Prof. Giuseppe Nibbi La sapienza poetico e filosofica dell’età tardo-antica 17-18-19 ottobre 2012
Teatro di Marcello - Roma
SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ TARDO-ANTICA
SI SENTE, IN PARTENZA, L’INFLUSSO DETERMINATO
DAGLI AVVENIMENTI CONNESSI ALLA SUCCESSIONE DI AUGUSTO ...
La scorsa settimana abbiamo dato inizio a questo Percorso di studio cominciando a celebrare il tradizionale e ripetitivo “rituale della partenza”. Questa celebrazione non si è ancora conclusa del tutto e non c’è viaggio – di andata [poreia-poreìa] o di ritorno [nostos-nostos] che sia – che non inizi con la partenza. Come si può viaggiare [tanto realmente quanto virtualmente] senza “partire”? È anche, quindi, necessario ricordare [secondo i canoni ripetitivi del rituale della partenza che serve anche per rinfrescare – come si suol dire – la nostra memoria, e i rituali sono intimamente legati alla memoria] quali sono – dall’Età antica – i motivi fondamentali per cui si viaggia.
Quali sono i motivi fondamentali per cui si viaggia?
Si viaggia per “migrare”: per motivi di sostentamento e di sopravvivenza, e questo motivo è legato all’idea del “lavoro”, della cura materiale.
Si viaggia per “conoscere”: per motivi di curiosità e di apprendimento, e questo motivo è legato all’idea dello “studio”, della cura intellettuale.
Si viaggia per “andare in pellegrinaggio [nel senso più ampio del termine: dal verbo “perègere”, “per - attraverso” - “ageri - i campi”, “camminare fuori dall’abitato, entrare a far parte del paesaggio naturale”]: per motivi legati al mito, al rito, alla cerimonia, al racconto, e questo motivo è legato all’idea della “riflessione”, della cura spirituale o ideale.
Si viaggia, quindi, per migrare, per conoscere, per andare in pellegrinaggio: tre motivi di carattere antropologico, più uno – e lo abbiamo sempre ricordato nei nostri Percorsi – di carattere più psicologico.
Il “viaggio” non è uno spostamento qualsiasi. Non è neppure uno “spostamento”, ma bensì è quella “situazione” che sta tra la partenza e la meta. Il viaggio è una situazione che ci offre un’esperienza particolare. Il viaggio è una situazione che ci offre l’esperienza dello “spaesamento”. E che cos’è lo “spaesamento”? Lo “spaesamento” è un’esperienza che ci fa uscire dall’abituale, dalle nostre consuetudini, e ci espone di fronte all’insolito. E questa è un’esperienza che sicuramente abbiamo provato e che merita di essere celebrata con la scrittura: quando sentiamo di trovarci fuori dall’abituale, dalla consuetudine e di fronte all’insolito, allora, siamo in viaggio. Lo “spaesamento” da viaggio è una situazione culturale propulsiva, una situazione culturale che fa venire voglia di ricordare, di documentare, di descrivere i momenti di un’esperienza insolita. Lo “spaesamento” crea la memoria, la memoria crea il racconto e il racconto crea la scrittura [e la scrittura mette in moto le azioni dell’apprendimento]. Spaesarsi è utile.
Ciò che abbiamo detto in ragione dello “spaesamento” dato dal viaggio vero e proprio vale anche e soprattutto per l’esperienza di un viaggio intellettuale che si compone di itinerari culturali strettamente legati all’esercizio della scrittura e della lettura. Quindi c’è una proposta di scrittura che – come ogni anno – è d’obbligo.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Avete fatto un viaggio quest’estate: dove?... Perché, con quale motivazione, avete fatto questo viaggio?…
Scrivete quattro righe in proposito…
Qualunque sia il tipo di viaggio che intraprendiamo, di questo genere di esperienza resta sempre un forte ricordo ravvivato dagli oggetti che, immancabilmente, portiamo con noi: ebbene, che cosa resta del viaggio di studio al quale molte e molti di voi hanno partecipato lo scorso anno scolastico [2011-2012]? Rimane un segno molto interessante: rimane la traccia della forma che voi, attraverso le vostre scelte – attuate mediante il tradizionale questionario di fine viaggio [ricordate?] – avete dato al territorio [il territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale”] che abbiamo attraversato durante il viaggio che si è concluso ai primi di giugno. Di questa forma – determinata dalle nostre scelte – ne prenderemo visione fra poco.
Prima dobbiamo dire che la forma, che è andata configurandosi, determina – dal punto di vista filologico [questo è il nostro campo d’azione] – la fisionomia del territorio che lo scorso anno scolastico abbiamo attraversato [in funzione della didattica della lettura e della scrittura] viaggiando dall’aborigeno e pericoloso paesaggio intellettuale del “mondo di Janus” [ve lo ricordate?] a quello raffinato ma assai insidioso dell’Età di Augusto dal quale non abbiamo ancora preso le distanze. Sappiamo anche che il risultato [la forma] di questo questionario non serve quest’anno – contrariamente ad altri anni – per stabilire il punto di partenza.
Abbiamo ribadito la scorsa settimana che il punto di partenza del viaggio che stiamo per intraprendere è costituito da un paesaggio intellettuale pre-esistente [precostituito dalle studiose e dagli studiosi di filologia da circa un secolo] che rappresenta non un confine ma un crocevia: il crocevia tra l’Età antica e l’Epoca del tardo-antico, ed è questo il punto sulla mappa della Storia del Pensiero Umano nel quale, in questo momento, ci troviamo.
La scorsa settimana – celebrando la prima fase del tradizionale rituale della partenza – abbiamo dato una spiegazione al concetto di “tardo-antico” [Ricordate?]. È doveroso, a questo proposito, rimettere in moto la memoria [rinfrescare la memoria].
Sappiamo che, nel corso del tempo, le studiose e gli studiosi di filologia applicata alla Storia del Pensiero Umano si sono sempre chiesti: quando e in che modo finisce l’Età antica e, soprattutto, quando e come inizia il Medioevo? Le risposte a queste domande sono diventate innumerevoli, così come sono innumerevoli, a tutt’oggi, le Scuole di pensiero che sostengono queste risposte, per cui, molto saggiamente, da circa un secolo, è stata presa in considerare l’esistenza di un vero e proprio territorio di passaggio tra l’Età antica [il mondo antico] e l’Età di mezzo [il mondo medioevale].
