Prof. Giuseppe Nibbi La sapienza poetico e filosofica dell’età tardo-antica 24-25-26 ottobre 2012
Ottaviano Augusto
SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ TARDO-ANTICA
S’IMBOCCA, IN PARTENZA, LA VIA DELLA SUCCESSIONE
AL PRINCIPATO DI AUGUSTO CHE PROSEGUE NELLA VIA DEI CINQUE IMPERATORI ...
Dopo aver celebrato il tradizionale rituale della partenza, il nostro viaggio di studio è iniziato e, la scorsa settimana, abbiamo preso il passo per entrare nel territorio della “sapienza poetica e filosofica dell’Epoca tardo-antica”. Vi ricordo che la prossima settimana faremo una pausa: giovedì prossimo, il 1° novembre, è la festività di tutti i Santi.
Sappiamo [lo abbiamo imparato nel corso dei primi due itinerari] che il territorio della “sapienza poetica e filosofica dell’Epoca tardo-antica” è una vasta area che funge da confine tra l’Età antica e l’Età di mezzo [il Medioevo], quindi, tra l’Età antica e il Medioevo [c’insegna la filologia] non c’è una ben precisa linea di confine, non c’è una frontiera, ma si estende un ampio territorio nel quale le indigeste parole-chiave e le ostiche idee-cardine con cui termina l’Antichità prolungano il loro influsso [“si attardano”, dal latino “tardus”, da cui l’espressione “tardo-antico”] stemperandosi gradualmente in modo da dar vita a nuovi concetti di carattere esistenziale [si allarga la dimensione filosofica], ed è per questo che, in riferimento all’età tardo-antica, troviamo la dicitura più ampia di “sapienza poetica e filosofica”.
Questo Percorso di Alfabetizzazione culturale e funzionale ha una natura ben precisa perché si muove “in funzione della didattica della lettura e della scrittura” e, quindi, abbiamo accompagnato il tradizionale rituale della partenza con la lettura di un testo che – secondo una prassi ormai consolidata – funge da “veicolo”, funziona come “mezzo di locomozione intellettuale”. Questo “veicolo” è servito per trasportarci nei pressi del luogo della partenza, che non è propriamente un posto di frontiera ma bensì un paesaggio intellettuale in campo aperto che [come tutti i paesaggi intellettuali] ha la forma di un glossario, di un “catalogo di parole-chiave” e, da questo punto, la scorsa settimana abbiamo preso il passo. Abbiamo constatato che nel testo [che funge da veicolo lessicale] – che abbiamo letto durante i primi due itinerari – hanno un ruolo tutte le parole-chiave facenti parte del catalogo che rappresenta il nostro [virtuale] luogo della partenza [e questo è uno dei motivi per cui abbiamo scelto proprio questo breve romanzo]. Sappiamo anche che questo catalogo di parole-chiave – [ripetiamole] l’esilio e la patria, il sonno e il sogno, l’amore e l’odio, la malattia e il tormento, la morte e la risurrezione – rappresenta e descrive la particolare situazione sociale [durante l’Epoca di Augusto] di cui conosciamo le caratteristiche principali: abbiamo preso il passo la scorsa settimana informandoci sugli avvenimenti [e sui misteri] inerenti al tema della “successione ad Augusto”.
L’età di Augusto [dal 27 a.C. al 14 d.C., a cavallo tra due ere], vista in superficie, è un’epoca di straordinario splendore [«Ho trovato una grezza città di mattoni, vi lascio una grande ed elegante città di marmo», afferma Augusto prima di partire per Nola, per passare le vacanze estive nella villa dei suoi avi e dove, due mesi dopo, muore il 19 agosto del 14 d.C.], ma sappiamo anche che il governo [il Principato] istituito da Cesare Ottaviano Augusto [che dura più di quarant’anni] ha il carattere di una dittatura piuttosto rigida, e la testimonianza di questa situazione ci viene dalle opere e dall’esperienza degli autori più accreditati, dagli scrittori [i classici: Cicerone, Lucrezio, Virgilio, Orazio, Ovidio, li abbiamo incontrati la primavera scorsa e ne abbiamo studiato le opere] che hanno dato lustro alla Letteratura latina e alla cultura greco-romana che si è sviluppata in un lungo e complesso processo di integrazione intellettuale del quale, nel corso dello scorso viaggio, abbiamo studiato i caratteri.
