensiero autobiografico sono esercizi che preservano l’elasticità dei neuroni, le cellule del cervello, contribuendo al mantenimento della salute della persona»].

   Avete in mano e sotto gli occhi un fascicolo che s’intitola REPERTORIO E TRAMA ...  che è lo strumento che ci consente [e, in questo momento, state facendo questo esercizio] di orientarci meglio sul nostro cammino per favorire l’azione del conoscere e del capire e, inoltre, ci propone un compito, per favorire l’azione dell’applicarci nell’uso dell’analisi, della sintesi e della valutazione. Noi riceveremo circa trecentocinquanta pagine di REPERTORIO E TRAMA ... Questo materiale viene stampato presso la Scuola “Francesco Redi” di Bagno a Ripoli alla quale dobbiamo versare un contributo perché c’è una produzione di circa 90 mila pagine. È un contributo necessario - per la carta, per il toner, per la manutenzione delle fotocopiatrici - però è un contributo volontario come sono volontari tutti i contributi - qualche spicciolo - legati alle spese di produzione di questa impresa e, soprattutto, alle azioni di solidarietà che dobbiamo e vogliamo mettere in atto.

   La buona abitudine ad applicarci intellettualmente [a leggere e a scrivere] per dieci minuti al giorno [legĕre multum et scribĕre multum, dove il termine latino “multum” significa leggere e scrivere poco ma quotidianamente e con la massima attenzione] favorisce un “investimento in intelligenza” che ha una ricaduta positiva sul nostro ben-essere e su quello della società in cui viviamo.

   Ci eserciteremo ad “analizzare”, e “analizzare” significa riflettere per mettere in ordine i pensieri che affiorano nella nostra mente attraverso la TRAMA proposta dal REPERTORIO... e «Saper corteggiare i nostri pensieri, scrive Denis Diderot nel dialogo intitolato Il nipote di Rameau (1761), giova all’investimento in intelligenza».

   Ci eserciteremo a “sintetizzare”, e “sintetizzare” significa “mettere per iscritto” un nostro pensiero: scrivere quattro righe al giorno [per raccontare, per descrivere, per informare, per esprimere, per interpretare, per argomentare] giova all’investimento in intelligenza.

   Infine dobbiamo esercitarci a “valutare”, ad “auto-valutare” l’andamento del nostro cammino intellettuale, e questo dispositivo dell’auto-valutazione è legato allo svolgimento del “compito” che - sebbene facoltativo - la Scuola propone di eseguire invitando ciascuna e ciascuno di voi ad utilizzare il fascicolo del REPERTORIO E TRAMA... in un tempo che va dai dieci minuti alle due ore al giorno, nel corso della settimana, nell’intervallo tra un itinerario e l’altro.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Il materiale riguardante tutta l’attività didattica messa in atto in questo Percorso lo si trova contenuto su due siti: www.inantibagno.it e www.scuolantibagno.net

Sui siti potete leggere e anche scaricare il testo integrale della Lezione e potete ascoltare la registrazione della Lezione stessa; c’è inoltre una pagina facebook intitolata “a scuola con Giuseppe”...  Questi strumenti sono utili per favorire l’attività di studio, utilizzateli...

 

   Nel corso del nostro viaggio visiteremo un certo numero di “paesaggi intellettuali” ricchi di forme e di contenuti, e avremo a che fare con molte nozioni, enumereremo molti dati, citeremo molte date, visiteremo molti luoghi, faremo conoscenza con molti personaggi, imbastiremo molti ragionamenti e rifletteremo su molti temi, ma - come dicono i manuali di tecnologia dell’apprendimento - “dei contenuti di un Percorso didattico [di un viaggio di studio], in media, oltre il 70% va disperso e solo all’incirca il 30% - per tutta una serie di cause [soggettive ed oggettive] - rimane in modo frammentato nella nostra mente”; quindi, di questa conversazione solo “tre oggetti su dieci” rimangono nella mia mente [ma è già una buona acquisizione], e questo perché, come ben sapete, l’obiettivo principale dell’apprendimento cognitivo non è quello di immagazzinare nozioni [le nozioni sono importanti e dobbiamo ritenerne un certo numero], ma l’obiettivo dell’apprendimento consiste nell’esercitare la mente all’ascolto, alla selezione, alla catalogazione perché «il compito della Scuola [come ci ricorda Michel de Montaigne nei suoi Saggi (1580-1588)] consiste nel favorire la formazione di “una testa ben fatta” piuttosto che di “una testa ben piena” [l’azione dell’apprendimento riguarda la qualità piuttosto che la quantità e se non si ha una testa ben fatta - se non si è capaci di trasformare in conoscenza l’eccesso di informazione cui siamo sottoposte e sottoposti -, l’ipertrofia tecnologica non può che produrre gravi danni all’apparato cognitivo]» e questa affermazione, “favorire la formazione di una testa ben fatta [che conoscete a memoria]”, ha la funzione di una bussola, che serve per non farci perdere l’orientamento nel corso di nostri “viaggi di studio”.

   E adesso, consapevoli di questa affermazione, anche se la celebrazione del tradizionale “rituale della partenza” non si è ancora conclusa, cominciamo a prendere lentamente il passo sul territorio che dobbiamo attraversare: sappiamo che ci troviamo di fronte ad una grande “foresta ” [che si è allegoricamente materializzata, la scorsa settimana, con la lettura de “L’uomo che piantava gli alberi”, con la complicità anche di Tommaso d’Aquino che ancora ci accompagna], quindi, il nostro cammino inizia a procedere [virtualmente e in senso letterario] su un sentiero che si inoltra nel bosco [noi cavalchiamo una metafora ma è reale il fatto che nella seconda metà del XIII secolo era possibile andare dal Mar del Nord allo stretto di Messina e anche oltre senza mai uscire dalla foresta]. Per noi, come ben sapete, l’atto del “camminare” si identifica con la didattica della lettura e della scrittura secondo la natura del nostro Percorso e, quindi, corrisponde alla lettura delle pagine di un libro.

   E visto che il nostro punto di partenza si trova virtualmente davanti ad una foresta nella quale ci dobbiamo inoltrare, non potevamo non incappare in un romanzo-breve intitolato Il sentiero nel bosco. La scelta di quest’opera - già dal titolo - ci fa avvicinare ai temi contenuti nel primo paesaggio intellettuale al quale prossimamente ci troveremo di fronte [ci muoviamo per andare verso Oxford] ma vogliamo anche dare un carattere di leggerezza al nostro procedere.