Da qualche secolo si era già cominciato a pensare che non ci fosse solo un fosso da saltare tra l’Età antica e il Medioevo ma bensì un vero e proprio territorio di passaggio. Questo “territorio di passaggio”, che [a cominciare dal Rinascimento] è stato via via identificato, raccoglie i grandi temi [le parole-chiave, le idee-cardine] emersi nel corso nell’Età antica i quali, però, – in questa nuova fase – vengono interpretati con strumenti inediti rispetto al passato tanto che viene a crearsi una nuova mentalità che va “oltre il limite” del pensiero antico. Questo “territorio di passaggio” [ricordate?] ha preso il nome di “tardo-antico” perché il termine “tardo” [dal latino “tardus” nel senso di “prolungato”, di “prolungamento”, nel senso “dell’attardarsi per completare qualcosa che non era terminato”] assume il significato di “oltre il limite” e, in questo caso, di “oltre il limite del pensiero antico”. Quindi il termine “tardo [tardus]” non definisce tanto “l’ultima parte di un periodo” quanto “il prolungamento e il superamento di un periodo”. E difatti il territorio del “tardo antico” possiede delle caratteristiche proprie e, di conseguenza, questo vasto spazio si è guadagnato una propria autonomia perché in esso si respira un’aria culturale che non ha più propriamente il sapore e l’odore dell’Antichità [siamo “oltre il limite” dell’Antichità] ma non ha ancora il gusto specifico del Medioevo [perché conserva elementi in cui l’Antichità si prolunga, e, prima di tutto, è il fenomeno dell’Ellenismo che si prolunga].
Le studiose e gli studiosi di filologia si sono trovati d’accordo – e noi facciamo tesoro del loro operato in funzione della didattica della lettura e della scrittura – nell’affermare che i temi specifici [le parole-chiave e le idee-cardine], che determinano la transizione tra l’Età antica e l’Epoca del tardo-antico, sono ben evidenti e sono caratterizzati da argomenti piuttosto indigesti che presuppongono una lenta e difficile digestione: questi temi [come sappiamo] sono concentrati in un paesaggio intellettuale davanti al quale, adesso, ci troviamo e che rappresenta il luogo [lo spazio virtuale] nel quale stiamo organizzando la partenza.
Sappiamo anche che dal punto di vista culturale l’Età antica termina con l’inizio dell’Impero romano, con la fine della Repubblica [anche se formalmente e paradossalmente l’Impero continua a chiamarsi Res-publica anche se la gestione del potere è diventato un affare privato, un esercizio nelle mani del Principe] e, soprattutto, termina con l’evidente fallimento [che tuttavia continuerà a dare, ancora per secoli, i suoi frutti velenosi] di quel micidiale metodo di gestione del potere che è stato chiamato “imperialismo” [dalla parola latina “imperium” che significa “il centro del comando”] e che è basato sullo strumento della guerra di conquista e sul criterio sistematico della distruzione [per indebolire, intimorire, colonizzare, dare impulso all’economia]. E la storia [magistra vitae - maestra di vita] c’insegna che un sistema di governo basato sulla guerra, come se fosse una vera e propria attività economica, risulta anacronistico perché è sempre destinato a ritorcersi su chi lo ha promosso questo sistema: difatti il passo tra la guerra di conquista verso l’esterno e la guerra interna [la “incivile guerra civile”, scrive Cicerone] per il controllo del potere è brevissimo.
Nel 27 a.C., con l’inizio della dittatura di Augusto, dopo più di un sessantennio di deleterie “guerre civili”, ha inizio una crisi irreversibile [materiale, morale, economica e sociale] dovuta ai modi imposti dall’imperialismo romano: modi che diventano il terreno di coltura di una serie di parole-chiave emblematiche. Il catalogo di queste parole-chiave ha cominciato concretamente a prendere forma [come abbiamo studiato durante il viaggio dello scorso anno scolastico nel territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale”] –, soprattutto, nel repertorio delle opere di Cicerone, di Lucrezio, di Virgilio, di Orazio, di Ovidio: i “classici”. Questi autori [che abbiamo incontrato e di cui abbiamo studiato l’opera, e che continueremo a incontrare procedendo sulle strade della Storia del Pensiero Umano] inaugurano la cosiddetta “stagione del dissenso” perché hanno fatto emergere [come sapete] un “glossario di termini” con cui viene a determinarsi l’inizio di un cambiamento epocale.
Vogliamo, e dobbiamo, ancora una volta prendere visione del contenuto di questo glossario [di questo “catalogo”] – che rappresenta il paesaggio intellettuale [davanti al quale ci troviamo] che fa da crocevia tra l’Età antica e l’Epoca del tardo-antico – perché, per imparare, è necessario dedicarsi anche alla ripetizione, al ripasso, al riepilogo, alla revisione, secondo il motto ellenistico greco-romano del “repetita iuvant [il ripetere le cose - per quanto scocciante possa essere, a volte - è di giovamento]”.
Le parole-chiave [piuttosto indigeste] e i concetti-cardine [di lenta e difficile digestione] che determinano la fine dell’Età antica sono: la condizione dell’esilio, il desiderio alienante di sonno per fuggire nel sogno, la vacuità dell’amore che si confonde con l’odio, la malattia [soprattutto dell’anima] come condizione per immaginare la inconcludente discesa agli Inferi e la constatazione del trionfo della Morte.
L’epoca tardo-antica compare quando le persone, impegnate a produrre cultura, pensano che questi concetti e queste parole-chiave, generate dalla pesantezza [dall’oppressione] dell’imperialismo romano, debbano essere interpretate con uno spirito di rinnovamento e di cambiamento – non solo in termini poetici [per descriverne i risvolti sentimentali soprattutto nostalgici e malinconici] ma anche in termini filosofici [per fabbricare nuove idee che possano creare nuovi stili di vita orientati al cambiamento] e allora si comincia a pensare all’esilio come esperienza che insegna ad identificare la propria “patria” con il luogo in cui si coltiva l’humanitas [“dove c’è humanitas c’è patria”, scrive Ovidio parafrasando Cicerone e Virgilio], si comincia a desiderare di risvegliarsi dal sonno per interpretare il sogno [scrive Virgilio e scrive Orazio], si comincia a concepire l’amore come un possibile gesto materiale di aiuto [scrive Cicerone imitato da Lucrezio, da Virgilio, da Orazio e da Ovidio], si comincia ad identificare la malattia [del corpo e dell’anima] come un percorso nel territorio del sacro e si comincia a considerare la guarigione come una specie di tradimento nei confronti di chi al male è costretto a soccombere [scrive Orazio] e, infine, si comincia a pensare che il trionfo della Morte [il tema principale di Lucrezio] possa essere contrastato con un efficace messaggio di salvezza, in particolare [come possiamo leggere nell’Epistolario di Paolo di Tarso] con l’emergenza della buona notizia della risurrezione [in greco “anastasia”].
