Prof. Giuseppe Nibbi La sapienza poetica e filosofica dell’età umanistica 2-3-4 dicembre 2015
Dante e Beatrice nel Paradiso
(Sigieri è la figura con il mantello rosso)
Manoscritto del XV sec.
SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ UMANISTICA
SI SVILUPPA IL MOVIMENTO DI OPINIONE DELL’AVERROISMO LATINO ...
Questo è il nono itinerario del nostro viaggio di studio sul “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età umanistica”, la penultima Lezione prima della vacanza natalizia, e ci troviamo nei pressi di un nuovo scenario al quale è stato dato il nome di “paesaggio intellettuale dell’averroismo latino”.
La scorsa settimana abbiamo incontrato Averroè [Abu Ibn Rušd: medico, astronomo, filosofo aristotelico, matematico, giurista] e sappiamo che le sue Opere hanno contribuito a creare i presupposti [che in queste prime settimane di viaggio stiamo individuando] per la nascita del movimento dell’Umanesimo.
I germi di questa importante corrente cominciano a far lievitare il pensiero della Scolastica tanto a Oriente quanto a Occidente quando - con lo studio delle Opere di Aristotele - cresce l’interesse per “il mondo della natura fisica” e, di conseguenza, il concetto di “esperienza” [l’episteme], la pratica della “sperimentazione” [l’epistemologia] e il tema “dell’interpretazione dei fenomeni” [l’ermeneutica] diventano preminenti durante l’autunno del Medioevo rispetto alla questione tutta teorica del rapporto tra la Fede e la Ragione [argomento dominante - come abbiamo studiato durante il viaggio scorso - della primavera e dell’estate del Medioevo]. Inoltre, “la tendenza naturalistica” porta ad elaborare “il metodo dell’unità del sapere” [un procedimento che ha come obiettivo quello di affratellare gente diversa che vuole comunicare, comprendersi, cooperare pur mantenendo le proprie prerogative], un metodo che genera un originale respiro universale [che - come abbiamo studiato la scorsa settimana - si dilata da Oriente verso Occidente e viceversa] e favorisce lo sviluppo, nell’ambito delle Scuole che si occupano di Storia del Pensiero Umano, di un nuovo atteggiamento “ecumenico” capace di stimolare investimenti in intelligenza caratterizzati dall’incontro fra apparati culturali e tradizioni diverse: il termine “ecumenismo”, inteso come fecondo interscambio intellettuale, caratterizzerà l’epoca dell’Umanesimo, ma torniamo ad Averroè.
Dobbiamo precisare che Averroè non risiede nel “paesaggio intellettuale dell’averroismo” che richiama il suo nome: lì ci sono le Opere scritte a Parigi circa settant’anni dopo la sua morte che interpretano il suo pensiero, ma lui non c’è, il suo corpo è rimasto a Cordova perché Averroè abita nel vasto spazio culturale della “Scolastica naturalistico-sperimentale”, una vasta area formata, come ben sappiamo, da due grandi regioni attigue: un grande spazio che collega l’Occidente all’Oriente e viceversa sul quale, la scorsa settimana, abbiamo camminato insieme ad Al Bīrūnī e Avicenna da Oriente verso Occidente, insieme a Ibn ‘Arabi da Occidente verso Oriente, e ancora insieme a Jalāl al-Dīn Rūmī e Nezāmī Ganjavī da Oriente verso Occidente.
Ora voi, che avete buona memoria, mi direte che Al Bīrūnī, Avicenna, Ibn ‘Arabi, il poeta Rūmī li conoscete ma che Nezāmī Ganjavī non lo avete mai sentito nominare, e avete ragione perché dobbiamo ancora incontrarlo questo personaggio ma la sua Opera epico-romanzesca sta già circolando in Occidente. Ma procediamo con ordine, e torniamo ancora ad Averroè.
Sappiamo che alla fine del XII secolo il pensiero di Averroè viene considerato addirittura estraneo alla cultura islamica e contro di lui si scatenano gli apparati religiosi mussulmani e cristiani perché la sua influenza viene considerata nefasta da chi ha il potere di giudicare se una tesi è o non è in linea con la dottrina ufficiale. Il pensiero teologico di Averroè subisce una dura condanna e alla sua morte vengono bruciati [a Cordova, dove si svolgono le sue esequie il 14 dicembre 1198, 817 anni fa] i suoi Libri [il Grande Commento alle Opere di Aristotele], i Libri che gli hanno assicurato un posto di rilievo nella Storia del Pensiero Umano: il frutto di un’impresa intellettuale che Dante, come ben sappiamo, ha immortalato nel “limbo” della Divina Commedia con il celebre verso 144 del Canto IV dell’Inferno: «Averroè, che il gran commento feo». E, insieme a Dante, ripetiamo ora i punti-cardine del pensiero teologico di Averroè.
Le autorità religiose islamiche e cristiane mettono sotto accusa il pensiero teologico di Averroè perché è conforme, senza mediazioni, all’impianto della dialettica aristotelica, nel quadro delle categorie di Aristotele, con accenti di carattere neoplatonico: Averroè sostiene che la creazione divina è un atto di “necessità” e questa affermazione viene considerata blasfema da chi vigila sulle verità di Fede perché la dottrina ufficiale sancisce che “la Divinità [Allah e Jahvé] ha creato di sua volontà” e non in quanto soggetta alla necessità come se fosse il “Motore immobile” di Aristotele che “necessariamente” mette in movimento tutto il sistema della realtà naturale. Averroè sostiene che il Mondo viene generato, o meglio, viene “emanato” - esattamente come fa l’Uno di Plotino - per “necessità” e questa emanazione non può essere voluta da Dio ma risulta essere l’espressione necessaria della sua perfezione [l’onnipotenza non contempla l’esercizio della volontà ma è una qualità destinata ad esprimersi necessariamente: è destino, el kadar, secondo la sura XCVII del Corano, la Sura del Destino] ed è per questo motivo che il Mondo, sostiene Averroè, tende a Dio “necessariamente”, e il concetto di “necessità” fa pensare che il Mondo esista da quando c’è Dio, “ab aeterno” [dall’eternità]: il Mondo, afferma Averroè, è eterno come Dio e, quindi, “non esiste un prima e un dopo” e, di conseguenza, bisogna ribadire ancora una volta, afferma Averroè, che non ci sono i presupposti che giustificano un atto di volontà da parte di Dio. Poi, sostiene Averroè, il Mondo è buono non perché Dio lo abbia voluto tale, ma perché è espressione della perfezione divina [il concetto della bontà è insito in quello della perfezione e Averroè pensa al concetto greco della “completezza, téleios”] e ciò dimostra che nella emanazione creatrice non c’è una finalità e neppure una provvidenza, ma c’è la Necessità e, quindi, la stessa attività umana, afferma Averroè, deve sottostare ad un ordine necessario e questo fatto mette in dubbio che l’Essere umano sia libero visto che il Destino è segnato [e, di conseguenza, si domanda Averroè: che valore dobbiamo, vogliamo e possiamo dare alla libertà umana?].
In linea con la dialettica di Aristotele e le Enneadi di Plotino, Averroè pensa che esista un Intelletto universale [il Logos] unico per tutti gli Esseri umani [da Dio scaturisce l’Intelletto agente e attivo] dal quale a sua volta viene emanata l’Anima [l’Anima del mondo] unica per tutti gli Esseri umani. L’Intelletto universale, sostiene Averroè, ha in sé la potenza di far entrare in atto [di illuminare, di animare] l’Intelletto passivo individuale, il quale si identifica con l’Anima razionale di ogni persona, e l’Intelletto individuale e l’Anima singola sono dati in prestito alla persona per temporanea illuminazione divina in modo che la persona possa astrarre dalle sensazioni [far passare dalla potenza all’atto] i concetti e le verità universali. Quindi, senza l’illuminazione dell’Intelletto divino [dell’Intelletto “universale” che gravita - in comunione con l’Anima del mondo - nella sfera lunare, nel Cielo più vicino all’Umanità], ebbene, afferma Averroè, senza l’illuminazione dell’Intelletto divino [universale, attivo, agente, necessario, unico, eterno] l’Essere umano è assolutamente incapace di conoscenza razionale e, di conseguenza, poiché l’Intelletto universale e l’Anima del mondo sono oggetti unici, uguali per tutti, e separati dal singolo individuo, questo significa che, quando con la morte cessano le percezioni sensibili, l’Intelletto passivo si spegne e l’Anima razionale e individuale, senza l’Intelletto, non sussiste più e, di conseguenza: l’Anima razionale e individuale, afferma Averroè, è mortale.