   L’autore del romanzo intitolato Il sentiero nel bosco è Adalbert Stifter che più volte abbiamo incontrato nel corso dei nostri viaggi già dall’inizio di questa esperienza didattica nel 1984 perché uno degli avvenimenti editoriali dei primi anni ’80 in Italia è stata la traduzione e la pubblicazione delle opere di questo scrittore e, quindi, più di trent’anni fa abbiamo citato per la prima volta Adalbert Stifter che è considerato uno degli scrittori più importanti dell’800. [Le opere di Stifter sono nella Biblioteca di Impruneta anche su suggerimento della Scuola degli Adulti]. Recentemente, nel febbraio del 2014 nel corso del viaggio sul territorio della “sapienza poetica e filosofica alto-medioevale” mentre studiavamo la Letteratura del Corano, abbiamo incontrato Stifter a proposito della “poetica delle pietre” perché su questo tema [e forse qualcuna e qualcuno di voi si ricorda] esiste un significativo filone letterario che unisce mondi apparentemente diversi [dalla Penisola araba alla Mitteleuropa]: Stifter ha scritto un libro intitolato Pietre colorate, pubblicato nel 1853, che contiene sei racconti ciascuno dei quali ha per titolo il nome di una pietra: Granito, Pietra calcarea, Tormalina, Mica, Argilla lattea e Cristallo di rocca il racconto che abbiamo letto nel febbraio del 2014.

   Chi è Adalbert Stifter?  Rinfreschiamoci la memoria. Adalbert Stifter [1805-1868] è un pittore e uno scrittore che decanta la vita appartata dell’ambiente montano e dell’habitat naturale della provincia austriaca e boema dove è nato e dove, per certi periodi della sua vita, è vissuto. Stifter è considerato un autore significativo perché ha saputo sapientemente fondere insieme stili letterari diversi [quello del “romanzo di formazione”, del “romanzo sentimentale”, del “poema fantastico” e del “poema idillico”], ed ha il pregio di comporre raccontando in modo semplice e lineare, costruendo un testo di carattere nostalgico e dotato di leggerezza nel quale introduce riflessioni cariche di ironia: la scrittura di Stifter è semplice [i suoi detrattori hanno usato il termine “noiosa”] ma non è né semplicistica né superficiale.

   Adalbert Stifter è nato il 23 ottobre 1805 [compirà 210 anni la prossima settimana] a Horní Planá [Oberplan, in tedesco], un paese della Boemia sud-occidentale di lingua tedesca, in una modesta famiglia di coltivatori e tessitori di lino. Quando ha dodici anni muore suo padre e, in quanto orfano e povero, viene accolto nella Scuola della grande abbazia benedettina di Kremsmünster dove lo studente Adalbert Stifter ha acquisito una buona e vasta cultura [è molto bravo in fisica e in matematica], e nasce in lui un grande amore per la Natura [per gli ambienti naturali], per l’Arte e per la pittura. Poi il giovane Adalbert ha anche avuto la possibilità, utilizzando la ben fornita biblioteca dell’abbazia, di conoscere le opere di molti scrittori tra i quali J.G. Herder, Jean Paul e soprattutto J.W. Goethe del quale legge tutti i romanzi e gli scritti poetici. Nel 1826 Adalbert conclude il ginnasio, lascia l’abbazia e si trasferisce a Vienna dove si iscrive alla facoltà di giurisprudenza e per mantenersi dà lezioni di matematica. Nel 1827, durante le vacanze estive a Frymburk, nella Selva Boema, Adalbert incontra Fanny Greipl e tra questi due giovani ha inizio una relazione amorosa: Adalbert dedica a Fanny una lunga serie di dipinti e di poesie, ma la famiglia di lei è ostile, il padre, un ricco commerciante, non approva che la figlia frequenti un individuo dalle umili origini come Stifter e, quindi, i due non potranno più incontrarsi e vivranno con grande sofferenza questo forzato distacco.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con la guida della Repubblica Ceca e collegandovi alla rete fate un’escursione nel “Parco Nazionale della Selva Boema”: visitate Horní Planá il paese natale di Adalbert Stifter [trovate un sito con delle belle immagini di questa località compreso uno dei dipinti in cui Stifter la raffigura] e poi visitate Frymburk, dove Adalbert ha conosciuto Fanny…    Buon viaggio…

 

   Qualche anno dopo Adalbert conosce una modista, Amalie [Amalla Mohaupt]: i due diventano amici molto affiatati e, quindi, nel 1837, decidono di sposarsi. Tra il 1839 e il 1854 Stifter produce le sue opere pittoriche più importanti [riesce anche a vendere qualche quadro] e poi dà alle stampe una raccolta di romanzi brevi intitolata Pietre colorate [Bunte Steine] e anche la raccolta di tutte le sue novelle sotto il nome di Studi [Studien], nel 1845 fa pubblicare anche il racconto Il sentiero nel bosco. Dal marzo all’ottobre del 1848 Adalbert Stifter partecipa a Vienna ai moti popolari e rivoluzionari che investono tutte le più importanti città europee e subisce un trauma perché rimane sconvolto dal manifestarsi della violenza: dalla violenza dell’esercito che spara sulle folle inermi, ma è anche colpito dalla violenza esercitata dalle masse in rivolta che si ritorce su loro stesse perché crea il pretesto per alzare il livello della repressione e, difatti, il movimento del 1848 viene ovunque represso nel sangue dai regimi polizieschi e anche Stifter, come molti altri intellettuali, si deve defilare. Sulle prime, cade in un profondo stato di prostrazione e di malinconia dal quale si risolleva dipingendo e iniziando a scrivere un grande romanzo, che è considerato uno dei capolavori della Letteratura ottocentesca, intitolato Der Nachsommer [in italiano “Tarda Estate”], del quale però ora non diciamo nulla [ne parleremo a suo tempo] perché dobbiamo dare il dovuto spazio e la giusta collocazione a quest’opera. Stifter non si laurea in giurisprudenza e la sua attività di pittore e di scrittore non gli dà mangiare e, quindi - essendo una persona di vasta cultura e con delle spiccate qualità da educatore -, comincia a svolgere il lavoro del precettore e, per le sue buone referenze, viene assunto da tutte le più nobili famiglie di Vienna tra cui quella del principe di Metternich dove insegna matematica e fisica al figlio Richard e, nel 1853, per le sue competenze, viene nominato sovrintendente per i Beni culturali ed artistici dell’Alta Austria. Nel 1854 Adalbert - che intanto si è trasferito a Linz - si ammala di una grave malattia epatica per cui è costretto, amorosamente assistito da Amalie, a ripetuti soggiorni terapeutici nelle località termali della Foresta bavarese. Nel giugno del 1857 gli Stifter soggiornano a Trieste e per la prima volta vedono il mare e Adalbert descrive con emozione questa esperienza. La malattia di Stifter diventa gradualmente incurabile e allora decide di mettere fine alla sua vita: nella notte tra il 25 e il 26 gennaio del 1868 si taglia le vene con il rasoio morendo, dopo un’agonia durata due giorni, il 28 gennaio. È curioso il fatto di come questa morte violenta sia in contrasto con il suo rifiuto di tutto ciò che è aggressivo e irruente e con il suo carattere di cantore della bontà e della bellezza della Natura.

