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IN VIAGGIO CON ERODOTO PER “FARSI UN’IDEA DEL MONDO”…

Lezione N.: 
6

Prof. Giuseppe Nibbi           Lo sguardo di Erodoto 2005             16-17-18  novembre  2005

IN VIAGGIO CON ERODOTO PER “FARSI UN’IDEA DEL MONDO”…

   Sotto lo sguardo sorridente e “allusivo” di Erodoto stiamo gradualmente prendendo contatto con la sua opera, una delle opere più famose della Storia del Pensiero Umano, intitolata Le Storie. Durante gli itinerari delle settimane precedenti ci siamo premurati, prima di tutto, di conoscere come si struttura e da chi è stato strutturato il testo di quest’opera, poi ci siamo preoccupati di cominciare a cercare e a definire le “forme intellettuali” che possiamo rinvenire nell’opera di Erodoto. Le “forme intellettuali” contenute ne Le Storie di Erodoto corrispondono alle “idee significative” che trovano spazio nella mente dello scrittore e che danno vita al suo pensiero, un pensiero – nel caso di Erodoto – maturato nell’ambito della cultura ionica. Una “forma intellettuale” corrisponde ad una “idea significativa” che, a sua volta, si materializza, nella scrittura, in una “parola-chiave”.

   Abbiamo studiato che le principali “forme intellettuali” – quelle che stanno alla base del testo de Le Storie di Erodoto – corrispondono a quattro idee significative che, a loro volta, si configurano in quattro parole-chiave: ricerca, analisi, giudizio e allusione. Dobbiamo fare una breve riflessione di tipo filologico, domandandoci: nel dizionario di Erodoto a quali vocaboli greci corrispondono le parole ricerca, analisi, giudizio? Erodoto per definire la parola “ricerca” usa il termine “istorìa”, ma usa anche il termine “zè-tesis”, nel senso che la ricerca si concretizza anche in serie di tesi, di documenti, di relazioni, di resoconti, di trattazioni. Per definire il termine che noi traduciamo con la parola “analisi” usa spesso l’espressione “antitesis”, nel senso che l’analisi è anche scomposizione, divisione, separazione, scissione oltre che osservazione e indagine. Per definire la parola “giudizio” usa spesso il termine “crìsis” e difatti, questa parola rende bene l’idea che “giudicare” non è mai una cosa facile.

   Queste parole – ci dicono gli studiosi – sono le prime parole che si coniugano con la parola “storia” e quindi, dal punto di vista filologico e in funzione della didattica della lettura e della scrittura, il termine “istorìa” è contornato dalle parole: “tesis”, “antitesis” e “crisis”. Quando – probabilmente a primavera – torneremo nel territorio dell’Idealismo  e incontreremo Georg Hegel (1770-1831) ci renderemo conto che questi termini, queste parole-chiave – tesi, antitesi, storia, crisi – sono in primo piano nella Storia del Pensiero Umano ai primi dell’800. 

   Queste parole-chiave – ricerca, analisi, giudizio e allusione (il termine greco che, in Erodoto, corrisponde alla parola “allusione è “ìchonos”, letteralmente: “una traccia che diventa un’immagine”) – sono le prime parole che si coniugano con la parola “storia-istorìa” e anche con la parola “memoria-mnème”, e servono a dare coesione ad un’opera, che si presenta alla lettura, in modo articolato composito eterogeneo variegato. Queste prime parole-chiave – ricerca (tesis), analisi (antitesis-antitesis), giudizio (crisis-crisis) e allusione (iconos-ichonos) – sono la fonte di molte idee significative su cui dobbiamo riflettere. Sono le idee significative, contenute ne Le Storie di Erodoto, a dare a quest’opera un’importanza fondamentale nella Storia del Pensiero Umano. La conoscenza e la comprensione delle idee, presenti ne Le Storie di Erodoto, è utile soprattutto per riflettere su un catalogo di temi che, da 2500 anni a questa parte, continuano ad essere (e dovrebbero essere) al centro dell’attenzione tanto nella mente delle persone quanto in seno alla società.

   Erodoto ne Le Storie – mentre racconta – propone delle idee che, oggi, apparentemente sembrano acquisite: sì, in teoria sono acquisite. 

   La prima idea che prendiamo in considerazione, e su cui Erodoto c’invita a riflettere, l’abbiamo già anticipata la scorsa settimana e consiste nel fatto che il mondo è vario, è strano, è imprevedibile, non è facilmente giudicabile. Attraverso questa idea ci rendiamo conto che il mondo non si presenta più come un “universo” bensì come un “pluriverso”, e questo concetto comincerà ad essere sviluppato in età moderna (nel 1500). Erodoto ci fa riflettere sul fatto che nel mondo – quello in cui lui viaggia, 2500 anni fa – esiste un “relativismo culturale” ed un “relativismo morale”. Il “relativismo” – secondo Erodoto – può essere utilizzato come uno strumento di conoscenza per coltivare la “tolleranza”, il rispetto per il “diverso” e per favorire la fissazione di princìpi. Erodoto ne Le Storie – mentre racconta – sostiene l’idea che nessuno è “arrivato” (l’assoluto è un’aspirazione), ma che tutti, in un modo o nell’altro, siamo a “metà strada” (tutto nel mondo è relativo). Quest’affermazione rivela una percezione non paternalistica del concetto di tolleranza: per Erodoto il “tollerare” non deve essere inteso come un atto di sopportazione, e la tolleranza non può essere assimilata ad un atto di limitazione. Erodoto “allude” al fatto che “tollerare” significa: esprimersi in favore di un diritto: questo concetto comincia a svilupparsi in Europa nell’età del Lumi. E l’esprimersi in favore di un diritto non significa rivendicarlo per sé, ma per gli altri. Tollerare significa moderare la propria presunzione o la propria prepotenza nel voler estendere (o, peggio ancora, imporre) le proprie scelte agli altri. (Questo vale soprattutto per i princìpi di carattere generale, quelli – per esempio – che entrano nelle Costituzioni, che devono essere condivisi e non imposti da una minoraza). Erodoto è un razionalista il cui relativismo lo porta a coltivare un moderato ottimismo nel progresso umano, e ne Le Storie – mentre racconta – ritiene che le persone debbano riflettere (magari sulle ali della malinconia) sulla “condizione umana” senza però lasciarsi travolgere dalla disperazione e dallo sconforto ma imparando ad usare, come antidoto, la “memoria-mnème”, la “trafila dei ricordi” che avvalorano la nostra vita. La “memoria” – si domanda Erodoto (e noi con lui) può essere definita un punto fermo nella provvisorietà dell’esistenza? E, leggendo Le Storie, noi troviamo molte riflessioni sul tema della “condizione umana”: Erodoto “allude” spesso su questo tema.

   Prendiamo il caso della guerra: quale situazione è più terribile della guerra per la “condizione umana”? Sulla scia di questo interrogativo Erodoto c’invita a leggere il capitolo 87 del libro I  de Le Storie. E basta leggerne un frammento perché si produca una reazione intellettuale a catena.

LEGERE MULTUM….

Erodoto,  Le Storie  I  87

«Nessuno è tanto privo di senno da preferire la guerra alla pace, perché in tempo di pace sono i figli che portano alla sepoltura i padri, mentre in tempo di guerra sono i padri che seppelliscono i figli».

«Ma agli dèi, si vede, era caro che queste cose si svolgessero così».

