Prof. Giuseppe Nibbi Lo sguardo di Erodoto 2005 9-10-11 novembre 2005
LO SGUARDO DI ERODOTO
SULLE PAROLE: RICERCA, ANALISI, GIUDIZIO, ALLUSIONE…
La scorsa settimana ci siamo occupati delle “forme intellettuali” che emergono dal testo de Le Storie di Erodoto. Questo tema ci deve far riflettere sul fatto che tutti noi (non solo Erodoto) possediamo nella mente una serie di “forme intellettuali”, vale a dire di concetti, di dottrine, di parole-chiave, di idee significative, derivanti soprattutto dalla “formazione culturale” che abbiamo ricevuto. Di alcune di queste “forme intellettuali”, di questi “stampi ideali”, noi siamo consapevoli, ma della maggior parte di questi modelli, di questi prototipi, di queste icone, noi non siamo consapevoli: le abbiamo interiorizzate passivamente attraverso l’ambiente in cui abbiamo vissuto, attraverso le esperienze che ci sono state proposte, o che abbiamo scelto di fare, o che abbiamo subìto. Dobbiamo prendere atto del fatto che – nell’evolversi della storia dell’Umanità – gli individui sono anche gli anelli di una catena culturale e spesso lo sono in modo inconsapevole. Purtroppo, nella maggior parte dei casi, le “forme intellettuali” di base, le “idee-significative” originarie, le “parole-chiave” costitutive, che fanno parte – ci dicono gli antropologi – del patrimonio universale dell’Umanità, sono seppellite nella mente dei cittadini. Queste “forme intellettuali” di base, queste “parole-chiave” costitutive, queste “idee-significative” originarie, danno luogo ad un’importante ed interessante questione culturale che è stata chiamata: la questione dell’archeologia del sapere. Le “forme intellettuali”, le “parole-chiave”, le “idee-significative” – che le persone hanno ereditato – oggi, nella maggior parte dei casi, vengono utilizzate meccanicamente senza il sostegno dell’esperienza culturale che ne deve mettere in luce i significati.
Quando Montaigne nel 1580 scrive nei suoi Saggi – a proposito dell’imparare – che “è più importante avere una testa ben fatta piuttosto che una testa ben piena” vuole dire che è necessario, per essere capaci ad investire in intelligenza, curare (studium et cura sono sinonimi) le “forme intellettuali”. È preferibile, piuttosto che accumulare nozioni, imparare a sistemarle, a contenerle, e soprattutto sapere come e perché si apprende.
Le Storie di Erodoto – ci dicono gli antropologi – sono il più antico contenitore dove possiamo rinvenire, raccolte tutte insieme, le prime “forme intellettuali” di base, le prime “parole-chiave”, le prime “idee-significative” della Storia del Pensiero Umano. Ne Le Storie di Erodoto possiamo riconoscere quattro principali “forme intellettuali” che lo scrittore utilizza (in modo inconsapevole, dicono gli antichisti) per costruire il testo della sua opera. Itinerario dopo itinerario ci stiamo preparando a leggere un certo numero di pagine del libro di Erodoto e quindi dobbiamo tenere conto che il suo pensiero passa attraverso l’esigenza continua di “mettersi in ricerca”.
Erodoto – lo vedremo – sente l’esigenza di viaggiare “alla ricerca” degli oggetti, dei personaggi, dei fatti, degli avvenimenti, dei racconti che possano svelare la realtà del mondo in cui lui vive. L’esigenza di “mettersi in ricerca” è la prima “forma intellettuale” che Erodoto usa per costruire il testo della sua opera.
Nel momento in cui ci stiamo preparando a leggere un certo numero di pagine del libro di Erodoto dobbiamo tenere conto che il suo pensiero passa attraverso la necessità continua di “fare l’analisi logica”. Erodoto aspira a “condurre un’indagine razionale e scientifica” sugli oggetti, sui personaggi, sui fatti, sugli avvenimenti, sui racconti che tendono a descrivere la realtà del mondo in cui lui vive. La necessità di “fare l’analisi logica” della realtà è la seconda “forma intellettuale” che Erodoto usa per costruire il testo della sua opera.
Nel momento in cui ci stiamo preparando a leggere un certo numero di pagine del libro di Erodoto dobbiamo tenere conto che il suo pensiero passa attraverso il continuo riconoscimento della difficoltà di “dare un giudizio” su ciò che è avvenuto e che avviene nel mondo. Il riconoscimento della difficoltà di “dare un giudizio” è la terza “forma intellettuale” che Erodoto usa per costruire il testo della sua opera.
Nel momento in cui ci stiamo preparando a leggere un certo numero di pagine del libro di Erodoto dobbiamo tenere conto che il suo pensiero coltiva una quarta “forma” con cui costruisce il testo della sua opera: “l’allusione”.
Lo studio delle “forme intellettuali” – cioè del modo in cui Erodoto ha scritto il suo libro – fa risaltare quattro parole-chiave: ricerca, analisi, giudizio e allusione. Queste parole risultano essere le prime a coniugarsi con la parola “storia”.
Inoltre, l’opera di Erodoto – ci dicono gli esperti – esprime una serie di “idee significative” che devono essere prese in considerazione perché sono utili in funzione della didattica della lettura e della scrittura. Queste “idee significative” sono, a loro volta, strettamente legate alle parole-chiave: ricerca, analisi, giudizio e allusione.
L’opera di Erodoto, che risulta essere articolata, composita, eterogenea, variegata, trova quindi in queste parole-chiave – ricerca, analisi, giudizio e allusione – la sua unità formale. Le parole-chiave “ricerca, analisi, giudizio e allusione” formano come un perimetro all’interno del quale si sviluppa la scrittura di Erodoto: una scrittura che dà forma ad un territorio ricco di significativi “paesaggi culturali”, ricco di “idee”.
E un’idea, un concetto significativo che vediamo emerge da Le Storie è l’idea stessa che Erodoto ha del mondo: per Erodoto – lo abbiamo già detto più di una volta – il mondo è vario, è strano, è imprevedibile, non è facilmente giudicabile. Perché succede questo secondo Erodoto? Quali considerazioni fa Erodoto per giustificare questa sua affermazione?
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Secondo voi qual è la cosa più strana, più anomala, più strampalata che, oggi, ci sia al mondo ?