Quindi, nel momento in cui stiamo [celebrando il rituale della partenza] per entrare nel territorio dell’Epoca tardo-antica, ci troviamo ora di fronte ad un paesaggio intellettuale che corrisponde ad un catalogo di parole-chiave accoppiate e contrastanti: l’esilio e la patria, il sonno e il sogno, l’amore e l’odio, la malattia del corpo e il tormento dell’anima, il trionfo della morte e il gaudio per la notizia della risurrezione. Questo catalogo di parole contrastanti [indigeste ma significative] conferisce al territorio del tardo-antico [nel quale stiamo per entrare] un carattere che fa emergere la “riflessione esistenziale” e, quindi, la “sapienza poetica” assume anche un connotato di “natura filosofica [di ricerca sul senso da dare all’esistenza]”, ed è per questo motivo che, da questo viaggio, dobbiamo cominciare a parlare di “sapienza poetica e filosofica”.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
La filosofia è una disciplina che – come scrive Cicerone – serve per “cambiare stile di vita” e quindi incide anche sugli apparati che fanno funzionare il nostro corpo, anche sull’apparato predisposto per la digestione... Abbiamo parlato di parole-chiave “indigeste”, di difficile digestione, e allora passiamo dalle parole ai fatti: qual è l’alimento più indigesto [magari desiderato] con il quale il vostro apparato digestivo deve fare i conti?...
Scrivete quattro righe in proposito, la scrittura lo può rendere più digeribile...
Sapete che, secondo la natura del nostro Percorso che è “in funzione della didattica della lettura e della scrittura”, stiamo accompagnando la nostra riflessione [il tradizionale rituale della partenza] con la lettura di un testo che – secondo una prassi ormai consolidata – funge da “veicolo” e serve per portarci nei pressi del nostro punto di partenza, davanti al paesaggio intellettuale che [nella sua forma di “catalogo di parole-chiave”] abbiamo descritto. Sappiamo che in questo testo – che abbiamo già letto in parte la scorsa settimana – hanno un ruolo tutte le parole-chiave del catalogo che rappresenta il nostro [virtuale] luogo della partenza. Sappiamo già anche che questo pacchetto di parole-chiave [esilio, patria, sonno, sogno, amore, odio, malattia, tormento, morte, risurrezione] descrive una particolare situazione sociale [l’Epoca di Augusto] di cui conosciamo le caratteristiche.
L’età di Augusto [dal 27 a.C. al 14 d.C.], vista in superficie, è un’epoca di straordinario splendore, in realtà sappiamo che il governo istituito da Cesare Ottaviano ha il carattere di una dittatura piuttosto rigida, e la testimonianza di questa rigidezza ci viene dalle opere e dall’esperienza degli autori più accreditati, dagli scrittori [i classici: Cicerone, Lucrezio, Virgilio, Orazio, Ovidio, li abbiamo incontrati e ne abbiamo studiato le opere] che hanno dato lustro alla Letteratura latina e alla cultura greco-romana. Come sappiamo, il clima che si viene a creare con l’Impero di Augusto si concretizza in due termini significativi che descrivono tanto il sentimento predominante quanto l’atto consequenziale determinato da questo sentimento: il sentimento predominante è “la paura” [Augusto stesso ha paura e, contemporaneamente, incute paura nella società] e la situazione consequenziale è “il silenzio” [la paura induce al silenzio e, di conseguenza, gli adulatori strillano mentre le persone sagge preferiscono riflettere attraverso il silenzioso linguaggio della scrittura: per dirlo con una metafora “collezionano il silenzio”].
Il testo del racconto che, in preparazione della partenza, stiamo leggendo lo possiamo definire un romanzo-breve, ed è stato scritto, nel 1958, da un autore che abbiamo presentato la scorsa settimana e che si chiama Heinrich Böll. Questo breve romanzo s’intitola La raccolta di silenzi del dottor Murke e il suo testo racconta che nell’immediato dopoguerra l’importante saggista tedesco Bur-Malot [era stato anche un intellettuale importante durante la dittatura] non poteva essere contraddetto perché era amico del direttore della radio [il quale lavorava alla radio anche durante la dittatura]. Sappiamo che Bur-Malot vuole correggere la registrazione di due conferenze sull’essenza dell’arte, le quali stanno per essere riproposte al pubblico, e che aveva tenuto alla radio subito dopo la fine della guerra quando molti autorevoli intellettuali come lui, nel 1945, avevano vissuto una profonda crisi religiosa con la conseguente conversione [una conversione di comodo - allude sarcastico Böll - per mettersi la coscienza in pace e per far dimenticare i loro trascorsi]. Bur-Malot, ora che è passato il pericolo e c’è stata l’amnistia generale, soffre di un’ulteriore crisi di coscienza e, quindi, vuole sostituire nel testo delle sue conferenze la parola “Dio [troppo giudaico-cristiana, in senso fideistico]” con l’espressione “quell’essere superiore che veneriamo [più consona alla religione paganeggiante]” che lui utilizzava prima della guerra. Bur-Malot, però, non ha voglia e non ha tempo di registrare da capo le conferenze ma pretende che si tagli dal nastro la parola “Dio” e la si sostituisca con la nuova dicitura, con l’espressione “quell’essere superiore che veneriamo”. Il direttore della radio naturalmente [visto anche che Bur-Malot è tornato ad essere importante e potente] acconsente a questa sostituzione e affida questo rognoso incarico a Murke, il redattore che gli sta più antipatico ma del quale apprezza la pericolosa intelligenza. Murke si mette al lavoro, ascolta la registrazione delle conferenze di Bur-Malot, e – come abbiamo letto la scorsa settimana –, insieme ad un tecnico che lo affianca, compie, con grande cinismo, l’opera di sostituzione: è, difatti, una richiesta ambigua fatta da un personaggio ambiguo che dovrebbe – secondo Murke – sostituire la sua spocchiosa prosopopea auto-celebrativa con un doveroso silenzio. Böll costruisce una storia satirica, velata di grottesco e ricca di sottile e feroce umorismo che induce a riflettere sulla supponenza del Potere che inevitabilmente si riproduce.