   Queste due affermazioni sono tra virgolette, questo significa che c’è qualcuno che parla, e vedremo in seguito, in un prossimo itinerario, chi è il personaggio a cui Erodoto fa dire (non in senso documentario ma in senso riflessivo) queste frasi, a cui fa pronunciare queste affermazioni. Lo incontreremo prossimamente – quando ci occuperemo di “contenuti” – questo personaggio il quale tenta di scaricare le sue responsabilità sugli dèi: a tutt’oggi, purtroppo, sembra di gran moda questa operazione di scaricare le proprie responsabilità sugli dèi.

   La famosa frase che abbiamo letto nel capitolo 87 del libro I de Le Storie «Nessuno è tanto sciocco da preferire la guerra alla pace, perché in tempo di guerra sono i padri che seppelliscono i figli» ci fa riflettere (Erodoto “allude”). Non possiamo negare – ci dicono gli esperti – che in questa famosa frase di Erodoto l’elemento significativo (l’idea) consiste nel mettere al centro dell’attenzione del lettore i rapporti tra padri e figli. La guerra esiste – “allude” Erodoto – forse perché, prima di tutto, si sviluppano “cattivi rapporti” tra le persone, a cominciare proprio dalle complesse relazioni tra padri e figli. Troviamo, in questa frase che abbiamo letto, tanto “complesso di Edipo”. E il “complesso di Edipo”, prima ancora che al dottor Freud – che incontreremo, a Vienna, a suo tempo – ci rimanda a Sofocle. Probabilmente senza Sofocle (496-406 a.C.) – uno dei tre grandi scrittori di “tragedie” della Storia del Pensiero Umano e contemporaneo di Erodoto – non ci sarebbe il “complesso di Edipo”, e forse neppure la “scienza” del dottor Freud.

   La famosa frase che abbiamo letto: «nessuno è tanto sciocco da preferire la guerra alla pace, perché in tempo di guerra sono i padri che seppelliscono i figli» ci rimanda a Sofocle anche perché Erodoto ha avuto una relazione di cordiale amicizia con Sofocle e conosce bene la tematica delle sue tragedie e ne è influenzato;  ma è d’influenza reciproca che dobbiamo parlare. Infatti dobbiamo pensare che, attraverso il dialogo, anche Erodoto abbia influenzato Sofocle. Erodoto racconta decine di “storie” avvincenti e agghiaccianti di genitori che “mandano in guerra” (con entusiasmo) i figli, e di figli che “mandano al diavolo” gli ingombranti genitori. Erodoto conosce bene gli “stampi della tragedia”, così come Sofocle – certamente – conosce bene Le Storie di Erodoto.

   Sofocle è considerato dagli studiosi il più grande dei tragici greci. E’ nato a Colono, una polis a breve distanza da Atene, ed è vissuto in quel periodo (come anche Erodoto) di floridezza e di potenza – ma anche di “demagogia” (non è tutto oro quello che luccica) – che prende il nome di “età di Pericle” (469-429 a.C). Sofocle viene considerato un personaggio straordinario – «Una delle persone più felici della storia» dice di lui un grammatico alessandrino – e quindi la sua vita spesso si confonde con la leggenda; ma gli attributi che accompagnano la figura di Sofocle sono inequivocabili e ci rimandano alla realtà: prima di tutto Sofocle è ricco. Suo padre è il proprietario di una fabbrica d’armi – e il traffico delle armi ha sempre reso molto denaro – ma sembra che i rapporti di Sofocle con suo padre siano stati piuttosto burrascosi: può Sofocle (dopo averlo creato poeticamente) essere immune dal “complesso di Edipo”, che consiste nella voglia inconscia di uccidere il proprio padre? È probabile che, contemporaneamente, – ci suggerisce il dottor Freud – quel padre coltivasse il “complesso di Laio”, che si configura come un desiderio inconscio di uccidere i propri figli. Ma forse – molto più semplicemente – quel padre, avrebbe voluto un figlio trafficante piuttosto che un figlio tragediografo in modo da incentivare ancora di più il già ricco patrimonio famigliare (si sa: la sete di denaro – quello che si chiama il “complesso di Creso” – è insaziabile).

   Sofocle, oltre ad essere ricco, è anche bello; da adolescente guida il coro degli efebi (gli adolescenti), che si esibisce nelle cerimonie più importanti della polis e, questo incarico, tocca al più bello (al più bel ragazzo) della città,  Sembra che questo fatto abbia scatenato l’invidia dei suoi (erano due?) fratelli i quali avranno coltivato senz’altro nei suoi confronti il “complesso di Caino” (tutti conosciamo, dal Libro della Genesi, la storia di Caino e Abele) o meglio il “complesso di Atreo e Tieste” (chi ha partecipato al Percorso nel territorio della “tragedia” sa, con orrore, di che cosa stiamo parlando a proposito di Atreo e Tieste); insomma, Sofocle, anche con i suoi fratelli, ha rischiato grosso.

   Ma Sofocle, oltre ad essere ricco e bello, è anche bravo (se c’è un “buon partito” nell’antichità questo è Sofocle). Sofocle è bravo come poeta, ed è bravo come didaskalos (il didaskalos è il “maestro del coro”), oggi, diremmo come “regista”, e quindi ottiene uno straordinario successo che lo porta anche ad occupare – a furor di popolo (è un momento di “demagogia”) – cariche pubbliche: è stato “stratega” (al governo, lo stratega ha il potere esecutivo) insieme a Pericle.

   Narra la leggenda (ma sarà davvero “leggenda”?) che a novant’anni viene citato in giudizio dai figli i quali lo vogliono far interdire per incassare l’eredità (questo non moriva mai, e avevano cominciato a pensare che oltre ad essere ricco, bello e bravo fosse anche immortale!), ma Sofocle in tribunale legge ai giudici alcune pagine della sua ultima tragedia, Edipo a Colono, e nel verdetto espresso dalla corte di giustizia viene dichiarato sano di mente e capace di intendere e di volere; e così ai suoi figli tocca, non incassare gli averi paterni, ma pagare le spese processuali.

   Sulla scia di Erodoto, che “allude” insieme a noi, ci rendiamo conto che un po’ di autobiografia deve essere entrata nelle tragedie di Sofocle e, forse, è proprio per questo che sono dei capolavori. Se ci dedichiamo alla lettura dell’opera di Erodoto incontriamo decine di “storie” in cui genitori e figli sono protagonisti, e lo sono, quasi sempre, in modo “tragico”, nello stile di Sofocle. Erodoto – come Sofocle – intuisce che una causa della violenza che c’è nel mondo dipende dai pessimi rapporti che si instaurano tra le persone, soprattutto tra i parenti più stretti (padri e figli): più strette sono le relazioni – “allude” Erodoto – e più l’odio e l’amore sembrano sovrapporsi inesorabilmente.

   Il modo di scrivere di Sofocle non dipende più dal misticismo e dalla teologia come quello di Eschilo, ma è naturale e umano come quello di Erodoto, e le azioni non dipendono tanto dagli dèi o dal Fato ma traggono origine dalle scelte, dalle tendenze e dalle passioni individuali. I personaggi – quei padri, quelle madri, quei figli, quei fratelli, quelle sorelle – non sono statici e statuari come i personaggi di Eschilo ma sono mobili, vivi, dinamici.