Scrivete quattro righe in proposito…
Erodoto fa le sue “scoperte intellettuali” nel contesto culturale della Ionia (Omero, Ecateo, Callino, Mimnermo e, questi nomi, non dovrebbero esservi indifferenti), la regione che si estende a nord di Alicarnasso, la polis dove è nato nel 484 circa a. C..La prima importante scoperta fatta dal giovane Erodoto è che il mondo, fuori dalle mura della polis greca, non è immerso nelle tenebre dell’inciviltà (della barbarie) ma possiede le caratteristiche della varietà, della stranezza, dell’imprevedibilità: caratteristiche che comportano la sospensione del giudizio. Nel capitolo 38 del libro III de Le Storie, Erodoto “allude” a questa scoperta? In questo capitolo si parla di Dario, re dei Persiani, il quale un certo giorno interpella gli appartenenti a due “culture diverse”: leggiamo questo frammento
LEGERE MULTUM….
Erodoto, Le Storie III 38
… Chiamati i Greci che erano presso di lui, chiese loro a quale prezzo avrebbero acconsentito di cibarsi dei loro padri morti, e quelli dichiararono che a nessun prezzo avrebbero fatto ciò. Dario allora chiamati quegli indiani detti Callati, i quali divorano i genitori, chiese a qual prezzo avrebbero accettato di bruciare nel fuoco i loro genitori defunti; e quelli con alte grida lo invitarono a non dire simili empietà. A me sembra che giustamente Pindaro abbia detto nei suoi poemi, affermando che “la tradizione è regina del mondo”.
L’argomento non è piacevole ma dobbiamo riflettere: vi è qualche motivo – allude Erodoto – per sostenere che i Greci (i quali cremano i defunti) hanno ragione e i Callati (i quali li mangiano) hanno torto? Vi è qualche ragione – allude Erodoto – per sostenere che i Greci, in virtù della cremazione, sono civili e gli altri, a causa del cannibalismo rituale (di cui rimane traccia nell’eucarestia), sono “barbari”? Probabilmente no. Erodoto cita Pindaro (518-438 a.C.), un’autorità forte – Pindaro era già considerato uno dei più grandi poeti dell’antichità – per sostenere un’ulteriore idea forte. “A me sembra – scrive Erodoto – che Pindaro abbia detto una cosa giusta nei suoi poemi, affermando che la tradizione è regina del mondo”. Erodoto afferma che: la consuetudine (la tradizione) è la regina di tutte le cose; e questa citazione è uno dei punti in cui, nel testo di Erodoto, prende forma lo stampo del “relativismo culturale” (ci cui si è parlato tanto per qualche giorno, e senza mai citare Erodoto).
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
C’è “una tradizione” a cui vi sentite particolarmente legate/legati ? C’è “una consuetudine”, “un’ usanza” che voi rispettate sempre?
Scrivete quattro righe in proposito…
Lo stampo del “relativismo culturale” ha sempre creato e crea non pochi problemi. Il primo problema fondamentale riguarda il fatto che, se tutto è relativo, bisogna necessariamente stabilire dei punti fermi. Il secondo problema fondamentale consiste nel fatto che il “relativismo culturale” è alla base dell’idea della “tolleranza”, un’idea che la società occidentale ha sempre considerato come un valore supremo, quanto meno a parole. Sappiamo che il “tollerare” non corrisponde sempre ad un’azione virtuosa.
E qui – in funzione della didattica della lettura e della scrittura dobbiamo aprire una parentesi e soffermarci davanti al paesaggio intellettuale verso il quale il nostro sentiero ci ha portato. Il testo più famoso nella storia della cultura che si occupa del tema della tolleranza s’intitola Il trattato sulla tolleranza ed è stato scritto da François-Marie Arouet, detto Voltaire nel 1763. Tutti abbiamo sentito nominare Voltaire (1694-1778) e, nei nostri Percorsi, lo abbiamo già incontrato molte volte.
Erodoto allude sorridendo perché, sul tema della “tolleranza” e soprattutto sul tema della “intolleranza”, Voltaire si trova sulla sua stessa lunghezza d’onda. La Scuola ha il dovere – in un Percorso di didattica della lettura e della scrittura – di invitare gli studenti a leggere questo trattato che, a prima vista, non si presenta come un’opera di facile lettura anche se la scrittura di Voltaire (molti di voi hanno già sperimentato la lettura dei testi di Voltaire) è molto accattivante per il suo stile caustico, ironico, provocatorio. Il trattato sulla tolleranza è stato ispirato a Voltaire da un infame processo e da un’ancora più infame sentenza emessa nel 1762 dal tribunale di Tolosa contro un calvinista, Jean Calas, reo, secondo l’accusa, di avere ucciso, con l’aiuto della moglie, dei familiari e di un correligionario, il proprio figlio Marco Antonio (morto invece suicida), per impedirgli la conversione al cattolicesimo. Jean Calas fu sottoposto a tortura, senza che si riuscisse a strappargli la confessione voluta, e poi fu condannato a morte e giustiziato. L’altro suo figlio Pietro fu bandito, le figlie chiuse in convento, la moglie spogliata di ogni avere e lasciata senza pane e senza speranza. Questo fatto stupefacente, dovuto ad un’esplosione di fanatismo religioso e di intolleranza, suscitò ovunque, in Francia e fuori dalla Francia, sdegno e pietà; e mosse alcuni spiriti illuminati, primo tra tutti Voltaire, a chiedere la revisione del processo e ad ottenere la riabilitazione del giustiziato Calas, della moglie e dei figli innocenti. Dopo l’esposizione di questi drammatici fatti, Voltaire tratta dell’origine della intolleranza definendola figlia della superstizione, non figlia della religione; mentre dichiara la tolleranza figlia della Ragione e fattore essenziale della pace sociale, del rispetto e dell’amore reciproco. Leggiamo una pagina.
LEGERE MULTUM….
Voltaire, Il trattato sulla tolleranza (1763)
Jean Calas, di sessantotto anni, esercitava la professione di negoziante a Tolosa da più di quarant’anni ed era ritenuto un buon padre di famiglia da tutti quelli che lo avevano conosciuto. Era protestante, come sua moglie e tutti i suoi figli, eccetto uno che aveva abiurato l’eresia e a cui il padre corrispondeva una piccola pensione. Sembrava essere così lontano da quell’assurdo fanatismo che spezza tutti i vincoli della società, che aveva approvato la conversione del figlio Louis Calas, e da trent’anni teneva presso di sé, come domestica, una cattolica zelante, che aveva allevato tutti i suoi figli. Uno dei figli di Jean Calas, chiamato Marco Antonio, era un letterato: passava per essere uno spirito inquieto, cupo, violento. Questo giovanotto, non essendo riuscito né ad entrare negli affari, cui non era adatto, né ad essere ammesso ad esercitare la professione di avvocato, occorrendo a ciò dei certificati di cattolicità che non poteva ottenere, decise di metter fine ai suoi giorni… Infine, avendo un giorno perduto il suo denaro al giuoco, scelse quel momento per tradurre in atto il suo proposito. Un amico della sua famiglia e suo, di nome Lavaisse, giovane di diciannove anni, noto per il candore e la dolcezza dei costumi, figlio di un celebre avvocato di Tolosa, era arrivato da Bordeaux la vigilia. Egli andò per caso a cena dai Calas.
