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I PRIMI RIFERIMENTI SULLA “MORFOLOGIA” DE LE STORIE DI ERODOTO…

Lezione N.: 
2

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sguardo di Erodoto 2005        19-20-21  ottobre  2005

I PRIMI RIFERIMENTI SULLA “MORFOLOGIA” DE LE STORIE DI ERODOTO…

   Questa sera – come abbiamo preannunciato la scorsa settimana – ci troviamo sulle coste della Turchia bagnate dal mar Egeo, in una regione che oggi si chiama Anatolia, in una località di nome Bodrum. Perché ci siamo trasferiti qui e come ci siamo arrivati?

   Per arrivare in questa località – che si chiama Bodrum – ci siamo imbarcati su una nave a Brindisi; questa nave ci ha trasportati fino a Patrasso, la maggiore città del Peloponneso, in Grecia. Da Patrasso (con il treno) abbiamo raggiunto Atene, e, dal Pireo – il famoso porto di Atene – ci siamo imbarcati per le isole del Dodecaneso. Dopo aver fatto scalo a Patmos, l’isola sulla quale è stata scritta l’Apocalisse di Giovanni (una delle opere più significative della Storia del Pensiero) e prima di raggiungere Rodi (dove la nave che ci trasporta fa capolinea), siamo sbarcati sull’isola di Kos, patria di Ippocrate, il quale 2500 anni fa ha fondato, proprio qui, la prima Scuola di medicina. L’isola greca di Kos si trova dinanzi alla costa turca che si può vedere ad occhio nudo. Dal porto di Kos (si chiama Kos anche il capoluogo di quest’isola) ci siamo imbarcati su un “caicco”, un battello, e abbiamo raggiunto il porto di Bodrum. Perché siamo sbarcati a Bodrum? Per giunta in quest’ultima traversata – da Kos a Bodrum – ci ha accompagnato il vento, un fastidiosissimo vento teso che fa increspare le onde dell’Egeo e fa “ballare” il piccolo traghetto che ci trasporta. Questo vento ci accompagna anche dopo lo sbarco: è un vento che pettina e spettina incessantemente gli arbusti della macchia mediterranea che copre questo territorio sassoso, che scompiglia i cespugli di mirto (una pianta sacra che dovrebbe stare sempre composta), che fa innervosire gli esseri umani e anche le pecore degli ormai piccoli greggi, che brucano con pazienza sulle lievi alture circostanti e che costituiscono il residuo di un passato pastorale che ha rappresentato la principale fonte economica della gente che viveva da queste parti. «Il vento per sua natura scuote e stimola i pensieri», questa affermazione ci viene suggerita dagli scrittori e dai poeti (a cominciare da Omero). L’idea che il vento per sua natura scuota e stimoli i pensieri è insita nella parola stessa. La parola “vento”, in greco, si dice “ànemos” anemos, che significa soffio, soffio vitale, e (non è difficile tradurre) anche “anima”: questa parola c’invita alla riflessione.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Probabilmente nei tuoi ricordi c’è senz’altro una giornata (o una nottata) di vento che ti è rimasta impressa: scrivi, racconta, bastano quattro righe per esprimere un pensiero, per dare forma all’ ànemos…

   Ànemos, il vento, è la prima parola-chiave – della Storia del Pensiero Umano – che questa sera incontriamo sul nostro itinerario ispirato alla figura di Erodoto e va pronunciata in greco (non a caso siamo sbarcati sulle coste dell’Antica Grecia, Arcaia Ellas-Arcaia Ellas) perché conservi il suo valore e ci stimoli ad investire in intelligenza; e allora riflettiamo: cerchiamo di conoscere, di capire, di applicarci intellettualmente. Persiste l’idea, durata migliaia di anni, che il “vento - ànemos” sia un’energia di natura “metafisica” più che di natura “fisica”. Permane l’idea che il “vento - ànemos” più che una forza materiale rappresenti una facoltà intellettuale. Il “vento - ànemos” sconquassa il mondo delle cose perché prima di tutto agita la sfera dei pensieri. La parola-chiave “ànemos”, – che incontriamo questa sera nel momento della partenza – si rivela significativa anche perché va ad affiancarsi ad un’altra parola che ci aspetta al varco sul territorio in cui siamo appena sbarcati, un territorio che, 2500 anni fa, si trovava al confine tra due regioni “mitiche”: la Ionia e la Caria.

   La parola-chiave “ànemos”, su questo territorio, entra in contatto con il termine che caratterizza il nostro Percorso, con la parola “storia”. Molte volte – durante i nostri itinerari – troveremo intrecciate queste due parole nell’espressione: il vento della storia. Ma questa espressione presuppone un ragionamento complesso che dobbiamo rimandare a quando torneremo a camminare sui sentieri dell’800. Ma noi dobbiamo cominciare da noi stessi, è dalla nostra memoria che soffia il “vento della storia”.

   Quando il vento (il fenomeno naturale) si affianca alla nostra “autobiografia”, ecco che – soprattutto attraverso la scrittura – diventa “ànemos”, diventa facoltà intellettuale. L’anima del vento (se così si può dire…) aleggia su questa terra dove siamo sbarcati. Naturalmente qui tutto è cambiato in questi ultimi 2500 anni, ma noi dobbiamo cogliere le affinità culturali e quindi possiamo dire che per lo meno una cosa è rimasta uguale: il vento, ànemos, il soffio vitale che ha il potere – tutto intellettuale – di richiamare alla mente le cose del passato.

   Su questa terra – al confine tra la regione della Caria a sud e la regione della Ionia a nord, 2500 anni fa, esisteva già la cittadina di Bodrum (che oggi sembra Saint Tropez con tanto di porto turistico affollato di barche e di pizzerie che ci fanno sentire a casa). Allora si chiamava Alicarnasso ed era un’importante polis greca fondata dai Dori. Ad Alicarnasso nel 484 a.C. (circa) da una nobile e benestante famiglia è nato Erodoto.

   In questa fase iniziale del nostro Percorso ci siamo già domandati spesso: chi è Erodoto? In realtà dovremmo chiederci: che cos’è Erodoto? Infatti, oggi, come succede per tutti i cosiddetti classici, Erodoto più che essere qualcuno è qualcosa. Erodoto è un apparato culturale: Erodoto s’identifica con Le Storie e la sua figura è legata alla morfologia, alla forma che ha assunto la sua opera. Il fatto è che, nel tempo, il testo de Le Storie di Erodoto – per quanto riguarda la forma si è evoluto indipendentemente da Erodoto, mentre il contenuto è rimasto intatto.