Averroè afferma che la Verità è sostanzialmente una sola ma formalmente si esplicita in “una doppia verità”: quella del filosofo che la ricerca con la dimostrazione razionale e quella del credente che la accetta per Fede e, quindi, succede che “i fedeli non filosofi” devono accontentarsi delle pratiche di devozione espresse in forma mitica o sentimentale, e questa è la condizione più gradita, afferma ironicamente Averroè, alle autorità religiose che preferiscono “un fedele ingenuo” piuttosto che “una persona raziocinante”.
Tutte queste proposizioni di Averroè [la creazione per necessità, l’eternità del mondo, la libertà condizionata, la mortalità dell’anima, l’esplicitarsi di una doppia verità] vengono condannate dai tribunali religiosi ma innescano una discussione che porta alla nascita del movimento dell’Umanesimo. È fondamentale, a questo proposito, puntare l’attenzione su un’importante affermazione “già di carattere umanistico ” [potremmo dire] di Averroè, egli scrive: «Bisogna imparare a leggere la Sacra Scrittura [il Corano, i Vangeli, la Bibbia] non in senso religioso e legalistico ma secondo l’autorità dei valori umanistici che il testo della Scrittura proclama come salvifici: l’uguaglianza, la giustizia, la pace, la solidarietà e la misericordia». Quindi la salvezza viene, sostiene Averroè, dal rispetto dei valori universali su un piano laico, piuttosto che dai rituali religiosi spesso ammantati di superstizione.
È evidente che contro Averroè si scatenino gli apparati religiosi islamici e cristiani ma, tuttavia, “l’averroismo” non solo non si estingue ma si diffonde, e il suo sviluppo avviene in terra mitteleuropea nell’ambito della Scolastica latino-cristiana [il pensiero ha le ali - dice Averroè - e nessuno può fermare il suo volo]. A Parigi, presso la Facoltà delle Arti nel Vico de li Strami, in rue du Fouarre dove ha sede la Facoltà delle Arti, nasce e si sviluppa un movimento d’opinione che prende il nome di “averroismo latino”, ed è stato Dante Alighieri a ricordarci questo fatto con i versi 136, 137 e 138 del Canto X del Paradiso della Divina Commedia che abbiamo letto al termine dell’itinerario della scorsa settimana.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Averroè elenca cinque “valori umanistici”: l’uguaglianza, la giustizia, la pace, la solidarietà e la misericordia… Quale di questi valori mettereste per primo?…
È sufficiente scrivere una parola per esercitarsi ad investire in intelligenza…
A Parigi, presso la Facoltà delle Arti, nel Vico de li Strami, nasce e si sviluppa un movimento d’opinione che prende il nome di “averroismo latino” e questo è un avvenimento non indolore che provoca duri scontri non solo verbali.
Sappiamo già che il personaggio di spicco del movimento degli “Averroisti latini”, un movimento d’opinione che non si struttura in una vera e propria corrente, è un intellettuale che si chiama Sigieri di Brabante noto e ricordato per la sua “lucidità di pensiero”, un pensiero sempre coerente con i dettami della Ragione e noi sappiamo che questa “lucidità” ha trovato in Dante Alighieri un testimone d’eccezione: lo abbiamo già ricordato alla fine dell’itinerario scorso.
Come sappiamo, Dante Alighieri colloca Sigieri di Brabante - la figura di spicco del movimento degli “Averroisti latini - in Paradiso [nel Cielo quarto o del Sole dove stanno i Dottori in Teologia e in Filosofia] e [il bello è che…] lo fa presentare e lodare dal suo acerrimo avversario Tommaso d’Aquino. Tommaso - nei sei versi, dal 133 al 138 del Canto X del Paradiso - presenta a Dante gli Spiriti che formano la prima corona del Cielo quarto o del Sole: ci sono le anime del fior fiore della sapienza antica, tardo-antica, alto-medioevale e Scolastica [Tommaso d’Aquino, Alberto Magno, Francesco Graziano, Pietro Lombardo, Salomone, Dionigi Areopagita, Lattanzio, Paolo Orosio, Severino Boezio, Isidoro di Siviglia, il venerabile Beda, Riccardo di San Vittore] e l’ultima anima che, dopo aver fatto il giro, Tommaso presenta a Dante è quella “eternamente luminosa” di Sigieri «che, scrive Dante con la sua straordinaria competenza poetico-sapienziale, leggendo nel Vico de li Strami [in rue du Fouarre dove ha sede la Facoltà delle Arti], silogizzò invidiosi veri». Con un verso lapidario, Dante fa dire a Tommaso d’Aquino che Sigieri “argomentò [sillogizzò] verità pericolose [veri] che hanno suscitato grandi invidie [invidiosi]”.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
La Scuola consiglia di leggere, e di rileggere - utilizzando il volume della Divina Commedia che avete nella vostra biblioteca domestica - i versi dal 91 al 148 del Canto X del Paradiso dove Tommaso indica a Dante gli Spiriti sapienti della prima corona [della prima ghirlanda] del Cielo del Sole [il Cielo del Sole contiene tre corone]… Dice Tommaso a Dante [versi 91 e 92a]: «Tu vuo’ saper di quai piante s’infiora questa ghirlanda …», ebbene, fate come se Dante l’avesse scritta anche per voi questa esortazione [a non perdere mai la volontà d’imparare] e leggete i 58 versi indicati usufruendo delle note e dei commenti che corredano il vostro testo della Divina Commedia… La lettura di Dante necessita solo di un intermediario: la pazienza, e fra tre mesi, con la stessa pazienza di adesso saremo invitate ed invitati a rifare questo esercizio, e il perché lo sapremo alla fine di febbraio: c’è un altro personaggio in questa corona sul quale dovremo puntare l’attenzione?… Probabilmente sì, e lo incontreremo a suo tempo…
L’ultima luce [«la luce etterna» come scrive Dante] della prima corona del Cielo del Sole è quella dell’anima di Sigieri di Brabante: chi è Sigieri di Brabante?
La scorsa settimana, in conclusione di itinerario, lo abbiamo evocato e ora ci apprestiamo a fare la sua conoscenza anche se molti dati che riguardano la sua biografia non li conosciamo [della sua vita nel Brabante non sappiamo nulla] e alcuni - come il fatto drammatico della sua morte ad Orvieto - sono avvolti in un alone di mistero [nelle brume dell’autunno del Medioevo, se vogliamo usare un linguaggio poetico, ma perché non indagare sulla scia della didattica della lettura e della scrittura? Faremo delle ipotesi in proposito].
Sigieri del Brabante è, come dice il nome, originario di questa regione fiamminga, il Brabante, ma non abbiamo notizia in quale città sia nato tra il 1235 e il 1240. Il Brabante Fiammingo è una provincia delle Fiandre, una delle tre regioni del Belgio, e il suo capoluogo è Lovanio [Leuven].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Con la guida del Belgio e navigando in rete fate un’escursione a Lovanio: vale la pena andarci anche solo per vedere il municipio di Lovanio [lo Stadhuis] che è il capolavoro assoluto dello stile gotico brabantino ed è stato costruito dal 1448 al 1559, ma la città è ricca di altri importanti monumenti da visitare, buon viaggio…
Il Brabante Fiammingo è una provincia ricca di storia culturale nella quale rientra anche la tradizione della birra, e le birre belghe sono famose in tutto il mondo… Avete mai bevuto una birra belga [una Sigeria de Bragantia] a basso contenuto alcolico, e dove ultimamente avete bevuto una birra?…
Scrivete quattro [spumeggianti] righe in proposito…
Sigieri è un grande conoscitore delle Opere di Aristotele attraverso gli studi che ha compiuto sui testi [sul Grande Commento] di Averroè. Tra il 1255 e il 1257 frequenta la facoltà delle Arti e in questa stessa facoltà, per la sua competenza, diventa magister di Teologia nel momento in cui i maestri [i domenicani inquisitori] della Facoltà di Filosofia dell’Università di Parigi disapprovano che alla Facoltà delle Arti, dove s’insegnano gli strumenti di base del sapere, ci sia una cattedra di Teologia. Il fatto è che ad istituire la cattedra di Teologia alla Facoltà delle Arti sono stati [i domenicani predicatori] Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, due personaggi [li abbiamo incontrati nella primavera scorsa] che hanno dato grande autorevolezza a questa Facoltà e che non potevano fare a meno di mettere in campo questioni di carattere metafisico: secondo Alberto e Tommaso la Facoltà delle Arti doveva dare gli strumenti del sapere - grammatica, retorica, dialettica, aritmetica, geometria, musica, astronomia - per insegnare a “speculare” metafisicamente.