   Di Sofocle ci rimangono sette tragedie e un dramma satiresco. Noi citiamo – in linea con l’argomento che Erodoto ha proposto alla nostra attenzione – tre famose tragedie: Edipo Re, Antigone e Edipo a Colono, tre impareggiabili capolavori della Storia del Pensiero Umano. Queste tre tragedie potrebbero costituire idealmente una trilogia ma sappiamo che, al tempo di Sofocle, il tipo eschileo delle trilogie è già caduto in disuso.

   Il personaggio di Edipo è diventato un modello, uno stampo continuamente ripetuto nella Storia della cultura e anche ne Le Storie di Erodoto si trovano personaggi che assomigliano a Edipo. Nella tragedia di Sofocle il personaggio di Edipo, trascinato dal suo temperamento impulsivo, uccide inconsapevolmente il padre Laio e, altrettanto inconsapevolmente, sposa la madre Giocasta la quale, dopo avere scoperto l’orribile verità, si toglie la vita impiccandosi, ed Edipo, disperato, si acceca.

   Anche il personaggio di Antigone è diventato un modello, uno stampo continuamente ripetuto nella Storia della cultura e anche ne Le Storie di Erodoto si trovano personaggi che assomigliano ad Antigone.  La tragedia di Antigone è una delle più sublimi (così dicono i “romantici”) e commoventi per il famoso tema “romantico” che affronta: la lotta tra la ragione (la legge umana) e il cuore (la legge di natura). Antigone, figlia di Edipo, contro il divieto del tiranno Creonte, tenta di dare sepoltura al fratello Polinice, ma viene scoperta e incarcerata (Polinice aveva attentato alla vita del tiranno ma era stato ucciso e lasciato senza sepoltura). Antigone in carcere si uccide e il suo fidanzato, Èmone, figlio del tiranno Creonte, disperato si trafigge accanto al cadavere di lei (Antigone ed Èmone potrebbero chiamarsi Giulietta e Romeo).

   La tragedia Edipo a Colono è stata scritta da Sofocle poco prima di morire e racconta di Edipo che, cieco, sorretto dalle figlie Antigone e Ismene, giunge a Colono dove viene benignamente accolto e ospitato dal re Teseo. Durante una passeggiata, in cui Teseo lo accompagna amorevolmente verso il bosco sacro delle Eumenidi (divinità benevole), scoppia un terribile temporale (un altro modello “romantico”) ed Edipo viene attratto da una forza arcana. Edipo cede a questa forza sconosciuta e si accomiata da Teseo (come se per lui fosse un padre amoroso e contemporaneamente un figlio ideale) e, al comando di una voce misteriosa, s’inoltra nel bosco sacro alle Eumenidi (le Benevoli) e scompare. 

   Naturalmente la Scuola – dopo averle presentate seppur brevemente – deve invitare gli studenti alla lettura di queste tre tragedie (meglio sarebbe poterle ascoltare, spiegate e interpretate, a teatro). La Scuola deve anche onestamente dire che la lettura delle tragedie (di tutte le tragedie) non è facile; questo non significa che sia impossibile: è possibile leggere le tragedie ma ci vuole più pazienza, più costanza e più autodisciplina del solito. La lettura di un romanzo è più gratificante. E allora – sempre seguendo l’incentivo culturale che abbiamo ricevuto da Erodoto il quale “allude” sul tema, attualissimo, del complicato (e spesso perverso) rapporto tra genitori e figli – accostiamoci ad un romanzo.

   Del “genere letterario” del romanzo – dopo aver attraversato, negli ultimi due anni, il territorio del romanticismo titanico e galante – conosciamo molte cose. Il romanzo di cui – sulla scia del sorriso di Erodoto – vogliamo occuparci è molto famoso – lo troviamo in tutte le biblioteche – e s’intitola Padri e figli ed è stato pubblicato nel 1862 dallo scrittore russo Ivàn Turgénev (1818-1883). Ivàn Turgénev rappresenta, con le sue opere in prosa e in poesia, trentacinque anni di storia della società russa, che noi abbiamo incontrato lo scorso anno scolastico nel Percorso sul “romanismo galante”. La produzione letteraria di Turgénev è caratterizzata dalla profondità con cui è capace a descrivere i contrasti sociali che agitano la società russa (e anche europea) della seconda metà dell’800. Ivàn Turgénev è un convinto occidentalista e pensa (come Nikolaj Karamzin, che molti di voi conoscono e che si è spostato verso occidente per incontrare Kant) che la Russia si debba aprire all’occidente, debba intessere intensi rapporti culturali con le nazioni occidentali. .Turgénev si dedica alla descrizione dei mali e dei difetti della realtà russa avvalendosi di uno spampo letterario che lui stesso definisce il modello dell’uomo “superfluo”.

   Il protagonista della maggior parte dei romanzi di Turgénev è l’uomo superfluo: e chi sono – secondo Turgénev – “gli uomini superflui - lisnie ljudi”? Gli “uomini superflui” sono persone dotate, persone capaci di imbastire grandi progetti, ma incapaci di portarli fino in fondo e quindi sono inutili alla società, sono appunto “superflui”. Negli anni Sessanta e Settanta dell’800, la sua opera si scaglia contro i nichilisti, da lui considerati demagoghi inefficaci, che perciò rientrano nel novero degli “uomini superflui”. Chi sono i nichilisti? All’inizio degli anni Sessanta dell’800 la Russia è scossa da moti contadini e studenteschi tesi ad ottenere ulteriori riforme oltre all’emancipazione dei servi della gleba. Le manifestazioni sono guidate da giovani politici di ideologia razionalista, positivista e materialista. Con Erodoto abbiamo incontrato gli antichi razionalisti (Ecateo, Callino, Mimnermo, Erodoto stesso). Questi giovani politici assumono il nome di “nichilisti” dal termine latino “nihil” che significa “niente, nulla”. La generazione nichilista – ultimamente è stato ripreso questo termine, “nichilista”, per analizzare il fenomeno del terrorismo suicida – è una generazione principalmente di estrazione borghese cittadina, contrapposta all’aristocrazia, ed è anche conosciuta come “populista”, in quanto le rivolte hanno come scopo il miglioramento delle condizioni sociali del popolo russo. Turgénev ha scritto il romanzo Padri e figli, sul quale dobbiamo puntare la nostra attenzione, e inoltre ha scritto altri cinque famosi romanzi che meritano di essere letti: Memorie di un cacciatore (1847-1852),  Rùdin (1856), Un nido di nobili (1859), Fumo (1867) e Terra vergine (1877). Inoltre, Turgénev, si dedica anche alla poesia tanto in età giovanile che in età matura. Per il teatro scrive una decina di lavori, oscillanti tra il dramma sentimentale e la commedia brillante, e, di queste opere teatrali, quella maggiormente riuscita s’intitola Un mese in campagna (1850), una commedia ancora oggi rappresentata molto spesso. Poi Turgénev scrive molti articoli critici, tra i quali un famoso saggio comparativo sulle figure di Amleto e Don Chisciotte, e infine scrive molte pagine di memorie autobiografiche.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Questo scrittore merita di essere conosciuto meglio con una ricerca da fare usando l’enciclopedia, facendo una visita in biblioteca e navigando sulla rete

Se questa ricerca stimola nella vostra mente un pensiero (una riflessione, un ricordo autobiografico): è bene scriverlo, bastano quattro righe per esprimere un pensiero