Continuiamo a leggere questo breve romanzo consapevoli del fatto che – nel corso della lettura – dobbiamo fare un esercizio di riconoscimento delle parole-chiave [nelle pagine che abbiamo letto otto giorni fa c’era già quasi tutte] appartenenti al catalogo che rappresenta il nostro virtuale punto di partenza: questo esercizio serve per fluidificare gli ingranaggi della nostra mente e per riscaldare i neuroni prima della partenza.
LEGERE MULTUM….
Heinrich Böll, La raccolta di silenzi del dottor Murke
Il direttore dei programmi leggeva coscienziosamente ogni lettera scritta dagli ascoltatori. Quella che stava leggendo suonava così: Cara Radio, non hai certo un’ascoltatrice più fedele di me. Sono una vecchia, una nonna di settantasette anni e ti ascolto ogni giorno, da trent’anni. Non sono mai stata parca di lodi, forse ti ricordi della mia lettera a proposito della trasmissione: “Le sette anime della mucca Kaweida”. E stata una trasmissione meravigliosa ma adesso sono proprio in collera con te! Come si è trascurata alla radio l’anima dei cani è una cosa che grida vendetta!
... continua la lettura ...
Chissà quali ordini darà il direttore, e a chi li darà? E che cosa sta facendo il redattore Murke, su che cosa sta riflettendo? Probabilmente sta riflettendo sul fatto che la Radio non è propriamente a servizio della “cultura”.
Prima di proseguire nella lettura di questo breve romanzo dobbiamo dedicarci ad osservare quale “forma” abbiamo dato – utilizzando il “questionario” di fine Percorso – al territorio che abbiamo attraversato lo scorso anno scolastico: il territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale”. È un ulteriore esercizio propedeutico utile a prendere il passo.
Il questionario di fine Percorso dell’anno scolastico 2011-2012 ci ha presentato due blocchi di parole-chiave.
Nel primo gruppo c’erano parole [24 parole-chiave] che fanno riferimento alle idee che si sono venute formando durante il processo di integrazione tra la cultura greca e la cultura latina – sapete che l’Ellenismo [abbiamo studiato questo concetto] è un vasto spazio sul quale avvengono le più importanti operazioni di integrazione culturale della Storia del Pensiero Umano [tra cultura greca e culture orientali, tra cultura greca e cultura biblica, tra cultura greca e cultura latina] – fino alla produzione di una sintesi che ha dato origine ad un nuovo grande apparato intellettuale, con una serie di caratteristiche autonome, che ha preso il nome di “civiltà greco-romana” in cui la lingua greca e la lingua latina [in un conflittuale ma produttivo continuo rapporto di amore e odio] si arricchiscono vicendevolmente diventando i principali strumenti di quella fase che è stata chiamata l’Età dei classici.
Mentre il secondo gruppo era formato da parole [11 parole-chiave] che possiamo definire “problematiche” perché fanno riferimento a situazioni – che purtroppo si sono radicate nel tempo come se fossero il frutto di una normale fisiologia antropologica –, parole produttrici di atteggiamenti contrari al ben-essere collettivo e individuale, atteggiamenti che sarebbe necessario contrastare, prima di tutto, con decisi interventi di carattere educativo e con buone pratiche didattiche [sulla scia dell’Alfabetizzazione culturale e funzionale] miranti a consolidare un sistema di istruzione che deve incidere anche sul cambiamento degli stili di vita ancora troppo legati ad un sistema che [direbbe Cicerone] non si pone come obiettivo il raggiungimento del bene comune [«Nihil utile nisi quod honestum - Non c’è nulla di utile che non sia onesto»].
E adesso osserviamo sulle tabelle il risultato delle nostre scelte operate sul questionario al quale hanno risposto 172 persone.
Il primo riquadro riporta – secondo la grandezza dei caratteri – la quantità di consensi che hanno avuto le parole che abbiamo incontrato sul territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale” e che indicano i concetti dell’integrazione tra la cultura greca e la cultura latina dando forma a quella che è stata chiamata la “civiltà greco-romana”.
l’humanitas la chiave
la porta la semina la contaminazione
l’agricoltura la satira il rimpianto la linfa
la fede l’eclettismo la pietà il pudore l’angoscia
l’intimità il bastone la varietà la praticità l’epidemia lo scudo il sonno
[ l’erario l’analogia l’anomalia ]
La parola “humanitas” è quella che ha ricevuto più consensi e c’era da aspettarselo, seguita a breve dalla parola “chiave” e questo era meno prevedibile. Queste due parole sono seguite dalle parole “porta, semina, contaminazione [culturale]”; poi si distinguono le parole “agricoltura, satira, rimpianto e linfa”. Poi le scelte hanno cominciato a diluirsi con le parole “fede, eclettismo, pietà, pudore e angoscia”. Mentre le parole “intimità, bastone, varietà, praticità, epidemia, scudo e sonno” sono state scelte molto poco. E, infine, le parole “erario, analogia e anomalia”, sono state messe tra parentesi per sottolineare il fatto che non sono state scelte da nessuno.
Il secondo riquadro riporta – secondo la grandezza dei caratteri – la quantità di consensi che hanno avuto le parole che indicano situazioni “problematiche”, sulle quali sarebbe necessario aprire un dibattito e soprattutto costruire itinerari educativi e d’istruzione per porre rimedio a situazioni dannose e contrarie al ben-essere collettivo e individuale.
lo stupro
l’inganno la distruzione
la menzogna la morte l’esilio
il tormento la malattia la sottomissione
la servitù il trauma
La parola “stupro” è quella che ha ricevuto il maggior numero di consensi ed è seguita dalle parole “inganno e distruzione”. Poi le parole più scelte sono state “menzogna, morte, esilio”. Poi si distinguono le parole “tormento, malattia, sottomissione”. Poi le scelte hanno cominciato a diluirsi con la parola “servitù” e la parola “trauma” che è stata scelta poco. Significativo è il fatto che, in questo secondo gruppo di parole, tutte sono state toccate dalla scelta.
Questi due quadri raffigurano la nostra riflessione collettiva sul pensiero della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale” quindi indicano un punto di arrivo su cui dobbiamo riflettere, ma soprattutto le cinque parole che nel primo gruppo – l’humanitas, la chiave, la porta, la semina, la contaminazione [culturale] – sono state scelte di più fanno anche da battistrada per il nostro viaggio che sta per avere inizio nel territorio della “sapienza poetica e filosofica dell’Età tardo-antica”.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Oggi, di queste parole – l’humanitas, la chiave, la porta, la semina, la contaminazione [culturale] - quale scegliereste per prima ?...
