Prof. Giuseppe Nibbi La sapienza poetica e filosofica dell’età umanistica 24-25-26 febbraio 2016
SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ UMANISTICA
SI SVILUPPA L’IDEA CHE “CONOSCERE È DISTINGUERE” ...
Questo è il diciassettesimo itinerario del nostro viaggio di studio sul “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età umanistica”.
L’attività della Scuola sperimentale di Oxford ha contribuito, come sappiamo, con Roberto Grossatesta e con Ruggero Bacone ad un epocale cambiamento di mentalità al quale ha partecipato - pur non appartenendo propriamente alla Scuola oxfordiana - quel singolare personaggio che è Raimondo Lullo il quale ci ha accompagnate ed accompagnati [come ben sapete] in queste ultime settimane. In che cosa consiste il cambiamento di mentalità che è andato verificandosi all’interno del movimento della Scolastica nel corso di quella stagione che chiamiamo l’autunno del Medioevo?
Il cambiamento di mentalità consiste nel fatto che la Scienza e le discipline scientifiche - quelle discipline che intendono studiare i fenomeni per avvicinarsi alla conoscenza del funzionamento della Natura e dell’Universo [la Fisica, l’Ottica, la Geologia, l’Astronomia, la Biologia] - hanno guadagnato terreno nei confronti delle discipline legate alla Religione per cui le materie scientifiche, in generale, sono diventate dispositivi indispensabili per entrare nell’area del sapere e non sono state più considerate in alternativa alla Fede ma sistemi da mettere al servizio della Fede stessa. Passa, quindi, l’idea - anche nella mente di chi controlla la linearità dell’ortodossia - che le discipline scientifiche si possono utilizzare, però ad una condizione imprescindibile: purché non mettano in discussione l’esistenza di Dio e non facciano nascere dubbi sul fatto che Dio abbia creato l’Universo così come racconta la Sacra Scrittura, perché Dio continua ad essere considerato il grande protagonista di tutte le stagioni del Medioevo.
Il fatto è che non c’è neanche uno degli illustri pensatori scolastici, di quelli che abbiamo incontrato nei viaggi di questi ultimi tre anni [dal IX al XIII secolo per ora], che non abbia dubbi tanto sulle dimostrazioni sia a priori che a posteriori dell’esistenza di Dio quanto sulla validità e sulla oggettività dei risultati della Scienza e, inoltre, tutti gli intellettuali che praticano la disciplina filologica dubitano sulla fondatezza reale dei racconti che descrivono la creazione del Mondo perché risultano essere chiaramente scritti in chiave allegorica e, di conseguenza, sono soggetti ad una interpretazione.
Su questi argomenti sensibili - il rapporto tra il dubbio e la verità, tra l’astuzia della ragione e l’abbandono mistico, tra la scienza e la fede, tra l’intelletto speculativo e l’intelletto pratico - aveva già riflettuto, nelle sue Opere, Tommaso d’Aquino utilizzando i principali elementi del pensiero di Aristotele [il fatto è che in questo momento le Opere di Tommaso sono all’Indice e lui è morto nel 1274 in odore di eresia e ci vorranno cinquant’anni perché questo odoraccio di eresia si trasformi in un soave profumo di santità]. Ma ora, all’inizio del 1300, su questi temi inizia una riflessione, in modo ancor più determinato, il personaggio con il quale abbiamo appuntamento questa sera: il francescano Giovanni Duns Scoto. Sappiamo che gli intellettuali della Scolastica tradizionale e quelli delle prima generazione della Scolastica empirico-sperimentale sono stati tutti piuttosto spregiudicati e, di conseguenza, le condanne dei tribunali dell’Inquisizione si sono sistematicamente abbattute su di loro; ebbene, Giovanni Duns Scoto capisce quanto sia doveroso agire con prudenza [fa sua la massima evangelica che dice: «Siate dolci come colombe e scaltri come serpenti»]: ha capito che non è opportuno inimicarsi le autorità ecclesiastiche e non vuole certo fare la fine di Ruggero Bacone che [prima di fantasmizzarsi … concediamoci