C’è stato un momento nella vostra vita in cui vi siete sentite “superflue”, vi siete sentiti “superflui” ? Scrivete quattro righe in proposito: scrivere non è mai un esercizio “superfluo”…

   Dopo aver fatto brevemente conoscenza con Ivàn Turgénev facciamo conoscenza con il romanzo Padri e figli. Questo famoso romanzo narra la storia dello scontro tra due generazioni: anche ne Le Storie di Erodoto – abbiamo detto – ci capita di trovare generazioni diverse (soprattutto regali) che si scontrano. In Padri e figli incontriamo un personaggio emblematico che è diventato un modello, una categoria sociologica (come Oblomov), nella letteratura e nella Storia del Pensiero: il medico Evgenij Vasil’ev Bazàrov. Questi è un nichilista che postula la necessità di distruggere ogni principio morale, per affidarsi unicamente alla scienza, mentre il padre e lo zio del suo amico Kirsànov – che stanno ospitando i due giovani in campagna e che rappresentano la vecchia generazione – sostengono la necessità della disciplina, della buona educazione, in nome di una convivenza civile basata sulla tradizione. Bazàrov nega tutto dei padri: il romanticismo, le metafisiche, i cosiddetti valori ideali. Il fatto è che, per il mondo nuovo che predica – un mondo di scienza e di progresso per tutti – non fa molto di più, a parte i discorsi affascinanti e arroganti, che “vivisezionare qualche ranocchia”. Bazàrov è una persona dotata e capace, la quale, a parole, sa imbastire grandi progetti, ma è incapace di portarli fino in fondo e quindi finisce per essere un “uomo superfluo”. Alla fine Bazàrov rimane isolato dalla società: viene respinto anche dall’unica persona che lui ama, Anna Odýncova. Bazàrov s’impegna nel suo lavoro di medico – quasi in modo eroico – tanto che contrae la tubercolosi da un ammalato che sta curando e ne paga le conseguenze. Ma soprattutto Bazàrov cede all’amore, cede a un sentimento di cui aveva sempre negato l’esistenza, e quindi risulta un perdente. Ma per Turgénev, naturalmente, non sono vincitori neanche i rappresentanti delle vecchie generazioni, il cui immobilismo è pari – se non peggiore, perché sottomesso al potere – di quello di Bazàrov.

   Ivàn Turgénev costruisce la significativa figura di Bazàrov perché vuole criticare con durezza un modo di pensare di cui Bazàrov è il rappresentante, però, in definitiva – proprio perché si rende conto di usarlo come un “capro espiatorio” – finisce per amare il suo personaggio, e il lettore, se fa attenzione, se ne accorge: questo è un motivo in più per dedicarsi alla lettura di Padri e figli. Ma leggiamo due pagine tratte da questo romanzo.

LEGERE MULTUM….

Ivàn Turgénev, Padri e figli (1862)

Nikolaj Petrovič si volse rapidamente e, avvicinandosi a un uomo di alta statura in una lunga palandrana adorna di fiocchi, appena sceso di carrozza, serrò forte la mano rossa, non inguantata, che quello indugiò a porgergli. «Mi rallegro di cuore» cominciò «e sono grato della buona intenzione di visitarci; spero permettete di chiedervi il vostro nome e patronimico?» «Evgenij Vasil’ev» rispose Bazarov con voce pigra ma virile, e, arrovesciando il bavero della palandrana, mostrò a Nikolaj Petrovič tutto il proprio viso. Lungo e magro, dalla fronte larga, dal naso piatto in alto, appuntito in giù, dai grandi occhi verdastri e dalle fedine pendenti color sabbia, era ravvivato da un sorriso calmo ed esprimeva sicurezza di sé e intelligenza. []

Pavel Petrovič sorrise e, messa una mano sulla spalla al fratello, lo costrinse a sedersi di nuovo. «Non inquietarti» disse. «Non mi lascerò trasportare proprio grazie a quel sentimento di dignità che il signor il signor dottore schernisce così crudelmente. Permettete» continuò, rivolgendosi di nuovo a Bazarov: «voi, forse, pensate che la vostra dottrina sia una novità? Ve lo immaginate inutilmente. Il materialismo che voi predicate è stato in circolazione più di una volta ed è sempre risultato inconsistente» «Un’altra parola straniera!» interruppe Bazarov. Cominciava a stizzirsi, e il suo viso aveva assunto non so che rozzo color rame. «In primo luogo, noi non predichiamo nulla; non è nelle nostre abitudini» «Che cosa fate allora?» «Ecco. Prima, in un’epoca abbastanza recente, dicevamo che i nostri funzionari si fanno corrompere col denaro, che non abbiamo né strade né commercio, né un’equa giustizia» «Ma sì, sì, voi siete gli smascheratori; vi chiamate così, se non sbaglio. Con molte delle vostre accuse convengo anch’io, ma» «E poi ci siamo accorti che chiacchierare, chiacchierare sempre solo delle nostre piaghe non valeva la pena, che questo conduceva solo alla volgarità e al dottrinarismo; abbiamo visto che anche i nostri sapienti, i così detti uomini di avanguardia e smascheratori non sono buoni a nulla, che ci occupiamo di sciocchezze, discutiamo di non so che arte, di creazione incosciente, di parlamentarismo, di avvocatura, e il diavolo sa di cos’altro, quando si tratta del pane quotidiano, quando la più grossolana superstizione ci soffoca, quando tutte le nostre società azioniste saltano all’aria unicamente per l’assenza di uomini onesti, quando la libertà stessa, di cui si preoccupa il governo, difficilmente ci servirà, perché il nostro contadino è disposto a derubare se stesso, pur di ubriacarsi all’osteria.» «Così?» interruppe Pavel Petrovič «così vi siete persuasi di tutto ciò e avete deciso di non occuparvi seriamente di nulla nemmeno voi.» «E abbiamo deciso di non occuparci di nulla» ripeté cupo Bazarov. Provò a un tratto contro di sé il dispetto di essersi così dilungato dinanzi a quel signore. «E di ingiuriare soltanto?» «Anche d’ingiuriare.» «E questo si chiama nichilismo?»

«E questo si chiama nichilismo» ripeté di nuovo Bazarov, stavolta con particolare insolenza. Pavel Petrovič socchiuse leggermente gli occhi. «Ah è così?» proferì con voce stranamente calma. «Il nichilismo deve alleviare ogni sofferenza e voi siete i nostri liberatori ed eroi. Va bene. Ma perché ingiuriate gli altri, magari gli stessi smascheratori? Non chiacchierate, voi, come tutti?» «Di qualsiasi colpa, tranne che di questa, ci rimproveriamo» ribatté fra i denti Bazarov. «Perché? Agite forse? Vi preparate ad agire?» Bazarov non rispose nulla. Pavel Petrovič trasalì addirittura, ma riprese subito il dominio di sé. «Hm! Agire, demolire» continuò. «Ma come si fa a demolire, senza saper neanche perché?» «Noi demoliamo, perché siamo una forza» osservò Arkadij. Pavel Petrovič guardò il nipote e sorrise. «Sì, e la forza non rende conto a nessuno» disse Arkadij e s’impetrì. «Disgraziato!» strillò Pavel Petrovič; decisamente, non era più in grado di trattenersi oltre: «almeno tu ti rendessi conto di che cosa tu avalli in Russia con la sua stolta sentenza! No, questo può far perdere la pazienza a un angelo! La forza! Anche nel selvaggio calmucco, anche nel mongolo c’è la forza; ma che ne facciamo? A noi preme la civiltà, sissignore, sì, egregio signore; a noi premono i suoi frutti. E non ditemi che questi frutti sono meschini: l’ultimo imbrattatele, un barbouilleur, uno strimpellatore, a cui danno un soldo per sera, anche quelli sono più utili di voi, perché rappresentano la civiltà, e non la rozza forza mongola! Vi figurate di essere uomini di avanguardia, ma stareste bene solo in un carro calmucco! La forza! Ma ricordatevi una buona volta, forti signori, che siete quattro uomini e mezzo in tutto, mentre gli altri sono milioni e non vi permetteranno di calpestare le proprie sacrosante credenze e vi schiacceranno!» «Se ci schiacciano, buona notte» proferì Bazarov. «Solo che non è detta l’ultima parola. Non siamo così pochi come voi supponete.» «Come? Pensate sul serio di spuntarla contro un popolo intero?»