   Il primo tema di studio che ci si pone di fronte incontrando Erodoto è quello della forma della sua opera: questo è il primo paesaggio intellettuale che ci troviamo davanti sul nostro Percorso e, nonostante ci conduca su un terreno accidentato, non possiamo e non dobbiamo evitarlo. Il testo de Le Storie di Erodoto ha una sua storia filologica ed editoriale molto interessante e anche molto complessa. Noi non vogliamo e non possiamo avventurarci in studi complicati, poiché il nostro Percorso non ha come obiettivo la specializzazione filologica, anche se – essendo tutti voi dei giovani studenti – presumo che col tempo e con l’impegno, attraverso la didattica della lettura e della scrittura (che è il nostro reale obiettivo didattico), diventerete certamente degli esperti filologi e dei formidabili chiosatori ed ermeneuti; per ora accontentiamoci di diventare degli esegeti: esegeta significa lettore attento,  e il nostro obiettivo didattico è quello di diventare dei lettori attenti, accorti, avveduti al fine di gustare il piacere del testo.

   Per conoscere e per capire Erodoto, dobbiamo entrare in sintonia con la sua opera, dobbiamo entrare in contatto con il suo libro (cum cactus: per leggere è necessario esercitare i sensi, e noi sappiamo che toccare i libri è il primo atto fondamentale nell’esercizio della lettura). Il libro di Erodoto va osservato non solo nella sua forma editoriale (come è fatto il libro o i libri che contengono l’opera); a questo proposito è necessario dire che troviamo pubblicate Le Storie in molte edizioni: qui, per esempio, c’è l’edizione economica degli Oscar Mondatori, c’è poi, in circolazione, quella altrettanto economica della BUR, poi ci sono edizioni pregiate (e meno economiche) come quella della Fondazione Lorenzo Valla e via dicendo. Il libro di Erodoto va osservato soprattutto nella sua forma strutturale (se il testo è diviso in libri, in capitoli, in sezioni, in paragrafi, in versetti) e se questa organizzazione strutturale è stata data dall’autore oppure da altri, e perché e per come e per chi). Erodoto oggi (anche se noi cercheremo di farlo sorridere come persona) corrisponde alla sua opera, corrisponde alla struttura formale (prima ancora che contenutistica) della sua opera.

   Quindi la seconda cosa da fare, dopo il toccare e l’annusare, è quella di consultare la fisionomia del testo, sfogliando il libro per osservarne la forma: come è suddiviso il testo de Le Storie di Erodoto? A questo proposito, per esercitarci a consultare i testi e a osservare la loro fisionomia ci sono le biblioteche; i cittadini devono prendere l’abitudine di frequentare le biblioteche: in questo modo s’impara tra l’altro a predisporre meglio le proprie biblioteche domestiche. Le considerazioni che stiamo per fare sulla forma strutturale di questo libro ci devono servire per poter svolgere. in settimana, un esercizio di osservazione per conto nostro.

   Prima di partire per questo itinerario, che ha per tema la forma strutturale dell’opera di Erodoto, dobbiamo precisare che ci muoviamo su un sentiero molto accidentato, ma anche molto panoramico: appena prendiamo contatto con la struttura, con la morfologia (con gli studi sulla forma, ci dicono gli esperti) dell’opera di Erodoto, ecco che i paesaggi intellettuali si susseguono uno dopo l’altro costringendoci a moderare il passo, a fermarci e a osservare, a rallentare e a riflettere; ed Erodoto, per questo motivo, se la ride sotto i baffi e allude.

   Il primo paesaggio intellettuale al quale ci troviamo di fronte contiene l’informazione che non è stato Erodoto a dare alla sua opera la forma strutturale che oggi ha. Erodoto non ha dato neppure un titolo determinato alla sua opera, egli si è limitato a definirla Istories apodeixis (Istoriés apodeìxis) che letteralmente possiamo tradurre con esposizione di ricerche. Erodoto all’inizio della sua opera ha scritto una dichiarazione: “Ho fatto delle ricerche e poi le ho esposte per iscritto”: questo significa Istoriés apodeìxis. Questa circostanza ha fatto sì che la parola “istoriés” abbia definito per sempre il termine storia inteso come disciplina. Per questa ragione formale Erodoto è stato chiamato padre della storia, perché ha dato il nome a questo genere di studi. Dobbiamo dire che la prima dichiarazione ufficiale che attribuisce a Erodoto il titolo di “pater historiae” è di Cicerone nell’opera De legibus (redatta tra il 52 e il 48 a.C.).

   E allora, se non è stato Erodoto, chi è stato a mettere a punto la forma strutturale (che tutt’oggi possiede), e a dare il titolo, Storia delle guerre persiane (un titolo che oggi non viene più usato), al libro di Erodoto?

   A dare la forma, ad organizzare il testo de Le Storie di Erodoto sono stati i grammatici alessandrini. Lì per lì questa affermazione non ci dice granché, però ci mette di fronte ad uno scenario culturale che presuppone un interrogativo. Chi ci fornisce per la prima volta questa notizia un po’ vaga? Chi ci fornisce la notizia che sono stati i grammatici alessandrini a dare la forma a Le Storie di Erodoto? Esistono due riferimenti in proposito.

   Il primo a scrivere una riga in cui si afferma che a dividere in nove libri il testo de Le Storie di Erodoto sono stati i grammatici alessandrini è Dionigi di Alicarnasso (la città dove è nato Erodoto e dove siamo appena sbarcati). Dionigi di Alicarnasso, storico e maestro di retorica, è vissuto a Roma nel I secolo a.C. – tra il 90 e il 20 a.C. – all’inizio dell’età di Augusto (circa quattrocento anni dopo Erodoto) e la traccia che a noi interessa la troviamo in un’opera intitolata Archeologia romana, il cui sottotitolo Storia antica di Roma dalle origini al principio delle guerre puniche ci spiega di che cosa tratta quest’opera in 20 libri (ce ne sono rimasti undici).

   Il secondo riferimento sulla suddivisione del testo de Le Storie di Erodoto da parte dei grammatici alessandrini in nove libri, nove come le Muse del Parnaso lo troviamo nei Dialoghi del sofista Luciano di Samosata (città della Siria).  Luciano è vissuto nel II secolo, tra il 125 e il 190 d.C. (circa seicento anni dopo Erodoto), girovagando e insegnando tra la Grecia, l’Italia, la Gallia e l’Egitto, personaggio provocatorio (in senso positivo) dal punto di vista della didattica della lettura e della scrittura. Noi che frequentiamo questi Percorsi da qualche anno, conosciamo i Dialoghi di Platone: li abbiamo studiati in molti itinerari; ebbene, i Dialoghi di Luciano di Samosata sono altrettanto significativi e formano un corpus, una raccolta di 82 testi, di cui 70 sono considerati autentici. I più importanti tra questi scritti sono i Dialoghi degli dèi, i Dialoghi dei morti, i Dialoghi delle cortigiane, i Dialoghi degli dèi marini, il trattatello intitolato Sul modo di scrivere la storia, i tre racconti metaforici Il sogno, Il gallo e L’asino (si tratta però di un rifacimento). Luciano di Samosata è considerato il migliore e il più originale scrittore tra i sofisti greci.  Il contenuto dei suoi Dialoghi s’ispira alla filosofia della Scuola cinica (IV secolo a.C.) di Diogene e di Menippo (tutti abbiamo sentito nominare Diogene, e lo abbiamo studiato a suo tempo), gli unici filosofi coerenti secondo Luciano che hanno vissuto disprezzando davvero i beni superflui. Diogene è un personaggio intorno al quale è fiorita un’aneddotica straordinaria. La scrittura di Luciano si traduce in una satira morale, religiosa, civile, letteraria, molto efficace in cui egli mette in discussione tutte le credenze con uno scetticismo sereno ed obiettivo. La sua arte di scrittore è molto fine, ricca di brio e d’umorismo, è secondo solo a Platone e al commediografo Aristofane.