Il clima che si viene a creare con il Principato di Augusto è caratterizzato da due elementi significativi che descrivono tanto il sentimento predominante quanto l’atto consequenziale determinato da questo sentimento: il sentimento predominante è “la paura” [Augusto stesso ha paura e incute timore per cui questo stato d’animo si diffonde nella società romana e in tutta l’Ecumene] e la situazione consequenziale è “il silenzio”. La “paura” induce al “silenzio” e, di conseguenza, gli adulatori strillano [cose che il Principe stesso gradisce poco] mentre le persone sagge preferiscono riflettere attraverso il silenzioso linguaggio della scrittura: per dirlo con una metafora preferiscono “collezionare i silenzi”, e questa metafora paradossale – la “raccolta dei silenzi” – è diventata, nei secoli successivi [nel corso del Medioevo], il modo in cui è stata chiamata la Letteratura dei Classici latini e greci che, chiusa nelle biblioteche medioevali, non potendo essere avvicinata da tutti, veniva letta di nascosto [ma ne riparleremo a suo tempo]. Il testo del breve romanzo che abbiamo letto, in occasione della celebrazione del rituale della partenza – un testo che è stato scritto nel 1958 da un autore che abbiamo presentato la scorsa settimana e che si chiama Heinrich Böll – s’intitola La raccolta di silenzi del dottor Murke e questo fatto non è casuale.
La scorsa settimana, quindi, abbiamo mosso i primi passi su una strada romana, e sapete che le strade romane hanno come caratteristica fondamentale quella di essere “lastricate” e, quindi, in modo metaforico possiamo dire che la via sulla quale è iniziato il nostro cammino è lastricata con i termini che definiscono il passaggio dall’Età antica ad una nuova Epoca, e sul territorio di questa nuova Epoca i personaggi che incontreremo utilizzeranno in modo creativo queste parole-chiave – [le ripetiamo] l’esilio e la patria, il sonno e il sogno, l’amore e l’odio, la malattia e il tormento, la morte e la risurrezione – per elaborare significative idee-cardine di stampo esistenziale in modo da poter investire in intelligenza nonostante si faccia sentire il peso della “paura” che spinge al “silenzio”, ma il “silenzio [l’imposizione del silenzio]” stimola l’esercizio della scrittura.
Nelle situazioni più degradanti – e sappiamo che il sistema romano basato sull’imperium [sull’inarrestabile spirale della guerra di conquista] ha generato [lo ha ben descritto Cicerone nelle sue opere] lo snaturamento delle Istituzioni repubblicane, l’irreversibile crisi economica, l’esasperazione degli animi, la corruzione generalizzata, le guerre civili, la dittatura – di fronte a questa situazione di degrado politico, civile e morale, il mondo della cultura [quello che viene chiamato il mondo dei Classici] ha saputo reagire, ha saputo esorcizzare la paura [sebbene i cosiddetti “classici” siano delle persone che riconoscono di essere dei “normali pusillanimi”] e ha saputo trasformare il silenzioso esercizio della scrittura in un “grido [in un silente richiamo interiore]” che continua, in ogni tempo, a risvegliare e a tener deste le coscienze. Quando scriviamo quattro righe, per fissare anche la cosa più semplice, oltre a promuovere la messa in moto delle azioni dell’apprendimento [conoscere, capire, applicare, analizzare, sintetizzare, valutare] noi teniamo deste le nostre coscienze e predisponiamo l’intelletto all’investimento in intelligenza.
Prima di prendere il passo sull’itinerario di questa sera [dobbiamo raggiungere il cuore del primo paesaggio intellettuale del territorio dell’Età tardo-antica consapevoli degli avvenimenti, e dei misteri, che riguardano il complesso tema della “successione ad Augusto”] ci lasciamo ancora influenzare dall’opera dallo scrittore con cui abbiamo celebrato il rituale della partenza.
Gli autori “classici”, che noi abbiamo incontrato nella primavera scorsa e che hanno [a cavallo tra l’età di Cesare e l’età di Augusto] inaugurato un’importante “stagione del dissenso [l’etimologia della parola “dissenso” non rimanda ad una sterile lamentazione o ad una improduttiva reazione violenta ma prevede che, attraverso l’azione intellettuale, si capovolga il senso delle cose collocando in primo piano i principi etici]”; ebbene, Cicerone, Lucrezio, Virgilio, Orazio, Ovidio sono personaggi che, trovandosi a vivere in una situazione di degrado politico, sociale e morale, hanno pagato un prezzo per il loro “dissentire” nei confronti del regime post-repubblicano: sappiamo come Cicerone ha saputo affrontare dignitosamente e coerentemente la morte, conosciamo la cattiva fama che circonda Lucrezio a causa delle provocatorie metafore contenute nel suo poema, sappiamo che Virgilio, gravemente ammalato, avrebbe voluto, prima di morire, bruciare l’Eneide per non essere considerato l’adulatore di un despota, sappiamo che Orazio ha sofferto di depressione e, per primo, ha descritto questa insidiosa malattia denunciando le sue cause sociali, conosciamo bene che fine ha fatto Ovidio condannato all’esilio fino alla fine dei suoi giorni per aver visto qualcosa che non avrebbe dovuto vedere. Questi personaggi, tuttavia, non li possiamo certo paragonare ad un clown che cade progressivamente in disgrazia, a meno che, anche in questo caso, non decidiamo di affidarci al sistema allegorico [sistema congeniale alle stagioni del dissenso] così come fa lo scrittore che ci ha fornito, come “veicolo”, il testo per celebrare il tradizionale rituale della partenza e che continua ad accompagnarci.