Il padre, la madre, il figlio maggiore Marco Antonio e il secondogenito Pietro mangiarono insieme a lui. Finita la cena si ritirarono in un salottino; Marco Antonio scomparve; infine, quando il giovane Lavaisse volle andarsene, egli e Pietro Calas, scesi al pianterreno, trovarono in basso, presso la bottega, Marco Antonio in camicia, impiccato a un architrave, e il suo vestito ripiegato sul banco. La camicia non aveva nemmeno una piega. I capelli erano ben pettinati. Sul corpo non presentava alcuna ferita, alcuna ammaccatura. Sorvoliamo sui particolari che hanno riferito gli avvocati; non possiamo descrivere il dolore e la disperazione del padre e della madre: le loro grida furono udite dai vicini. Fuori di sé, Lavaisse e Pietro Calas corsero a cercare dei chirurghi e la giustizia. Mentre attendevano a questo dovere, mentre il padre e la madre erano in lacrime e in singhiozzi, il popolo di Tolosa si adunò attorno alla casa. Si tratta di un popolo superstizioso, impulsivo e intollerante che considera come mostri i suoi fratelli che non sono della sua stessa religione… Questa città celebra ancora oggi, tutti gli anni, con una processione e con fuochi d’artifizio, il giorno in cui massacrò quattromila cittadini eretici, due secoli fa. Invano sei decreti del governo hanno proibito questa festa odiosa: i tolosani hanno continuato a celebrarla come se si trattasse di giuochi floreali. Qualche fanatico in mezzo alla folla gridò che Jean Calas aveva impiccato il proprio figlio Marco Antonio. Il grido, ripetuto, in un momento diventò unanime; altri aggiunsero che il morto avrebbe dovuto abiurare il giorno dopo, che la sua famiglia e il giovane Lavaisse l’avevano strangolato per odio contro la religione cattolica. Un momento dopo nessuno ne dubitava più: tutta la città fu persuasa che per i protestanti fosse un punto di religione che il padre e la madre dovessero assassinare il figlio loro che si vuol convertire. Gli animi, una volta commossi, non si calmano più. Si immaginò che i protestanti della Linguadoca s’erano riuniti la vigilia, che avevano designato a maggioranza di voti uno della setta come carnefice; che la scelta era caduta sul giovane Lavaisse; che questo giovanotto in ventiquattr’ore aveva ricevuto la notizia della sua elezione ed era arrivato da Bordeaux per aiutare Jean Calas, sua moglie e il loro figlio Pietro a strangolare l’amico, il figlio, il fratello. Messer Davide, scabino (giudice) di Tolosa, eccitato da queste voci, e volendo farsi valere con una pronta azione giudiziaria, aprì un processo contro le regole e le ordinanze. La famiglia Calas, la domestica cattolica, Lavaisse furono messi in catene. Si andò più in là. Marco Antonio Calas venne inumato con la maggior pompa nella chiesa di Santo Stefano, nonostante le proteste del parroco contro questa profanazione…Al disgraziato che si era tolta la vita non mancava più che la canonizzazione; tutto il popolo già lo considerava come un santo; alcuni lo invocavano, altri andavano a pregare sulla sua tomba, altri gli chiedevano dei miracoli, altri narravano quelli che già aveva fatti… Da quel momento la condanna a morte di Jean Calas parve cosa sicura. Ciò che soprattutto preparò l’esecuzione fu l’avvicinarsi di quella singolare festa che i tolosani celebrano tutti gli anni in memoria del massacro di quattromila Ugonotti. Il 1762 era la ricorrenza secolare. Nella città si preparava la solenne celebrazione e ciò accendeva ancora di più la già calda immaginazione del popolo. Si diceva pubblicamente che il palco su cui i Calas sarebbero stati messi alla ruota sarebbe stato il più bell’ornamento della festa; si diceva che la Provvidenza stessa aveva designato le vittime da offrire in sacrificio alla nostra santa religione…
Tredici giudici si riunirono tutti i giorni per condurre a termine il processo. Non vi era, non vi poteva essere nessuna prova contro la famiglia; ma la religione tradita prendeva il posto delle prove… I giudici che erano decisi a inviare Jean Calas al supplizio convinsero gli altri che quel debole vecchio non avrebbe potuto resistere ai tormenti, e sotto i colpi dei carnefici avrebbe confessato il delitto suo e dei suoi complici.
Essi rimasero senza parole quando il vecchio, spirando sulla ruota, chiamò Dio a testimone della sua innocenza e lo scongiurò di perdonare ai suoi giudici.
Lo sdegno e l’esecrazione di Voltaire di fronte a tanta enormità si esprimono in una preghiera a Dio, che lo scrittore ha posto in chiusura de Il trattato sulla tolleranza. Penso sia significativo leggere anche questo frammento.
LEGERE MULTUM….