   Se osserviamo questo paesaggio intellettuale nel quale ci siamo imbattuti, in primo piano vediamo il libro de Le Storie di Erodoto (l’oggetto del nostro Percorso), in secondo piano vediamo Dionigi di Alicarnasso, un po’ più in là si vedono le opere di Luciano di Samosata e poi lontano, quasi all’orizzonte s’intravede anche la barba di uno scrittore che si chiama Jules Verne: che cosa ci fa Jules Verne – sebbene piccolo piccolo – in questo scenario culturale? Non solo, ma, ancora più lontano, piccola piccola, emerge anche la figura di uno scrittore che dobbiamo mettere a fuoco: ma procediamo con cautela.

   Ai Dialoghi di Luciano di Samosata appartiene anche un testo che s’intitola Storia vera.  Quest’opera è una specie di romanzo satirico in due libri, è una parodia, cioè un romanzo che prende i giro i romanzi,  in cui lo scrittore mira a fare il verso alle invenzioni e alle fantasie dei poeti i quali mentono e pretenderebbero di essere presi sul serio. Nel proemio Luciano avverte il lettore che non dirà una parola di vero (il titolo, Storia vera, è ironico), e poi dà libero corso alla sua fantasia vivacissima, e narra, con facilità, con brio e con eleganza, una lunga serie d’avventure curiose e fantastiche, che crea prendendo lo spunto dai grandi poeti, dagli storici e dai filosofi antichi, come Omero, Ctesia, Pitagora, Empedocle e anche Erodoto. In questo romanzo satirico Luciano narra un fantastico viaggio, compiuto da una comitiva, dalle Colonne d’Ercole (lo stretto di Gibilterra) fino alla luna (addirittura fino al sole), e di nuovo dalla luna alla terra, dove i viaggiatori approdano su un nuovo continente fino ad allora sconosciuto. In questo racconto favoloso incontriamo isole misteriose, territori della cuccagna, fiumi di vino, fonti d’unguento miracoloso, balene gigantesche, esseri immaginari, sirene, ippogrifi, centauri, e via dicendo. Per l’instancabile ricchezza e varietà d’invenzioni quest’opera è diventata un modello “classico” e ha ispirato i racconti meravigliosi degli scrittori d’ogni tempo, da Rabelais a Swift, da Voltaire a Jules Verne.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Storia vera di Luciano di Samosata è pubblicata nelle edizioni economiche ed è facilmente reperibile in biblioteca: prova a leggerne qualche pagina

   Ma il tratto più significativo dell’opera di Luciano sta nella forma della scrittura e precisamente nel ritmo, incalzante e coinvolgente, con cui si dipana il racconto.

   E già che ci siamo possiamo fare l’esperienza di leggerne due pagine, per capire anche che i classici non sono facili da leggere, ma non è neppure impossibile leggerli.

LEGGERE MULTUM...

Luciano di Samosata, Storia vera (II sec.)

Come gli atleti e, comunque, quanti praticano qualche esercizio fisico si preoccupano non soltanto di mantenersi in forma e di allenarsi, ma anche di concedersi al momento opportuno un po’ di riposo – ritengono questo una parte delle più importanti nell’ambito dell’attività sportiva – ugualmente, ne sono sicuro, anche a chi è impegnato in un intenso sforzo intellettuale giova riposare la mente, dopo una lettura prolungata di libri seri, in modo da renderla più pronta e vivace in vista delle successive fatiche. Il riposo, poi, sarebbe perfettamente consono a questo tipo di persone, se si dedicassero a un genere di letture non soltanto in grado di offrire il fascino derivante dall’ironia e dal tono brillante, ma capaci anche di unire l’utile al dilettevole; e questo, spero, si penserà della mia presente composizione. Spero, cioè, che costituirà motivo di attrazione per un simile pubblico non soltanto la stranezza dell’argomento o l’armonia dell’impianto narrativo, tanto meno il mio modo di presentare bugie stravaganti in una forma credibile e verosimile, ma il fatto che ognuna delle cose che descrivo è una «frecciata» destinata a coprire di ridicolo certi poeti e storiografi e filosofi del passato che hanno messo insieme e scritto una quantità di favole mirabolanti; tutta gente che nominerei, anche, se a chiunque le allusioni non risultassero chiare alla semplice lettura. Ad esempio Ctesia, figlio di Ctesioco di Cnido, ha scritto sull’India e sugli usi e costumi degli Indiani cose che non aveva visto con i suoi occhi né aveva sentito dire da altri testimoni attendibili. Anche Iambulo ha scritto mille storie assurde sull’Oceano: certo ha costruito solo un castello di bugie da chiunque riconoscibili come tali ma ne è uscita, nonostante questo, un’opera piuttosto gradevole.

Molti altri ancora hanno scelto la stessa strada già battuta da questi che ho citato: hanno fatto il resoconto di certi loro viaggi e peregrinazioni immaginarie, descritto belve gigantesche, uomini ferocissimi e usi e costumi di vita assolutamente mai visti prima. Il capostipite di questa numerosa famiglia e il maestro per eccellenza in una simile arte della ciarlataneria è l’Ulisse omerico, che ha raccontato ad Alcinoo e alla sua corte di venti prigionieri, di uomini con un occhio solo, cannibali e selvaggi, e ancora di animali dalle molte teste e di compagni trasformati per opera di filtri magici (le fanfaronate, insomma, che ha propinato senza risparmio a quei poveri ingenui dei Feaci). Nel leggere, dunque, tutte queste cose, non ho potuto biasimare troppo gli autori per le loro bugie, perché so che ormai questo andazzo è generale, anche tra gli uomini di alta cultura: mi sono però stupìto che potessero credere di farla franca pur scrivendo falsità su falsità. E così anch’io, nel desiderio di lasciare – per vanità naturalmente – qualche messaggio ai posteri, per non restare il solo privo della sua parte di libertà assoluta nell’inventare favole, siccome non avevo nessun avvenimento reale da descrivere – purtroppo non mi è mai successo niente che meriti di essere raccontato – sono ricorso al falso, ma a un falso molto più onesto di quello dei miei predecessori perché almeno in una cosa sono sincero: dichiaro ad alta voce che mento. Con questo sistema, con l’ammettere io stesso di non dire niente di vero, penso di poter scampare al biasimo altrui; sia chiaro dunque che scrivo di cose né viste con i miei occhi né che mi sono capitate né che ho saputo da altri, ma, insomma, che proprio non esistono e che non potranno esistere mai; per questo i miei lettori non devono credere nemmeno a una parola.