   Su Adalbert Stifter cala per quasi mezzo secolo l’oblio finché non comincia ad avere degli illustri estimatori: il primo è Friedrich Nietzsche che, dopo aver letto con grande interesse le sue opere dichiara che Stifter è l’interprete più autentico dell’Età post-romantica, colui che interpreta meglio la fine del “tonante carattere faustiano” per descrivere gli umori intimi dell’anima che cerca la pace e la tranquillità nel mistero sublime della Natura [anche Nietzsche ne avrebbe avuto bisogno di questa tranquillità pur non ammettendolo]. Nel 1914 il più internazionale degli scrittori e critici letterari e teatrali austriaci, Hermann Bahr, definisce Stifter: «Uno dei più importanti scrittori realisti europei che narra come se dipingesse un acquarello, e che comincia col definire gli oggetti per poi, con le successive pennellate, farli sfumare nel mistero con la consapevolezza che la sola intelligenza non può rispondere a tutto e che, spesso, la ragione umana non può capire il modo in cui si comporta la Natura». Poi è Thomas Mann ad elogiare Stifter come: «Uno dei narratori più strani, profondi, celatamente audaci e travolgenti della letteratura universale».

   Le protagoniste e i protagonisti dei racconti di Stifter vivono in un mondo che è quanto di più lontano vi possa essere dalla modernità e dalle sue angosce e, di riflesso, si avvicinano alla città con curiosità ma con paura, sempre desiderosi di ritornare alla campagna [alla Natura] e ai suoi ritmi. I personaggi di Stifter provano una particolare tensione emotiva a contatto con le “piccole cose [che sembrano erroneamente di poco conto]” e lo scrittore riesce a dare un profondo significato alla polvere sulle suppellettili, al cadere delle foglie nel bosco, al tambureggiare della pioggia, all’alito di vento, alla silenziosa sinfonia di una fitta nevicata [e l’elenco da fare sarebbe lungo di queste cose apparentemente insignificanti].

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

C’è una cosa “apparentemente insignificante” che – in una particolare situazione - ha suscitato in voi una speciale tensione emotiva?...    

Scrivete quattro righe in proposito...

 

   Nel romanzo intitolato Il sentiero nel bosco emergono tutti gli elementi che caratterizzano la scrittura di Adalbert Stifter dove il dato reale e quello mitico s’intersecano e dove, scrive Thomas Mann, la consistenza della materia riesce ad assottigliarsi acquistando una speciale leggerezza e una particolare tensione erotica [tanto sensuale quanto cognitiva in senso platonico].

   Il romanzo Il sentiero nel bosco racconta la storia d’amore tra un ipocondriaco [un malato immaginario], il signor Theodor detto Tiburius, raffigurato con grande ironia, e una “fanciulla del bosco [Maria]” che gli appare offrendo fragole e che potrebbe essere una figura mitologica [una driade, dal greco “drŷs, la quercia”, le driadi sono le ninfe degli alberi che rappresentano il rigoglio vegetativo]. E ora cominciamo a leggere questo racconto prendendo atto della “leggerezza” che lo pervade ma, soprattutto, consapevoli del fatto [e Tommaso d’Aquino è perfettamente d’accordo] che la sola intelligenza non può rispondere a tutto [è da intelligenti saper valutare i limiti della ragione] perché, spesso, la ragione umana non può capire il modo in cui si comporta la Natura e noi, in proposito, ci muoviamo [ma stiamo ancora celebrando il rituale della partenza] verso un “paesaggio intellettuale” dove si distingue il termine “sperimentalismo”, ma non anticipiamo i tempi e procediamo con ordine andando a conoscere il signor Tiburius.

 

LEGERE MULTUM….

Adalbert Stifter, Il sentiero nel bosco

Ho un amico che, sebbene ancora in vita, e da noi non sia costume raccontare a cuor leggero storie di gente ancora in vita, mi ha permesso di narrare un caso a lui occorso, a beneficio e a edificazione di tutti coloro che hanno perso il senno. Forse, come lui, ne trarranno giovamento.

Il mio amico, che un tempo chiamavamo Tiburius, ha ora la più graziosa casa di campagna ci si possa figurare nel nostro continente, e, tutt’intorno a questa casa, i fiori e gli alberi da frutto più squisiti; ha la moglie più bella mai vista in terra, e con lei vive, estate e inverno, nella sua dimora di campagna; è allegro in viso, benvoluto da tutti, ed è tornato a essere un ventiseienne, benché ancora poco tempo addietro fosse sopra la quarantina.

Tutto ciò il mio amico lo deve, né più né meno, a un semplice sentiero nel bosco; il signor Tiburius, infatti, aveva un tempo perso completamente il senno, e nessuno, fra quanti l’hanno conosciuto allora, avrebbe potuto credere che sarebbe andata a finire in questo modo.

La storia, in realtà, non è affatto complicata, e io la racconto soltanto per essere di utilità a chi è confuso, così che ne possa ricavare un concreto insegnamento. Alcuni di coloro che hanno pratica del nostro paese e delle sue montagne riconosceranno subito, se mai leggeranno queste righe, il sentiero nel bosco e ricorderanno in parte le emozioni che, nel percorrerlo, ispirava loro, sebbene nessuno possa esserne stato trasformato così a fondo come il signor Tiburius.

Ho già detto che il mio amico era davvero fuor di senno. La qual cosa era conseguenza di cause diverse.

Innanzitutto, già suo padre era alquanto fuor di senno. La gente ne diceva parecchie sul conto di questo padre, ma io voglio riferire soltanto ciò di cui posso farmi garante, avendolo visto con i miei occhi. In principio costui possedeva numerosi cavalli, e voleva accudirli, domarli e addestrarli tutti da solo. L’insuccesso fu completo: allora cacciò lo stalliere e, dal momento che i cavalli non volevano proprio saperne degli esercizi e della disciplina da lui imposti, li vendette per un decimo del loro valore. Poi voglio solo aggiungere che, dopo essersi dedicato per diversi anni, con particolare zelo e successo, al commercio della lana, all’improvviso abbandonò anche quell’occupazione. Ebbe poi gran copia di colombi, incrociando i quali mirava a ottenere particolari striature cromatiche nel piumaggio, dopo di che volle principiare una collezione di ogni specie possibile di cactus.

Racconto queste cose per mettere in luce da che rami scendesse il signor Tiburius. C’era poi, in secondo luogo, la madre. Amava il bambino oltremisura. Lo teneva al calduccio, perché non prendesse un’infreddatura e non le venisse ghermito da una malattia improvvisa. Il bambino possedeva corpetti, calzerotti e giubbettini lavorati ai ferri e assai graziosi, che, di là dall’esser utili, avevano altresì bellissime righette rosse. Una magliaia era all’opera per lui tutto l’anno. Nel lettino c’erano mollettoni e imbottite di morbida pelle, e un paravento schermava le correnti d’aria tra le finestre. A badare che i cibi fossero adeguati era la madre in persona, la quale non permetteva a nessuno della servitù di occuparsene. Quando il bambino crebbe e fu in grado di camminare, scelse per lui gli indumenti con grande oculatezza. Per tenere in esercizio la sua immaginazione, così che non venisse turbata da brutte fantasie, gli portava a casa giocattoli di ogni tipo, adoperandosi perché l’ultimo superasse il precedente in bellezza e splendore. Ma a questo proposito ebbe modo di notare un pervertimento nel bambino, che mai e poi mai avrebbe immaginato: il bambino, infatti, dopo aver osservato tutte quelle cose e averci brevemente giocato, le metteva da parte e poiché, per un capriccio che nessuno comprendeva, preferiva i giochi da bambina a quelli dei maschi, ogni volta prendeva il cavastivali del padre, lo avvolgeva in candidi panni, lo portava in giro e lo vezzeggiava.