Il protagonista di uno dei più celebri romanzi di Heinrich Böll – sebbene di professione faccia il clown, in modo da implementare l’espediente narrativo creato dallo scrittore – vive non tanto in funzione della sua professione [l’attore di talento] ma in virtù delle sue “opinioni”, delle sue “opinioni dissenzienti” nei confronti di una società ipocrita che, volendo tacitare la memoria, finisce per incrementare il degrado sociale e morale: ed è in questo senso che – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – si stabilisce un tramite [un intreccio filologico] tra questo dolente personaggio da romanzo e la tormentata esistenza dei “classici”.
Perché dovremmo leggere, o rileggere, il romanzo intitolato Opinioni di un clown di Heinrich Böll? Ci sono molti motivi, oggi, per fare questo esercizio [non ultimo quello dell’insorgenza in Europa di pericolosi rigurgiti razzisti e xenofobici] – due settimane fa abbiamo studiato le caratteristiche di questo importante scrittore e abbiamo imparato che i temi da lui trattati sono congruenti con il viaggio che stiamo iniziando –; difatti uno dei motivi per cui tra poco leggeremo l’incipit di questo romanzo è che, ad un certo punto [verso la fine], il protagonista dice [l’autore fa dire al protagonista]: «Il clown è una figura che fa ridere tanto con i sui silenzi quanto manifestando la paura per cose, apparentemente innocue, delle quali, i più, anche i bambini, sembrano non avere alcun timore e pensare che non c’è nessuno che possa sembrare più rassicurante di un dittatore sanguinario». Tuttavia il romanzo va letto non solo per questa affermazione – nella quale troviamo le parole-chiave “paura” e “silenzio” che caratterizzano l’ingresso nel territorio dell’Età tardo-antica – ma, soprattutto, è utile leggere il testo di questo romanzo nella sua globalità in ragione del fatto che può essere considerato un compendio [un riepilogo] di una serie di temi esistenziali che troviamo nelle opere dei “classici [Cicerone, Lucrezio, Virgilio, Orazio, Ovidio]”, temi legati alle parole “esilio, patria, sonno, sogno, amore, odio, malattia, tormento, morte, risurrezione”: le parole-chiave con cui è lastricato il primo tratto della strada che ci conduce sul territorio della “sapienza poetica e filosofica dell’Età tardo-antica”.
Prima di leggere l’incipit di Opinioni di un clown è necessario presentare quest’opera nelle sue caratteristiche: la trama è molto semplice e si presenta come una forma a servizio del contenuto delle “opinioni” del protagonista che è il depositario delle riflessioni dell’autore: Heinrich Böll ha partecipato alla “stagione del dissenso” che ha investito l’Europa e il Mondo all’inizio degli anni ’60, i temi emersi in questa stagione sono ancora di attualità.
Il romanzo Opinioni di un clown di Heinrich Böll è stato pubblicato nel 1963 e, come in Ulisse di Joyce [un’opera che abbiamo incontrato più di una volta in questi anni] e come ne La morte di Virgilio di Hermann Broch [autore e opera che abbiamo incontrato in primavera], Böll condensa tutto il materiale narrativo nello spazio di un giorno. Il protagonista [l’antieroe] è, come il titolo lascia presagire, una persona emarginata proprio perché è in possesso di un’anima “naturaliter christiana [naturalmente cristiana]” in una società, come quella tedesca, dove i “cristiani [tanto protestanti quanto cattolici]” tendono a “mostrare fedeltà” alla dottrina che regola le loro congregazioni [un po’ in competizione tra loro], mentre lui – senza volerlo – si comporta spontaneamente secondo i dettami del Vangelo e, quindi, finisce per diventare un molesto segno di contraddizione. Questo concetto lo scrittore lo mette subito in chiaro con la citazione [che tra poco leggeremo] posta all’inizio del romanzo [come introduzione] tratta dal capitolo XV della Lettera ai Romani di Paolo di Tarso [che, inevitabilmente, rincontreremo, strada facendo, proprio per via della Lettera ai Romani]. Questo antieroe è una persona limpida, onesta, casta ma non religiosa, facile alle lacrime e incline all’auto-compassione, si chiama Hans Schnier, di professione fa il clown, e rappresenta un modello di essere umano “creativo [riesce a sentire gli odori per telefono: ci sono molte metafore significative, nel testo di questo romanzo, per rappresentare la creatività]” in un mondo ipocrita dove dominano gli ignoranti e coloro che si gonfiano di ambizione.