Un bel giorno dunque parto dalle colonne d’ Ercole e, levata l’ancora, col vento in poppa, puntiamo in direzione dell’Oceano che sta a occidente. La causa e il presupposto del mio viaggio erano la curiosità insaziabile della mia natura e il desiderio di nuove esperienze: in particolare, volevo riuscire a sapere da cosa è costituito il limite dell’Oceano e che razza di gente vive al di là. A questo scopo, naturalmente, caricata un’enorme quantità di provviste, a cui avevo fatto aggiungere anche acqua a sufficienza ho scelto una cinquantina di coetanei con le mie stesse idee e desideri, poi mi sono procurato armi in abbondanza e ho convinto ad accompagnarci il migliore dei timonieri che sono riuscito a trovare, dopo averlo assunto senza badare a spese: insomma ho attrezzato la nave – era una nave leggera – come per una traversata lunga e rischiosa. Dopo aver navigato un giorno e una notte ancora sottocosta abbiamo preso il largo a un’andatura moderata, ma il giorno successivo, al sorgere del sole, il vento si è rinforzato, le onde sono diventate più alte, è calata una fitta nebbia e non eravamo nemmeno più in grado di ammainare le vele; sballottati quindi dal vento e completamente in sua balìa, per ben 79 giorni siamo stati in preda alla tempesta. All’ottantesimo, però, all’improvviso, ha cominciato a splendere il sole e avvistiamo non molto distante un’isola alta e ricoperta da una fittissima vegetazione, intorno alla quale il fragore delle onde diventava meno violento, anche perché ormai la burrasca stava cessando quasi del tutto. Siamo approdati, allora, e, scesi dalla nave, saremmo rimasti un bel pezzo sdraiati per terra, come era logico, visto che eravamo usciti finalmente da una situazione difficile durata tanto a lungo; ma ci siamo tirati su e abbiamo deciso che 30 di noi rimanessero a far la guardia alla nave e 20 venissero con me a compiere una ricognizione nell’isola.

Ci eravamo inoltrati nella boscaglia, allontanandoci dal mare circa 30 stadi, quando ci capita sotto gli occhi una colonna di bronzo, con un’iscrizione in caratteri greci, poco chiari e mezzo cancellati, che diceva: «Fin qui sono arrivati Ercole e Dioniso». C’erano anche due orme lì vicino, su una roccia, una di 30 metri, l’altra più piccola: secondo me, una doveva essere di Dioniso – la più piccola – e l’altra di Ercole.

Dopo la genuflessione di rito, abbiamo proseguito: ma non molto dopo ci troviamo davanti a un fiume in cui scorreva vino, e vino, oltretutto, uguale identico a quello di Chio: la portata del fiume era molto abbondante, tanto che in qualche tratto sarebbe stato possibile anche navigarci. A questo punto, naturalmente, abbiamo potuto credere ben di più all’iscrizione sulla colonna perché avevamo sotto gli occhi il segno tangibile del passaggio di Dioniso. Decisi allora di scoprire anche dove nasceva il fiume, e lo risalii tenendomi lungo la sponda: ma non trovai nessuna sorgente, bensì molte viti, alte e cariche di grappoli: accanto alla radice di ognuna sgorgava una goccia di vino color fiamma e da queste aveva origine il fiume. C’erano anche, dentro il fiume, pesci in quantità, con la pelle color vino e pure col sapore di vino, tanto è vero che noi, quando ne abbiamo pescato qualcuno e lo abbiamo mangiato, ci siamo subito ubriacati: anzi, quando li abbiamo tagliati a pezzetti, li abbiamo trovati pieni di feccia. Poi, però, ci è venuta un’idea luminosa: abbiamo mescolato con questi gli altri pesci pescati in mare e così siamo riusciti a rendere un po’ meno micidiale quel pasto a base di vino.

Una volta attraversato il fiume, in un punto guadabile, scoprimmo una prodigiosa qualità di viti: nella parte inferiore, che usciva da terra, il fusto era rigoglioso e robusto, di sopra, invece, erano donne, e a partire dai fianchi avevano tutti gli attributi femminili al loro posto: così i nostri pittori rappresentano Dafne mentre si trasforma in albero appena viene raggiunta e ghermita da Apollo. Dalla punta delle loro dita nascevano i tralci pieni di grappoli, e anche in testa avevano, per capelli, viticci, foglie e grappoli. Quando ci avvicinammo, ci accolsero festosamente, salutandoci alcune in lidio, altre in lingua indiana, ma la maggioranza in greco. Non solo, ma ci baciavano sulla bocca: chi veniva baciato però, all’istante si ubriacava e cadeva in una specie di delirio. Non ci lasciavano peraltro cogliere i loro frutti perché sentivano dolore, e strillavano se glieli strappavamo. Volevano anche far l’amore con noi: ma due miei compagni, accostatisi a loro, non riuscirono più a liberarsi: rimasero attaccati a quelle per i genitali, cominciando a mettere gemme e radici intrecciate con le loro, anzi ben presto le dita di quei disgraziati divennero tralci e, stretti in un unico intrico con i pampini delle donne-viti, erano lì lì per produrre frutti anch’essi. Noi allora li lasciammo per correre a rifugiarci sulla nave, dove, al nostro arrivo, raccontammo ai compagni rimasti là tutto, e l’amplesso, e la successiva simbiosi con le viti. Con delle anfore ci rifornimmo quindi sia di acqua sia, attingendo dal fiume, di vino e, dopo aver passato la notte accampati sulla spiaggia, all’alba levammo le ancore con una brezza leggera. Verso mezzogiorno, quando ormai l’isola non era più in vista, all’improvviso si abbatté su di noi un tifone che prese nel suo vortice, facendola roteare, la nave, la sollevò fino a un’altezza di 300 stadi e non la depose più sul mare: sospesa su per aria era spinta da un vento che soffiava nelle vele gonfiandole.