«Per una candela da una copeca, lo sapete, è bruciata Mosca» rispose Bazarov.

   Bazàrov cita il famoso incendio di Mosca durante l’invasione napoleonica, questo grande incendio è stato descritto in modo mirabile da Leone Tolstòj in Guerra e pace; ebbene, Bazàrov – insieme al suo autore, Ivàn Turgénev – ci ha portato in Russia. Erodoto “allude” e sorride perché sa che non siamo capitati casualmente in Russia. Infatti sappiamo – lo abbiamo annunciato la scorsa settimana – che questa sera, insieme ad Erodoto, dobbiamo andare a Olbia, ricordate? Non la Olbia sarda ma la Olbia russa. Oggi, per essere precisi, Olbia si trova in Ucraina. Tanto la Olbia sarda quanto la Olbia ucraina sono due località di grande interesse culturale e naturalmente hanno molte cose in comune. Intanto sono unite dal nome, che in greco vuol dire “felice”, “beata”. Che cosa c’entra il “greco” con la Olbia sarda e la Olbia ucraina?  La Olbia sarda e la Olbia ucraina sono soprattutto unite dal fatto di essere entrambe “colonie greche”. L’emigrazione greca arriva quasi dappertutto, e anche Erodoto, con il suo sorriso, arriva quasi dappertutto, e noi con lui. “Quasi dappertutto” perché – pensa Erodoto – nessuno è “arrivato” ma tutti, in un modo o nell’altro, siamo “a metà strada”. E quasi dovunque nel bacino del Mediterraneo – compresi i mari interni – i Greci hanno fondato empori commerciali perché trafficano, e, inoltre, da buoni Greci, più ancora che trafficare: discutono, litigano, riflettono, fanno poesia, qualcuno scrive, molti filosofeggiano (in greco “agoràzein”, che letteralmente significa: andare in piazza a sentire che cosa si racconta (e se il narratore è Erodoto, allora merita davvero fermarsi ad ascoltare).

   Prima di mettersi in viaggio i Greci vanno sempre a consultare l’oracolo, e l’oracolo – il quale, 2500 anni fa, è già pienamente inserito nel mercato globale (“allude” Erodoto) – è un gran furbacchione, spesso è un imbroglione, esperto (la parola “mercato” trascina sempre con sé anche le parole “esperto” e “professionalità”) in profezie indecifrabili. Attenzione però: Erodoto ci fa sapere che i Greci sono perfettamente coscienti di questa situazione, e allora – ci chiediamo – perché vanno sempre a consultare l’oracolo, soprattutto quando si devono mettere in viaggio? I Greci, ci spiega Erodoto sorridendo, vanno a consultare l’oracolo non per conoscere le profezie indecifrabili – a cui fanno finta di credere: per tradizione, per convenienza, per non urtare la suscettibilità della nonna…– ma vanno ad interpellare l’oracolo perché è il depositario di notizie utili, alcune indispensabili per viaggiare. I grandi santuari – Dodòna per esempio (ci siamo stati due settimane fa), Delfi per esempio (ci andremo, forse, prossimamente) – sono soprattutto, dal VII secolo a.C., degli efficienti centri di informazione: sulla geografia, sull’etnografia, sull’economia delle varie regioni verso le quali i viaggiatori, gli emigranti, s’indirizzano. Noi sappiamo che Erodoto, nella sua opera, gioca molto con le “profezie” degli oracoli. Diciamo che Erodoto “gioca” perché sono proprio gli oracoli che “giocano” con le parole: le parole sono “ambigue” per loro natura, e sono suscettibili di diverse interpretazioni. Ad Erodoto piace giocare con le parole, e ci gioca molto seriamente.

   Nel libro III al capitolo 64 de Le Storie si racconta, per esempio, della “profezia ambivalente” sulla morte di Cambise re dei Persiani.

LEGERE MULTUM….

Erodoto,  Le Storie  III  64

Se non che, mentre egli (Cambise) saltava a cavallo, gli si staccò il puntale del fodero della spada, e la lama nuda gli penetrò nella coscia. Ferito in quella parte del corpo nella quale egli stesso precedentemente aveva colpito Api, il dio degli Egiziani, e convinto che la ferita ricevuta era mortale, Cambise chiese quale fosse il nome della città. Gli dissero: Ecbatana.

Già prima egli aveva avuto dalla città di Buto il vaticinio che avrebbe finito la sua vita in Ecbatana: pensava che sarebbe morto di vecchiaia in Ecbatana di Media, dov’era il centro della sua potenza; mentre l’oracolo evidentemente intendeva dire Ecbatana di Siria.

Quando, dunque, in seguito a sua domanda venne a sapere il nome della città, vivamente impressionato sia per il colpo che gli veniva dal Mago, sia per la ferita, tornò in senno e, comprendendo il significato dell’oracolo, dichiarò: «Qui deve morire Cambise, figlio di Ciro, per volere del destino».

   Insomma i coloni greci, nel VII secolo a.C. circa, dopo aver consultato l’oracolo, partono anche in direzione delle coste del Mar e lì fondano Olbia.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Certamente la colonia greca di Olbia, fondata sulle coste del Mar Nero, merita una ricerca utilizzando l’atlante, l’enciclopedia e la rete di internet (chissà se qualche sito la contiene?): attenzione a non confondere la Olbia ucraina con la Olbia sarda…

Se da questa ricerca emergono dei dati interessanti è bene scriverli: bastano quattro righe per dare “forma culturale” ad un oggetto

Il primo dato significativo che a noi interessa raccogliere è di carattere logistico infatti l’identificazione della posizione geografica del “sito archeologico” dell’antica Olbia ci porta a diretto contatto con il grande territorio, a nord del Mar Nero, abitato, al tempo di Erodoto, dal “favoloso” popolo degli Sciti…