La prima notizia documentata che abbiamo di Sigieri di Brabante è del 26 agosto 1266 ed è relativa al suo spirito protestatario, ma anche organizzativo, perché - in opposizione ad una circolare del rettore dell’Università di Parigi che intimava l’abolizione della cattedra di Teologia della Facoltà delle Arti - Sigieri guida una rivolta studentesca repressa con durezza che però serve ad evitare l’applicazione di questo repressivo provvedimento. Per inciso è l’anno 1266 e Sigieri è molto contrariato per il fatto che il papa Clemente IV, Guido Fulcodi, personaggio a noi noto, si sia schierato contro Manfredi, il figlio di Federico II di Svevia, che sta governando la Sicilia [che la Chiesa rivendicava come feudo] e, per spodestarlo, dopo averlo scomunicato, abbia chiesto aiuto a Carlo d’Angiò il fratello del re di Francia Luigi IX il santo, il quale, come abbiamo studiato quattro settimane fa anche con l’ausilio di Dante, nel 1266 scende in Italia e nella battaglia di Benevento sconfigge Manfredi che muore combattendo: Sigieri è antiangioino, è filosvevo [ammira Federico II di Svevia per il suo impegno a favore della cultura] ed è ghibellino, e su queste considerazioni storico-politiche torneremo tra un po’.
Intorno alle Opere di Sigieri nasce un movimento di opinione al quale aderiscono molti studenti e un certo numero di maestri tanto della Facoltà delle Arti quanto di quella di Filosofia, ma nel 1270 il vescovo di Parigi, Étienne Tempier [Stefano d’Orleans, che è anche magister della Scuola della cattedrale di Notre-Dame e severo custode dell’ortodossia], emette una condanna contro Sigieri per “tredici proposizioni eretiche” contenute nei suoi scritti; contemporaneamente, in questa questione, a contrastare il pensiero di Sigieri - non per condannare ma per aprire una dura polemica - intervengono per iscritto tanto Alberto Magno quanto Tommaso d’Aquino, e sono proprio Alberto e Tommaso indirettamente a dare il nome di “averroista” al movimento di Sigieri, e questa controversia ha dei risvolti letterari di cui ci occuperemo fra poco.
Intanto dobbiamo dire che la disputa si allarga perché nella contesa interviene anche il papa Giovanni XXI a difesa dell’ortodossia [e si capisce che il movimento degli Averroisti creava serie preoccupazioni ai vertici del potere]. Il papa in questione, conosciuto con il nome di Pietro Ispano, è un personaggio che di queste cose se ne intende perché è un intellettuale in attività sul territorio della Scolastica, e Dante Alighieri [molte e molti di voi lo dovrebbero ricordare questo fatto] lo colloca, non come papa ma come studioso, nella seconda corona del Cielo del Sole, quella nella quale il portavoce è Bonaventura da Bagnoregio, e lo cita al verso 134 del Canto XII del Paradiso [un verso che, insieme ad altri 18, abbiamo letto durante il viaggio dello scorso anno sulla scia di Gioacchino da Fiore]. Scrive Dante in questo verso: «…e Pietro Ispano, lo qual giù luce in dodici libelli» vale a dire, la fama di Pietro Ispano giù in terra risplende perché è l’autore di un’opera in dodici libretti intitolata Summulae logicales [Compendi di Logica]. Pietro di Giuliano da Lisbona [detto Pietro Ispano] è un nobile portoghese, medico e filosofo di grande fama, autore di molte Opere di carattere scientifico, che viene eletto papa a Viterbo nel 1276 con il benestare dei principi tedeschi, del re di Francia e del re di Castiglia ma con il dissenso di tutti gli Ordini monastici e anche degli intellettuali della Scolastica perché lui, docente dello Studium di Siena, non vede di buon occhio né i frati [soprattutto quelli che fanno i maestri] né i maestri laici parigini [infiltrati nelle strutture ecclesiastiche]. Di conseguenza, subito dopo la sua elezione a pontefice, cominciano a girare nei suoi confronti delle dicerie che ne hanno infangato la memoria [la cosiddetta “macchina del fango” ha una storia antica]: si dice che sia un mago e che coltivi la negromanzia, ebbene, sarà anche un caso, ma il suo pontificato dura solo nove mesi perché [il povero] Giovanni XXI muore sotto il crollo del soffitto della sua camera nel palazzo papale di Viterbo e si è favoleggiato che un diavolo nero si sarebbe appressato nottetempo al palazzo papale abbattendone il tetto con un gigantesco martello.
Essendo un medico e un filosofo ci si sarebbe aspettato che Pietro Ispano fosse comprensivo nei confronti del pensiero di Averroè, e invece non lo è e nel marzo del 1277 manda a dire al Vescovo di Parigi, Étienne Tempier, di vigilare ancor più severamente nei confronti degli “averroisti [un termine che lui usa in senso dispregiativo]”, per cui nell’aprile del 1277 a Sigieri viene proibito l’insegnamento ma ormai è diventato la guida di un vivace movimento d’opinione e cresce l’interesse nei confronti delle sue Opere per cui nel 1281 viene convocato dall’inquisitore di Francia Simon du Val. Per sottrarsi ad una probabile dura condanna Sigieri parte per Orvieto che, in questo momento, è la residenza del papa, e lì si consegna al pontefice Martino IV [il francese Simon de Brion o de Brie] che lo accoglie “in veste di prigioniero” e le notizie intorno a questo avvenimento sono assai lacunose.
Nel 1284 [ma la data è incerta] Sigieri viene pugnalato da un sicario [dal suo segretario? Su questo delitto non è mai stata aperta alcuna inchiesta] e sulla morte violenta di Sigieri è calata l’ombra del mistero: quale dei suoi tanti nemici si è premurato di farlo fuori? A questa domanda nessuno è mai stato in grado di rispondere: Sigieri fa paura perché è un personaggio che ha una straordinaria lucidità di pensiero specialmente quando demolisce tutte le “affermazioni relative” che sono state fatte diventare - senza “speculare” [senza indagare] adeguatamente sul loro contenuto - delle “verità assolute, dei dogmi di Fede” che risultano essere, afferma Sigieri, solo delle “enunciazioni verbali”. Sigieri - in linea con il programma della cattedra di Teologia della Facoltà delle Arti - usa il verbo “speculare” nel senso di investigare, indagare, esplorare, analizzare, esaminare.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quale di questi termini - investigare, indagare, esplorare, analizzare, esaminare - mettereste per primo accanto al verbo “speculare”?…
Scrivetelo…
Su quale questione avete “indagato” recentemente ?…
Scrivete quattro righe in proposito…
Come abbiamo detto, Alberto Magno e Tommaso d’Aquino aprono una vivace polemica nei confronti di Averroè perché conoscono bene il suo Grande Commento alle Opere di Aristotele e lo hanno utilizzato efficacemente per comporre le loro Summae teologiche ma ritengono anche che, su molti punti, egli non abbia correttamente interpretato il pensiero di Aristotele: Averroè tende a laicizzare Aristotele mentre Alberto Magno e Tommaso d’Aquino tendono a cristianizzarlo. Nella loro polemica antiaverroista Alberto Magno, che è stato il primo a dare il nome di “averroista” al movimento, e poi Tommaso non nominano mai Sigieri nonostante sia il vero destinatario delle loro riflessioni critiche.
Il primo ad intervenire in modo polemico già nel 1260 sul pensiero di Averroè, e a codificare il termine “averroismo”, è stato Alberto Magno [quando Sigieri era ancora un giovane magister] scrivendo un trattato intitolato Sull’unità dell’intelletto contro Averroè nel quale, nella prima parte, in modo non polemico, tratta trenta argomenti della dialettica di Aristotele che ritiene siano stati ben interpretati da Averroè e poi, nella seconda parte dell’opera, tratta trentasei argomenti della filosofia di Aristotele che ritiene siano stati mal interpretati da Averroè a cominciare dalla “questione dell’Intelletto universale unico per tutti con la conseguente affermazione della mortalità dell’anima razionale” [una questione che abbiamo illustrato poco fa] e, nella terza parte dell’opera, Alberto Magno dimostra - secondo il suo modo di leggere Aristotele in chiave neoplatonica - come l’anima “rationalis” sia la forma essenziale dell’Essere umano [l’anima è la forma del corpo, è l’idea per cui quel corpo individuale sussiste] e, quindi, ciascun individuo ha una propria anima dotata di immortalità [proprio perché le Idee sono immortali e l’anima è un’idea sublime].