Voltaire, Il trattato sulla tolleranza (1763)
Non più dunque agli uomini mi rivolgo; ma a te, Dio di tutti gli esseri, di tutti i mondi e di tutti i tempi. Se è permesso a deboli creature, perdute nell’immensità e impercettibili al resto dell’universo, osar domandare qualcosa a te, a te che hai dato tutto, a te i cui decreti sono immutabili quanto eterni, dègnati di guardar con misericordia gli errori legati alla nostra natura. Che questi errori non generino le nostre sventure. Tu non ci hai dato un cuore perché noi ci odiassimo, né delle mani perché ci strozzassimo. Fa’ che ci aiutiamo l’un l’altro a sopportare il fardello d’una esistenza penosa e passeggera; che le piccole diversità tra i vestiti che coprono i nostri deboli corpi, tra tutte le nostre lingue insufficienti, tra tutti i nostri usi ridicoli, tra tutte le nostre leggi imperfette, tra tutte le nostre opinioni insensate, tra tutte le nostre condizioni ai nostri occhi così diverse l’una dall’altra, e così uguali davanti a te; che tutte le piccole sfumature che distinguono questi atomi chiamati esseri umani, non siano segnale di odio e di persecuzione; che coloro i quali accendono ceri in pieno mezzogiorno per celebrarti sopportino coloro che si accontentano della luce del tuo sole; che coloro i quali coprono la veste loro d’una tela bianca per dire che bisogna amarti, non detestino coloro che dicono la stessa cosa portando un mantello di lana nera; che sia uguale adorarti in un gergo proveniente da una lingua morta, o in un gergo più nuovo; che coloro il cui abito è tinto di rosso o di violetto, che dominano su una piccola parte d’un piccolo mucchio di fango di questo mondo e che posseggono alcuni frammenti arrotondati di un certo metallo, godano senza orgoglio di ciò che essi chiamano grandezza e ricchezza, e che gli altri guardino a costoro senza invidia; poiché tu sai che nulla vi è in queste cose vane, né che sia da invidiare né che possa inorgoglire. Possano tutti gli esseri umani ricordarsi che sono fratelli! Che essi abbiano in orrore la tirannide esercitata sugli animi, così come esecrano il brigantaggio che strappa con la forza il frutto del lavoro e dell’industria pacifica! Se i flagelli della guerra sono inevitabili, non odiamoci però, non laceriamoci a vicenda quando regna la pace, e impieghiamo l’istante della nostra esistenza per benedire egualmente, in mille lingue diverse, dal Siam sino alla California, la tua bontà che questo istante ci ha dato.
Ne Le Storie, 2500 anni fa, Erodoto, introduce nella cultura occidentale l’idea del rispetto del “diverso”: un concetto sempre proclamato, quasi mai praticato. Dove trova Erodoto gli argomenti per formulare la sua ipotesi e per coniare i concetti di “relativismo culturale” e di “rispetto per il diverso”? Erodoto ne Le Storie coltiva un pensiero significativo, afferma che nessuno è “arrivato” ma che tutti, in un modo o nell’altro, siamo “a metà strada”. Che significato ha questa affermazione? Erodoto dichiara: «Io sono greco (oggi potrebbe dire: io sono europeo), e sono orgoglioso di esserlo, e dove sono nato? Sono nato ad Alicarnasso, appunto, sono nato in Persia (in Asia)! La Grecia – allude Erodoto – è la culla della civiltà occidentale, ma dov’è la culla della civiltà greca? La culla della civiltà greca si trova nella Ionia, appunto, si trova in Persia”. In Persia c’è Troia, Efeso, Mileto, Alicarnasso, Lesbo, Patmos, Kos, insomma, in Persia (in Asia) c’è il fior fiore della Grecia (dell’Europa)…». Nessuno – pensa Erodoto – è “arrivato” ma tutti, in un modo o nell’altro, siamo “a metà strada”. «Nella guerra contro i Persiani – allude Erodoto – noi Greci abbiamo dato loro una bella botta. Perché dovevamo dargliele? Perché il regime persiano è dispotico, autocratico (i Persiani – scrive Erodoto – rispettano la frusta)». «E i Greci – allude Erodoto – sono perfetti? Proprio per nulla, i Greci sono malfidati, litigiosi, bugiardi, irrequieti, intriganti…». Nessuno – pensa Erodoto – è “arrivato” ma tutti, in un modo o nell’altro, siamo “a metà strada”. «Ma se un prepotente – continua ad alludere Erodoto – li prende a frustate, allora i Greci diventano “democratici”, si ritrovano uniti ed eleggono – al governo della polis – le persone più competenti per contrastare i pericoli incombenti». «E i Persiani sono cattivi in tutto? Ma no, per esempio – allude Erodoto – hanno buonissime scuole, i Re sono dèspoti ma gli insegnanti sono validi. Lo sapete – allude Erodoto – che il greco Milziade (vincitore di Maratona), il greco Temistocle (vincitore di Salamina), il greco Pausania (vincitore di Platea), insomma tutti gli artefici – democraticamente eletti – della vittoria dei Greci conto i Persiani, hanno studiato in Persia?». E che cosa hanno imparato, ci chiediamo noi? Hanno imparato – scrive Erodoto, alludendo con il sorriso sulle labbra – ciò che si legge nel capitolo 133 del libro I de Le Storie.
LEGERE MULTUM….
Erodoto, Le Storie I 133
I Persiani… hanno poi l’abitudine di deliberare sugli affari più importanti mentre sono ebbri. La decisione che piacque loro di prendere, il giorno successivo mentre sono a digiuno, il padrone della casa nella quale si trovano a discutere la propone, e se aggrada loro anche quando sono a digiuno vi si attengono. Le decisioni che abbiano preso prima a digiuno le riesaminano quando sono ebbri. …
Che cosa vuol dire Erodoto con questa storia (ridendo sotto i baffi)? Possibile che sia così importante l’aver imparato questo curioso modo di fare? Quale idea lo scrittore vuole proporre alla nostra riflessione? Erodoto allude al fatto che dobbiamo rammentare una cosa. Dobbiamo rammentare che ci appartengono con la stessa dignità tanto i momenti di ebbrezza quanto i momenti di sobrietà; ci appartengono con la stessa dignità tanto i momenti di entusiasmo quanto i momenti di prudenza; ci appartengono con la stessa dignità tanto i momenti di calma contemplativa quanto i momenti di scatenamento irrazionale; ci appartengono con la stessa dignità tanto i momenti di razionalità quanto i momenti di tragedia; ci appartengono con la stessa dignità tanto i momenti in cui governa Apollo quanto i momenti in cui governa Dioniso. Nessun essere umano – allude Erodoto – potrà mai arrivare a possedere una coerenza assoluta, ciascun essere umano è invitato, se mai, a cercare un equilibrio (eunomia-eunomìa, eu-buono, nòmos-legge) tra situazioni contrastanti. Erodoto ha imparato (dai maestri persiani?) che, se si vuole “scrivere di storia” è necessario cercare l’eunomìa: un equilibrio tra situazioni contrastanti. Erodoto ha imparato (dai maestri persiani?) che, se si vuole “scrivere di storia” è necessario fare i conti con la relatività soprattutto sul piano della morale.