In terzo luogo vi era il precettore. Gliene toccò infatti uno. Costui era un tipo assai metodico, e pretendeva che tutto si svolgesse con il dovuto ordine, a prescindere dal fatto che il disordine arrecasse danno o meno. L’ordine in quanto tale è il fine. Per questo non tollerava che il ragazzo desse verbose spiegazioni o si esprimesse con digressioni immaginifiche, perché lui, il precettore, era dell’opinione che ogni cosa andasse enunciata con quelle parole soltanto di cui necessitava, non una di più, non una di meno: guai poi a voler addurre circostanze marginali, o ad ammantare di panni la nuda cosa. Dal momento che il ragazzo non poteva parlare come i bambini e i poeti, si esprimeva pressappoco come una ricetta: concisa, involuta, confusa, e incomprensibile a tutti. Oppure taceva, e pensava in cuor suo le cose più diverse, che nessuno poteva sapere, proprio perché con nessuno ne faceva parola.

Quarto e ultimo veniva lo zio. Il quale era un ricco scapolo, negoziante in città: il padre e la madre del ragazzo vivevano invece in una tenuta fuori porta. Sebbene i genitori del ragazzo, dal canto loro, fossero già ricchi a sufficienza, era prevedibile che anche l’eredità dello zio sarebbe toccata a lui, come lo scapolo impenitente aveva più e più volte ribadito a chiare lettere. Per questo motivo si sentiva autorizzato a intervenire nell’educazione del ragazzo. Quando si recava nella tenuta della sorella, gli dava a gran voce consigli pratici e delucidazioni accurate su come salire sugli alberi - cosa che il ragazzo peraltro non faceva mai - strappando il minor numero possibile di pantaloni.

Prima che mi addentri nella storia devo anche dire che il mio amico, ahimè, non si chiamava affatto Tiburius. Portava il nome di Theodor, ma per quanto, una volta cresciuto, scrivesse a grandi lettere sui suoi componimenti «Theodor», per quanto in seguito, durante i suoi viaggi, firmasse nei registri d’albergo «Theodor», per quanto su tutte le lettere a lui indirizzate fosse scritto: «All’illustrissimo Signor Theodor», niente poté giovargli: tutti gli rivolgevano la parola chiamandolo solo «Tiburius», e la maggior parte dei forestieri presenti in città si convinse a poco a poco che la bella dimora di campagna sulla strada a settentrione appartenesse al padre del signor Tiburius. È un nome dal suono sconcertante, e non esiste nel calendario. Ma così andarono i fatti: poiché il ragazzo spesso era assorto e meditabondo, capitava che per distrazione compisse gesti ridicoli. Quando, per prendere qualcosa in alto nel guardaroba, usava il suo tamburo come sgabello, oppure spazzolava il berretto prima di fare una passeggiata, per poi riporlo e uscire con la spazzola in mano; quando, con un cielo plumbeo, si puliva le scarpe sullo zerbino davanti alla porta di casa ancor prima di uscire, o sedeva in mezzo all’orto, tra l’insalata, a parlare a gatti e maggiolini, allo zio piaceva allora canterellare: «Oh, signor Theodor, signor Turbulor, signor Tiburius, Tiburius, Tiburius!». E poiché quel nome venne ripetuto anche da altri, si diffuse in famiglia, prosperò inopinatamente tra il vicinato e da lì - giacché il ragazzo era un facoltoso rampollo su cui tutti puntavano gli occhi - strisciò come un rampicante nei dintorni e si abbarbicò infine con i suoi cirri anche sulla più remota casupola nel bosco. Così ebbe origine l’appellativo Tiburius, e tutti dicevano: «Signor Tiburius», e i più erano convinti che non si chiamasse in altro modo.

Tiburius crebbe sotto l’influsso dei suoi educatori. Impossibile dire come diventò: non mostrava infatti niente di sé e, fattosi ormai quasi un uomo, perse in breve tempo gli educatori, uno dopo l’altro. Per primo morì il padre, subito dopo la madre, il precettore si chiuse in convento, e l’ultimo a lasciarlo fu lo zio. Dal padre Tiburius ereditò il patrimonio di famiglia, dalla madre la dote portata ai tempi delle nozze, e dallo zio il ricavato di trentennali commerci. Lo zio si era ritirato dalla vita attiva poco prima di morire, aveva liquidato ogni impresa e contava di vivere di rendita.

Non gli fu dato, però, di goderne: morì, e tutto passò nelle mani di Tiburius. In seguito a questi avvenimenti il signor Tiburius diventò un uomo ricchissimo, ricco, in principal modo, di denaro liquido, i cui frutti si raccolgono con sforzo minimo: basta aspettare tranquillamente la debita scadenza, incassare e spendere. Una parte dell’eredità paterna consisteva, naturalmente, nella tenuta in cui egli abitava, lì viveva pure, da tempi immemorabili, un vecchio servitore che l’amministrava traendone per lo più rendite cospicue. Con il signor Tiburius le cose non andarono altrimenti. Quanto meno dal momento in cui era rimasto l’unico della famiglia, non ebbe altro da fare se non disporre dei propri notevolissimi introiti. Abbandonato da tutti quelli che gli erano stati vicini fino allora, si sentiva alquanto derelitto.

Tale stato di cose essendo ben noto al vicinato, numerosissime erano le fanciulle disposte a maritarsi con il signor Tiburius; lui puntualmente veniva a saperlo, ma, pieno di timore, non si decideva a nulla. Cominciò invece a godere soltanto per sé la propria ricchezza.

Acquistò dapprima innumerevoli suppellettili, curandone il bell’aspetto. Si fece portare in casa magnifici abiti di lino e panno, tendaggi, tappeti, stuoie e molte altre cose ancora. Di tutto ciò che, tra cibi e bevande, godeva fama di prelibatezza, disponeva in ampie scorte. Così, assorto in simili faccende, visse il signor Tiburius per un certo tempo. Trascorso questo tempo, iniziò a studiare il violino e, visto che ormai ci si era messo, lo suonava da mane a sera, badando solo che le partiture non fossero troppo difficili, nel qual caso non avrebbe potuto dare imperterrito d’archetto.

Quando abbandonò lo studio del violino, prese a dipingere a olio. Nelle stanze che si era arredato lì nella tenuta erano appesi i quadri dipinti da lui stesso, entro magnifiche cornici dorate fatte fare all’uopo. Alcune tele, in seguito, rimasero incompiute, e sulle numerose tavolozze seccavano i colori.

Nel frattempo altro ancora accadde e molti oggetti vennero acquistati.