Scrivetela...
I riquadri che illustrano i risultati del questionario – di cui abbiamo preso visione – hanno determinato nella nostra mente un’immagine o una serie d’immagini utili per concludere la celebrazione del tradizionale rituale della partenza. E allora, con queste immagini nella mente, accingiamoci a partire. Dobbiamo dire che più di una parola del questionario di cui abbiamo analizzato i risultati si addice al racconto che stiamo leggendo il cui testo è il veicolo che ci sta facendo entrare nel territorio dell’Epoca tardo-antica. Nel testo che stiamo per leggere compare anche qualcosa – un libro, un personaggio – tipicamente tordo-antico e, quindi, procediamo nella lettura.
LEGERE MULTUM….
Heinrich Böll, La raccolta di silenzi del dottor Murke
Al ristorante della radio i collaboratori indipendenti si erano decisi ad ordinare un pranzo. Avevano bevuto ancora cognac, parlavano ancora d’arte, il loro dialogo era diventato più tranquillo, ma non meno appassionato. Tutti balzarono in piedi spaventati quando Wandenburn entrò improvvisamente nel ristorante. Wandenburn era un grande poeta dall’aspetto malinconico, dai capelli scuri e con un viso simpatico, leggermente solcato dalle stimmate della celebrità. Quel giorno non si era fatto la barba e per questo aveva l’aspetto ancora più simpatico. Si diresse verso il tavolo dei tre collaboratori, si sedette sfinito e disse: «Ragazzi, datemi qualcosa da bere. In questa casa ho sempre la sensazione di morire di sete».
... continua la lettura ...
Abbiamo fatto alcune scoperte interessanti: la seconda [cominciamo dalla seconda] è che è comparsa anche la parola “silenzio”, e la prima riguarda il fatto che Murke sta leggendo un’opera importante [istruttiva e fantastica] – sebbene si tratti di una riduzione, di una antologia di brani –, un’opera che s’intitola Lettere a Lucilio composta da un tale Lucio Anneo Seneca: di che opera si tratta? [E chissà quale programma radiofonico il poeta Wandenburn saprà trarne. Il direttore Hum non sembra molto convinto delle sue potenzialità, se non come bevitore].
Abbiamo, a breve, un appuntamento con questo Seneca e con questo Lucilio [li avete certamente sentiti nominare!], diciamo solo – a proposito della raffinata citazione di Heinrich Böll [capite anche meglio la ragione per cui, in partenza, abbiamo scelto, come veicolo, questo brano per partire] – che Seneca esalta metaforicamente la scrittura definendola come un “silenzio che urla” e, questo paradosso, avvicina due elementi contrastanti – la lieve pesantezza del silenzio e la gravosa leggerezza dell’urlo –, elementi, entrambi, fortemente eloquenti [il quadro intitolato “L’urlo” del pittore norvegese Edvard Munch - 1863-1944 - è, anche, la rappresentazione di questa metafora].
Seneca e Lucilio li incontreremo a breve; ora siamo ancora al punto di partenza ma stiamo per prendere il passo e ci mettiamo in cammino sulla scia di un’importante notizia: il 19 agosto dell’anno 14 d.C. [1998 anni fa] si diffonde, su tutto il territorio dell’Ecumene, il luttuoso annuncio della morte di Augusto. Augusto si trovava a Nola, nella villa dei suoi avi, dove era andato a trascorrere l’estate in questa bella e ricca città ellenistica della Campania felix: fra poco più di un mese, il 23 settembre, avrebbe dovuto compiere 77 anni. Augusto muore a Nola nella villa dei suoi avi.
Avete visitato la città di Nola che si trova in Campania a metà strada tra Napoli e Avellino? Nola è stata fondata nel V secolo a.C. dal popolo degli Ausoni e si chiamava Hjria, poi è stata conquistata dai Sanniti, che l’hanno chiamata Novla [Città nuova], ed è ben presto entrata in comunicazione con la polis greca di Neapolis [Città nuova, Napoli] della quale ha accolto gli usi e la cultura ellenica. Nel 79 a.C. Nola è diventata colonia romana e ha avuto un notevole sviluppo tanto che, in età ellenistica, la lunghezza del suo perimetro era più di cinque chilometri con dodici porte, due anfiteatri, molti templi e molte ville eleganti tra cui quella della famiglia di Augusto che, dopo la sua morte, viene trasformata in un tempio consacrato alla memoria dell’Imperatore.
La città di Nola è stata la sede episcopale [409-431] di San Paolino di Bordeaux [il poeta Meropio Ponzio Anicio nato a Bordeaux nel 354] al quale viene attribuita l’invenzione delle campane che nel Medioevo, in tutta Europa, venivano chiamate “nolae campanae” perché fuse e utilizzate per la prima volta a Nola in Campania. Poi Nola è, ancora oggi, la città dei “gigli”: sapete per quale motivo e che cosa sono i “gigli”? Nola ha anche dato i natali ad un celebre filosofo ed alcuni personaggi famosi: sapete chi sono?
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Con una guida della Campania fate un’escursione a Nola – ci sono molti monumenti e un bel Museo da prendere in considerazione – e fate anche una piccola ricerca relativa ai due interrogativi che ci siamo posti: che cosa sono i “gigli” di Nola e qual è il famoso filosofo, soprannominato il Nolano, nato a Nola?… Buona escursione e buona ricerca...
Augusto, da tempo, era più che mai triste e rassegnato. Il racconto che ora faremo non è stato messo in REPERTORIO … anche per l’eccessivo spazio che avrebbe occupato. In questo racconto ci sono tanti personaggi, tanti avvenimenti, tanti misteri irrisolti: noi non dobbiamo ricordare questi dati per filo e per segno ma dobbiamo intuire il clima che si era determinato con il governo di Augusto [durato più di quarant’anni] e quello che si sta determinando con la sua morte perché la morte di Augusto diventa un passaggio fondamentale non solo nella storia della romanità ma nella storia di tutto l’Occidente e di quell’Oriente che fa parte dello Stato romano.
Augusto – come sempre ha fatto in vita sua [è un grande programmatore] – aveva predisposto tutto in modo che il trapasso del suo potere avvenisse senza scosse: ma ciò non avvenne. Augusto ha cominciato a preparare per tempo la sua successione e ha dovuto governare delle fibrillazioni che gli sono costate care sul piano della frustrazione personale, a causa delle delusioni che ha subito e in ragione delle scelte palesi, e inconfessabili, che ha dovuto fare.