Nello stesso paesaggio intellettuale in cui poco fa abbiamo dialogato con Voltaire, e che fa riferimento alla Francia del 1700, alla Francia dell’età dei Lumi (un argomento che abbiamo studiato qualche anno fa), incontriamo un altro significativo personaggio tirato in ballo dal tema della “relatività della morale”, proposto da Erodoto. Questo personaggio si chiama Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu, il quale da tutti viene semplicemente chiamato Montesquieu (1689-1755). Questi nel 1721 ha scritto un libro veramente originale intitolato Lettere persiane, un’opera che ha avuto un enorme successo per la leggerezza, per l’agilità e per lo spirito con cui è scritta. In realtà quest’opera contiene una severa satira della società francese e una critica pesante alle istituzioni e ai costumi parigini. Le Lettere persiane sono un’immaginaria corrispondenza (161 lettere) che due persiani – Rica, gaio e beffardo e Usbek, più meditativo e riflessivo – che stanno viaggiando in Europa, intrattengono con i loro amici rimasti in patria, per metterli al corrente su come si vive a Parigi e su come si vive in Francia. In questo libro si fondono due elementi.
Il primo elemento è che si tratta di un vero e proprio romanzo epistolare di carattere orientaleggiante: le Lettere persiane costituiscono un documento esemplare del gusto per l’esotico e per l’Oriente che si afferma in tutta Europa durante il Settecento, ed è, con le dovute differenze, lo stesso gusto per l’Oriente che coltiva anche Erodoto, 2300 anni prima. Il gusto per l’esotico e per l’Oriente è testimoniato dal grande successo che ebbe la traduzione francese delle novelle arabe de Le Mille e una notte. Nelle Lettere persiane si racconta contemporaneamente, in chiave piccante, le difficoltà che l’eunuco, guardiano dell’harem di Usbek, incontra per mantenere l’ordine fra le donne del serraglio in assenza del padrone. La storia dell’harem di Usbek – il soggetto dell’harem è molto affascinante e il linguaggio del romanzo di Montesquieu possiede una venatura erotica delicata e seducente – è anche la storia drammatica della rivolta delle donne dell’harem che si sollevano contro l’oppressione. C’è un tema pre-femminista in Montesquieu?
Il secondo elemento costitutivo delle Lettere persiane consiste nel fatto che si vuol far credere che degli orientali, nobili e ingenui, guardino la società francese e la descrivano con leggerezza – facendo finta di meravigliarsi e di non capire bene (in modo “straniato”) –: e questa leggerezza diventa maliziosa, perché Montesquieu non fa sconti! Montesquieu colpisce i costumi e la società, intentando un processo a tutto il regime del regno di Luigi XIV, e, scherzando scherzando, mette in evidenza l’avidità insaziabile dei cortigiani; denunciando l’abuso dei privilegi della nobiltà e il dispotismo del re e i suoi comportamenti – chiamiamoli bizzarri – che diventano mode. Mode cretine che una società cretina, tende inesorabilmente ad imitare! Scopriamo – leggendo Montesquieu – una società che vive – altro che “secolo dei lumi” – di luoghi comuni insulsi, una società senza “cultura”, chiacchierona, in cui hanno la meglio gli imbroglioni e gli illusionisti.
Leggiamo una pagina (dalla lettera XLVIII) in cui Usbek è ospite nella villa di un gentiluomo parigino: qui ha l’opportunità di incontrare alcuni personaggi tipici del bel mondo, di cui delinea un ritratto. Con la tecnica dello “straniamento” (per Montesquieu lo “straniarsi” è il far finta di essere ingenuo) l’autore mette in risalto, mediante l’espediente dell’estraneità culturale dell’osservatore orientale, la natura assurda e aberrante di certi comportamenti occidentali che vengono considerati normali e accettabili.
LEGERE MULTUM….
Montesquieu, Lettere persiane (1721)
Usbek a Redi, a Venezia
Straniero come ero, non avevo niente di meglio da fare che esaminare la folla di gente che continuava ad arrivare presentandomi sempre qualcosa di nuovo. Notai subito un uomo la cui semplicità mi piacque; mi attaccai a lui ed egli a me, di modo che ci trovavamo sempre insieme. Un giorno, in un gran circolo, parlavamo fra noi, appartandoci dalla conversazione generale: – Forse mi troverete più curioso che cortese – gli dissi –, ma vi prego di permettermi di farvi qualche domanda; perché mi imbarazza non essere al corrente di nulla e vivere con persone che non so individuare. Da due giorni il mio spirito lavorava, ma non c’è un solo di questi uomini che non mi abbia messo mille volte alla tortura, e non saprei indovinarli in mille anni: mi sono più invisibili che le donne del nostro grande monarca.
– Non avete che a domandare – mi rispose –, e vi darò tutte le informazioni che desiderate, tanto più che vi credo una persona discreta, e so che non abuserete della mia confidenza.
– Chi è quell’uomo – gli domandai – che ci ha tanto parlato dei pranzi da lui offerti a grandi personaggi, che ha tanta familiarità con i vostri duchi, e parla così spesso ai vostri ministri, che, a quanto mi dicono, è così difficile avvicinare? Deve essere uomo di qualità; ma la sua fisionomia è così volgare che non fa onore alle persone di qualità, e inoltre, non mi sembra troppo educato. Io sono straniero, ma mi pare che esista una forma di cortesia comune a tutte le nazioni, e in lui non la trovo. Forse da voi le persone di rango sono più maleducate delle altre?
– Quell’uomo – mi rispose ridendo – è un appaltatore, tanto superiore agli altri per le sue ricchezze quanto è inferiore a tutti per la nascita. Avrebbe la miglior tavola di Parigi, se non mangiasse mai a casa sua. È assai insolente, come vedete, ma eccelle per merito del suo cuoco, ragione per cui gli è grato: avrete inteso che l’ha lodato tutto il giorno.
– E quell’omone vestito di nero – ripresi – che quella signora si è fatto sedere vicino, come mai porta un abito così lugubre con un’aria così gaia e un colorito così roseo? Quando gli parlano sorride con grazia; la sua toletta è più modesta ma più accurata di quella delle vostre donne.
– È un predicatore – mi rispose – e, quel che è peggio, un direttore di coscienza, un direttore spirituale. Tale quale lo vedete, ne sa più dei mariti; conosce il debole delle donne, ed esse a loro volta conoscono il suo.
– Come? Egli parla sempre di qualcosa che chiama la grazia.
– Oh! non sempre. All’orecchio di una bella donna parla più volentieri della sua caduta. Fùlmina in pubblico, ma in privato è dolce come un agnello.
– Mi sembra – osservai – che sia molto considerato, e gli si usano grandi riguardi.
– Come? Se è considerato? Ma è un uomo necessario; rende dolce la vita ritirata: sommessi consigli, cure premurose, visite assidue; dìssipa un mal di testa meglio di qualunque uomo di mondo; è eccellente.