Hans è un artista originale e sensibile il quale, ai principi astratti, contrappone la realtà concreta, vista in tutti i suoi particolari come se avesse gli occhi di un bambino che considera meravigliose anche le cose più banali. È figlio di un ricco industriale renano e di una donna poco sensibile che, nel 1945 ha mandato a sicura morte la sua unica figlia Henriette inducendola ad arruolarsi, come se fosse un gioco, per combattere contro gli “yankees ebrei”. Dopo la disfatta è diventata presidentessa di una “Società per la conciliazione dei contrasti razziali”: qual è la ragione – si domanda il clown – per cui non ci ha pensato prima a farsi promotrice di questi valori? Dall’età di ventun anni Hans Schnier vive, tra un albergo e l’altro, con Maria, figlia cattolica di un simpatizzante comunista. Dopo sei anni, influenzata dai correligionari, e stanca di vivere disordinatamente e “in peccato mortale”, Maria lo lascia per sposare Züpfner, un ricco cattolico. Il motivo principale della rottura tra lui e Maria è stato il rifiuto di Hans di impegnarsi per iscritto ad educare cattolicamente i figli eventualmente nati dalla loro unione: lo scrittore apre una riflessione sul diritto dell’individuo all’autodeterminazione. Hans, coerentemente con la sua natura, in questo conflitto soccombe, e si abbandona [raccontando la sua intensa ma inconcludente storia d’amore] a un disperato rimpianto che accompagna il fallimento di tutte le sue esperienze come in una allegoria della “passione” dove tutti coloro ai quali chiede aiuto, compreso suo fratello Leo che sta studiando per diventare prete, lo abbandonano. Alla fine, mimetizzato fra la gente che festeggia il carnevale, Hans si siede, cantando e suonando la chitarra, sui gradini della stazione dove spera che Maria, tornando con Züpfner dal viaggio di nozze, lo veda, ridotto ormai a mendicare.
In questo romanzo Böll critica direttamente o indirettamente i socialisti incoerenti, i fascisti pericolosi, i cattolici che ignorano il vangelo, i protestanti troppo rigidi, gli atei che fan finta di essere devoti, i capitalisti arroganti, i piccolo-borghesi senza morale: le loro posizioni appaiono ugualmente dubbie nella misura in cui diventano dogmatiche da un lato e ipocrite dall’altro perché tutti mentono a se stessi. A Böll preme affermare innanzitutto l’importanza della libertà individuale contro ogni prevaricazione del potere, contro ogni conformismo, al di là di ogni ingannevole apparenza. L’efficacia del testo di questo romanzo sta nella satira, briosa e colta, spesso spinta al grottesco, e sta nel racconto di episodi apparentemente banali, permeati di lirismo, in cui, con arte, Böll – secondo il suo stile – riesce a rappresentare la realtà quotidiana con una profonda partecipazione e con una distaccata ironia.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Il romanzo “Opinioni di un clown” di Heinrich Böll lo trovate in biblioteca, leggetelo o rileggetelo... Che cosa vi ricorda la parola “clown”?...
Scrivete quattro righe in proposito...
Quale di questi termini – giullare, saltimbanco, pagliaccio, buffone, burlone, mimo, istrione, o quale altro – mettereste per primo accanto alla parola “clown”?...
Scrivete, basta una parola...
E adesso leggiamo l’incipit di questo romanzo:
LEGERE MULTUM….
Heinrich Böll, Opinioni di un clown
Coloro ai quali non è stato annunciato nulla di Lui, lo vedranno;
e coloro che non ne hanno udito parlare, lo intenderanno.
Lettera ai Romani XV, 21
Era già buio quando arrivai a Bonn. Feci uno sforzo per non dare al mio arrivo quel ritmo di automaticità che si è venuto a creare in cinque anni di continuo viaggiare: scendere le scale della stazione, risalire altre scale deporre la borsa da viaggio, levare il biglietto dalla tasca del soprabito consegnare il biglietto, dirigersi verso l’edicola dei giornali comperare le edizioni della sera, uscire, far cenno a un tassì.
... continua la lettura ...
Il viaggio è cominciato e sappiamo che il nostro obiettivo è quello di raggiungere il cuore del primo paesaggio intellettuale che s’incontra sul territorio della “sapienza poetica e filosofica dell’Età tardo-antica: a che punto siamo sul tragitto di avvicinamento? La scorsa settimana abbiamo mosso i primi passi su una strada romana “lastricata”, metaforicamente, con i termini – [li ripetiamo] l’esilio e la patria, il sonno e il sogno, l’amore e l’odio, la malattia e il tormento, la morte e la risurrezione – che definiscono il passaggio ad un’Epoca in cui i caratteri tipici dell’Età antica si “prolungano [è il tardo-antico]” e si stemperano fino all’elaborazione di significative idee-cardine di stampo esistenziale che producono redditizi investimenti in intelligenza nonostante si faccia sentire il peso della “paura [ma per i Classici la paura è stimolo]” che spinge al “silenzio [ma per i Classici il silenzio è scrittura]”. Il primo tratto della strada sulla quale ci siamo incamminate e incamminati [la scorsa settimana ne abbiamo già percorso una parte], si chiama [come sapete] “Via della Successione al Principato di Augusto” ed è da questa via che, obbligatoriamente, dobbiamo passare per raggiungere il cuore del primo paesaggio intellettuale del territorio della “sapienza poetica e filosofica dell’Età tardo-antica”. Per procedere con ordine riprendiamo in mano i fili con i quali, la scorsa settimana, abbiamo già tessuto una prima parte del nostro racconto: un racconto complesso e drammatico nel quale si muovono molti personaggi.