Per 7 giorni e altrettante notti proseguimmo nella nostra corsa attraverso il cielo finché all’ottavo scorgiamo una grande terra, una specie di isola nello spazio, di forma sferica, brillante, che emanava una gran luce: allora ci siamo avvicinati, abbiamo attraccato e siamo scesi: a una prima ricognizione abbiamo scoperto un paese abitato e coltivato. Di giorno non vedevamo niente altro da lassù, ma come scese la notte, cominciarono ad apparire ai nostri occhi anche molte altre isole, nelle vicinanze, alcune più grandi, altre più piccole, dalla superficie colore del fuoco, e un’altra terra, laggiù, con città, fiumi, mari, boschi e catene di monti: immaginammo quindi che fosse quella abitata da noi. Avevamo deciso di spingerci ancora un poco più avanti, quando venimmo sorpresi dai Cavalcavvoltoi – così li chiamano da quelle parti – che ci si pararono di fronte. Questi Cavalcavvoltoi sono uomini che vanno in giro in groppa a grossi avvoltoi, cioè usano gli uccelli come cavalli; gli avvoltoi sono enormi e per lo più a tre teste. Quanto siano grandi lo si potrebbe capire da questo particolare: ciascuna delle loro penne è più lunga e robusta dell’albero di una grossa nave da carico. I Cavalcavvoltoi hanno l’incarico di incrociare nel cielo del loro paese e, se trovano qualche straniero, di portarlo dal re: ovviamente hanno sorpreso anche noi e ci hanno trascinato davanti a lui. Il re, dopo averci squadrati, ha domandato, deducendo la cosa dal nostro abbigliamento: «Voi dunque siete Greci, stranieri?», e al nostro «sì» ha aggiunto: «Come siete riusciti, in questo caso, ad attraversare tanto spazio e ad arrivare fin qui?». Noi allora lo abbiamo informato di tutto fin nei minimi dettagli; e anche il sovrano, a sua volta, ha incominciato a raccontarci la sua storia: lui pure era un terrestre, si chiamava Endimione, e un bel giorno, mentre dormiva, era stato portato via dalla nostra terra, era arrivato lassù, ed era diventato re di quel luogo: ha aggiunto poi che la terra dove ci trovavamo era quella che da laggiù ci appare come la Luna; ci ha detto anche di non aver paura e di non temere alcun pericolo: avremmo avuto a disposizione tutto quello di cui avevamo bisogno. «Se poi mi va bene anche la guerra che ho intenzione di muovere in questi giorni contro gli abitanti del Sole, potrete vivere nel mio paese la vita più felice che abbiate mai sognato». Abbiamo chiesto chi fossero i nemici, e il motivo della discordia, e ci ha risposto: «Fetonte, re degli abitanti del Sole – perché naturalmente anche il Sole è abitato come la Luna – da molto tempo ormai conduce una guerriglia contro di me. Tutto è cominciato così: un giorno avevo riunito i più poveri del mio regno e avevo deciso di mandarli a fondare una colonia su Venere, che è una stella isolata e abbandonata da dio e dagli uomini. Fetonte però, a cui la cosa non garbava, ha impedito con la forza la fondazione della colonia, sbarrandoci il passo a metà strada alla testa delle Formiche Volanti.

In quella occasione, per la verità, siamo stati battuti – le forze erano impari – e abbiamo dovuto ripiegare sulle nostre posizioni; adesso, però, voglio a mia volta scatenare la guerra e fondare a tutti i costi la colonia. Se ve la sentite, quindi, arruolatevi nel mio esercito; assegnerò a ciascuno un avvoltoio, di quelli reali, e il resto dell’equipaggiamento; la sortita è fissata per domani», «D’accordo», ho risposto semplicemente, «come vuoi tu». Allora

   Se volete, potete proseguire la lettura in biblioteca, anche solo per andare avanti di una o due pagine. Storia vera di Luciano di Samosata è pubblicata nelle edizioni economiche ed è facilmente reperibile. I classici non sono facili da leggere, ma non è neppure impossibile leggerli specialmente se possiedono il ritmo incalzante che Luciano ha saputo dare a quest’opera. E – come ogni anno, da vent’anni a questa parte – ci troviamo, fin dall’inizio, di fronte alla classica domanda sui classici (come soleva dire Italo Calvino): perché sono importanti i classici? La lista delle risposte a questa domanda è lunga e anche Erodoto di fronte a questo interrogativo sorride, annuisce e allude. I classici sono importanti anche perché ci portano sul gradino più alto e di lassù possiamo dare un’occhiata a quello che ci circonda nei territori della cultura. Per esempio Luciano di Samosata scrive che il capostipite di questa numerosa famiglia e il maestro per eccellenza in una simile arte della ciarlataneria è l’Ulisse omerico per le fanfaronate che ha propinato senza risparmio a quei poveri ingenui dei Feaci. E aggiunge: Nel leggere, dunque, tutte queste cose, non ho potuto biasimare troppo gli autori per le loro bugie, perché so che ormai questo andazzo è generale, anche tra gli uomini di alta cultura: mi sono però stupito che potessero credere di farla franca pur scrivendo falsità su falsità.

   Questa riflessione che noi troviamo in un testo classico ad aprire una parentesi sul celebre tema de la menzogna di Ulisse. Un tema, questo, che attraversa tutta la Storia della cultura, ma noi vogliamo solo aprire una parentesi – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – su un piccolo ma significativo evento editoriale: quest’anno è stato ristampato un libro che era esaurito da un po’ di tempo; questo libro, stampato precedentemente (l’ultima volta nel 1994) con il titolo La menzogna di Ulisse, ora è stato ripubblicato con il titolo originale, quello che gli ha dato il suo autore: La nascita dell’Odissea. L’autore di questo romanzo – la cui figura spunta, piccola piccola, in lontananza nel paesaggio intellettuale che stiamo osservando – si chiama Jean Giono (1895-1970), che abbiamo incontrato più di una volta. Jean Giono è famoso soprattutto per aver scritto nel 1951 un romanzo intitolato L’ussaro sul tetto, da cui è stato tratto anche un film che merita di essere visto. Giono si era già messo in luce come scrittore nel 1929 con il romanzo intitolato Collina, dove emerge il tema della Natura che continua a essere governata dal dio Pan: anche questo romanzo merita di essere letto non solo per il contenuto ma soprattutto per il linguaggio“poetico molto significativo. Giono ha scritto molti altri romanzi, la lista è lunga, citiamo: Il canto del mondo (1934), Il ragazzo celeste, Due cavalieri nella tempesta, Il serpente di stelle, Lettera ai contadini sulla libertà e sulla pace (1938), Viaggio in Italia (1953), L’uomo che piantava gli alberi. La terra che fa da sfondo a quasi tutti i romanzi di Jean Giono è la Provenza, una terra di grande bellezza nel sud della Francia, una terra sospesa tra le montagne e il mare, di cui lo scrittore ha saputo evocare il fascino, la forza e il mistero.

   Come potete constatare, Erodoto ha il potere di farci volare dall’Anatolia alla Provenza in un battibaleno. Jean Giono ha studiato con passione e ha molto amato i miti greci e li ha trapiantati intellettualmente sul territorio della Provenza.   Jean Giono non ha mai smesso di percorrere in lungo e in largo questa terra “su cui – scrive – sono venute a franare le Alpi”: l’ha amata, l’ha difesa, l’ha raccontata, l’ha vissuta. Nel 1930 ha lasciato il posto in banca per ritirarsi a Manosque, il paese in cui è nato, e dal quale non si è allontanato mai (se non per brevi viaggi); ma Giono cercherà sempre di sottrarsi al cliché dello scrittore regionale che canta le lodi della sua terra d’origine. Jean Giono ripeteva: «Non sono un provenzale, sono nato in Provenza per caso»; difatti suo padre (calzolaio anarchico, emigrante) era di origine piemontese e sua madre, lavandaia, era originaria della Piccardia (regione del nord della Francia), e queste due persone – ricordava Giono – solo per caso si sono incontrate a Manosque, unendo felicemente i loro destini.