La vecchiaia di Augusto è stata rattristata da molte situazioni negative [e certamente ci sono molti scheletri negli armadi di Augusto]: prima di tutto lui era frustrato per l’aver perso la libertà personale perché, per paura di cadere vittima di attentati [la parola-chiave “paura” fa parte del pacchetto dei termini con cui si chiude l’Età antica e il primo ad avere paura, e a seminare paura, è proprio Augusto], si era dovuto rinchiudere in una cittadella fortificata [“Chiuso in gabbia come un animale feroce”, afferma Ovidio]; poi, nonostante venisse sbandierata la pace universale, tutte le zone periferiche dello Stato romano [lungo il Reno, lungo il Danubio, in Medio Oriente] erano in subbuglio perché i popoli che le abitavano aspiravano alla loro autonomia e, a questo proposito, l’esercito romano aveva subito molti insuccessi militari.
Poi c’era la grave crisi economica [i provvedimenti che Augusto aveva preso – in primis la riforma fiscale - non erano serviti a molto] e, soprattutto, era in crisi il sistema agricolo in mano a latifondisti senza scrupoli [gli ex veterani più intraprendenti] che avevano creato delle proprietà talmente vaste [con ettari ed ettari di terre incolte e improduttive] da costituire come dei veri e piccoli Stati che non portavano risorse all’amministrazione centrale perché le potesse investire in servizi.
Poi c’era la crisi morale che riguardava soprattutto quella che avrebbe dovuto essere la classe dirigente [una classe dirigente - formata dai funzionari statali - assai mediocre e succube al Principe che non tollera di essere contraddetto]. Augusto aveva cercato di fronteggiare la crisi morale [il “malcostume” che ci è stato descritto dalle opere di Cicerone, di Lucrezio, di Virgilio, di Orazio, di Ovidio] soprattutto con una legislazione autoritaria, in particolare sulla famiglia [come la “Lex Iulia de maritandis ordinibus” che Augusto, per giunta, ha trasgredito in continuazione] che, però, aveva peggiorato la situazione, e poi c’era la “sua” famiglia che – anche per il modo in cui lui aveva gestito [con invadenza intollerabile e con poca coerenza] i rapporti tra i vari membri [le tre mogli e i molti figli e nipoti soprattutto adottivi] – costituiva un problema non da poco in special modo quando si comincia a nominare la parola “successione”.
La vecchiaia di Augusto viene rattristata da una serie di lutti che hanno complicato il problema della successione così come lui l’aveva programmata e c’è da pensare che la sua coscienza non fosse per nulla tranquilla perché lui è certamente coinvolto personalmente in quasi tutti gli avvenimenti [quasi mai casuali] che hanno provocato questi “lutti”.
Augusto naturalmente [come tutti i maschi romani] desiderava un erede del suo sangue, ma non aveva avuto figli maschi, aveva solo una figlia femmina, Giulia [detta Giulia Maggiore, nata nel 39 a.C.], avuta dalla sua seconda moglie Scribonia, che aveva sposato [su mediazione di Mecenate] per esigenze di potere [per avvicinarsi al partito aristocratico dei Pompeiani, Scribonia era imparentata con Sesto Pompeo], dopo aver ripudiato la prima moglie Claudia. Ma Giulia, in quanto figlia femmina, non contava per la successione [il potere politico è precluso alle donne a Roma] e lui, tra l’altro, con questa figlia – molto intraprendente fin da bambina – ha imbastito un rapporto piuttosto complicato. Per giunta, siccome ufficialmente c’era sempre la Repubblica [Augusto si ostinava a proclamare che la natura dello Stato non era cambiata], lui [che dal 27 a.C. aveva assunto il titolo onorifico di Principe del Senato che non gli dava, formalmente, un potere assoluto] non deteneva giuridicamente il diritto di designare un suo successore: questo atto spettava al Senato perché lo Stato romano non era una monarchia e Augusto pretendeva di avere l’approvazione dei senatori. Questo problema viene risolto attraverso la legislazione sulla famiglia [la Lex Iulia] inserendo un comma [personalizzato] nel quale si affermava che i “figli adottati” potevano essere “associati” alla carica istituzionale [nel caso di Augusto al titolo di Principe del Senato] del genitore adottivo. Sappiamo che in questa operazione della successione – alla quale Augusto, molto previdente, pensa per tempo – viene coinvolta [e utilizzata] Giulia Maggiore: le donne non possono accedere a nessuna carica istituzionale ma possono essere strumenti [attraverso il matrimonio e la maternità] per la gestione del potere e, difatti, Augusto pensa di associare alla sua autorità di Principe, attraverso l’istituto dell’adozione, un genero o un nipote per preparalo a succedergli e Giulia è lo strumento necessario per raggiungere questo obiettivo, e così comincia una tragica trafila.
Il primo marito che Augusto fa sposare a Giulia nel 25 a.C. è, contemporaneamente, un nipote e un genero [come prendere due piccioni con una fava!] e si chiama Marco Claudio Marcello. Questo ragazzo è figlio di Gaio Claudio Marcello e di Ottavia, la sorella di Augusto, di conseguenza è nipote di Augusto e cugino di Giulia, quindi, risulta [a prima vista] un matrimonio ben combinato tra due ragazzi – lui ha appena compiuto diciassette anni e lei quattordici – destinati ad ereditare il principato. Ma, tra il dire e il fare: mentre lui, Marcello, è proprio ancora un ragazzo, lei, Giulia, [nonostante la giovane età] si comporta da donna piuttosto “emancipata [è decisa, è intraprendente, è di bell’aspetto, è colta]” e frequenta gli ambienti intellettuali della città [per entrare nei Circoli culturali si traveste anche da ragazzo per fare ciò che alle ragazze non era permesso] e intesse rapporti con persone interessanti, più grandi di lei, preferisce la compagnia di uomini maturi e colti piuttosto che quella del marito nel quale lei riconosce un cuginetto [un fratellino] con cui giocava da bambina. Augusto designa Marco Claudio Marcello – che è suo nipote, suo genero, suo figlio adottivo – come “erede” al Principato ma le cose non girano per il verso giusto perché questo matrimonio combinato non funziona [Giulia non ha niente da spartire – e probabilmente non si vuole accoppiare - con questo suo giovane cugino e non vuole sottomettersi alla ragion di Stato] e anche Marcello si sente investito di una responsabilità troppo pesante per lui [deve ancora crescere e avrebbe aspirato ad una moglie più remissiva] e Augusto è a disagio perché, forse, si accorge di aver sbagliato qualcosa.