Il signor Tiburius leggeva avidamente sui giornali gli elenchi dei libri pubblicati, ne ordinava a pacchi, e trascorreva ore e ore a tagliarne le pagine. Per leggere si era fatto fare un elegante e comodo canapè, rivestito di pelle, su cui allungarsi quando non sedeva su una bergère o stava ritto davanti a un leggio concepito in modo tale da essere alzato o abbassato per mezzo di una vite, sicché, quando era stanco di rimanere in piedi, poteva anche mettersi seduto lì davanti. Aveva principiato una collezione di ritratti di celebrità, e possedeva altresì una collezione di pipe, che avrebbero dovuto, in un secondo tempo, venir riposte in eleganti stipi, ma che al momento rimanevano ancora sopra i tavoli. Guarniture, cannelli, acciarini, catenelle, tabacchiere e portasigari erano tutti di preziosa fattura. Dall’Inghilterra aveva fatto arrivare un magnifico mastino, che dormiva in camera del domestico, sopra un cuscino di pelle, confezionato appositamente a quello scopo. Il signor Tiburius possedeva anche quattro cavalli, a suo esclusivo uso personale, per eventuali sortite in carrozza: tra questi figuravano due roani, animali veramente di gran pregio. Il cocchiere li amava oltremodo, e li accudiva con grande cura. Le cose si moltiplicarono fino a togliere la pace. A volte, in una bella serata estiva, guardando attraverso i vetri della finestra accuratamente chiusa l’aia dove i braccianti rientravano con un carro di fieno o di grano, gli capitava di provare una profonda irritazione all’idea che quella gente potesse vivere così, alla giornata, in allegria rustica e leggera, senza preoccuparsi di nulla, scuotendo sotto il portico il fieno dal forcone e le maniche della camicia.

Infine fu costretto ad ammettere di fronte a se stesso di essere malato. Accadevano cose singolari. Anche a voler tacere il tremore delle membra, il vagolare delle pupille, la carenza di sonno, si manifestarono altri fenomeni straordinari. Quando al crepuscolo Tiburius tornava a casa da una passeggiata, ogni volta, senza eccezioni e senza dubbio alcuno, una strana ombra, una sorta di gattino, camminava al suo fianco su per le scale. Sulle scale soltanto, non altrove. Ciò mise ad assai dura prova i suoi nervi. Di libri ne aveva letti a sufficienza, libri dove era riposta la saggezza di oggi e di ieri; ma quello che vedono gli occhi di un uomo in carne e ossa deve essere necessariamente vero. E più la cosa pareva poco degna di fede alle persone che gli stavano vicino, più Tiburius, serio e calmo, riaffermava quel suo convincimento, e sorrideva di loro, se non capivano. Per tale motivo non rincasò più sul far della sera, ma sempre prima del vespro.

Dopo un po’ cessò del tutto di uscire di casa, aggirandosi per la stanza e per i corridoi in logore pantofole di pelle chiara. Di quei tempi capitò pure che nascondesse con cautela, in una botola segreta sotto il letto, in modo che nessuno vi potesse metter mano, una raccolta di poesie, da lui scritte e ricopiate in bella quando ancora i genitori erano in vita.

Alla fine smise d’uscire non solo di casa, ma persino dallo studio. E lì fece portare una grande specchiera, dove usava contemplarsi. Quando era notte, e solo allora, passava nella camera attigua e si metteva a letto. Se qualcuno veniva ancora a fargli visita da fuori o dalla città, Tiburius in sua presenza si spazientiva e quasi cacciava via l’intruso, sprangandogli poi subito la porta dietro le spalle. Era di aspetto realmente malandato: finanche le rughe gli vennero sul volto e quando passeggiava in quel modo, avanti e indietro, aveva per lo più il mento disseminato di barba incolta, il capo irto di capelli scarmigliati, e la zimarra ciondoloni intorno ai fianchi, come il saio di un penitente.

 

   Il signor Tiburius, inizialmente, utilizza la fortuna materiale di cui dispone per accumulare molte cose, troppe cose e l’accumulo dei “beni”, il cercare di realizzare la propria felicità ammassando oggetti di pregio, sebbene in un primo tempo sia stata per lui un’esperienza gratificante, ha poi finito per togliergli la pace, scrive Adalbert Stifter, e il suo viaggio esistenziale diventa piuttosto travagliato per cui nel suo animo si è annidato il malumore, l’abbattimento, lo sconforto, l’avvilimento.

   Nel corso di un viaggio così come nel corso della vita, immancabilmente, si raccolgono oggetti e questa pratica diffusa serve, in seguito, per ravvivare la memoria delle esperienze fatte: ebbene, che cosa portiamo con noi del viaggio di studio al quale molte e molti di voi hanno partecipato durante lo scorso anno scolastico [2014-2015]? Del Percorso che abbiamo compiuto nello scorso anno scolastico rimane un segno tangibile: resta la “forma [restano le icone filologiche]” che noi, attraverso le nostre preferenze, abbiamo dato al territorio su cui abbiamo viaggiato scegliendo su tre cataloghi di parole contenuti nel consueto questionario di fine viaggio [ricordate?]. Ora dobbiamo osservare le “icone filologiche [i riquadri riportati in REPERTORIO...]” perché la forma data dal loro contenuto rappresenta tanto l’immagine di un punto di arrivo quanto quella del nostro punto di partenza [e questo atto fa ancora parte della celebrazione del tradizionale “rituale della partenza”].

   Il questionario di fine Percorso dell’anno scolastico 2014-2015 ci ha presentato tre cataloghi di parole-chiave nelle quali sono incardinate delle idee.

   Nel primo catalogo del questionario c’erano trentuno parole-chiave che abbiamo incontrato [e delle quali abbiamo studiato il significato] nei “paesaggi intellettuali” contenenti i temi fondamentali elaborati dal movimento della Scolastica. Il movimento della Scolastica, come sappiamo, ha favorito l’inizio e lo sviluppo di una nuova epoca [denominata la primavera e l’estate del Medioevo] il cui clima intellettuale ha portato alla composizione di Opere fondamentali per la Storia del Pensiero Umano, delle quali abbiamo studiato la struttura, Opere che continuano, ancora oggi, a condizionare il nostro modo di guardare la realtà [citiamo solo Il “Monologion” e il “Proslogion” di Anselmo d’Aosta, “Scivias” di Iledegarda di Bingen, “Dialectica” di Abelardo, “Itinerarium mentis in Deum” di Bonaventura da Bagnoregio, “Guida dei perplessi” di Maimonide, il “Gran commento alle Opere di Aristotele” di Averroè, la “Summa theologica” di Tommaso d’Aquino].

   Il secondo catalogo del questionario era formato da cinque affermazioni contenenti i principali temi che sono stati affrontati dalle intellettuali e dagli intellettuali della Scolastica e che sono diventati delle motivazioni per dare un senso all’esistenza umana [motivi di riflessione validi a tutt’oggi].

   Nel terzo catalogo c’erano sedici termini [che formavano otto coppie di parole in contraddizione tra loro, ma voi non lo dovevate sapere per la buona riuscita dell’esercizio] e con questi termini le intellettuali e gli intellettuali della Scolastica hanno provato a definire il concetto dell’Essere ma noi sappiamo che facendo questa operazione hanno soprattutto definito la qualità [l’essenza] dell’essere umano [e alla lettura di questo catalogo ci dedicheremo la prossima settimana].