– Ora, se non sono importuno, ditemi chi è quello là in faccia a noi, così mal vestito; che ogni tanto fa delle smorfie e parla diverso dagli altri; che non ha spirito per parlare ma parla per aver dello spirito.
– È un poeta – mi rispose –, il grottesco del genere umano. Questa gente dice che è quel che è fin dalla nascita. È vero, ed è anche vero che sarà così tutta la vita, cioè saranno sempre i più ridicoli di tutti gli uomini; sicché nessuno li rispetta: si versa su di essi disprezzo a piene mani. La fame ha fatto entrare costui in questa casa, e vi è ben ricevuto dal padrone e dalla padrona di casa, la cui bontà e gentilezza non si smentiscono riguardo a nessuno. Egli fece il loro epitalamio (elogio nuziale in versi), quando si sposarono: è quanto di meglio ha fatto in vita sua; perché s’è dato il caso che il matrimonio riuscisse felice come l’aveva predetto. …Un istante dopo la curiosità mi vinse ancora, e gli dissi: – Mi impegno a non farvi più domande, se mi permettete questa. Chi è quell’aitante giovane con molti capelli, poco spirito e tanta impertinenza? Perché parla più alto degli altri, ed è così fiero d’essere al mondo?
– È un fortunato dongiovanni – mi rispose.
A questo punto qualcuno entrò, altri uscirono, tutti si alzarono, qualcuno venne a parlare al mio gentiluomo, e rimasi che non ne sapevo più di prima. Ma un momento dopo per caso quel giovanotto si trovò vicino a me, e mi indirizzò la parola: – Che bella giornata! Volete fare un giro in giardino con me? –
Gli risposi con la massima gentilezza e uscimmo insieme – Sono venuto in campagna, – mi disse – per far piacere alla padrona di casa, con la quale non sono in cattivi rapporti. C’è, sì, qualche signora del bel mondo che sarà di cattivo umore, ma che posso farci? Frequento le più belle donne di Parigi, ma non mi lego a nessuna e inganno tutte: sia detto fra voi e me, non sono un modello di virtù.
– A quanto pare, signore, avete qualche carica o impiego che vi impedisce di essere più assiduo con loro.
– No, signore, la mia sola occupazione è quella di far arrabbiare un marito o disperare un padre; mi piace allarmare una donna che era sicura di tenermi e metterla a due dita dal perdermi. Siamo parecchi giovanotti che dividiamo così tutta Parigi e l’interessiamo ai nostri più piccoli movimenti.
A quanto comprendo – risposi –, fate più rumore dei più valorosi guerrieri, e godete più considerazione di un grave magistrato. Se foste in Persia non avreste tutti questi vantaggi, e diventereste più adatto a custodire le nostre donne (a fare l’eunuco) che a piacere.
– Una vampa mi saliva al viso, e credo che per poco che avessi ancora parlato non avrei potuto trattenermi dal maltrattarlo.
Che pensi di un paese dove si tollera tale gente, dove si lascia vivere un uomo che fa questo mestiere? Dove l’infedeltà, il tradimento, il ratto, la perfidia e l’ingiustizia procurano considerazione? Dove un uomo è stimato perché rapisce una figlia al padre, una moglie al marito, turbando i legami più dolci e santi? Felici i figli d’Alì, che difendono le loro famiglie dall’obbrobrio e dalla corruzione. La luce del giorno non è più pura del fuoco che arde nel cuore delle nostre donne; le nostre figlie pensano tremando al giorno che le priverà di quella virtù che le fa simili agli angeli e alle potenze incorporee. Cara terra natale, su cui il sole getta i suoi primi sguardi, tu non sei profanata dagli orribili delitti che obbligano quest’astro a nascondersi, quando appare nel nero occidente!
Parigi, il giorno 5 della luna di Ramadan, 1713
La Scuola naturalmente ha il dovere – in un Percorso di didattica della lettura e della scrittura – di invitare gli studenti a leggere questo libro che non si presenta come un’opera di facile lettura anche se la scrittura di Montesquieu, come quella di Voltaire, è molto attraente per il suo stile caustico, ironico, provocatorio.
Spesse volte, nel corso dei secoli, Erodoto – proprio per il fatto di aver coltivato il “relativismo culturale” – è stato considerato un bugiardo. È stato giudicato – già da Tucidide, per esempio – uno che non controlla le notizie, uno che racconta favole. Qualche volta Erodoto è volontariamente “bugiardo”, qualche volta c’è chi confonde in Erodoto l’allusione con la bugia. Qualche volta Erodoto si è sbagliato nel fare ricerca, si è confuso nel fare l’analisi, ha commesso degli errori nel fornire notizie e nel dare giudizi.
L’archeologia spesso – in questi ultimi anni – ci ha lasciato sconcertati perché ha scoperto delle situazioni, raccontate da Erodoto, che sembravano davvero impossibili. Per esempio Erodoto al capitolo 26 del III libro de Le Storie narra la tragica avventura dell’armata di Cambise sepolta nel deserto: ebbene, una serie di reperti, che confermano questo fatto – che veniva ritenuto fantasioso – sono stati dissepolti nel 1984 a Siwa. Che cosa racconta Erodoto? Intanto nel III libro de Le Storie racconta la follia di Cambise, re di Persia, dominatore dell’Egitto che viene descritto come pazzo di crudeltà e che, in ordine sparso, fa assassinare il fratello, la moglie e, fra gli altri, un giudice con la cui pelle fa rivestire una seggiola e la dona al figlio dell’ucciso. Nel 525 a.C. Cambise allestisce un’armata di cinquantamila uomini per distruggere l’oracolo di Ammon (che gli diceva male…). L’esercito parte da Tebe ma non arriverà mai a destinazione perché – racconta Erodoto – nei pressi di un’oasi (non bene identificata) viene cancellato da una terribile tempesta di sabbia. Leggiamo questo racconto che, nei secoli, ha sempre incuriosito i lettori e che, per molto tempo, ha potenziato la tesi che Erodoto fosse un “bugiardo”, fosse uno che confonde la “storia” con la “favola”.
LEGERE MULTUM….
Erodoto, Le Storie III 26
Quel corpo scelto di Persiani che era stato mandato a far guerra contro gli Ammoni, dopo la partenza da Tebe aveva iniziato la marcia, seguendo le guide ed è provato che giunse a Oasi (Pare che Erodoto abbia qui preso un nome comune per uno proprio: si deve trattare dell'oasi di El Khargeh, tra Dachileh e Tarafra, dove le rovine d’un tempio costruito da Dario attestano che essa fu sottomessa ai Persiani) città abitata dai Sami della tribù escrionia (così, almeno, dicono) e lontana da Tebe sette giorni di cammino, attraverso una zona sabbiosa: questa località in lingua greca è denominata “Isola dei Beati”.