   I coloni greci – abbiamo detto – prima di mettersi in viaggio verso le coste del Mar Nero, consultano l’oracolo, e l’oracolo li avverte, li mette al corrente, fornisce loro notizie utili. Come si esprime l’oracolo? Del vaticinio dell’oracolo non possediamo una testimonianza documentale, ma presumiamo si esprima dicendo: «Andate, andate pure, ma fate molta attenzione, usate la dovuta cautela, comportatevi educatamente senza presunzione e senza prepotenza, comportatevi con discrezione come si conviene ai nuovi arrivati,  perché lì – continua a vaticinare l’oracolo –, su quel territorio, dove i “barbaroi, gli stranieri” siete voi, ci sono gli Sciti, i misteriosi Sciti, i meravigliosi (in greco “deinòs”) Sciti, e con gli Sciti non si scherza, con gli Sciti (i Greci tendevano a fare i furbetti) nessuno può permettersi di fare il furbo». I coloni greci partono fiduciosi e si comportano secondo i dettami dell’oracolo e su quel territorio, sulle coste del Mar Nero, fondano la loro città e la chiamano: “felice”, “beata”, “Olbia òlbia” proprio perché si comportano in modo tale da salvaguardare – per quanto è possibile – un bene prezioso, la pace. Ebbene, esattamente due secoli dopo anche Erodoto (e noi con lui) arriva da quelle parti. Erodoto, ne Le Storie, descrive gli Sciti e li rappresenta come portatori di usi e costumi “meravigliosi”, e su questa parola, strada facendo, dobbiamo riflettere. Erodoto li descrive senza giudicarli mai (o quasi), e noi pensiamo che, se Erodoto fosse stato un greco “normale” dalla testa “etnocentrica”: li avrebbe giudicati assai male!

   Se Erodoto fosse stato un “greco normale” li avrebbe giudicati molto severamente, anche perché gli Sciti sono l’esatto contrario dei Greci. Prima di tutto sono nomadi e si spostano su un vastissimo territorio “popolato da uomini con un occhio solo (sono parenti dei ciclopi?)”. Un territorio immenso sovrastato da un cielo nel quale volano uccelli straordinari: “i grifoni custodi dell’oro”. Per molto tempo gli Sciti di Erodoto – ai lettori de Le Storie – sono sembrati proprio leggendari, frutto delle sue fantasie, finché negli ultimi cinquant’anni gli scavi archeologici hanno dimostrato che Erodoto, a proposito degli Sciti, dice delle cose concrete, o meglio, se si vuole essere più precisi: dice delle “parole concrete”.

   Erodoto, anche sul tema degli Sciti, “allude”. Che cosa dice Erodoto? Dice: io non li capisco questi Sciti, faccio proprio fatica a comprenderli, ma non li giudico. Non capisco perché bevano il sangue del primo nemico ucciso ma presumo sia come una forma di ossequio; non capisco perché perdano tempo (Erodoto è una persona molto pratica, è un greco razionalista) a tagliare la testa dei nemici uccisi ma immagino sia un’ usanza che contiene una qualche forma di rispetto; non capisco perché seppelliscano i loro Re con tutto il loro seguito e i loro tesori ma sappiamo – dice Erodoto – che ogni popolo ha i suoi costumi cerimoniali. Erodoto stenta a capire la mentalità degli Sciti ma li guarda con rispettosa meraviglia soprattutto per quanto riguarda il loro modo di combattere, la loro tattica di guerra. Che cosa ci racconta Erodoto a proposito della tattica degli Sciti? Quando Dario, il gran Re persiano, decide di invadere la Scizia, prima di invadere la Grecia, scopre (i generali di Dario scoprono) che gli Sciti si muovono in continuazione: si ritirano di fronte a quell’imponente esercito di settecentomila uomini, si ritirano ma non rimangono inattivi. Gli Sciti temporeggiano, non si espongono in campo aperto, fanno penetrare il nemico nel loro territorio e lo colpiscono improvvisamente e poi spariscono nel nulla, disorientando materialmente e psicologicamente gli invasori.

   Ad un certo punto gli Sciti mandano un messaggio a Dario: questo messaggio può essere considerato il primo “oggetto-gramma (tetracrήmagramma-tetracrema-gramma)” della storia della comunicazione occidentale. Questo messaggio è composto di quattro oggetti (tra voi ci sono molti “artisti” che possono divertirsi a riprodurre questo messaggio con una “pittografia”, con un disegno…): un uccello, un topo, una rana e cinque frecce. Dario interpreta subito questo “tetracrήmagramma-tetracremagramma” a suo vantaggio pensando che gli Sciti si vogliano arrendere, ma si sbaglia: un certo Gobria, membro del suo seguito, gli fa rispettosamente ma decisamente capire che gli Sciti intendono dire ben altro: che cosa?

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Erodoto,  Le Storie  IV  131  132

alla fine Dario si trovò disorientato; e i re degli Sciti, venuti a conoscenza della cosa, mandarono un araldo a portargli in dono un uccello, un topo, una rana e cinque frecce.

I Persiani chiesero a chi li portava che significato avessero quei presenti; ma l’araldo disse che nient’altro gli era stato comandato, se non di consegnarli e tornare immediatamente: invitava i Persiani, se avevano un po’ d’intelligenza, a comprendere da loro stessi che cosa volevano significare quei doni.

Udite queste parole, i Persiani tennero consiglio fra di loro.

   Il parere di Dario era che gli Sciti gli facevano dono di se stessi, della terra e dell’acqua, e si fondava su questo ragionamento: il topo vive entro terra e si nutre dello stesso frutto dell’uomo; la rana vive nell’acqua; l’uccello somiglia moltissimo (forse per la sua rapidità) al cavallo e con le frecce intendevano rimettere a lui la loro forza. Questa era l’opinione espressa da Dario; ma ad essa si opponeva quella di Gobria, uno dei sette che avevano tolto di mezzo il Mago. Secondo la sua interpretazione i doni volevano dire: «Se voi, o Persiani, non volerete in cielo, divenuti uccelli o, fatti topi, non penetrerete sotto terra oppure, trasformati in rane non vi tufferete negli stagni, voi non ritornerete al vostro paese, trafitti qui da queste frecce».

Cosi i Persiani cercavano di interpretare i doni ricevuti.

   Dario deve tornarsene indietro: i misteriosi, gli invisibili Sciti sono stati capaci di dare una lezione, tanto di strategia quanto di comunicazione, al re dei Persiani, a colui che, per la sua potenza – ci ricorda Erodoto, “alludendo” – si considera il Re dei Re e, quindi, si sente in dovere – per incarico divino – di conquistare il mondo, per portare ai popoli del mondo, che vivono nella “barbarie”, la “civiltà”. Erodoto – lo sappiamo – coltiva l’idea che nessuno è “arrivato” e tutti, in un modo o nell’altro, siamo “a metà strada”: tutti i popoli – pensa Erodoto – possiedono un po’ di “civiltà” e un po’ di “barbarie”. La cosa più preoccupante – “allude” Erodoto – è quando un popolo vuole mascherare la propria “barbarie” sotto le apparenze della “civiltà”, allora, i danni per l’Umanità diventano inevitabili.

   Studiando la storia apprendiamo che la lezione degli Sciti sulla “tattica di difesa” (temporeggiare, ritirarsi, colpire e rendersi invisibili) ha dati i suoi frutti infatti, nel 1700, i Russi – che sono un po’ gli eredi degli Sciti – usano la stessa tattica per sconfiggere Carlo XII di Svezia che aveva invaso il loro territorio. Nel 1800, poi, gli stessi Russi – eredi degli Sciti – usano ancora la stessa tattica per infliggere una dura lezione a Napoleone Bonaparte.