Augusto [ormai lo sappiamo a memoria] muore a Nola il 19 agosto del 14 d.C. nella villa dei suoi avi [Avete visitato la città di Nola con una guida della Campania? Non perdete questa occasione!]. Anche se ha predisposto tutto, in modo che il trapasso del suo potere avvenga senza scosse, Augusto non è soddisfatto e, difatti, ciò che avviene non era quello che lui avrebbe voluto ma quello che è stato costretto a fare.
La vecchiaia di Augusto è stata rattristata da una serie di lutti [c’è chi dice di “delitti”] che hanno condizionato l’iter della successione così come lui aveva cercato di programmarla, e Augusto è certamente coinvolto personalmente [come carnefice ma anche come vittima] nelle trame che hanno provocato questi “lutti”. Augusto naturalmente [come tutti i maschi romani] desiderava un erede del suo sangue, ma non aveva avuto figli maschi, aveva solo una figlia femmina, Giulia [detta Giulia Maggiore, nata nel 39 a.C.], avuta dalla sua seconda moglie Scribonia, che aveva sposato per esigenze di potere [per ingraziarsi il partito aristocratico], dopo aver ripudiato la prima moglie Claudia. Sappiamo che, per designare un suo successore, Augusto utilizza la figlia Giulia Maggiore: le donne non possono accedere a nessuna carica istituzionale ma possono essere strumenti per la gestione del potere [attraverso il matrimonio e la maternità secondo la mentalità tipica del mondo di Janus: un tema che abbiamo trattato nella prima parte del viaggio dello scorso anno scolastico] perché Augusto pensa di associare alla sua autorità di Principe, attraverso l’istituto dell’adozione [aveva fatto votare dal Senato una legge apposita], un genero o, meglio ancora, un nipote [un figlio di Giulia Maggiore] per preparalo a succedergli.
Il primo marito [come abbiamo già studiato la scorsa settimana] che Augusto procura a Giulia nel 25 a.C. è Marco Claudio Marcello il quale è per lui, contemporaneamente, un nipote e un genero. Questo ragazzo è figlio di Gaio Claudio Marcello e di Ottavia, la sorella di Augusto, di conseguenza è nipote di Augusto e cugino di Giulia, quindi, risulta [a prima vista] un matrimonio ben combinato tra due ragazzi [con affinità di sangue] – lui ha appena compiuto diciassette anni e lei quattordici – destinati ad ereditare il principato. C’è da dire che Marcello è proprio ancora un ragazzo mentre Giulia [nonostante la giovane età] si comporta da donna piuttosto “emancipata [è decisa, è intraprendente, è di bell’aspetto, è colta]” e frequenta gli ambienti intellettuali della città [entra nei Circoli culturali travestita da ragazzo: alle ragazze era vietato l’ingresso] e intesse rapporti con persone interessanti, più grandi di lei, preferisce la compagnia di uomini maturi e colti piuttosto che quella di Marcello che lei considera un fratellino, un cuginetto, più che un marito. Augusto designa Marco Claudio Marcello – che è suo nipote, suo genero, suo figlio adottivo – come “erede” al Principato ma le cose non girano per il verso giusto perché questo matrimonio combinato non funziona [Giulia Maggiore non ha niente in comune con Claudio Marcello e non vuole sottomettersi alla ragion di Stato] e anche Marcello si sente investito di una responsabilità troppo pesante per lui [deve ancora crescere]: Augusto si accorge di aver sbagliato qualcosa.
Intanto Augusto [come abbiamo già studiato la scorsa settimana] aveva ripudiato Scribonia, la madre di Giulia [che non gli serviva più] e, nel 38 a.C., si era risposato con Livia Drusilla, la figlia ventenne di Livio Druso e di Claudia Aufidia [Augusto vuole imparentarsi con due potenti famiglie - la Livia e la Claudia - per consolidare il suo potere], la quale, a sua volta, era già stata la moglie Tiberio Claudio Nerone il quale – dopo la morte di Cesare [era stato un comandante dell’esercito di Cesare, aveva vinto la battaglia navale di Alessandria] – si era schierato con i congiurati [con Bruto e Cassio] e poi, al termine delle guerre civili, il vincitore Ottaviano lo aveva perdonato ma era rimasto in credito con lui e, difatti, quando Tiberio Claudio Nerone capisce che il Principe ha instaurato una diplomatica relazione con sua moglie non può far altro che ripudiarla e renderla libera. Siamo già al corrente che Tiberio Claudio Nerone e Livia Drusilla hanno un figlio di nome Tiberio e lei è incinta del marito quando sposa Augusto: alla nascita di questo bambino, che viene chiamato Druso, Augusto li adotta entrambi, Tiberio e Druso, e così si ritrova ad avere due figli maschi, adottati, che, in verità, non ama particolarmente [non c’è neppure una goccia del suo sangue nelle loro vene].