Fino a questo luogo, dunque, l’esercito sarebbe arrivato; ma di qui in avanti nessuno può più dir nulla di esso, se non quanto raccontano gli Ammoni stessi e quelli che da loro l’hanno udito: poiché agli Ammoni i soldati non giunsero mai, ne più tornarono indietro.
Ed ecco quello che raccontano gli stessi Ammoni. Dopo che i Persiani, da Oasi, avevano iniziato la marcia attraverso la zona sabbiosa per attaccarli ed erano arrivati press’a poco a metà strada tra il loro paese e Oasi, mentre stavano prendendo il rancio di mezzogiorno, cominciò a soffiare da sud un vento insolitamente tremendo che, trasportando cumuli di sabbia, li seppellì e in questa maniera essi scomparvero.
Tale, dicono gli Ammoni, fu la sorte di questa spedizione.
Naturalmente noi capiamo che questa informazione (anche se veniva considerata molto fantasiosa) ha sempre scatenato i sogni di tutti gli archeologi.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
A questo proposito, chi lo desidera, può leggere un “romanzo archeologico” scritto sotto forma di giallo che s’intitola L’armata perduta di Cambise di Paul Sussman pubblicato nel 2002 anche se scritto qualche anno prima…
Questo romanzo – che mette insieme il genere del giallo con le scoperte dell’archeologia e mescola gli intrighi della politica internazionale con Le Storie di Erodoto – lo trovate in biblioteca: buona lettura…
Lo sguardo di Erodoto, a questo punto, è più che mai sorridente: Erodoto allude divertito, anche perché non sapeva neppure lui se la notizia, che aveva raccolto, era una “bufala” oppure un fatto realmente accaduto.
Nessuno, pensa Erodoto, è “arrivato” ma tutti, in un modo o nell’altro, siamo “a metà strada”…
Erodoto ride sotto i baffi e c’invita a riflettere su un’altra idea: la verità, a volte, non vale in senso “documentario” ma ha valore in un altro senso. C’è nel libro VII ai capitoli 44 45 46 de Le Storie una pagina famosa, che ha fatto il giro delle antologie e che potete leggere per conto vostro in biblioteca. Serse, re dei Persiani, sta per scatenare il secondo tentativo di invasione della Grecia. La sua forza è immensa, tutto l’Ellesponto – scrive Erodoto – è coperto dalle navi, tutta la costa e la pianura di Abido – c’informa Erodoto – traboccano di uomini, di soldati. Serse è felice e orgoglioso di questa potenza, poi d’improvviso scoppia a piangere. Se cerchiamo autonomamente di dare una risposta al perché di queste lacrime possiamo pensare che Serse, per quanto felice e orgoglioso possa essere della sua potenza, sarà anche consapevole, nel momento in cui sta per intraprendere un’azione militare, dei costi umani di questa operazione, forse gli è passata per la mente l’idea che, di lì a poco, molti di quegli uomini sarebbero morti, forse si è anche chiesto di chi sia la responsabilità se molte di quelle persone non torneranno a casa dopo avere, a loro volta, ucciso altri esseri umani. Erodoto “allude”, e se andiamo a leggere questi capitoli (i capitoli 44 45 46 del libro VII de Le Storie) ci rendiamo conto che lo scrittore non riporta esplicitamente questi pensieri, ma lascia che sia il lettore a fare una riflessione, la stessa riflessione che abbiamo fatto noi. La guerra, paradossalmente, crea nello stesso momento entusiasmi e disperazione. Serse è entusiasta della sua potenza ma d’improvviso scoppia a piangere e allora lo zio paterno Artabano gli si avvicina e chiede al nipote il perché di quelle lacrime. Che cosa risponde Serse? Volete forse che il Re dei Re, il padrone del mondo, il capo dello Stato più forte della Terra risponda mettendo sul tappeto i suoi dubbi, i suoi rimorsi? Volete forse che ammetta la sue responsabilità? Questi interrogativi Erodoto non li scrive, ma il suo modo “allusivo” di esprimersi (l’utilizzo della “forma intellettuale dell’allusione”) fa sì che, inevitabilmente, queste domande inquietanti prendano “forma” nel pensiero dei lettori. E che cosa risponde Serse? Il re di Persia risponde: “piango perché penso a quanto è breve nel suo complesso la vita umana, dal momento che di costoro, che pure sono tanti, nessuno fra cento anni sarà vivo”.
C’è modo di sapere, scientificamente, se Serse ha davvero pronunciato queste parole? No, non c’è modo, non abbiamo testimoni attendibili, ed Erodoto sembra dubitare del fatto che il grande Re abbia fatto davvero quest’affermazione di filosofia esistenziale, ci troviamo piuttosto di fronte ad una delle tante attribuzioni apologetiche: ai personaggi potenti la tradizione fa sempre pronunciare delle “belle frasi”. E la frase che Serse pronuncia (che la tradizione gli attribuisce) è davvero una “bella frase” perché contiene una verità inequivocabile, ed è in questo senso che Erodoto la vuole utilizzare. Erodoto c’invita a riflettere sul fatto che la verità, a volte, non vale in senso “documentario” ma ha valore in senso esistenziale. Le parole di questa frase sono vere, queste parole sono immediatamente vere perché rappresentano lo stato d'animo di Erodoto di fronte al tema della precarietà della vita umana. Erodoto approfitta, attraverso questa affermazione di Serse, non documentabile, per esprimere, con ironia (perché conta anche quello che non scrive, ma a cui “allude”) la sua idea. Tutti lo sappiamo che la vita umana è limitata, è precaria, e di fronte a questo pensiero dovremmo essere afflitti da una disperazione continua. Come mai, in virtù di che cosa, siamo in grado – seppure in modo provvisorio – di stornare, di allontanare, di deviare, questo pensiero? La parola greca che Erodoto usa per definire l’oggetto che ci preserva – seppure in modo provvisorio – dall’idea incombente della precarietà della vita umana è mneme-mnème (non è difficile da tradurre), la memoria. Erodoto ci manda a dire che solo la “memoria”, personale o familiare o storica, ci può riscattare dal senso – che tutti percepiamo – della precarietà della vita umana. Erodoto ci manda a dire che la memoria, il ricordo, la rappresentazione, la reminiscenza, l’anamnesi (come la chiamerà Platone…) ci salva la vita, ci salva dal senso opprimente dato dalla transitorietà della vita umana. La “memoria” (anche se spesso è un “oggetto scomodo”) – Erodoto ce lo ricorda da 2500 anni – è un punto fermo (uno dei punti fermi) nella provvisorietà dell’esistenza e su questa parola-chiave saremo chiamati a riflettere ancora strada facendo.