   So di essere impertinente, ma siccome ci troviamo su un Percorso di didattica della lettura e della scrittura, vorrei – anzi è mio dovere di alfabetizzatore, (di “didaskalos” direbbe Erodoto…) – ricordare che questi avvenimenti, compreso l’utilizzo della tattica scita usata dal generale Kutuzov per sconfiggere la grande armata napoleonica, sono stati narrati e descritti con dovizia di particolari da Leone Tolstòj in Guerra e pace e, se ne consiglia, per chi non lo avesse ancora fatto, la lettura.

   Noi adesso possiamo leggerne solo un frammento, ma basta questo frammento per capire che il grande romanzo di Tolstòj (il quale era un ammiratore dell’autore de Le Storie) sarebbe certamente piaciuto ad Erodoto.

LEGERE MULTUM….

Leone Tolstòj, Guerra e pace (1864)

Il generale Kutuzov ascoltò con pazienza i discorsi dei focosi ufficiali che volevano eroicamente affrontare in campo aperto il nemico come anche lo zar auspicava nel suo ultimo dispaccio; ogni tanto Kutuzov doveva lottare per non cedere al sonno, poi, quando dovette riprendere la parola, dopo una lunga pausa disse: «Signori, io mi commuovo di fronte al vostro spirito intrepido che vi spinge a desiderare di scendere in campo aperto, a rischio della vita, contro l’invasore, ma io ho preso una decisione forse meno gloriosa ma legata ad un’antica tradizione: temporeggiare ritirarsi colpire e rendersi invisibili, e inoltre, a questo proposito, siccome sono un vecchio vorrei ricordare un antico proverbio della nostra madre patria che dice “in casa anche le pareti aiutano. Questo è il momento di stare ancora ben nascosti tra le mura di casa, lasciando che la bestia ferita vaghi senza meta per i campi spendendo le sue ultime forze. Buona notte, signori, il consiglio è sciolto».

Dopo aver augurato in modo così perentorio la buona notte, sapendo che tutti avrebbero dormito ben poco, il comandante in capo tacque e percepì i malumori dei presenti, si alzò con fatica, salutò ancora con un fremito che scosse leggermente il suo corpo troppo voluminoso, aggiunse che l’indomani avrebbe scritto una lettera di risposta allo zar e disse che avrebbe riconvocato il consiglio fra qualche giorno.

   Durante il secondo conflitto mondiale è toccato all’esercito nazista e anche al corpo di spedizione italiano in Russia subire la stessa tattica, anche se in Russia, in quel periodo, di Erodoto e degli Sciti era meglio non ricordarsi, e anche nei licei di Germania e d’Italia, in quel periodo, l’opera di Erodoto era stata censurata: quel greco esaltava troppo la “democrazia”, e i grandi dittatori s’infastidivano. 

   Con il contributo di Erodoto possiamo ipotizzare che le parole del vecchio proverbio russo – in casa anche le pareti aiutano – abbiano la loro radice culturale nella mentalità degli Sciti, quindi capiamo che, senza l’apporto intellettuale di Erodoto, saremmo più improduttivi sul terreno della formazione delle idee e dello sviluppo del Pensiero.

   Erodoto sorride e noi dobbiamo ricordarci che – in questo itinerario – stiamo inventariando – saltando da un libro all’altro – le idee significative che emergono da Le Storie in funzione della didattica della lettura e della scrittura. Erodoto è un scrittore che produce molte idee. L’idea che gli oracoli dicano il vero, non perché i loro ambigui responsi siano esatti, ma perché i loro santuari sono “una miniera di notizie” per i viaggiatori, ha fatto sì che Erodoto raccogliesse una quantità enorme di dati. Questa operazione di “raccolta dati” ha fatto di Erodoto il primo antropologo e il primo etnologo della storia della cultura. E, questa operazione di raccolta dati ha fatto di Erodoto anche un grande viaggiatore. Che idea si è fatto, e che idea ci trasmette, Erodoto del “viaggiare”? Per viaggiare, 25 secoli fa, bisogna essere coraggiosi, avventurosi e soprattutto pazienti. Erodoto ha viaggiato molto, per terra (a piedi, a dorso d’asino) e per mare… e noi capiamo – leggendo Le Storie – che la navigazione doveva essere molto fastidiosa in quel tempo. Erodoto non si lamenta mai direttamente della condizione del viaggiatore: ci fa capire che viaggiare, e soprattutto navigare, è necessario, è un imperativo commerciale vitale, ma è anche una spaventosa avventura.

   Siamo venuti ad Olbia ad incontrare – insieme ad Erodoto – i “meravigliosi” Sciti (probabilmente, quando ci occuperemo di “contenuti”, li incontreremo ancora) e, se osserviamo l’atlante, puntando l’occhio sull’area geografica del Mar Nero, ci rendiamo conto che, più o meno dalle stesse parti di Olbia c’è una città che tutti abbiamo sentito nominare: la città di Yalta. Dalle parti di Yalta – che si trova nella regione della Crimea – al tempo di Erodoto non ci sono però gli Sciti ma ci sono i Tauri. In funzione della didattica della lettura e della scrittura i Tauri ci ricordano una famosa tragedia di Euripide (480-406 a.C.) intitolata Ifigenia in Tauride (Ifigenia nel paese dei Tauri). Voi tutti ricordate il personaggio di Ifigenia, famoso anche – forse ancora di più – per un’altra tragedia di Euripide: Ifigenia in Aulide: di questo testo abbiamo letto e commentato alcuni brani molto significativi attraversando, nell’anno 2003, il territorio della tragedia. Tutti conosciamo i racconti che annoverano tra i protagonisti la figura di Ifigenia. Li conosce anche Erodoto questi racconti? Li conosce certamente: come fa a non conoscerli? Tra l’altro si tratta di “racconti ionici”, un apparato culturale che fa parte della sua “formazione culturale” di base. Per quale ragione, quindi, ci facciamo venire il dubbio che Erodoto non sia (o non voglia sembrare?) perfettamente informato sul contenuto dei racconti che narrano la storia di Ifigenia? È possibile pensare che, nella mente di Erodoto, si riscontri una lacuna di questo genere? Erodoto è contemporaneo, oltre che di Sofocle, anche di Euripide sebbene – sembra – non si siano né frequentati, né conosciuti personalmente. Forse Euripide ed Erodoto non sono in sintonia: come mai presumiamo che non siano in sintonia? Perché ci stiamo ponendo tutti questi interrogativi? Questi interrogativi – che emergono dal testo de Le Storie – presuppongono una risposta molto articolata che dobbiamo rimandare al prossimo itinerario. Questi interrogativi sono ancora legati a una delle idee che Erodoto coltiva in tutto il testo de Le Storie: nessuno è “arrivato” e tutti, in un modo o nell’altro siamo “a metà strada”, ebbene, questa idea, naturalmente vale anche per lui sul piano personale.