   E adesso sulle tabelle dei primi due cataloghi del questionario - al quale hanno risposto 149 persone - osserviamo il risultato delle nostre scelte.

   Il primo riquadro riporta – secondo la grandezza dei caratteri – la quantità di consensi che hanno avuto le trentuno parole che abbiamo incontrato sul territorio della “sapienza poetica e filosofica dell’Età medioevale”. Sui termini più scelti, secondo noi,  poggia l’edificio della Scolastica medioevale.

 

la ragione

la fede   l’intelletto  la luce  la spiritualità

il pane  la comprensione  l’anima

l’universale  la dialettica  la semplicità  la povertà

la medicina  l’adattamento  la teologia

la visione  il labirinto  l’ontologia  la disputa  l’intenzione  la farmacia  la categoria  la cosmologia

la plausibilità  la trattazione  la glossa  il mago  l’investitura  l’umiliazione

[l’analogia  il super]

                                               

   La parola “ragione” è quella che ha ricevuto più consensi [ed era prevedibile un alto gradimento di questo termine, e questa scelta soddisfa certamente Alberto Magno e Tommaso d’Aquino che esaltano l’autonomia della ragione], segue, con un buon numero di consensi, la parola “fede [e il tema del rapporto “fede-ragione” ha caratterizzato tutta la stagione della Scolastica]” e di seguito viene la parola “intelletto” e, quindi, al vertice c’è un’interessante triade di parole! Segue un’altra bella coppia di parole: “la luce” e “la spiritualità” e poi altre tre parole che hanno avuto un buon numero di consensi: “il pane, la comprensione e l’anima”.

   Le prime otto parole di stampo “scolastico” che sono state scelte - “ragione, fede, intelletto, luce, spiritualità, pane, comprensione e anima” - danno forma ad un quadro che potrebbe illustrare non solo il punto d’ingresso nel territorio dell’Umanesimo ma potrebbe anche costituire un ideale programma esistenziale che prevede un equilibrato rapporto tra mondo interiore [fede, intelletto, spiritualità e anima] ed esteriore  [il pane, la comprensione e la luce]. Poi le scelte hanno cominciato a diluirsi con parole interessanti, in ordine decrescente: “l’universale, la dialettica, la semplicità, la povertà, la medicina, l’adattamento, la teologia”. Mentre le parole “visione, labirinto, ontologia, disputa, intenzione, farmacia, categoria e cosmologia” sono state scelte poco. E le parole “plausibilità, trattazione, glossa, mago, investitura e umiliazione” sono state scelte molto poco. E le due parole messe tra parentesi “analogia e super” non hanno ricevuto alcun consenso. Ebbene fate le vostre riflessioni su questo quadro.

 

   Il secondo riquadro riporta - secondo la grandezza dei caratteri - la quantità di consensi che hanno avuto cinque affermazioni, derivanti dalla Filosofia scolastica, che rappresentano altrettante motivazioni per dare un senso all’esistenza umana.

 

Mettersi in armonia con l’universo Essere coerenti con i propri ideali

Rendersi consapevoli del divenire delle cose 

Maturare la consapevolezza che tutto è contingente 

Ricercare le cause dei fenomeni

 

   Ha prevalso nettamente l’idea che per dare un senso all’esistenza umana sia importante “mettersi in armonia con l’universo”, poi ha ricevuto molti consensi l’affermazione che “bisogna essere coerenti con i propri ideali”. Mentre l’affermazione che è necessario “essere consapevoli del divenire delle cose” è stata scelta meno, e poco è stata scelta l’espressione “maturare la consapevolezza che tutto è contingente” e, infine, molto poco è stata scelta l’affermazione “ricercare le cause dei fenomeni”.

   C’è da dire che il tema del “mettersi in armonia con l’universo e con la natura” è stato molto trattato nel corso del Medioevo e soprattutto nella stagione dell’Umanesimo: questa scelta, quindi, indica la direzione che il nostro Percorso deve prendere.

   Questi due quadri [queste due “icone filologiche”] raffigurano la nostra riflessione collettiva sul pensiero della “sapienza poetica e filosofica dell’Età medioevale” quindi indicano un punto di arrivo su cui dobbiamo riflettere ma, soprattutto, le parole “ragione, fede, intelletto, luce, spiritualità, pane, comprensione e anima” che nel primo catalogo sono state scelte di più fanno anche da battistrada per il nostro viaggio che sta per avere inizio nel territorio della “sapienza poetica e filosofica dell’Età umanistica”.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Oggi di queste parole – ragione, fede, intelletto, luce, spiritualità, pane, comprensione, anima  - quale scegliereste per prima?... 

Scrivetela...

 

   L’espressione “mettersi in armonia con l’universo e con la natura”, che ha avuto il maggior consenso nel secondo riquadro filologico, si addice con il racconto che stiamo leggendo - anche se il signor Tiburius non lo sa ancora -, e il testo di questo racconto assume la funzione del veicolo che ci sta facendo entrare nel territorio dell’Epoca umanistica. E allora terminiamo questo secondo itinerario - dedicato ancora al tradizionale e ripetitivo “rituale della partenza” - proseguendo nella lettura de Il sentiero nel bosco.

 

LEGERE MULTUM….

Adalbert Stifter, Il sentiero nel bosco

E, alla fine, avvenne che al signor Tiburius nessuno più fece visita.

Il Nostro era ormai simile a una torre così ben imbiancata e intonacata che i rondoni e i picchi, usi a volarle intorno, sono costretti a dirle addio. Lo stormo è volato lontano, e la torre è rimasta sola. In realtà il signor Tiburius si rallegrò di quel fatto, e per la prima volta dopo molto tempo si fregò le mani; ora infatti poteva dedicarsi senza intralci a quanto già in più occasioni aveva desiderato, non riuscendo però mai nell’intento. In realtà, benché la sua malattia fosse ormai conclamata, ancora non aveva intrapreso nulla per combatterla: non aveva mandato a chiamare un medico né fatto ricorso a qualche farmaco. Ora prese la decisione di curarsi. Così come il vecchio servitore già da tempi immemorabili amministrava la tenuta, al domestico toccò adesso la cura del guardaroba. Al fattore furono affidati gli attrezzi, al castaldo il patrimonio, e a lui, il padrone, non restò altra occupazione se non quella di curarsi.

Onde perseguire al meglio lo scopo, si procurò subito tutti i libri attinenti al corpo umano. Ne tagliò le pagine e li impilò nell’ordine in cui intendeva leggerli. Per primi, naturalmente, venivano quelli dedicati alle caratteristiche e alle funzioni dell’organismo sano. Da questi non ricavò gran che, ma, appena passò alle patologie, gli risultò palmare che quelle ivi descritte si attagliavano perfettamente al caso suo: anzi, se prima non aveva notato sulla sua persona quei sintomi di cui leggeva nei libri, ora li riscontrava su di sé, chiarissimi e palesi, e non riusciva a capire come gli fossero potuti sfuggire. Tutti gli autori che leggeva descrivevano il suo male, anche se non lo definivano sempre con lo stesso nome. Si differenziavano fra loro solo in quanto l'autore letto per ultimo, rispetto al precedente, centrava l’argomento con rigore e precisione sempre maggiori. Poiché il lavoro che si era prefisso era imponente, Tiburius restò a lungo invischiato nell’impresa, senza altra gioia se non quella - ammesso che sia consentito definirla tale - di trovare a volte la sua condizione descritta con una fedeltà così straordinaria e incredibile da parer quasi fosse stato lui in persona a insufflare ogni parola allo scrivente.