E ora puntiamo, ancora una volta [già questo fatto lo abbiamo narrato la scorsa settimana, ma dobbiamo rinfrescarci la memoria], l’attenzione sul primo avvenimento drammatico che caratterizza il periodo in cui Augusto prepara la sua “successione”. Nel 23 a.C., mentre sta cavalcando nella campagna romana, Marco Claudio Marcello muore accidentalmente precipitando con il suo cavallo da un dirupo perché, probabilmente, tanto lui quanto il suo cavallo, sono stati avvelenati. Lo storico Tacito fa un’allusione in proposito scrivendo che questa operazione del presunto [nessuno va ad indagare ma è certamente un avvenimento sospetto] avvelenamento di Marcello sia stata diretta da Livia Drusilla [ha due figli da proporre come successori]: il fatto è che, con la morte del [povero] Marcello, comincia una velenosa, terribile e sotterranea guerra di successione che viene condotta senza esclusione di colpi. In che modo Augusto è coinvolto nella tragica fine del povero Marcello che, effettivamente [anche per lui], era diventato un peso più che una risorsa?
La tragica fine di Marco Claudio Marcello viene commemorata con la proclamazione del lutto in tutto l’Impero [l’ipocrisia del potere non ha limiti] e con la celebrazione di grandi cerimonie funebri. Augusto fa completare, in suo onore, il teatro detto appunto di Marcello [lo avete visitato da vicino, con una guida di Roma, questo celebre monumento? Approfittate dell’occasione!]. La fine tragica di Marcello [cugino e marito di Giulia Maggiore e nipote, genero, figlio adottivo ed erede designato di Augusto] viene ricordata e commemorata anche da Virgilio il quale cita questo povero ragazzo nell’Eneide [lo rappresenta sotto forma di anima in pena nell’Ade, ed è una citazione ambigua, e abbiamo studiato che Virgilio è costretto a fare una modifica al testo: a sostituire il sospetto aggettivo “misterioso” con il meno compromettente termine “funesto”] e la scorsa settimana – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – abbiamo studiato questo interessante intreccio filologico.
Assorbito il trauma della morte “misteriosa” di Macello, Augusto, sotto l’egida della “paura” e del “silenzio”, ricomincia da capo a tessere la sua tela [ha ragione Cicerone a definirlo un “ragno insidioso”] e, naturalmente, comincia a cercare [Augusto non ama i figli di Livia Drusilla che ha adottato e quindi ha un piano] un altro marito per Giulia che è rimasta vedova e che, in verità, un compagno vorrebbe cercarselo per conto suo. Che cosa succede questa volta e come vanno a finire le cose?
Augusto, nel 21 a.C., trova un nuovo marito per la figlia e a Giulia Maggiore viene fatto sposare il generale e uomo politico Marco Vipsanio Agrippa [uomo di fiducia di Augusto, uno dei protagonisti della battaglia di Azio e dal 27 a.C. designato da Augusto a dirigere i lavori pubblici], e risulta [anche se c’è una certa differenza di età tra gli sposi: lei ha 18 anni e lui 42] un matrimonio riuscito, e da questa unione nascono cinque figli: Caio, Lucio Cesare, Giulia Minore, Agrippina Maggiore e Agrippa Postumo. Marco Vipsanio Agrippa – di origine modesta e di intelligenza fattiva – è una persona di valore [è stato un buon amministratore in Gallia, un buon diplomatico in Giudea che era un posto assai delicato]; Augusto lo associa al potere [nel 18 a.C.] e Agrippa affronta la crisi in atto e riesce a reperire risorse per realizzare molte opere a Roma in modo da rendere la città più vivibile: fa un piano edilizio innovativo [c’era bisogno di case per il popolo], fa costruire nuove terme lussuose [a pagamento per i più ricchi] per lasciare quelle più popolari ad uso gratuito di tutti, fa costruire quattro grandi portici [per i mercati, per gli incontri], due teatri [a Roma non c’erano teatri pubblici], fa edificare il Pantheon [uno dei più importanti monumenti che ci siano al mondo], fa preparare la prima carta geografica dello Stato romano che viene collocata sotto un portico che prenderà, poi, il nome di Portico di Agrippa. Roma, con il fattivo operato di Agrippa, assume davvero un aspetto monumentale e comincia a dotarsi di quei servizi necessari per il sempre maggior numero di cittadini non abbienti che l’abitavano. Intanto Augusto adotta i due nipoti, Caio e Lucio Cesare [i primi due figli di Giulia Maggiore e di Agrippa], come eredi alla successione.