   «Amo la Provenza – diceva spesso Giono – ma non sono uno scrittore provenzale», anche se poi come nessun altro è stato capace di descrivere la natura e gli abitanti di questa regione, e questo fatto ha contribuito a creare il malinteso dello scrittore regionalista che ha pesato a lungo sulla sua carriera letteraria. Jean Giono ha scritto: «La Provenza che descrivo è una Provenza inventata, è un sud inventato; i paesaggi che descrivo nascono soprattutto da una geografia privata e sentimentale. Ho inventato un paese, l’ho popolato di personaggi inventati, investendoli di drammi inventati. La mia è una Provenza tutta personale che non coincide mai con la realtà che si può vedere su una fotografia o su una carta geografica».

   Resta il fatto che una visita alla Provenza, soprattutto all’Alta Provenza, dopo aver letto i testi di Jean Giono, risulta molto più significativa. Quella di Giono è una Provenza immaginaria che però si nutre sempre della geografia reale: il lettore s’imbatte di continuo nelle tracce reali di questa regione e scopre il paese di Manosque sulle rive della Durance, un bel fiume affluente del Rodano, al centro di un paesaggio di colline, dove i campi di lavanda e gli oliveti si alternano ai campi di grano, ai campi di girasoli e alle vigne. A nord di Manosque, la terra lavorata dall’agricoltura, lascia il posto ai boschi di lecci e di querce.

   Si consiglia vivamente la lettura o la rilettura del racconto L’ uomo che piantava gli alberi perché è un vero peccato non averlo letto. Giono esplora la sua terra, sentiero dopo sentiero, durante interminabili passeggiate in cui impara ad apprezzare la vita faticosa e severa delle persone che la lavorano, e durante una di queste passeggiate, nel 1913, dice di aver incontrato Elzéard Bouffier, il protagonista de L’ uomo che piantava gli alberi. Questo vecchio contadino, solitario e taciturno, aveva passato metà della sua vita a piantare migliaia e migliaia di querce, di faggi, di betulle, facendo nascere una grande foresta dove prima c’erano soltanto aride montagne e lavanda selvatica. «Non è forse un uomo straordinario?» dice Jean Giono facendoci riflettere sul tema di chi fa veramente la Storia; questa di Elzéard Bouffier è una storia di tenacia e di generosità che Giono trasforma in un inno alla terra e in un invito a vivere in armonia con la natura (è il messaggio di Rousseau che riemerge). Questo breve racconto è oggi considerato un piccolo classico della letteratura e della Storia del Pensiero Umano. I boschi di lecci e di querce, che ricoprono i rilievi provenzali, salgono verso la montagna della Lure, da cui viene un vento (ànemos) che, scrive Giono, «taglia come un rasoio, scaccia le gazze e indica a chi sa il nascondiglio delle lepri».

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A questo punto possiedi le coordinate per fare, con l’atlante e la guida della Francia, un piccolo viaggio nell’Alta Provenza… Se navighi in rete puoi entrare nei siti (sono più di 800) dedicati a Jean Giono, soprattutto nel sito del “Centro Jean Giono di Manosque” che ogni anno organizza le “Giornate di studio” dedicate allo scrittore, buon viaggio, buona ricerca, buona lettura…   

   Ma torniamo al tema de la menzogna di Ulisse e al romanzo di Jean Giono, su cui abbiamo aperto questa parentesi, intitolato La nascita dell’Odissea, ripubblicato quest’anno. La nascita dell’Odissea è il primo romanzo che Jean Giono ha scritto nel 1927. Jean Giono in questo testo ricostruisce in modo dissacrante il mito di Ulisse, ma, in realtà, quest’opera è una riflessione ironica e divertente sulla condizione umana, e soprattutto sul corpo, e quindi sulla carne. Il tema del corpo, della carne, costituisce il punto di partenza e anche di arrivo di tutti i significati che s’intrecciano nel testo: è la carne che induce i personaggi all’azione, primo fra tutti Ulisse. Il tema della carne si affianca inevitabilmente al tema della menzogna: è la carne che costituisce la causa della menzogna. E se la carne è sostanza, la menzogna è solo forma: è una costruzione linguistica, logica, che poggia su presupposti falsi, la menzogna è l’affermazione di ciò che non c’è, è forma vera di una sostanza inesistente. Per ironia – scrive Giono – l’essere umano è formato da corpo e anima, dove il corpo (la sostanza) è la carne e l’anima (la forma) è la menzogna. La menzogna può allora costituire l’anima di ogni storia, di ogni racconto, di ogni narrazione. La menzogna dà sempre forma ad un nuovo contenuto più ricco, più completo, perfettamente strutturato: è dalla menzogna che nasce il mito (la rete dei “racconti inventati”) tanto potente da sovrapporsi alla Storia: ”queste cose non sono mai avvenute ma sono sempre” scrive Sallustio e la menzogna si perpetua.  È dalla menzogna dunque che nascono le avventure di un eroe splendido, puro, audace, generoso con la vita, Ulisse. Che importa, allora, di sapere se Ulisse è un vero eroe, come insegnava Omero, o solo un uomo debole, pronto a fermarsi in ogni porto, attento a proteggere e a gratificare il proprio corpo, la propria carne. Per poter proteggere e gratificare meglio il proprio corpo e la propria carne è importante che quest’uomo sappia porsi come un eroe. Che sappia inventarsi un personaggio, e, intorno a lui, una storia. C’è chi ci riesce, come Ulisse, e chi non ne è capace, come suo figlio Telemaco. Telemaco – scrive Jean Giono ne La nascita dell’Odissea – inquieto e inquietante, è profondamente in collera con il padre, perché? Perché tutti credono alla veridicità delle gesta raccontate da Ulisse, che Telemaco sa essere false, mentre nessuno crede alla veridicità delle sue peripezie, assolutamente vere. La verità – che Ulisse conosce e Telemaco ignora – è che non è la verità a rendere avvincente una storia, una storia non è bella perché è vera, non è brutta quando è falsa: la verità è che la verità non conta nulla, e forse neanche la storia. Quel che conta è sempre – nella vita come nel romanzo – saper raccontare, possedere il dono dell’affabulazione.

   Questi ragionamenti sono gli stessi del sofista Luciano di Somosata che Jean Giono conosce bene attraverso le sue opere, come conosce bene i classici in generale: l’Iliade, l’Odissea, Le Storie di Erodoto. Un altro elemento che Jean Giono ha in comune con Luciano è il modo di trattare il linguaggio: la prosa di Giono è un significativo esercizio di manipolazione linguistica, un audace (per i tempi) esperimento di poetizzazione della prosa. Ed è Erodoto – molto curioso – che ci suggerisce di leggere l’incipit, l’inizio.

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Jean Giono, La nascita dell’Odissea (1927)

Disteso sulla sabbia umida, Ulisse aprì gli occhi e vide il cielo. Null’altro che il cielo! Sotto di lui, la carne esangue della terra che partecipa ancora all’astuzia delle acque.

Il mare perfido ululava dolcemente: le sue molli labbra verdi baciavano senza sosta, con baci feroci, la dura mascella delle rocce.