Per tre anni si curò, costretto di quando in quando a cambiare terapia, poiché andava progressivamente affinando le sue cognizioni. Da ultimo era così mal in arnese che riscontrò su di sé, a un tempo, tutti i sintomi delle universe malattie. Non avvertiva nemmeno più quel genuino appetito che era stato la delizia della sua infanzia, sebbene fosse pungolato da una voracità fasulla che ogni minuto lo induceva a mangiare qualcosa.

A tanto era ridotto il signor Tiburius. Alcuni lo compativano, e qualche pia donna prevedeva addirittura che a lungo non sarebbe campato. Campò, invece. Alla fine nessuno si interessò più a lui, visto che non gli riusciva neanche di morire. Lo si prendeva per quello che era, oppure si chiacchierava di lui soltanto nel modo in cui si parla di uno che abbia qualcosa di abnorme. Qualcuno, passando accanto a quella bella villa dalle finestre sbarrate, alzava gli occhi e pensava che, se avesse potuto disporre di un tale patrimonio, ne avrebbe goduto in maniera ben diversa da quel lambiccato signore. Noia e solitudine avevano dispiegato i loro ampi vessilli sopra la dimora del signor Tiburius: in giardino crescevano soltanto erbe officinali, tediose all’aspetto e messe a coltura solo negli ultimi tempi. Qualche burlone sosteneva poi che, entro il perimetro di quelle mura, persino i galli cantassero con molta più mestizia.

Preso così atto dello stato miserando in cui versava il signor Tiburius, passiamo ora al caso felice che lo trasse dalla voragine, mutandolo in quell’individuo di cui abbiamo tessuto le lodi al principio di questa storia.

V’era un tale nella zona che godeva fama di essere anche lui un gran matto. D’improvviso corse voce che quest’uomo avesse in cura il signor Tiburius. Costui era sì dottore in medicina, ma non medicava proprio nessuno, sebbene molti ne avessero vista nero su bianco la patente. Un giorno era arrivato da quelle parti, aveva acquistato da un contadino pressoché sul lastrico una cascina malandata - con tanto di giardino, campi e prati - e, dopo averla riattata, si dedicava ora a coltivare la terra e il frutteto. Se qualcuno però veniva da lui lamentando una malattia, non gli prescriveva nessun farmaco, ma lo congedava ordinandogli di lavorare sodo, mangiare più sano del consueto e di tenere spalancate tutte le finestre di casa. Vedendo ormai la gente che quel tale si faceva beffe dell’arte medica e che, in luogo dei farmaci, prescriveva soltanto rimedi naturali, nessuno più lo consultò, e tutti presero a ignorarlo. Dietro la casa il dottore aveva un campo fitto di arboscelli, esili come vermene e da lui tenuti in gran conto, e in una serra crescevano altresì vergelle che nessuno conosceva, dalle verdi foglie lucenti come cuoio. Siccome un matto tira l’altro - diceva la gente -, uno come il signor Tiburius poteva fidarsi solo di un tipo simile, e lasciarsi curare da lui.

Il che, in effetti, non rispondeva al vero. Ecco come andarono, piuttosto, le cose: visto che il signor Tiburius si prendeva così a cuore quanto concerne l’arte medica, i suoi domestici pensarono di fargli cosa gradita raccontandogli del nuovo dottore che aveva acquistato il podere di Ripa Schisa, occupandosi ora dei lavori campestri. Il cameriere personale del signor Tiburius lo nominò un paio di volte, senza che il signor Tiburius vi prestasse attenzione; ma, come talvolta il cielo sceglie vie assolutamente bizzarre affinché si compia il destino di un uomo, accadde in questo caso che il signor Tiburius si imbattesse in un passaggio di uno scritto del vecchio Haller [Albrecht Haller, 1708-1777, fisiologo svizzero e scrittore in lingua tedesca autore di duecento opere] - già da tempo nel novero dei beati -, il quale passaggio racchiudeva un’aporia palese, palese, beninteso, agli occhi di un luminare della medicina - ad altri l’argomento sarebbe comunque risultato incomprensibile -, eppure non proprio del tutto palese per chi invece fosse nel dubbio di essere davvero un luminare della medicina. Preda di tali tormentosi dubbi, il signor Tiburius si sovvenne miracolosamente del nuovo dottore, benché il domestico da tempo non ne facesse più parola. A questo punto, però, dobbiamo rendere onore alla verità storica e confessare che il signor Tiburius si era ricordato di lui proprio perché la gente lo riteneva un matto; il signor Tiburius, infatti, aveva una visione assai personale della dissennatezza, perciò quel tale gli era parso degno di considerazione. Solo che, quando soggetti della specie del signor Tiburius hanno un’idea, tale idea resta normalmente allo stato germinale. E questo, per un certo tempo, fu il caso del signor Tiburius, finché un giorno, all’improvviso, diede ordine di attaccare la carrozza coperta, intendendo recarsi dal dottore a Ripa Schisa. I suoi domestici rimasero di sale per il fatto che osasse esporsi, malato grave com’era, all’aria aperta e agli scossoni della carrozza, pur essendo ricco abbastanza da far venire in casa sua non solo quel medico, ma dieci altri ancora. Il signor Tiburius, però, salì in carrozza e si fece condurre a Ripa Schisa.

Trovò il dottore in maniche di camicia, un largo cappello di paglia gialla sul capo, intento a lavorare alacremente in giardino. Il dottore era un uomo non troppo alto, e indossava vesti di tela grezza, dalle trame ariose. Quando vide la carrozza avvicinarsi al suo giardino interruppe un attimo il lavoro, per seguirla con occhi scuri e ardenti. Il signor Tiburius, con una veste pesantissima a proteggerlo dall’aria, scese dalla carrozza e si diresse verso l’uomo in attesa. Una volta al suo cospetto, sul viottolo del giardino, esordì dicendo di essere il suo vicino, appassionato delle scienze e, in particolare, di quelle mediche. Essendosi imbattuto, parecchie settimane prima, in un passo di Haller in cui, con le sole sue forze, non si raccapezzava, era venuto da lui, che aveva fama di erudito in materia, per pregarlo - pena il sacrificio di qualche minuto del suo tempo - di soccorrerlo con un parere al riguardo.

A tal prologo il piccolo dottore ribatté che testi antiquati come quelli di Haller lui non li leggeva proprio, né esercitava più, in alcun modo, la professione medica, solo in rarissimi casi era in grado di indicare rimedi fidati, e la sua conoscenza del corpo umano l’applicava all’unico scopo di darsi un regime di vita quanto più confacente e giovevole al proprio organismo. Aveva abbandonato la capitale e si era spinto in quella remota campagna proprio al fine di condurvi l’esistenza più sana e armonica.