Quando poi nella primavera del 1270 il movimento che s’ispira al pensiero di Averroè guidato da Sigieri si consolida nell’ambito universitario parigino, Alberto Magno rilancia, questa volta in modo piuttosto polemico, le sue tesi sull’averroismo [senza però mai citare Sigieri: Alberto non vuole condannare ma vuole aprire un dibattito] e scrive un trattato intitolato De quindecim problematibus [Sulle quindici tesi] dove confuta quindici punti del pensiero di Averroè, in particolare quelli [i cinque] che contrastano decisamente con la Filosofia cristiano-latina: la creazione come atto di necessità, l’eternità del mondo, la libertà condizionata della persona, l’unicità dell’Intelletto e la mortalità dell’anima razionale, l’esplicitarsi di una doppia verità [una per i filosofi e una per i fedeli].
Nell’autunno del 1270 nella polemica interviene anche Tommaso d’Aquino con un trattato intitolato De unitate intellectus contra Averroistas [Sull’unità dell’intelletto contro i discepoli di Averroè]. Anche Tommaso non cita mai Sigieri [anche se è evidente che gli Averroistas sono i discepoli “parisienses” parigini di Sigieri] e anche Tommaso si occupa, principalmente, di confutare “l’idea dell’Intelletto unico e della mortalità dell’anima razionale”; contemporaneamente, in quest’opera Tommaso [e le polemiche condotte con intelligenza producono sempre dei risultati interessanti] espone la sua posizione sul “tema dell’immortalità dell’anima” e il contenuto della sua enunciazione [che mette insieme la dialettica di Aristotele con quella neoplatonica del Dionigi Areopagita] diventerà la posizione ufficiale della Chiesa su questo argomento e, quindi, è interessante, in proposito, leggere direttamente il testo di Tommaso che, come sappiamo, ha il dono di farsi [abbastanza] capire quando scrive.
Sappiamo che il pensiero di Tommaso d’Aquino diventa come “una fortezza” [così è stato definito dalle studiose e dagli studiosi] che, poco alla volta, nel giro di mezzo secolo, è andata contenendo tutte le certezze del Cristianesimo, ma dobbiamo dire che, sul finire dell’anno 1270, il 10 dicembre, quando il Vescovo di Parigi Étienne Tempier, ubbidendo al papa Giovanni XXI, Pietro Ispano, rende noto il “Sillabo delle 219 proposizioni insegnate alla Facoltà delle Arti in odore di eresia”, i tre grandi personaggi che abbiamo citato - Alberto Magno, Tommaso d’Aquino e Sigieri di Brabante - sono insieme accomunati nella lista nera dei “detrattori della dottrina ufficiale della Chiesa” perché tutti e tre sono d’accordo sull’esistenza dell’Intelletto universale: sono in disaccordo sulla forma ma non sulla sostanza intellettuale di questo oggetto data dagli attributi, così come li hanno enumerati Aristotele e Averroè, che possiede, per cui l’Intelletto universale è necessario, dinamico, unico ed eterno.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quale di questi quattro attributi dell’Intelletto universale - necessario, dinamico, unico ed eterno – è, secondo voi, il più significativo?…
Scegliete e scrivetelo: basta una parola per iniziare ad entrare in relazione con l’Intelletto universale …
E ora leggiamo la pagina dal trattato intitolato De unitate intellectus contra Averroistas [Sull’unità dell’intelletto contro i discepoli di Averroè] dove, in polemica con Sigieri, Tommaso d’Aquino espone la sua tesi sul tema dell’immortalità dell’anima razionale, una tesi che è diventata “dottrina” e anche “modello sapienziale e poetico”.
LEGERE MULTUM….
Tommaso d’Aquino, De unitate intellectus contra Averroistas
[Sull’unità dell’intelletto contro i discepoli di Averroè]
L’Essere umano è composto di anima e corpo: l’anima è la forma del corpo ma non dipende dal corpo perché è creata direttamente da Dio e infusa nel corpo quando questo è già formato nel seno di sua madre. Nell’anima umana vi è una sola forma, quella intellettuale, che ha come sua funzione essenziale appunto la funzione intellettiva e cioè conoscere, comprendere, applicarsi e volere. Anche le funzioni vegetative e sensitive vengono assolte dall’anima intellettiva. L’anima intellettiva nelle sue funzioni essenziali, riguardanti la conoscenza e la volontà, non dipende «in modo sostanziale» dal corpo; quindi, anche se l’origine della conoscenza è sensibile, cioè corporea, in realtà nel procedimento intellettivo l’anima è unita solo «estrinsecamente, in modo esteriore» al corpo - l’anima è come lo sguardo spirituale dell’Angelo che avvolge il corpo di Maria - ed è immune dalla sua eventuale corruzione: conseguentemente è immortale. Naturalmente Dio in quanto onnipotente potrebbe annientarla; ma non si può pensare che Dio, perfetto, annienti l’anima che Egli stesso ha creata immortale; agirebbe, in tal caso, quasi in contraddizione con se stesso e con i fini che si è proposto con la creazione dell’anima. Circa l’individualità dell’anima, dopo la morte si potrebbe pensare che l’anima, separata dal corpo, non dovrebbe più distinguersi dalle altre anime, ma dobbiamo pensare che l’anima intellettiva, quando ancora è unita al corpo, contrae una certa abitudine o adattamento o rapporto verso quel corpo [habitudo ad corpus], che poi conserva anche dopo la separazione del corpo stesso: è come un’impronta che il corpo dà all’anima per cui questa rimane individualizzata e distinta da ogni altra anima. Questa particolare «habitudo», oltre a permettere l’individualità dell’anima, spiega la ricostituzione futura dell’anima col corpo nel giorno della resurrezione della carne: l’anima infatti, che aspira a riassumere il proprio corpo, ricompleta così la propria individualità. …
È facile capire come il testo di questa pagina - e l’abbiamo letta anche per questo motivo - abbia fornito linfa alla sapienza-poetica di Dante Alighieri. Le anime che il poeta incontra nel suo viaggio onirico nell’Aldilà hanno esattamente le caratteristiche tratteggiate da Tommaso d’Aquino: l’anima è sostanzialmente “un intelletto” che ha ricevuto e ha mantenuto la forma del corpo [habitudo ad corpus] a cui è stata unita, e in questo momento - con “la polemica sulla natura dell’anima” del 1270 tra Alberto Magno, Tommaso d’Aquino e Sigieri di Brabante - ci stiamo abbeverando ad una delle fonti della Divina Commedia. Naturalmente la risposta di Sigieri alle critiche di Alberto Magno e di Tommaso d’Aquino non si fa attendere, e Sigieri controbatte formulando in modo organico le sue tesi: “sillogizza gli invidiosi veri” [come scrive Dante, al quale si capisce che Sigieri sta simpatico anche se Dante, almeno ufficialmente, non condivide la sua tesi sulla mortalità dell’anima razionale: se l’avesse condivisa non ci sarebbe stata neppure la Divina Commedia].
Sigieri di Brabante ha inizialmente prodotto soprattutto testi di carattere didattico riguardanti i principali argomenti trattati nelle sue Lezioni come L’eternità del mondo [De aeternitate mundi], L’intelletto [De intellectu], Il libro della felicità [Liber de felicitate]. Nel 1265 ha redatto il suo primo trattato organico intitolato Questiones in tertium de anima [Questioni sul terzo libro del De anima di Aristotele] in cui discute, anche per rispondere alle critiche di Alberto Magno, su diciotto questioni riguardanti la dottrina aristotelica dell’anima tenendo conto del commento di Averroè: questo testo viene subito preso di mira dal Vescovo Étienne Tempier che lo condanna come eterodosso rispetto alla dottrina cristiana sull’anima. All’inizio di dicembre del 1270 Sigieri pubblica De anima intellectiva [“L’anima intellettiva”, un’opera che amplierà nel 1274 dedicandola al suo avversario Tommaso d’Aquino che era appena morto e per il quale ha sempre nutrito grande ammirazione, un’ammirazione ricambiata] e, naturalmente, cinque tesi contenute in quest’opera vengono condannate ed elencate nel “Sillabo delle 219 proposizioni in odore di eresia” redatto dal Vescovo di Parigi Étienne Tempier.
Ma come si configura - rispetto a quello di Alberto Magno e soprattutto rispetto a quello di Tommaso d’Aquino - il pensiero “averroista” di Sigieri di Brabante o, come dice Dante, in che cosa consistono “gli invidiosi veri” che Sigieri “sillogizza leggendo nel Vico de li Strami”?