Quando si parla di “memoria”, nel senso in cui ne parla Erodoto, e ci si trova, come sta succedendo a noi, su un Percorso di didattica della lettura e della scrittura, non si può fare a meno di sentire un irresistibile richiamo nei confronti di un testo che tutti dovremmo leggere e rileggere ciclicamente. Conosciamo l’importanza dell’esercizio della “rilettura” di un libro perché il significato di un testo cambia nella misura in cui cambiamo noi (per età, per cultura, per sensibilità, per forma intellettuale). Questo libro, pubblicato nel 1951, s’intitola Memorie di Adriano della scrittrice Marguerite Yourcenar (1903-1987) che tutti, certamente, avete sentito nominare: so che molti di voi lo hanno letto, anche perché abbiamo incontrato questo testo significativo altre volte nei nostri Percorsi. Questo libro consiste in un’immaginaria autobiografia che l’imperatore romano Adriano (76-138 d.C.) scrive nell’anno 136 per il suo giovane parente Marco Vero, che sarà poi l’imperatore Marco Aurelio che regnerà dal 161 al 180. Quest’opera è composta da sei capitoli (ogni capitolo ha un titolo in latino) in cui l’io narrante di Adriano attraversa le varie tappe della sua vita: la giovinezza (“Animula vagula blandula”), la sua carriera politica sotto Traiano (“Varius multiplex multiformis”), la sua attività di imperatore (“Tellus stabilita”), l’amore per Antinoo (“Saeculum aureum”), la rivolta in Giudea (“Disciplina augusta”), i segni della malattia (“Patientia”). Per scrivere questo libro Marguerite Yourcenar ha studiato un’imponente documentazione e ha condotto ricerche che sono durate un trentennio. Leggiamo un brano che funge da riflessione sull’idea che Erodoto ha espresso sull’importanza che ha la “memoria” nell’esorcizzare il pensiero ricorrente, il senso incombente della morte. Questo brano è estratto dal capitolo intitolato “Patientia”. Adriano è malato ed è sofferente e decide di morire, per non subire lo sfacelo della malattia e, secondo l’uso antico, cerca di farsi uccidere da qualche sottoposto. Ma sarà costretto ad apprendere (non si finisce mai d’imparare…) che anche la propria morte, non meno dell’intera esistenza, comporta una serie di complessi legami con gli altri, che la scelta di un suicidio sconvolge dolorosamente.
LEGERE MULTUM….
Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano
Volevo morire: non volevo soffocare; la malattia disgusta della morte; si vuol guarire, che è una maniera di voler vivere. Ma la debolezza, la sofferenza, mille miserie corporali dissuadono ben presto il malato dal provarsi a risalire la china: non si vuol saperne di tregue che sono tranelli, di forze vacillanti, di ardori incompleti, di questa perpetua attesa della prossima crisi. Mi spiavo: quel male sordo, al mio petto, era solo un malessere passeggero, la conseguenza d’un pasto consumato troppo in fretta, o bisognava aspettarsi dal nemico un attacco che, questa volta, non sarà respinto?
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Questo libro, che è al tempo stesso un romanzo, un saggio storico e un’opera di poesia, merita di essere letto con cautela e con attenzione. Ciascuno di noi finisce per identificarsi con il personaggio di Adriano il quale è consapevole che tutto (anche lo straordinario potere di Roma) è destinato a tramontare. Adriano porta su di sé i problemi delle persone di ogni tempo, alla ricerca di un accordo tra la felicità e la regola, tra l’intelligenza e la volontà.
Ma torniamo sul nostro sentiero per concludere l’itinerario di questa sera.
“Scrivo questo libro – dichiara Erodoto al principio de Le Storie (dell’inizio, dell’incipit del libro di Erodoto ne parleremo a suo tempo) – per evitare che le grandi imprese dei Greci e dei Barbari (degli stranieri) cadano nell’oblio”. L’opera di Erodoto inizia con l’esaltazione del valore della “memoria”. Le riflessioni – che nascono dalle citazioni che abbiamo fatto nella parte finale dell’itinerario di questa sera – esprimono il senso drammatico che Erodoto ha del tempo, esprimono il senso tragico che Erodoto ha del succedersi delle generazioni che, una dopo l’altra, si contendono il tempo della vita. La “malinconia”, ogni tanto, avvolge nelle sue spire la mente e il cuore di Erodoto, e noi sappiamo che il senso della “malinconia”, dato dal pensiero della brevità e della precarietà della vita umana, Erodoto lo ha assimilato dal poeta lirico elegiaco Mimnermo; ebbene, nonostante la ricorrente malinconia, Erodoto continua a sorridere. E, sotto lo sguardo sorridente e “allusivo” di Erodoto, il nostro viaggio in sua compagnia continua…
Il nostro viaggio in compagnia di Erodoto continua e s’indirizza verso una città che raggiungeremo la prossima settimana. Questa città si chiama Olbia: di quale Olbia si tratta, di quale Olbia stiamo parlando, quale Olbia dobbiamo raggiungere? Dobbiamo raggiungere non la Olbia sarda ma la Olbia russa, oggi è ucraina. Ma come: oltre che in Sardegna, c’è una Olbia anche in Ucraina? C’è una Olbia anche in ucraina e tanto la Olbia sarda quanto la Olbia ucraina sono località di grande interesse culturale. Intanto sono unite dal nome: in greco “olbia” vuol dire “felice”, vuol dire “beata”. Che cosa c’entra il “greco” con la Olbia sarda e la Olbia ucraina? La Olbia sarda e la Olbia ucraina sono anche unite dal fatto di essere entrambe “colonie greche”. L’emigrazione greca arriva quasi dappertutto, e anche Erodoto, con il suo sorriso, arriva quasi dappertutto, e noi con lui.
“Quasi dappertutto” perché – pensa Erodoto – nessuno è “arrivato” ma tutti, in un modo o nell’altro, siamo “a metà strada”…
Ma che cosa dobbiamo andare a fare a Olbia, quella che, oggi, è la Olbia ucraina? E chi lo sa? A questa domanda deve rispondere Erodoto, la prossima settimana.
Quindi: accorrete, la Scuola è qui…