   Ora stavamo dicendo che dalle parti di Yalta – che si trova nella regione della Crimea – al tempo di Erodoto non ci sono gli Sciti ma ci sono i Tauri. I Tauri sono diversi dagli Sciti e sono molto sbrigativi: hanno l’abitudine di catturare i naufraghi, (navigare significa spesso naufragare) e di sacrificarli ad una loro crudele dvinità. Eppure anche qui, nel territorio dei Tauri, i Greci sono riusciti a mettere le radici. A Yalta, ancora oggi, troviamo una prova che, da queste parti, i Greci si sono installati: l’areoporto di Yalta porta il nome antico della città: si chiama Sinferopoli che naturalmente è un nome greco Sinferopoli Sun-fero-polis: la città (polis) dove si portano (fero), dove si raccolgono, dove si trafficano (sunfero) le merci. Fondare Sinferopoli non deve essere stato facile, soprattutto per le difficoltà che comportava il navigare, eppure fu fondata.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Sinferopoli e Yalta meritano una ricerca utilizzando l’atlante, l’enciclopedia, la rete…

   Che “navigare” non sia facile Erodoto ce lo fa sapere nel libro IV  al capitolo 43 de Le Storie con il racconto di Sataspe, figlio di Teaspi, il quale ha violentato una fanciulla e il Re Serse, per punirlo in modo esemplare, dà ordine che sia impalato, un supplizio poco piacevole. Interviene la madre Teaspi la quale ottiene per il figlio la commutazione della pena, Sataspe si vede commutare la pena in un viaggio: viene mandato a circumnavigare la Libia (l’Africa). Sataspe parte, ma a metà del viaggio torna indietro, preferisce l’impalamento al sacrificio di navigare.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Leggete questo capitolo per conto vostro…

   Erodoto vuole dirci che la navigazione – e l’azione del “viaggiare” in generale – è un affare molto fastidioso. “Viaggiare” – secondo Erodoto – è sinonimo di avventura e quindi di pericolo e di pazienza. Erodoto, molto realisticamente, considera l’atto del “viaggiare” come un “fastidio”… Come un “fastidio necessario” attraverso il quale l’essere umano può incrementare la propria conoscenza del mondo e può favorire la propria comprensione del mondo.  

   Le numerose idee che Erodoto ha disseminato nel testo de Le Storie nascono in questo contesto, si sviluppano a contatto con il “fastidio” che il viaggiare procura e con l’esercizio della “pazienza” necessaria per affrontare il viaggio.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Durante quale viaggio avete provato “fastidio” e avete dovuto aver “pazienza” ?

Scrivete quattro righe in proposito…

   Il concetto del “viaggio”, in Erodoto, va di pari passo con un’indagine molto importante: c’è chi sostiene che sia l’inchiesta più significativa a cui Erodoto si dedica – anche un po’ inconsapevolmente – nel testo de Le Storie. E noi, che stiamo percorrendo un itinerario in funzione della didattica della lettura e della scrittura, concordiamo pienamente. L’indagine – a cui ci stiamo riferendo – non si basa su precise informazioni e su chiare affermazioni ma si fonda su molti accenni, su tanti riferimenti, su numerosi richiami, su molteplici riecheggiamenti, su una serie di tracce ben visibili. In Erodoto, il concetto del “viaggio”, va di pari passo con l’indagine sullo sviluppo delle idee.

   A prima vista, questo tema, non sembra di grande importanza, ma bisogna ricordare che, della generazione successiva di pensatori, farà parte un certo Aristocle che tutti conosciamo con il suo soprannome, Platone (uno dalle “spalle larghe”), il quale, su questa faccenda dello “sviluppo delle idee” rifletterà e scriverà con molto impegno, tanto che, a tutt’oggi, continuiamo a dipendere dal suo pensiero. Ma che cosa dice Erodoto sullo “sviluppo delle idee” (e Platone rifletterà su queste “allusioni”). Secondo Erodoto le idee non trovano sviluppo in una situazione agevole, facile, semplice, comoda. Le idee – secondo Erodoto – maturano meglio quando l’essere umano sperimenta un “fastidio”, quando la persona viene pungolata dal tafano, dall’oistros, quando viene sollecitata, infastidita da Dioniso. Secondo Erodoto le seccature, i grattacapi, le preoccupazioni, i problemi, i disagi, i disturbi, le scomodità, gli incomodi, gli imbarazzi, gli impicci, gli impacci, i malumori, le nausee, che spesso ci accompagnano (e di cui ci lamentiamo) nel nostro “viaggio quotidiano”, favoriscono lo sviluppo delle idee.  a proposito di “nausee” – Erodoto deve aver spesso sofferto di nausea (soprattutto per mare) nei suoi viaggi – sul piano della didattica della lettura e della scrittura e in relazione al ragionamento sul tema dello “sviluppo delle idee” che lo scrittore de Le Storie ci propone, viene subito in mente un romanzo, che, senza dubbio, costituisce la principale opera narrativa di Jean-Paul Sartre: questo romanzo s’intitola appunto La nausea, e tutti lo abbiamo sentito nominare, e certamente qualcuno di noi lo ha anche letto ed è probabile che, prossimamente, se ne legga una pagina insieme. Sembra un po’ paradossale ma Sartre – sulla scia di Erodoto – pensa che la nausea,  non tanto l’atto del vomitare, del dar di stomaco, ma quella condizione di “fastidio”, di “disagio”, di “disgusto” di cui tutti facciamo esperienza nel corso del quotidiano viaggio esistenziale, ebbene, sia utile per “farsi un’idea del mondo”.

   Siamo tutti d’accordo, insieme a Erodoto, nel dire che: viaggiare è una cosa meravigliosa, ma questa “meraviglia” – ci ricorda Erodoto – scaturisce paradossalmente da una condizione di “fastidio”, di “disagio”, di “nausea”. L’azione del viaggiare e l’azione dello sviluppo delle idee sono entrambe in relazione con il “disagio” e con la “meraviglia”. Nel greco ionico di Erodoto la parola “meraviglia”, nel suo significato, definisce tanto una “cosa stupenda” quanto una “cosa orribile”: si definisce “meraviglioso” lo splendore quanto l’orrore. Viaggiare è una cosa meravigliosa perché permette all’essere umano di “farsi un’idea del mondo” e la possibilità di “farsi un’idea del mondo” è una cosa meravigliosa perché lo splendore e l’orrore si sovrappongono, si mescolano, s’intrecciano in continuazione nella realtà.

   Perché dobbiamo correre a Scuola la prossima settimana? Perché – come succede in tutti i viaggi, alcune cose si vedono e altre, seppure sulla stessa strada, ci sfuggono – così noi abbiamo lasciato “a metà” molte riflessioni su cui dobbiamo puntare ancora la nostra attenzione. E via via ci rendiamo conto di quale miniera di riflessioni – di parole-chiave, di idee significative – sia l’opera di Erodoto. Le Storie di Erodoto hanno ancora molte idee da proporci su cui dobbiamo riflettere in funzione della didattica della lettura e della scrittura. Tra l’altro poi abbiamo intuito che sulla figura di Ifigenia, forse Erodoto non ce la racconta giusta. Erodoto si sbaglia oppure dice una bugia (sulla bella Ifigenia)? Ogni tanto lo fa… Erodoto sorride, anzi se la ride sotto i baffi perché ci vuole mettere alla prova. Infatti insieme ad Erodoto, la prossima settimana, ci aspetta un viaggio nella Tauride: è un viaggio fastidioso, disagevole, fa venire la nausea, ma Erodoto “allude” ricordandoci che il “viaggio intellettuale” offre la “meravigliosa” (attenti alla parola…) possibilità di “farsi delle idee”, di “investire in intelligenza”, e allora ben venga anche la “nausea” .

   Dalle mie parti per evitare la nausea (da mal di mare) basta masticare un’acciuga (un’acciughetta sotto sale): mettetevene una in tasca e … accorrete, la Scuola è qui…

 

 

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Novembre 18, 2005