Alberto Magno e Tommaso d’Aquino sostengono [e lo abbiamo studiato nella primavera scorsa] l’autonomia della Ragione rispetto alla Fede, mentre Sigieri afferma l’assoluta autonomia della Ragione. Se Tommaso sostiene che la Ragione è autonoma “fino al confine del territorio della Fede”, Sigieri afferma che “la Ragione penetra nell’area della Fede” perché la Ragione capisce che ci sono formalmente due verità, come asserisce Averroè commentando Aristotele, o meglio, “la verità, sostiene Sigieri, si articola in due forme: quella filosofica e quella teologale”. La verità filosofica [della Ragione che scruta nell’ambito della Fede] e quella teologale [della Rivelazione che sostiene le potenzialità della Ragione] sono in sintonia perché la verità, afferma Sigieri, rifacendosi a Parmenide, non può che essere della stessa sostanza di se stessa: quindi, sostiene Sigieri la verità si esplicita in due forme diverse - la filosofica e la teologale - che sono della stessa sostanza della verità [questa è la prima tesi di Sigieri, che ha dato il nome al suo sistema chiamato: “dottrina della duplice verità”].
Di fronte a questa constatazione, sostiene Sigieri, se la verità teologale afferma che “Dio è eterno” questo significa, secondo la verità filosofica, che anche “il mondo non può che essere eterno” perché la prerogativa di “creatore”, Dio onnipotente, non può che averla dall’eternità, quindi: Dio è eterno secondo la verità teologale così come il mondo, secondo la verità filosofica, è eterno essendo stato creato da Dio “ab origine, da principio [questa è la seconda tesi di Sigieri].
Se la verità teologale afferma che “tutto il Creato dipende da Dio” questo significa, secondo la verità filosofica, che Dio, in quanto creatore, è necessario al mondo così come il mondo è necessario a Dio e, di conseguenza, nel Mondo creato vige il principio di Necessità ed è per Necessità che Dio ha creato perché se avesse agito per Volontà avrebbe compiuto un atto contingente e l’onnipotenza [la completezza] divina esclude la contingenza [la limitazione], e se Dio avesse creato per Volontà sarebbe soggetto alla limitatezza e non sarebbe “una certezza reale e necessaria” ma Dio sarebbe solo “una possibilità relativa”, e quindi, afferma Sigieri, la Volontà è sempre soggetta alla Necessità [questa è la terza tesi di Sigieri].
Se la verità teologale afferma che “Dio illumina il mondo con il suo Spirito Universale” [con l’Anima del mondo] questo significa, secondo la verità filosofica, che le anime individuali sono solo manifestazioni della luce divina “come, afferma Sigieri, le ombre sono le espressioni del corpo illuminato dal sole”, e se la verità teologale afferma che “lo Spirito Universale è eterno” questo significa, secondo la verità filosofica, che lo spirito individuale è destinato a dissolversi nello Spirito Universale perché, sostiene Sigieri parafrasando Aristotele e Averroè, è eterno lo Spirito, il Moto, la Materia [queste cose sono coeterne a Dio come risulta dall’incipit del Libro della Genesi, puntualizza Sigieri] ma non l’individualità, di conseguenza, esiste sì, afferma Sigieri, un’Anima universale [il Logos, l’Anima del mondo] emanata necessariamente da Dio per cui di quest’Anima bisogna ammettere l’immortalità, ma dell’anima individuale, afferma Sigieri, si deve constatare la limitatezza per la semplice ragione che, come proclama la verità teologale, “l’unico Spirito individuale è quello di Dio” e, di conseguenza, se le anime individuali fossero immortali, ciascuna sarebbe come Dio e questo non è ammissibile, quindi, afferma Sigieri,: l’anima individuale [l’anima intellettiva] è mortale [questa è la quarta tesi di Sigieri].
Se la verità teologale afferma che “Dio è onnipotente e perfetto” questo significa, secondo la verità filosofica, che “Dio è necessario” e se Dio è necessario tutto è già predisposto nella dialettica del creato e, di conseguenza, la provvidenza è in contraddizione con la Necessità, di conseguenza la Volontà è sottomessa alla Necessità e il libero arbitrio è compromesso; tuttavia, siccome la verità teologale afferma che “tutto il creato tende verso Dio”, questo significa, secondo la verità filosofica, che l’Essere umano nel suo tendere necessario verso Dio manifesta un atteggiamento provvidente, quindi, afferma Sigieri,: Dio non è provvidenza ma la provvidenza è una qualità che appartiene necessariamente all’Essere umano [questa è la quinta tesi di Sigieri].
Nel Sillabo delle 219 proposizioni eretiche del Vescovo Étienne Tempier le tesi di Sigieri vengono tutte condannate e, complessivamente, viene messa all’Indice la “dottrina della duplice verità” che però, proprio attraverso il Sillabo del 1270, acquisisce 745 anni fa un titolo, e il movimento “averroista” acquista una legittimazione. Ciò anche per il fatto che Sigieri di Brabante nell’ultima parte del suo trattato intitolato De anima intellectiva [“L’anima intellettiva” che amplierà nel 1274] pronuncia un atto di Fede affermando che la sua attività filosofica [la sua fiducia assoluta nella Ragione] ha potenziato le verità teologali per cui la Fede assume, per chi crede [«…a cominciare da me» afferma Sigieri], un valore assoluto perché scrive Sigieri: «Non nego Dio ma ne scruto la natura, non nego l’immortalità dell’Anima universale ma di quella individuale, non nego la provvidenza ma affermo che appartiene alla tensione necessaria della persona verso Dio, non nego la libertà ma sostengo che sussiste solo in funzione della Necessità, e la Necessità fa sì che il senso dell’esistenza consista nel continuare a pensare, a leggere e a scrivere perché una vita priva di studi è simile alla morte». Ora si capisce meglio perché Sigieri è simpatico a Dante [e anche a noi che non vogliamo perdere la volontà di imparare e animiamo un Percorso di Alfabetizzazione funzionale e culturale]. “La dottrina della duplice verità” di Sigieri di Brabante ci fa capire che siamo nell’anticamera dell’Umanesimo, e si comprende perché Dante, nel presentare questo personaggio, utilizzi il verbo “leggere”: «essa è la luce etterna di Sigieri, che, leggendo nel Vico de li Strami, silogizzò invidiosi veri» e leggere è esercitarsi ad “argomentare [a sillogizzare]”, a mettere in ordine i propri pensieri.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quale libro state leggendo - al ritmo di quattro pagine al giorno - in questo momento?…
Scrivete quattro righe in proposito…
C’è un libro che Sigieri ha letto con vero piacere, ed è lui che ce lo fa sapere nel suo trattato didattico intitolato Il libro della felicità [Liber de felicitate] nel quale ribadisce che “la lettura è un’attività che contribuisce a rendere felici le persone” perché costituisce un alimento per le loro anime: l’anima individuale, afferma Sigieri parafrasando Aristotele e Averroè, ha tre potenze - la sensitiva, la vegetativa e l’intellettiva -: ebbene, l’esercizio della lettura favorisce la potenza dell’anima intellettiva in modo da stimolare anche l’attività conoscitiva dell’anima sensitiva [che identifica le sensazioni] e di quella vegetativa [che trasforma le sensazioni in impulsi vitali].
Qual è il libro che Sigieri dice di aver letto con vero piacere per cui tesse anche l’elogio di chi ha fatto arrivare questo volume dall’Oriente in Occidente facendolo tradurre in latino dall’arabo? Questo interrogativo mette in moto una serie di questioni intrecciate tra loro [riguardanti la letteratura, gli avvenimenti storici, l’attività indagatoria] che devono essere dipanate con ordine.
Essendo Sigieri uno studioso delle opere di Averroè, coltiva un particolare interesse nei confronti della cultura letteraria arabo-islamica e il libro che Sigieri dice di aver letto con vero piacere è un’opera che s’inserisce nella riflessione “sul tema dell’unità del sapere”, un tema [di attualità, che abbiamo affrontato la scorsa settimana] che riguarda la relazione che si è stabilita sul piano culturale tra Oriente e Occidente perché non c’è cultura che possa stare chiusa nel proprio recinto: una “cultura” è degna di questo nome se sa creare dei collegamenti in modo da poter usufruire di un afflato universale, di quel respiro “ecumenico” che sarà tipico del movimento dell’Umanesimo di cui stiamo cercando e inventariando le radici.