Intanto Augusto – due anni dopo averla sposata – aveva ripudiato anche Scribonia, la madre di Giulia [che non gli serviva più] e, nel 38 a.C., si era risposato con Livia Drusilla, una signora ventenne [molto bella e apparentemente pudìca e remissiva come Vesta ma le studiose e gli studiosi di storia l’hanno definita “velenosa come Proserpina”], figlia di Livio Druso e di Claudia Aufidia [una giovane signora con due grandi famiglie alle spalle: la famiglia Livia e la famiglia Claudia con le quali Augusto vuole imparentarsi per consolidare il suo potere], la quale, a sua volta, era già stata la moglie Tiberio Claudio Nerone che era stato il comandante della flotta di Cesare nella battaglia di Alessandria [quando, nel 47 a.C., Cesare sbarca in Egitto e rischia di venir ucciso dal re Tolomeo che aveva già fatto fuori Pompeo. Ma Cesare vince, elimina Tolomeo, mette sul trono dei Faraoni Cleopatra, e, in quell’occasione, era parso anche che avesse preso fuoco la famosa biblioteca di Alessandria: molte e molti di voi dovrebbero ricordarseli questi avvenimenti su cui abbiamo riflettuto nel corso dello scorso viaggio di studio]. Dopo le Idi di marzo del 44 a.C. – dopo la morte di Cesare – Tiberio Claudio Nerone si era schierato con i congiurati [con Bruto e Cassio] e poi, al termine delle guerre civili, il vincitore Ottaviano [prima ancora di assumere il titolo di Augusto] lo aveva perdonato ma era rimasto in credito con lui per cui quando Tiberio Claudio Nerone capisce che il Principe vuole sua moglie – con la quale ha già instaurato una diplomatica relazione – non può far altro che ripudiarla e di renderla libera. Tiberio Claudio Nerone e Livia Drusilla avevano un figlio di nome Tiberio e lei era incinta del marito quando sposa Augusto: alla nascita di questo bambino, che viene chiamato Druso, Augusto li adotta entrambi, Tiberio e Druso, e così si ritrova ad avere due figli maschi, adottati, che, in verità, non ama particolarmente.
Ma ora torniamo [all’anno 23 a.C.] a puntare l’attenzione su Giulia e Marcello perché dobbiamo sapere che cosa succede: capita, infatti, qualcosa di sgradevole e di tragico al povero Marcello [in nome della “ragion di Stato”? Così avrebbe detto Niccolò Machiavelli]. Nel 23 a.C., mentre sta cavalcando nella campagna romana, Marco Claudio Marcello muore accidentalmente precipitando con il suo cavallo da un dirupo: ha perso il controllo perché probabilmente [ma dovremmo dire certamente] è stato avvelenato, lui e il suo cavallo. Lo storico Tacito fa un’allusione in proposito scrivendo che questa operazione del presunto [nessuno si permette di indagare ma che sia un mistero nessuno lo nega] avvelenamento di Marcello sia stata diretta da Livia Drusilla: il fatto è che, con la morte del [povero] Marcello, comincia una velenosa, terribile e sotterranea guerra di successione che viene condotta senza esclusione di colpi.
Augusto è coinvolto nella tragica fine del povero Marcello e come si comporta? La tragica fine di Marco Claudio Marcello viene commemorata con la proclamazione del lutto in tutto l’Impero e con la celebrazione di grandi cerimonie funebri. Augusto fa completare, in suo onore, il teatro detto appunto di Marcello, e poi ricomincia a tessere la sua tela [non è forse un ragno insidioso? Come ha detto Cicerone].
Ma, prima di proseguire nel nostro racconto [continueremo la prossima settimana] per conoscere le successive mosse di Augusto, dobbiamo aprire – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – una piccola parentesi perché la tragica [e misteriosa] morte di Marcello è entrata nella storia della Letteratura.
La fine tragica di Marco Claudio Marcello [cugino e marito di Giulia Maggiore e nipote, genero, figlio adottivo ed erede designato di Augusto] viene ricordata e commemorata anche da Virgilio il quale cita questo ragazzo nell’Eneide [un’opera, sul cui testo, abbiamo riflettuto nella scorsa primavera, ricordate?]. Virgilio cita Marcello nel famoso Libro VI dell’Eneide. Nel Libro VI dell’Eneide Virgilio descrive la significativa visita di Enea nell’Ade: questo Libro, nel Medioevo, lo conoscevano a memoria tutte le persone che si occupavano di poesia [compreso, naturalmente, Dante Alighieri che ha voluto Virgilio come sua guida nel Regno dei morti].
Virgilio, nel Libro VI dell’Eneide, racconta che Enea, dopo essere approdato a Cuma, chiede alla Sibilla [la profetessa cumana la troviamo citata anche nell’inno liturgico del “Dies irae”: “Dies irae, dies illa - Solvet saeclum in favilla - Teste David cum Sibylla”] di accompagnarlo nel regno dei morti. La profetessa gli ordina di cercare il ramoscello d’oro da offrire, secondo il rito, a Proserpina, la regina degl’Inferi e gli ordina di dare sepoltura ad un compagno morto appena sono sbarcati in Italia, Miseno. Dopo aver sepolto Miseno [a Capo Miseno], e aver rintracciato il ramoscello d’oro, Enea inizia il suo viaggio nell’Ade attraverso il vestibolo che è popolato da spaventosi fantasmi [tra qualche minuto ci occuperemo di questi fantasmi silenziosi che mettono paura ad Enea e lui sfodera la spada e la Sibilla lo prende in giro dicendogli che sono solo ombre quelle che lui vede]. Arrivato al fiume Acheronte Enea incontra l’ombra del povero timoniere Palinuro, caduto in mare colto dal Sonno davanti alla costa del Cilento [ve lo ricordate?], il quale sta aspettando invano – perché il suo corpo è ancora insepolto – di essere traghettato da Caronte nel territorio dei Morti. Palinuro narra ad Enea la sua tragica fine ed Enea soffre perché non può far niente per lui e il suo animo viene invaso da una terribile tristezza. Enea viene traghettato sull’altra sponda dell’Acheronte e Cerbero, il cane guardiano, quando lo vede ancora vivo, comincia ad abbaiare e allora la Sibilla lo fa addormentare con una nuvola soporifera.