Succede che a Roma si forma una sorta di consenso nei confronti di Marco Vipsanio Agrippa, tutti ne dicono bene perché è una persona modesta che svolge un’infaticabile azione di governo senza ambizione di potere [nei sondaggi risulta più gradito di Augusto]. Il fatto è che, nel 12 a.C., Agrippa muore accidentalmente [cade da un’impalcatura mentre sta visitando un cantiere]: anche questa è una morte misteriosa. Si sa che Augusto è geloso di carattere e Agrippa, con le sue doti e con la sua buona volontà, lo ha messo in ombra: la prima persona che vorrebbe indagare sulla morte di Agrippa è Giulia, la quale, rimasta di nuovo vedova in circostanze poco chiare, reagisce in modo molto aggressivo alla morte del marito alla quale era sinceramente affezionata. Augusto – dopo le esequie solenni in onore del genero – fa scolpire due statue una raffigurante se stesso e l’altra Marco Vipsanio Agrippa e le fa collocare all’ingresso del Pantheon che è, ancora oggi, l’opera più importante alla quale il nome di Agrippa è legato.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Avete visitato il Pantheon?… Il Pantheon è uno dei monumenti romani più celebri per lo stato di conservazione, per la sua grandiosità e per la sapienza con cui è stato costruito… Utilizzando un guida di Roma fate una visita al Pantheon leggendo le pagine che descrivono questo straordinario monumento: Roma non è lontana ed è bene essere persone preparate…
Noi non sappiamo quali siano i retroscena di questa storia che passa sotto il nome di “successione ad Augusto”, possiamo solo fare delle ipotesi alla luce di come sono andate le cose ma è certo che due, tra gli scheletri eccellenti, che troviamo negli armadi di Augusto sono quelli di Claudio Marcello e di Vipsanio Agrippa. Con la morte di Agrippa si apre un nuovo scenario: Augusto è sempre più solo e più scontento e la sua solitudine non è velata di ironia come lo è quella del protagonista, un clown, del romanzo di cui abbiamo letto l’incipit.
Per di più dalla solitudine di questo clown nascono le sue “opinioni”: noi le opinioni di Augusto non le conosciamo, mentre, invece, quelle del protagonista del romanzo di Heinrich Böll le possiamo leggere, e allora, prima di conoscere il nuovo scenario che si apre, a Roma [una città sempre più blindata], dopo la morte “sospetta” di Vipsanio Agrippa, leggiamo ancora due pagine di Opinioni di un clown.
LEGERE MULTUM….
Heinrich Böll, Opinioni di un clown
A Bonn tutto era diverso. Là non ho mai recitato; ci abito, e il tassì chiamato con un cenno della mano non mi conduceva in un albergo, ma a casa mia. Dovrei dire: “ci” conduceva, Maria e me. Nessun portiere nell’ingresso che potessi scambiare con un impiegato delle ferrovie, e tuttavia questo appartamento, nel quale abito sì e no tre o quattro settimane all’anno, mi è più estraneo di qualsiasi albergo. A Bonn, davanti alla stazione, dovetti trattenermi dal fare cenno a un tassì: il gesto era diventato così meccanico che mi avrebbe quasi messo in imbarazzo. Avevo in tasca ancora un marco.
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Passato un anno dalla morte di Agrippa, nell’11 a.C., Augusto – probabilmente pressato da Livia Drusilla [che sembra Vesta ma in realtà assomiglia a Proserpina] – impone il matrimonio tra Giulia e Tiberio [sono giuridicamente fratello e sorella - fratellastri - e quasi coetanei, Tiberio ha tre anni più di Giulia]: Tiberio non vorrebbe sposare Giulia perché è già felicemente sposato con Vipsania Agrippina che amava sinceramente e dalla quale ha avuto un figlio, Druso Minore. Tiberio è costretto a divorziare e a sposare Giulia la quale accetta a condizione che Tiberio s’impegni a fare da tutore ai figli maggiori di Giulia ed Agrippa, Caio e Lucio Cesare, per prepararli a succedere ad Augusto. Il fatto è che prima Caio, nel 2 d.C., e poi Lucio Cesare, nel 4 d.C., muoiono entrambi avvelenati e anche il figlio più giovane di Giulia Maggiore, Agrippa Postumo, che era un ragazzo dal carattere problematico, muore, in circostanze misteriose, nel 7 d.C.. È in questo contesto che Giulia Maggiore tenta di strangolare suo padre e, ripudiata da Tiberio, viene esiliata dal Principe padre-padrone sull’isola di Ventotene [Pandataria] e poi trasferita in Calabria dove muore nel 14 d.C.. Anche Giulia Minore – una delle due figlie di Giulia Maggiore e di Agrippa – viene esiliata alle isole Tremiti nell’8 d.C. e, nello stesso momento, anche Ovidio viene esiliato a Tomi: anche Giulia Minore ha attentato alla vita del nonno, e che cosa avrà visto Publio Ovidio Nasone che non doveva vedere, dove avrà messo il naso? C’è l’imbarazzo della scelta in questa lunga lista di “omicidi” e di “soprusi” che accompagnano la lotta per la “successione” ad Augusto.