All’inizio di questo itinerario abbiamo ricordato il fatto che la scorsa settimana abbiamo scarpinato da Oriente verso Occidente e viceversa insieme ad una serie di personaggi [Al Bīrūnī, Avicenna, Ibn ‘Arabi, il poeta Rūmī] e abbiamo citato anche Nezāmī Ganjavī che però non abbiamo ancora incontrato anche se, abbiamo aggiunto, la sua Opera epico-romanzesca sta già circolando con successo in Occidente. Il libro che Sigieri dice di aver letto con grande piacere è un’opera di Nezāmī Ganjavī che s’intitola Il Libro della fortuna di Alessandro. L’Alessandro di cui si parla in quest’opera è il Mega-Alexandros: Alessandro Magno che, sebbene coltivando uno spirito di conquista, ha aperto molte vie di collegamento tra l’Occidente e l’Oriente, tra il Mar Mediterraneo e la Persia e l’India.
Ma chi è Nezāmī Ganjavī, il cantore islamico-persiano di Alessandro Magno? Lo scrittore Nezāmī Ganjavī è tra i maggiori poeti epico-romanzeschi della letteratura persiana: è nato nel 1141 a Ganja, città dell’attuale Azerbaigian, dove è vissuto fino alla morte avvenuta nel 1209. Nezāmī è l’autore di un celeberrimo “Quintetto [Khamse]” formato da cinque lunghi poemi in distici a rima baciata [il distico è una strofa formata da una coppia di versi], cinque poemi di argomento prevalentemente romanzesco ed epico, che sono stati oggetto nei secoli seguenti - tanto a Oriente quanto a Occidente - di numerose imitazioni e hanno fornito materiale inesauribile all’arte dei miniaturisti. I poemi del Quintetto di Nezāmī sono: Emporio dei segreti [di argomento mistico-religioso], Khosrow e Shirin [di tono romanzesco il cui titolo deriva dai nomi di una delle più celebri coppie della Letteratura persiana], Majnun e Leylà [altro romanzo in versi che ha per protagonista un’altra coppia celebre già nota alla tradizione letteraria araba], Le sette effigi [romanzo poetico di formazione che ha per protagonista il sovrano sasanide Bahram Gur del IV secolo e in quest’opera viene narrata una delle più antiche versioni conosciute della storia di Turandot, nome persiano che significa “figlia del Turan”] e, infine, il quinto poema che s’intitola Alessandreide e narra la vicenda orientale di Alessandro Magno in oltre diecimila versi, diviso a sua volta in due parti: Il Libro della gloria sulle imprese guerresche del condottiero macedone e Il Libro della fortuna su Alessandro filosofo e profeta identificato dagli esegeti con il personaggio di “Dhul-Qarnayn [quello con due corna, il Bicorne] citato nella sura XVIII, la Sura della caverna, del Corano.
I versetti dall’83 al 101 della sura XVIII, la Sura della caverna, sono stati, secondo la tradizione, rivelati a Maometto dopo che un gruppo di Rabbini escogita un test per valutare la sua pretesa di essere un profeta: «Chiediamogli di un uomo che viaggiò moltissimo e raggiunse l’Oriente e l’Occidente della terra. Chiediamogli qual’è la sua storia» e il profeta, ispirato da Dio, risponde «Quest’uomo era Dhul-Qarnayn, quello con due corna [il Bicorne], colui che aveva potere sopra l’Oriente e l’Occidente perché ha raggiunto i due corni del sole, l’est dove sorge e l’ovest dove tramonta».
Non c’è da meravigliarsi che la Letteratura del Corano citi Alessandro Magno anche se non può certamente essere equiparato, per il suo comportamento, ad un buon mussulmano [difatti i predicatori islamici hanno sempre evitato di commentare nei loro sermoni questi versetti] ma Alessandro, morto giovane nel 323 a.C., è stato uno dei personaggi storici la cui fama ha varcato tutti i confini e su di lui è fiorita una saga leggendaria enorme per il numero di narrazioni che contempla per cui la recitazione [qu’ran, in arabo] visionaria del Profeta dell’islam non poteva ignorare questo argomento. Nezāmī sa utilizzare ad arte la figura dell’Alessandro mussulmano del Corano [il Bicorne] facendolo diventare il paladino della Sapienza e del “metodo dell’unità del sapere” perché, secondo lui, il poeta, in quanto figura internazionale dal respiro ecumenico, deve utilizzare la storia e la leggenda con il preciso intento [che è anche quello della Letteratura del Corano] di creare un discorso metaforico sui valori della Fede e della Morale, valori in cui tutte le persone - indipendentemente dalla loro religione - possano riconoscersi.
Abbiamo detto che Nezāmī è nato a Ganja, la seconda città dell’attuale Azerbaigian e, geograficamente parlando, è necessario andare a consultare la carta geografica per capire di quale zona dell’Asia stiamo parlando.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Con una guida che trovate in biblioteca e navigando in rete potete fare un’escursione nella Repubblica caucasica dell’Azerbaigian il cui territorio è caratterizzato, a nord-est, dalla presenza di alte montagne ed è bagnato a est dal Mar Caspio: potete anche localizzare la città di Ganja, osservare la sua posizione al centro del Paese e le immagini che la rappresentano …
Buon viaggio…
Ora, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, è doveroso dipanare gli intrecci letterari che abbiamo individuato sul cammino della riflessione che stiamo facendo e, quindi, in prima istanza leggiamo la fonte iniziale: i nove versetti della sura XVIII [la Sura della caverna] del Corano per individuare la figura del “Bicorne [Dhul-Qarnayn]”, identificato con il personaggio di Alessandro Magno. Leggiamo nove versetti della sura XVIII [la Sura della caverna] del Corano.
LEGERE MULTUM….
XVIII. La sura della caverna 83-91
Nel Nome di Dio, Clemente e Misericordioso
Ti interrogheranno a proposito del Bicorne [Dhul-Qarnayn]. Di’: “Vi racconterò qualcosa sul suo conto”. In verità, gli abbiamo dato ampi mezzi sulla terra e modo di riuscire in ogni impresa. Egli seguì una via. Quando giunse all’[estremo] occidente, vide il sole che tramontava in una sorgente ribollente e nei pressi c’era un popolo. Dicemmo: “O Bicorne [Dhul-Qarnayn], puoi punirli oppure esercitare benevolenza nei loro confronti”. Disse: “Puniremo chi avrà agito ingiustamente e poi sarà ricondotto al suo Signore che gli infliggerà un terribile castigo. E chi crede e compie il bene avrà la migliore delle ricompense e gli daremo ordini facili”. Seguì poi una via. E, quando giunse dove sorge il sole, trovò che sorgeva su di un popolo cui non avevamo fornito alcunché per ripararsene. Così avvenne e Noi abbracciavamo nella Nostra scienza tutto quello che era presso di lui. …
E adesso leggiamo l’incipit de Il Libro della fortuna di Alessandro di Nezāmī soprattutto per capire qual è il motivo [più filosofico che poetico] per cui a Sigieri è piaciuto molto questo testo: Nezāmī è influenzato dal pensiero di Avicenna e conosce Aristotele attraverso il Gran Commento di Averroè e compone dei versi che, fin dall’inizio del poema, avvalorano una delle tesi principali dell’averroismo latino esaltando “il concetto dell’unità del sapere”, uno dei germi che porterà alla fioritura del movimento dell’Umanesimo. Leggiamo l’incipit de Il Libro della fortuna di Alessandro di Nezāmī.
LEGERE MULTUM….
Nezāmī Ganjavī, Il Libro della fortuna di Alessandro
Nel nome di Dio, il Clemente ed il Misericordioso si canti con gioioso ardore
la meravigliosa impresa di Alessandro, il gran sovrano, il Bicorne,
l’ardimentoso esploratore della terra e del cielo, il quale da Occidente giunto in Oriente,
al vertice delle sue fortune desiderò sostare e volgere lo sguardo alla Sapienza
e, con l’aiuto di Dio, poté così donarsi con sommo desiderio alla ricerca
finché contemplò l’opera indefessa intessuta sul principio della Necessità
per cui da Dio scaturisce l’Intelletto Universale che, posto nel cielo lunare,
permette ad una mente edotta per il puntiglioso studio, di giungere a perforare
e a far dischiudere, nascostamente agendo, anche la porta dei celesti arcani.
Per avere una sicura guida Alessandro si mise sulle tracce di quanto di più utile,
nel corso dei secoli, nella lingua persiana, era stato pensato ed era stato detto.