Enea vede i morti di morte prematura e di morte violenta, attraversa i campi del pianto, incontra Didone [è un incontro struggente] e Deifobo, arriva nel Tartaro [il corrispettivo dell’Inferno cristiano] dove le anime subiscono molti supplizi e raggiunge la reggia di Proserpina e, infine, entra dei campi Elisi dove, nella valletta del Lete, incontra suo padre Anchise. In questa valle ci sono le anime che, in futuro, dovranno reincarnarsi. Enea, commosso, corre incontro al padre e cerca invano di abbracciarlo ma non è possibile abbracciare un’ombra: Anchise lo consola e gli spiega – secondo il pensiero pitagorico ripensato dalla Scuola stoica – le Leggi che regolano la metempsicosi [la trasmigrazione delle anime] e poi gli mostra i futuri protagonisti della storia di Roma dai primi re albani, agli uomini illustri della Repubblica fino a Cesare e ad Augusto e, infine, Anchise presenta a Enea l’ombra triste e disperata di un fanciullo, avvolta in una nube nera, e Virgilio fa pronunciare ad Anchise la celebre frase: «O Miserabile fanciullo! Magari la morte non ti vincesse, ma né il valore né l’eroica virtù né lo splendore familiare potranno mutare il tuo funesto [“misterioso” aveva scritto Virgilio in prima istanza] destino perché tu sarai Marcello e, quindi, datemi gigli e datemi a piene mani fiori purpurei in modo che li possa spargere su di lui, che io possa almeno onorare con questi doni floreali l’ombra d’uno sfortunato futuro nipote».
Questi versi celebrativi – scritti poco tempo dopo la morte di Marcello – hanno avuto uno straordinario successo e racconta il grammatico Elio Donato che [come sapete] ha scritto, nel IV secolo, una Vita di Virgilio che il poeta dell’Eneide avrebbe ricevuto una forte somma di denaro [diecimila sesterzi per ogni verso in onore di Marcello] da Ottavia [la madre di Marcello e sorella di Augusto che quando li ascoltò per la prima volta svenne dall’emozione]; poi Virgilio avrebbe accolto la raccomandazione di Augusto perché togliesse dalla sequenza dei versi l’aggettivo “misterioso” e lo sostituisse con il termine “funesto” [non doveva comparire la sospetta dicitura “destino misterioso”]: è una notizia interessante in funzione della riflessione che stiamo facendo sul mistero che accompagna la morte di Marcello, la prima vittima innocente della lotta di successione.
Ma poiché abbiamo sotto gli occhi il testo del Libro VI dell’Eneide possiamo fare un’ulteriore affermazione che contribuisce a dare un senso alla nostra partenza perché c’è un punto, in questo Libro che, senza dubbio, ha un’importanza straordinaria sul piano della disciplina filologica e, di conseguenza, della didattica della lettura e della scrittura. Quando Enea, accompagnato dalla Sibilla cumana, entra nel vestibolo dell’Ade vede, impaurendosi, una serie di silenziosi fantasmi che si aggirano nella penombra e la Sibilla glieli presenta: c’è l’ombra dell’Esilio in pianto, c’è l’ombra del Sonno agitata dai sogni e dai rimorsi, c’è l’ombra pallida della Malattia, c’è l’ombra della Morte col volto della vecchiaia e della discordia. Nel vestibolo dell’Ade – sotto l’egida della “paura” e del “silenzio” – Virgilio elenca alcune tra le principali parole-chiave [esilio, sonno, malattia, morte] con cui termina l’Età antica e ci indica la via, e noi sappiamo che questa è la strada che dobbiamo percorrere.
Augusto, in onore del povero Marcello, fa completare il Teatro detto appunto di Marcello [i lavori terminano nell’11 a.C.]. Quest’opera era stata appaltata su ordine di Giulio Cesare che aveva capito, muovendosi sul territorio dell’Ellenismo, quanto fossero importanti i Teatri e le Biblioteche [strutture di cui Roma era sguarnita].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Con una guida di Roma andate a far visita al Teatro di Marcello che si trova tra Piazza della Bocca della Verità, Piazza Venezia e l’isola Tiberina, nei pressi del portico di Ottavia: è interessante conoscere le trasformazioni che, nel corso dei secoli, ha subito questo celebre e imponente monumento e come appare oggi, buona escursione…
Nel vestibolo dell’Ade – nel Libro VI dell’Eneide – Virgilio elenca le principali parole-chiave [esilio, sonno, malattia, morte] che danno il nome ai temi esistenziali con cui termina l’Età antica. Queste parole si presentano sotto forma di fantasmi silenziosi: sono una sorta di “raccolta dei silenzi”. Questa affermazione – che suona come una metafora – rende ancora più fluido il nostro passo mentre concludiamo questo itinerario leggendo le ultime due pagine del breve romanzo che – come se fosse un veicolo – ci conduce sulla strada che porta verso una nuova Epoca.
LEGERE MULTUM….
Heinrich Böll, La raccolta di silenzi del dottor Murke
Quando il direttore, qualche minuto dopo le due arrivò nel suo studio, la conferenza di Bur-Malot era appena cominciata: “… e sempre quando, ovunque, comunque e perché noi iniziamo il dialogo sull’essenza dell’arte, dobbiamo all’inizio guardare a quell’essere superiore che veneriamo, dobbiamo inchinarci in riverente timore davanti a quell’essere superiore che veneriamo e dobbiamo accettare l’arte grati, come dono di quell’essere superiore che veneriamo. L’Arte …”
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Sotto l’egida della “paura” e del “silenzio” Augusto, morto Marcello, ricomincia da capo a tessere la sua tela [ha ragione Cicerone a definirlo un “ragno insidioso”] e comincia a cercare un altro marito per Giulia che è rimasta vedova e un compagno vorrebbe, in verità, cercarselo per conto suo. Che cosa succede questa volta? Come continua la storia? È una storia ancora più complicata di quella che abbiamo raccontato questa sera ma la sua narrazione è indispensabile per prendere decisamente il passo sul territorio dell’Epoca tardo-antica.
Per conoscere, per capire, per applicarci è utile seguire la scia dell’Alfabetizzazione e dell’Apprendimento permanente perché l’Alfabetizzazione culturale e funzionale è un bene comune [come la strada] e l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona: per questo la Scuola è qui con il suo carattere “vagante” perché l’insegnamento più importante è quello che non si acquisisce mai ma che si studia sempre.
Il viaggio continua…