Ad ogni buon conto, se il signor vicino aveva con sé lo scritto di Haller, avrebbe volentieri dato un’occhiata a quel passo, e azzardato il tentativo di cavarne un senso.

A queste parole il signor Tiburius andò a prendere dalla borsa della carrozza il testo di Haller, e con quello tornò dal piccolo dottore. Costui lo condusse in un padiglione del giardino dove i due uomini restarono per qualche tempo, e quando ne uscirono il signor Tiburius aveva avuto soddisfazione: quel dottore sconosciuto interpretava e commentava il passo di Haller nell’identico suo modo. Tolta di torno la questione il dottore volle ancora mostrargli brevemente le sue colture, le serre con le camelie, i rododendri, le azalee, la verbena, l’erica e le altre piante, oltre al luogo dove mischiava e bruciava il terriccio. Quanto alla frutta, e simili, non c’era ancora molto da vedere. Il dottore disse infine al signor Tiburius che aveva una moglie giovane e particolarmente bella ma che si era fatto tardi per presentargliela, al che il signor Tiburius replicò di essere venuto solo per via di Haller e, quindi, salì in carrozza e partì.

Da quell’uomo il signor Tiburius tornò dopo qualche tempo ancora una volta, e poi due volte, e quindi sempre più spesso; forse perché - come capita a persone di tal fatta - si era prefisso di imparare qualcosa dal dottore. Ecco quindi i due uomini, chiamati pazzi dalla gente, ritrovarsi ogni tanto nel giardino: l’uno con un cappello di paglia e una veste di lino grezzo, attraverso i cui pertugi si infilava l’aria, lambendogli le membra; l’altro con un berrettino di feltro in testa, calato fin sopra le orecchie, una palandrana così lunga da spazzare quasi per terra, tutta abbottonata sopra gli altri vestiti, e che lasciava intravedere, da sotto il bavero, una lunga sciarpa ammatassata per tener calda la gola, e, ai piedi, stivaloni e calze doppie per proteggerli dal freddo.

Durante tali visite il dottore non accennò mai all’eventualità di presentare il signor Tiburius alla moglie, e questi non ne fece mai richiesta. Orbene, giacché il signor Tiburius non frequentava nessuno, a esclusione del dottore, né usciva dalla sua camera, se non per recarsi in visita da lui, la gente credeva, naturalmente, che fosse in cura da quel pazzo di un dottore e che insieme escogitassero rimedi singolari al punto da dover restare segreti, ragion per cui i due venivano tanto spesso a convegno, e tenevano le teste vicine vicine.

Le cose - e noi lo sappiamo - non stavano affatto così: eppure, come sempre accade che la perspicacia del popolo mostri un granello di verità e di fondatezza persino nelle voci più fantasiose che si generano nel suo seno, altrettanto accadde anche in questo caso: infatti, proprio da quel dottore partì almeno il primo impulso che poi continuò da sé a operare ed ebbe per conseguenza la radicale trasformazione del signor Tiburius - al modo del bruco della vanessa che, dopo aver vegetato tediosamente sulle foglie di ortica, ed esservisi abbarbicato tutto raggrinzito, un giorno all’improvviso si schiude, si spoglia del bozzolo nero, ripugnante, coperto di aculei, mostrando i cornetti e le protuberanze della graziosa crisalide, dentro cui già riposano, avvolte su se stesse, le future ali variopinte dalle sgargianti iridescenze. Un giorno infatti, inaspettatamente, il signor Tiburius sottopose al dottore una questione che già da tempo doveva opprimergli il cuore. Disse: «Se Voi, eminentissimo dottore, come mi diceste giusto cinque settimane orsono, prescrivete rimedi fidati solo nelle più rare circostanze, ne avreste forse in mente uno che possa fare al caso mio?».

«Senza alcun dubbio, stimato signor Tiburius» rispose il dottore.

«Allora, per amor di Dio, parlate».

«Dovete sposarvi, non prima però di esservi recato alle terme, dove troverete finanche moglie».

Questo era troppo per il signor Tiburius!! Strinse le labbra, e domandò, con un sorriso incredulo di scherno: «E a quali terme dovrei mai recarmi?».

«Nel vostro caso, vanno bene tutte,» rispose il dottore «preferibile sarebbe però una stazione termale di montagna, ad esempio quella che, nelle nostre alpi, è oggigiorno meta di così tanta gente. Zii, zie, padri, madri, nonne, nonni vi soggiornano insieme a graziosissime figliole, tra cui si troverà anche colei che vi è destinata».

«E allora, finalmente, visto che indicate così bene la cura, qual è il mio male?».

«Questo non ve lo dico,» replicò il dottore «una volta che voi lo sapeste, infatti, non esisterebbe più medicina efficace, o perché non ne prendereste alcuna, o perché non ne avreste più alcun bisogno, in quanto sareste già guarito».

Il signor Tiburius non indagò oltre, non ribatté nulla a quel ragionamento, ma raggiunse passo a passo la carrozza e partì.

 

   Tiburius lascia la casa del dottore e comincia a riflettere ma, mentre per quanto riguarda il matrimonio è piuttosto dubbioso, invece l’idea di andare alle terme lo solletica: e noi lo seguiremo in questa avventura.

   La prossima settimana poi dovremo anche analizzare i risultati del terzo catalogo del questionario dove c’era una domanda formulata in modo “ambiguo [aporetico, e un’aporia è una contraddizione di natura intellettuale]”, questa domanda era formulata secondo il carattere della dialettica scolastica: che cosa significa? Significa che non c’è dialettica se ad una tesi non si contrappone un’antitesi in modo da creare una sintesi che a sua volta è una nuova tesi alla quale si oppone una nuova antitesi e così via, ma non si può rispondere con una battuta a questa domanda.

   E poi, mentre Tiburius va alle terme in carrozza, noi sulle ali della “dialettica scolastica” ci muoviamo in direzione di Oxford dove prende campo il termine “sperimentalismo”. Che cos’è lo “sperimentalismo”? Lo “sperimentalismo” è la prima importante corrente della stagione autunnale del Medioevo. E perché saranno proprio i francescani [sempre tallonati dai domenicani] a giocare un ruolo importante nella fondazione di questa corrente di pensiero?

   Ebbene, questi interrogativi c’invitano a coltivare lo spirito utopico che lo studio porta con sé camminando sulla via dell’Alfabetizzazione culturale e funzionale, consapevoli del fatto che non si deve mai perdere la volontà d’imparare e di sperimentare perché, come dice Socrate: «Una vita senza ricerche non ha alcun senso e non vale la pena di essere vissuta». Per questo la Scuola è qui, e noi siamo [quasi] pronte e pronti per partire muovendoci con la necessaria lentezza perché, come abbiamo già ricordato, chi vuole andare veloce è bene corra da solo, ma chi vuole andare lontano deve camminare insieme agli altri, e noi vorremmo andare lontano.

   Il viaggio è lungo e sta per iniziare, accorrete…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Ottobre 16, 2015