Ebbe poi reminiscenza di tutte le parole poetiche che scorrevano come acqua
di sorgente, fresche e briose, nella sua memoria, e a tutti i sapienti ordinò
di tradurre ciò che fosse connesso alla Sapienza e da ogni porta s’adoprò
per fare uscire una perla lucente di Saggezza e da tutte quelle perle si formò
un lungo fiume immenso, e quando la conchiglia fu ricolma di preziose gemme
da essa prese a straripare come d’incanto un mondo traboccante di tesori.
E grazie a questo grande Re, esploratore del mondo e anche del cielo,
videro la luce molte opere dell’Intelletto e fiorirono molte primizie dello Spirito.
In virtù di tanta sapienza e di sì profonda consapevolezza Alessandro il Grande
salì sul trono e, in nome di Dio Clemente e Misericordioso,
proclamò questo decreto al mondo intero: «Presso di noi
acquisisce valore solo la persona saggia, nessuno cerchi di prevalere sul prossimo suo
se non sulla via dell’incoraggiamento alla virtù, perché il rango del virtuoso
supererà sempre l’alterigia di qualsiasi presuntuoso» …
Il Re descritto allegoricamente dal poeta persiano Nezāmī è una figura da esaltare e da imitare e, difatti, c’è un imperatore, che noi conosciamo bene, molto amante della cultura internazionale che compra quest’opera, Il Libro della fortuna, la fa tradurre in latino e gli piace molto leggerla identificandosi nella figura di questo “Alessandro Magno orientale” tutto proiettato ad esaltare la Sapienza: questo imperatore d’Occidente è Federico II di Svevia che va alla crociata [nel 1227] per fare la pace con gli “infedeli” [si assicura che il sultano d’Egitto garantisca le visite dei pellegrini cristiani ai Luoghi Santi] e, mentre il papa Gregorio IX lo scomunica, Federico si accorda sul fatto che i cristiani e gli islamici non si apostrofino più reciprocamente con il termine “infedeli” visto che le radici comuni della Letteratura dei Vangeli e di quella del Corano sono nella Bibbia, sono in Abramo, il padre comune di tutti i viventi, e poi in Medio Oriente - crocevia di scambi internazionali - Federico II si dedica all’acquisto di Opere letterarie della cultura arabo-islamica orientale per portarle nelle biblioteche occidentali.
Per questo Sigieri di Brabante nel suo trattato Il Libro della felicità loda Federico II di Svevia, purtroppo morto prematuramente nel 1250, perché è stato l’unico monarca che ha importato cultura in nome dell’unità del sapere e dell’ecumenismo, e questa riflessione - fatta in funzione della didattica della lettura e della scrittura - ci serve anche per ragionare su alcuni interessanti elementi.
Il primo elemento riguarda la ragione principale per cui il Libro della fortuna di Alessandro di Nezāmī è piaciuto a Sigieri, e questa ragione, più filosofica che poetica, è in relazione con una delle tesi più controverse - sostenuta dal movimento degli Averriosti - sulla quale, a Parigi, esplode la polemica teologica del 1270: la tesi in cui si afferma che “Dio è necessario e ha creato per Necessità”. Quando Sigieri legge i versi dell’incipit dell’opera di Nezāmī che abbiamo appena letto dove il poeta persiano scrive: «[Alessandro] poté così donarsi con sommo desiderio alla ricerca finché contemplò l’opera indefessa intessuta sul principio della Necessità per cui da Dio scaturisce l’Intelletto Universale, posto nel cielo lunare …», noi capiamo che Sigieri ha tratto conforto da questa lettura perché “il concetto della Necessità che sovrasta la Volontà” viene avvalorato tramite il personaggio di Alessandro Magno che in Europa, a Parigi, è stato sempre considerato il modello della potenza occidentale [la potenza intellettuale dell’Ellenismo che domina il mondo] e, quindi, come non prendere in considerazione il tema della Necessità! Non è forse il principio metafisico della Necessità, si domanda retoricamente Sigieri, prima di quello fittizio della Volontà umana, a far muovere la potenza occidentale verso Oriente sotto il segno della Saggezza?
Il secondo elemento che emerge dalla riflessione che abbiamo fatto apre uno scenario più complicato [tra storia, politica e leggenda] che riguarda il mistero della morte di Sigieri. Sappiamo che Sigieri nel 1281 viene convocato dall’inquisitore di Francia Simon du Val e lui, per sottrarsi ad una probabile dura condanna, parte per Orvieto che, in questo momento, è la residenza del papa, e lì si consegna al pontefice Martino IV [il francese Simon de Brion o de Brie che è stato eletto da poco, dopo sei mesi di trattative e di scontri]. Martino IV, persona magnanima al quale piace anche mangiare bene, accoglie Sigieri “in veste di prigioniero” [così dicono le cronache] ma le notizie intorno a questo avvenimento sono assai scarse e lacunose ma si capisce che questo papa tiene Sigieri in alta considerazione. Nel 1284 [ma la data è incerta] Sigieri viene pugnalato da un sicario [dal suo segretario?]. Su questo delitto non è mai stata aperta alcuna inchiesta e sulla morte violenta di Sigieri è calata l’ombra del mistero: quale dei suoi tanti nemici si è premurato di farlo fuori? Non possiamo di certo pensare che siano stati i francescani spirituali o di domenicani predicatori ad eliminarlo! E allora: quale ipotesi possiamo fare in proposito?
Per indagare sulla misteriosa morte di Sigieri bisogna partire dalla constatazione [che abbiamo messo in evidenza attraverso la didattica della lettura e della scrittura] che lui ammira Federico II di Svevia, parteggia per i ghibellini, ed è molto contrariato, come abbiamo ricordato in partenza, dal fatto che il papa Clemente IV [Guido Fulcodi, personaggio a noi noto] si sia schierato contro Manfredi, il figlio di Federico II che sta governando la Sicilia [che la Chiesa rivendica come feudo] e, per spodestarlo, dopo averlo scomunicato, abbia chiesto aiuto a Carlo d’Angiò il fratello del re di Francia Luigi IX il santo. Come abbiamo studiato quattro settimane fa anche con l’ausilio di Dante, Carlo d’Angiò nel 1266 scende in Italia e nella battaglia di Benevento sconfigge Manfredi che muore combattendo e, in seguito a questo avvenimento, il Regno di Sicilia, e gran parte del territorio del Sud d’Italia, passa alla dinastia degli Angioini. Ma l’ambizione di Carlo d’Angiò - che fa finta di avere a cuore le sorti della Chiesa e in realtà mira ad estendere la sua influenza su tutta l’Italia sostenendo ovunque la fazione dei guelfi - e le ruberie e le prepotenze dei Francesi rendono odiosi alla popolazione meridionale i nuovi dominatori, e il malcontento che serpeggia da Roma in giù esplode in una violenta rivolta a Palermo [che aveva perso il titolo di capitale a favore di Napoli] il lunedì di Pasqua del 1282 sull’ora del Vespro, prima del tramonto. Nella chiesa di Santo Spirito, alla periferia di Palermo [oggi questa chiesa si trova all’interno del cimitero di Sant’Orsola: con la guida della città e navigando in rete potete visitarla], si stava celebrando il rito del Lunedì dell’Angelo con la relativa festa popolare quando un soldato angioino, col pretesto di accertarsi se portava delle armi, commette una violenza su una ragazza e, in seguito a questo fatto, il soldato rimane ucciso nel tumulto che si viene a creare e scoppia la rivolta che da Palermo si estende a tutte le città siciliane: le guarnigioni angioine vengono sopraffatte e questo avvenimento rivoluzionario ha una grande risonanza in tutta Europa, e a Parigi molti inneggiano all’insurrezione popolare di Sicilia e tra questi c’è anche Sigieri che è, come sappiamo, dichiaratamente antiangioino. I Siciliani [e per la prima volta un popolo viene ad assumere un ruolo sul piano politico] sanno di non poter resistere contro l’esercito di Carlo d’Angiò che muove da Napoli per andare a reprimere la Rivoluzione siciliana e allora i delegati del popolo chiedono aiuto al re Pietro III d’Aragona che aveva sposato una figlia di Manfredi, Costanza, l’ultima erede degli Svevi. Pietro III sbarca in Sicilia con il suo esercito in aiuto degli insorti e ha inizio la cosiddetta “guerra del Vespro”: questa guerra tra Angioini e Aragonesi dura vent’anni e coinvolge tutta l’Italia Meridionale e si conclude con la pace di Caltabellotta nel 1302: l’accordo prevede che l’Italia del Sud rimanga agli Angioini mentre la Sicilia [dopo i Fenici, i Greci, i Cartaginesi, i Romani, i Vandali, gli Ostrogoti, i Bizantini, gli Arabi, i Normanni, gli Svevi, gli Angioini] passa sotto la dinastia d’Aragona [e con gli Aragonesi comincerà poi la saga dei Viceré].