Publio Ovidio in un’opera dell’esilio intitolata Tristia [Tristezze] scrive in modo interlocutorio: «Come è stato possibile che io sia stato ritenuto colpevole di aver commesso dei soprusi quando sono io che ho subito un sopruso?». La parola latina che corrisponde al termine “sopruso” è “iniuria” e nella sua radice c’è la parola “ius, iuris” che significa “diritto”: Ovidio vuole denunciare, con l’utilizzo del termine “iniuria [il sopruso]”, la “sospensione dei diritti”, l’anomala situazione che si è venuta a creare con il Principato di Augusto per cui Ovidio è stato relegato in esilio senza neppure un processo, senza poter usufruire delle garanzie date dalla giurisprudenza.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quale di queste parole – prepotenza, abuso, sopraffazione, arbitrio, angheria, ingiustizia, prevaricazione – mettereste per prima accanto alla parola “sopruso”?...
Scrivetela...
Pensate di aver subito un sopruso?...
Scrivete quattro righe in proposito...
A questo punto ci meravigliamo sempre meno del fatto che le parole-chiave con cui si conclude l’Età antica e con le quali ci si avvia verso una nuova Epoca siano legate all’esperienza dell’esilio, alla fuga nel sonno, al tormento della malattia del corpo e dell’anima e al trionfo della morte. Questi concetti, ai quali si accompagna anche la parola-chiave “sopruso [iniuria, in latino]” – continuano ad essere oggetto di riflessione – e sono contigui alle “Opinioni di un clown” per cui è d’uopo leggere ancora alcune pagine dal romanzo di Heinrich Böll che porta questo titolo.
LEGERE MULTUM….
Heinrich Böll, Opinioni di un clown
Sono nato a Bonn e vi conosco molta gente: parenti, conoscenti, ex compagni di scuola. Qui abitano i miei genitori, e mio fratello Leo - che si è convertito sotto l’egida spirituale di Züpfner - studia qui teologia cattolica. I miei genitori li dovrò vedere per forza, almeno una volta, non foss’altro per regolare con loro la questione finanziaria. Forse affiderò anche questo incarico a un avvocato. Su questo punto sono ancora indeciso.
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Il sarcasmo con cui termina questa lettura [ne leggeremo ancora alcune pagine tra quindici giorni] si addice alla conclusione di questo itinerario.
Quando il 19 agosto del 14 d.C. muore Augusto l’erede al Principato è Tiberio [Giulio Cesare Tiberio] il quale si dimostra molto reticente ad accettare il posto al vertice dello Stato. Tiberio è un uomo di 56 anni assai frustrato e si possono capire le ragioni della sua frustrazione: sa di non essere stato il preferito di Augusto alla successione perché nelle sue vene non scorre il sangue del Principe. Tiberio sa, e si sente in colpa perché sua madre, l’abile e spregiudicata Livia Drusilla, nei decenni precedenti, – prima mentre lui era a studiare in Grecia e poi quando era al comando dell’esercito in Asia e in Germania –, a Roma, ha tramato [velenosamente] a sua insaputa per favorire la sua ascesa al potere. Tiberio sa che suo padre, Claudio Nerone, ha dovuto cedere la moglie, Livia Drusilla, ad Ottaviano che lo aveva perdonato, perché Claudio Nerone si era schierato con gli autori della congiura contro Cesare, e Tiberio ripensa anche al fatto che suo padre, nel 33 a.C., quando lui aveva nove anni, è morto in circostanze misteriose. Tiberio si è sempre sentito a disagio di essere stato adottato da Ottaviano che aveva umiliato e in seguito, probabilmente, aveva fatto eliminare suo padre. Tiberio era traumatizzato dal fatto che Augusto lo aveva costretto a ripudiare la propria moglie [Vipsania Drusilla], che lui amava, per fargli sposare Giulia Maggiore. Con tutte queste frustrazioni che aveva subito: come poteva Tiberio non avere disturbi caratteriali?
Tiberio, dopo molte esitazioni, [spronato dalle famiglie aristocratiche] assume, nell’autunno del 14 a.C., la carica di princeps [il primo dei Senatori]: questo è un ruolo che lui non sente suo e, quindi, coltiva l’idea di rimettere tutte le cariche istituzionali repubblicane nelle mani del Senato, ma ormai non era facile rimettere le cose a posto, e allora che cosa succede?
Sapere che cosa succede è utile in funzione della nostra marcia di avvicinamento al primo paesaggio intellettuale che s’incontra sul territorio dell’Età tardo-antica.
Per sapere che cosa succede dobbiamo seguire la scia dell’Alfabetizzazione e dell’Apprendimento permanente perché l’Alfabetizzazione culturale e funzionale è un bene comune [come la lotta contro i soprusi] e l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona: per questo la Scuola è qui con il suo carattere “errabondo” perché l’insegnamento più importante è quello che non si acquisisce mai ma che si studia sempre.
Il viaggio continua fra quindici giorni…