Tentò di sollevarsi: le gambe, solo alghe! Le braccia due nugoli di bruma. Controllava le sole palpebre ed esse erano aperte sulla desolazione del cielo. Chiuse gli occhi. La disperazione cominciò a rodergli il fegato.

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   Il sentiero de Le Storie di Erodoto, come potete constatare, è ricco di paesaggi intellettuali. L’andamento della scrittura di Jean Giono incuriosisce il lettore come il ritmo della scrittura di Luciano di Samosata ne cattura l’attenzione. Lo stesso ritmo lo troviamo nei romanzi di Jules Verne e probabilmente avete in mente Il giro del mondo in 80 giorni (1873).

   Jules Verne lo abbiamo individuato sullo sfondo di questo paesaggio intellettuale e vogliamo, seppur brevemente, incontrarlo, non solo per un motivo legato allo studio. Di Jules Verne (1828-1905) ricorrono i cento anni (1905-2005) della morte e la Scuola, questa sera, coglie anche l’occasione per ricordare questo avvenimento: sembra che nel mondo della cultura non se ne sia rammentato nessuno, come se Jules Verne vivesse su un altro pianeta. Tra le opere dello scrittore Jules Verne una s’intitola Dalla Terra alla Luna (1865) e il riferimento al romanzo di Luciano di Samosata è evidente.  Anche di questo romanzo, come di tutte le opere di Verne, se ne consiglia la lettura. I famosi romanzi di Verne sono sempre stati considerati letteratura per ragazzi, ma non è proprio così: tutti li possono leggere e l’ironia che Verne usa – come quella di Luciano di Samosata e di Jean Giono – è adatta agli adulti prima ancora che ai ragazzi.

   Ma adesso non abbiamo tempo di dire altro, ci siamo soffermati fin troppo a lungo davanti a questo scenario culturale e dobbiamo proseguire nel nostro viaggio sul sentiero di Erodoto. Ma chi vuole dedicarsi a fare ricerca, in funzione della didattica della lettura e della scrittura per ampliare le proprie conoscenze, può puntare la propria attenzione su Dionigi d’Alicarnasso, su Luciano di Samosata, su Jules Verne e su Jean Giono.

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Per intraprendere la ricerca, su questi personaggi e sulle loro opere, puoi usare l’enciclopedia (tutti l’abbiamo in casa), puoi visitare la biblioteca, oppure puoi (se hai lo strumento e le competenze) utilizzare la rete di Internet, buon viaggio, buona ricerca, buona lettura…

   Con passo sostenuto riprendiamo il cammino consapevoli del fatto che, della “struttura” de Le Storie di Erodoto, adesso sappiamo tre cose,

   Sappiamo che i grammatici alessandrini hanno messo in ordine il testo di Erodoto perché si presentava in modo disorganico e ininterrotto, e lo hanno diviso in libri, e hanno dato ad ogni libro il nome di una Musa: c’è il libro di Clio il primo, di Euterpe il secondo, di Talìa il terzo, di Melpomene il quarto, di Tersicore il quinto, di Erato il sesto, di Polimnia il settimo, di Urania l’ottavo, di Calliope il nono (molte volte abbiamo incontrato le Muse nei nostri Percorsi e sappiamo che ognuna di queste figure mitologiche protegge un’arte in particolare).   Sappiamo che queste operazioni intellettuali – sia che si tratti di dare il nome ad una rivista o di dividere le proprie opere, facendo uso degli schemi dei maestri alessandrini e del lessico mitologico greco, piacevano molto ai poeti romantici, tanto ai romantici titanici quanto ai romantici galanti. Per esempio – solo per citare due personaggi – queste operazioni intellettuali di stampo greco piacevano moltissimo a Goethe e naturalmente a Schiller che idealmente, anche questa sera, ci accompagna in questo viaggio. A Schiller sarebbe piaciuto molto fare una passeggiata sul monte Parnaso, che è la sede tradizionale delle Muse.

   E dalla Provenza, accompagnati dall’Ulisse di Jean Giono, torniamo in Grecia.

   Siete mai stati a fare una passeggiata, o meglio un’escursione, sul monte Parnaso? Qui i paesaggi da osservare, oltre ad essere intellettuali, sono anche bellissimi paesaggi naturali. Sulla guida della Grecia, il monte Parnaso lo si trova facendo riferimento a Delfi che, come sapete, è la sede del più celebre, del più potente e del più frequentato santuario della Grecia classica, dedicato al dio Apollo. Delfi (di Delfi e del suo santuario ci occuperemo in un prossimo itinerario…) si trova nella boscosa regione della Fócide proprio ai piedi del monte Parnaso. Noi siamo consapevoli del fatto che dove c’è Apollo, nelle vicinanze, si percepisce sempre anche la presenza di Dioniso. Infatti a 12 Km a est di Delfi si sale a 965 metri di altitudine dove s’incontra il caratteristico villaggio di Aráhova, aggrappato ad uno strapiombo roccioso in suggestiva posizione panoramica. Dall’abitato di Aráhova parte la strada che sale sulle pendici del monte delle Muse. A 1300 metri d’altezza s’incontra la famosa grotta Coricia dove le Menadi o Baccanti celebravano i riti dionisiaci. “Apollo, a valle, ha il suo santuario, sul monte, Dioniso, ha la sua grotta”, così scrive Euripide nella tragedia le Baccanti. Di lì la strada continua e si può proseguire per raggiungere la cima del Parnaso a 2457 metri e di lassù il panorama è stupendo e, come dicono i poeti: “dal Parnaso le Muse abbracciano, col loro sguardo suadente, tutta la Grecia” (Questo è un “volo Pindarico”. (Oggi le Muse, sul monte Parnaso, vivono un po’ appartate, forse sono state soppiantate dalle molte infrastrutture che servono per raggiungere i numerosi campi da sci, e gli “impianti di risalita” sono senz’anima, apsitikos).

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Buon viaggio… e se la preparazione (sulla carta, sullo stradario, sulla guida, sulla rete…) del viaggio al monte Parnaso stimola nella vostra mente un pensiero: è bene scriverlo, bastano quattro righe per esprimere un pensiero (non è bene essere “apsitikoi”)…

   E ora torniamo ad occuparci del libro di Erodoto ma solo per avviarci alla conclusione: che cosa abbiamo imparato questa sera? Abbiamo preso in considerazione i “primi riferimenti” sulla “morfologia” de Le Storie di Erodoto e abbiamo imparato che il testo de Le Storie di Erodoto è diviso in nove libri, ogni libro ha un nome proprio che  corrisponde ad uno dei nomi delle nove Muse. Inoltre abbiamo imparato che a fare questa operazione “formale” sono stati i “grammatici alessandrini”. Poi abbiamo imparato che queste informazioni (vaghe e frammentarie) ci sono state date per la prima volta da due personaggi: Dionigi di Alicarnasso e Luciano di  Samosata.