Ma veniamo al dunque: la conoscenza seppure a grandi linee del quadro storico fa da preambolo all’indagine sulla misteriosa morte di Sigieri, il quale nel 1284, in piena guerra del Vespro, arriva a Orvieto presso papa Martino IV che era stato eletto, dopo sei mesi di trattative e di scontri, per l’intervento autoritario di Carlo d’Angiò che aveva imposto il suo candidato [un prelato francese] sottomettendo con la forza le famiglie rivali degli Annibaldi e degli Orsini che si stavano sanguinosamente scontrando per fare papa uno dei loro. È quindi inevitabile che Martino IV sia sottomesso a Carlo d’Angiò e sia obbligato a schierarsi a favore degli Angioini contro i Siciliani in rivolta, e deplori l’intervento aragonese in Sicilia lanciando la scomunica su Pietro III. Per questa sua politica filoangioina Martino IV, che è magnanimo ma privo di carattere, è stato sempre inviso tanto ai nobili quanto al popolo romano che non sopportava più i soprusi degli Angioini e, di conseguenza, Martino IV ha sempre dovuto risiedere fuori Roma: prima a Montefiscone e poi a Orvieto, sempre nei pressi del pescoso lago di Bolsena.
È lecito pensare che Sigieri, al quale il carattere non manca,, in stato di prigionia ma ospite del papa, abbia di sicuro, con la sua capacità dialettica, cercato di far cambiare opinione a Martino IV nei confronti degli Angioini che agivano chiaramente per i loro interessi e non per quelli della Chiesa. È lecito pensare che Sigieri abbia ricordato a Martino IV di essere stato canonico di Tours [Dante traduce Tours con il termine Torso] città, come sappiamo, sede dell’importante Scuola fondata da Alcuino di York, l’iniziatore della Scolastica, che quattro secoli e mezzo prima aveva insegnato a Carlo Magno l’arte della mediazione. È lecito pensare che Sigieri, con la sua lucida eloquenza, abbia consigliato a Martino IV di non schierarsi con il malaffare angioino ma di proporsi come mediatore per far cessare la guerra del Vespro: la Chiesa doveva “pacificare” e “servire il popolo”. E allora, mettendo insieme queste considerazioni, è lecito pensare che ad armare la mano del sicario che ha ucciso Sigieri di Brabante sia stato Carlo d’Angiò che voleva il papa succube e ubbidiente ai suoi voleri, ma noi abbiamo ipotizzato solo degli indizi [frutto di una riflessione prodotta sulla scia della didattica della lettura e della scrittura] e, purtroppo, anche se abbiamo teorizzato un valido movente, non possiamo produrre le prove per poter portare Carlo d’Angiò in tribunale a rispondere sull’omicidio di Sigieri di Brabante.
E, a proposito del movente, pochi mesi dopo, nel marzo del 1285, a causa di una violenta indigestione, muore anche Martino IV [e, anche in questo caso, in circostanze mai chiarite se non con un intervento calunnioso che contempla la macchina del fango e consolida il movente] il quale, con la mediazione della sapienza-poetica di Dante, va a finire in Purgatorio. E la presenza di Martino IV nella sesta cornice del Purgatorio - quella dei golosi - dovrebbe giustificare la sua morte “per violenta indigestione” ma sappiamo che Dante raccoglie una diceria: qualcuno, per gettare discredito su di lui, nel descrivere questo papa, che risulta essere una persona magnanima e quasi santa, lo presenta come un grande vizioso della gola, e questa voce calunniosa è stata, molto probabilmente, messa in giro ad arte per coprire il fatto che, di solito, “le violente indigestioni” nascondono [da lunghissima data] un avvelenamento. Dante utilizza questa diceria secondo la quale Martino IV - che non sdegnava la buona tavola [la cucina di Montefiscone e di Orvieto] - sarebbe morto per un’indigestione “di anguille annegate nella vernaccia” di cui era molto ghiotto.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Vi dice qualcosa la viscida parola “anguilla”, e l’alcolico termine “vernaccia” vi fa venire qualche pensiero particolare?…
Scrivete quattro righe in proposito…
Chissà se anche a Dante, così come viene in mente a noi, nel momento in cui stava scrivendo il Canto XXIV del Purgatorio, è venuto in mente il fatto che, forse, Sigieri - persona moralmente integra, capace di un lucido pensiero politico e sinceramente preoccupata che la Chiesa fosse in grado di rendere manifesti i valori evangelici - è riuscito, almeno in parte, a convincere Martino IV ad assumersi delle responsabilità per scongiurare la guerra del Vespro e per invocare la giustizia e la pace? Anche questo quesito rimane senza risposta, mentre possiamo rispondere, seppur molto brevemente, a due domande: com’è congegnato il Canto XXIV del Purgatorio e con quali versi Dante presenta papa Martino IV?
Il Canto XXIV del Purgatorio della Divina Commedia - siamo nella sesta cornice, quella dei golosi - viene anche chiamato “il Canto dei tre fratelli” perché Dante vuol far riflettere la lettrice e il lettore sulle sorti dei tre fratelli Donati: Forese [che Dante incontra e con il quale conversa], Piccarda [la vittima immolata, della quale Dante vuol sapere la sorte] e Corso [il cattivo del quale si prefigura la rovina]. A quest’ora non abbiamo il tempo di raccontare gli avvenimenti legati a questi tre personaggi [Forese, Piccarda e Corso Donati] ma questa è una curiosità che vi potete togliere facilmente leggendo i versi, le note e i commenti esplicativi che sono contenuti nelle pagine del vostro volume della Divina Commedia: fate questo esercizio [c’è di mezzo anche “il solatio convento delle clarisse di Monticelli”]. In questo Canto, Dante vuole esaltare la virtù della temperanza, una virtù salutare nella vita quotidiana, nella vita intellettuale e d’arte e, in particolare, nella vita politica e civile: il Canto XXIV del Purgatorio è veramente ricco di concetti e d’immagini e merita di essere letto.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quale di queste parole - misura, sobrietà, frugalità, modestia, discrezione, o quale altra - mettereste per prima accanto alla parola “temperanza”?…
Scrivetela…
E ora per concludere leggiamo i versi in cui Dante presenta il papa Martino IV secondo la diceria legata al suo presunto vizio della gola.
LEGERE MULTUM….
Dante Alighieri, Purgatorio Canto XXIV 16-24
Sì disse prima [è Forese Donati che ha detto prima una cosa a Dante]; e poi [Forese Donati aggiunge un’altra considerazione]: «Qui non si vieta
di nominar ciascun [«Qui - dice - è necessario nominare le anime], da ch’è sì munta
nostra sembianza via per la dieta [poiché ciascuna anima è così smagrita dal digiuno da risultare irriconoscibile].
Questi [Costui]», e mostrò col dito [e indicò uno col dito], «è Bonagiunta,
Bonagiunta da Lucca [Buonagiunta Orbicciani, un rimatore contemporaneo di Dante, rozzo e pedissequo imitatore dei trovatori provenzali]; e quella faccia
di là da lui [e quella faccia accanto a lui], più che l’altre trapunta [che sembra più rinsecchita delle altre] ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia [ha avuto tra le sue braccia la Santa Chiesa, è papa Martino IV]:
dal Torso fu [che fu canonico a Tours], e purga per digiuno [e qui espia col digiuno] l’anguille di Bolsena e la vernaccia». …
Sappiamo che martedì 8 dicembre si apre il Giubileo della Misericordia e anche sul territorio che stiamo attraversando viene aperto un Giubileo: il primo Giubileo della Storia della Chiesa: quello del 1300. Ma che cos’è un Giubileo e che cosa è stato il Giubileo del 1300?
Per rispondere a queste domande dobbiamo seguire la via dell’Alfabetizzazione culturale e funzionale con lo spirito utopico che lo “studio” porta con sé, quindi, non perdete l’ultimo itinerario prima della vacanza natalizia [l’ultima Lezione dell’anno 2015] e, soprattutto: volete forse perdere l’Indulgenza plenaria concessa a tutte le persone di buona volontà che non perdono mai la volontà d’imparare?
La Scuola è qui: il viaggio continua, siate indulgenti e fate di Necessità virtù!...