   E adesso voi direte: per prendere in considerazione queste quattro cose abbiamo fatto tutto questo giro, dalla Toscana all’Anatolia, dall’Anatolia alla Provenza, dalla Provenza al Monte Parnaso, dal Monte Parnaso ad Alessandria? Vedete, il mondo della cultura (“l’Intelletto universale” direbbe Averroè) è come un solaio (oggi i solai non esistono più ma sappiamo di che cosa si tratta…) dove sono accumulate tutte le “cianfrusaglie” del passato: sono “cianfrusaglie” ma sono pure “frammenti di storia”. Quando saliamo in solaio per portare una cosa che ormai non serve più, o per cercare qualcosa, siamo inesorabilmente attratti dal fascino di quel “deposito di memoria” e allora cominciamo a girarci dentro. Il mondo della cultura è come un solaio, è un “deposito di memoria” e, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, dobbiamo girarci dentro.

   Stavamo dicendo che sono stati i grammatici alessandrini a dare la forma a quest’opera. Facendo questa affermazione – che a tutta prima può sembrare vaga e frammentaria – veniamo a trovarci davanti a un nuovo paesaggio intellettuale che rappresenta un grande tema di studio. Questo tema di studio ha dato origine ad uno scontro pacifico ma serrato, ad una contesa culturale, ad una questione intellettuale che dura da decenni tra gli studiosi delle Accademie, delle Università, degli Istituti di ricerca che, nel mondo, si occupano di problemi filologici.

   Il termine “grammatici alessandrini” è un termine molto generico: chi sono i grammatici alessandrini che hanno dato la “forma” a Le Storie di Erodoto? Dionigi di Alicarnasso nel I secolo a.C. e Luciano di Samosata nel II secolo rimangono sul vago, non fanno nomi e neppure si sbilanciano, tanto meno inventano una soluzione nonostante siano dotati entrambi di una spiccata inventiva. Chi sono i grammatici alessandrini che hanno dato la forma a Le Storie di Erodoto? Si possono fare dei nomi?

   Dobbiamo dire che, intorno a questo tema – il tema della “morfologia” de Le Storie di Erodoto (come lo chiamano gli studiosi) – il dibattito è assai complesso e difficile da affrontare: ci sono molte correnti di pensiero che fanno capo a numerose Scuole e ognuna sostiene a spada tratta (a gladium ionico spianato) le proprie ragioni e i risultati delle proprie ricerche. Non credo, onestamente, di essere in grado di condurre i nostri gruppi su questo accidentato sentiero collaterale. E penso che, in questo momento, non sia neppure vantaggioso avventurarsi su questo terreno per affrontare un tema così specialistico. Ritengo però sia utile e sia possibile cogliere alcuni spunti – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – per arricchire le nostre conoscenze in modo da poter investire in intelligenza.

   Noi dobbiamo affrontare il tema formulando la domanda in altri termini, usando il condizionale: chi potrebbero essere i grammatici alessandrini che hanno dato “forma” a Le Storie di Erodoto? Visto che non ci sono prove certe per nessuno dei candidati proposti dalle varie Scuole, ebbene: si possono fare dei nomi senza entrare nelle complicate polemiche culturali per imporre l’uno o l’altro? Siccome noi (probabilmente) non sappiamo neppure chi siano i “grammatici alessandrini”, neppure i più importanti di loro, ecco che a noi interessa soprattutto conoscere i personaggi che vengono chiamati in causa e considerati come possibili ordinatori de Le Storie di Erodoto.

   E, a proposito di “personaggi”, per concludere, approfittiamo ancora della presenza di Luciano di Samosata (chissà quando lo rincontreremo?) per leggere un frammento tratto dai Dialoghi dei morti. Il titolo ci pare un po’ funereo ma quello di far parlare gli “abitatori” dell’Ade, o dell’Al di là, o dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso (come ha fatto Dante Alighieri) è un “genere letterario” molto diffuso. I Dialoghi in cui Luciano di Samosata fa parlare i cittadini della “necropolis” sono delle parabole, sono degli apologhi che invitano alla riflessione, e che (nonostante la pace universale, nonostante il sistema economico solidale, nonostante l’essere abbia ormai definitivamente prevalso sull’apparire) oggi sono ancora attuali. In questo dialogo s’incontrano il filosofo cinico Menippo, che è appena giunto nell’Al di là ed Ermete, il funzionario che accompagna i defunti al loro posto. Menippo – giunto nell’Ade – vorrebbe giustamente trovare posto vicino ai belli e alle belle, ma lo attende una brutta sorpresa.

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Luciano di Samosata, Dialoghi dei morti  (II secolo)

MENIPPO ED ERMETE

MENIPPO  Dove sono, o Ermete, i belli e le belle? Fammi da guida, che sono arrivato di fresco.

ERMETE Non ne ho il tempo, o Menippo, ma basta che tu dia uno sguardo là a destra: ci sono Giacinto, Narciso, Nireo, Achille, Tiro, Elena, Leda e insomma tutte le antiche bellezze.

MENIPPO Io vedo soltanto ossa e teschi privi di carne e per lo più identici.

ERMETE Eppure sono quelle, le ossa che tu sembri disprezzare, che tutti i poeti ammirano.

MENIPPO Tuttavia mostrami Elena: da me non saprei riconoscerla.

ERMETE  Questo teschio è Elena.

MENIPPO E per questo le mille navi si caricarono degli equipaggi di tutta la Grecia e caddero tanti Greci e Troiani e tante città furono rase al suolo?

ERMETE Ma tu, o Menippo, non la vedesti viva: avresti detto anche tu che non era biasimevole «molto tempo soffrir per tale donna», dal momento che anche i fiori secchi, se si guardano quando hanno perduto il colore, necessariamente appaiono brutti, ma quando sono in boccio ed hanno il loro colore, sono bellissimi.

MENIPPO Ebbene, di questo, o Ermete, mi meraviglio, che gli Achei non capissero che stavano penando per una cosa così effimera e così facile a sfiorire.

ERMETE Non ho tempo, o Menippo, di filosofare con te. Di conseguenza, tu scegliti il posto che vuoi e mettiti a giacere, io è tempo che vada a prendere altri che – belli o brutti che siano – la morte ha reso uguali.

   I Dialoghi di Luciano di Samosata sono un “classico” della Storia del Pensiero Umano e, come potete constatare, di non difficile lettura.

   Con la buona notte arriva l’ultimo quesito: chi sono (o chi potrebbero essere) i grammatici alessandrini che hanno dato la “forma” a Le Storie di Erodoto? Si possono fare dei nomi?

   Ecco che qui si apre davanti a noi un altro vasto e significativo paesaggio intellettuale che ci porta a fare una capatina ad Alessandria d’Egitto, ma ora è tardi, il sole è già tramontato sulle sponde della Ionia e della Caria, sulle quali siamo sbarcati, e dobbiamo aspettare che risorga la prossima settimana.

   Intanto, instancabile, ha ripreso a soffiare il vento, e mi sembra che il vento, ànemos, stia mormorando una frase: accorrete, la Scuola è qui…

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Ottobre 21, 2005