questo neologismo] è stato costretto a farsi quattordici anni di reclusione. Quindi, siccome - proprio come insegna Ruggero Bacone - bisogna fare tesoro dell’esperienza, è meglio essere cauti e, utilizzando l’esperienza filologica, controllare il proprio linguaggio miscelando bene, a regola d’arte [seguendo anche la Lezione di Raimondo Lullo], il concetto di Grazia [di Bonaventura da Bagnoregio già in odore di santità] con quello di Intelletto agente [di Tommaso d’Aquino ancora in odore di eresia], il concetto della Luce naturale [di Roberto Grossatesta ancora in odore di eresia] con quello della Luce che viene dall’Alto [di Agostino di Ippona, già santo] in modo da salvaguardare l’idea dell’esistenza di Dio insieme alla propria esistenza fisica. Quindi - dopo aver fatto questo ragionamento - noi non abbiamo difficoltà ad ascoltare e a capire il senso di questa affermazione di Giovanni Duns Scoto: «Una verità può essere capita dal cervello, ma solo fino a un certo punto, oltre il quale è indispensabile l’illuminazione divina»: Giovanni elogia la Scienza e nello stesso tempo ammette i suoi limiti nei confronti dell’Onniscienza di Dio, quindi fa le sue mosse con molta oculatezza come se fosse [potremmo dire] un avveduto giocatore di scacchi.
A questo proposito, voi sapete che stiamo proprio leggendo un breve romanzo che s’intitola Novella degli scacchi composto da Stefan Zweig, durante il suo esilio brasiliano a pochi mesi dalla morte [il 22 febbraio del 1942, settantaquattro anni fa], e questo racconto, per lo stile con cui è scritto, è considerato esemplare nell’ambito della Storia della Letteratura del ‘900.
Prima di andare avanti a leggere questo romanzo [siamo arrivate ed arrivati ad un punto cruciale del racconto] dobbiamo chiederci, visto che si è presentato all’appuntamento: chi è Giovanni Duns Scoto? Ma l’incontro con lui presuppone anche di fare conoscenza con un altro personaggio [che, tre mesi fa, abbiamo avuto occasione di citare in un contesto dantesco insieme ad altre dieci significative figure] perché a questo personaggio, che è vissuto più di un secolo prima [durante la primavera del Medioevo], Giovanni Duns Scoto deve la notorietà e soprattutto l’acquisizione di un ordinato metodo di lavoro: ma procediamo con ordine [parola che, intesa in senso intellettuale, piace molto a Duns Scoto].
Giovanni Duns Scoto nasce tra il 1265 e il 1266 nel villaggio di Maxton nei pressi della cittadina di Duns in Scozia e questi riferimenti geografici [Duns e Scoto] li porta nel suo nome, nel nome di famiglia.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Con la guida della Gran Bretagna e navigando in rete fate una visita a Duns [nella contea di Roxburg], anche solo per constatare la sua posizione geografica, buon viaggio…
La formazione culturale di Giovanni Duns Scoto si svolge all’interno dell’ordine francescano del quale entra a far parte fin da ragazzo nel 1281, anche perché suo zio paterno, Elia Duns, è vicario generale dei francescani nella contea di Roxburg e lo ha educato fin da bambino alla vita religiosa e allo studio. Giovanni, difatti, si distingue per essere un ottimo studente e viene inviato a terminare i suoi studi ad Oxford dove diventa, in questa Università, una figura di primo piano: gli viene affidato, mentre è ancora baccelliere [appena laureato], un incarico didattico che lo rende famoso per le Lezioni che tiene sul commento al Liber Sententiarum [il “Libro delle Sentenze”] di Pietro Lombardo. Ed ecco l’altro personaggio con il quale [prima, senza nominarlo] abbiamo preannunciato l’incontro e, quindi, dobbiamo aprire una parentesi in proposito perché Pietro Lombardo lo dobbiamo conoscere, e non solo per il fatto che è entrato in relazione [letteraria] con Giovanni Duns Scoto ma per il valore della sua opera.
Pietro Lombardo [nato a Lumellogno di Novara intorno al 1100 e morto a Parigi nel 1160 circa] è stato un importante teologo scolastico della primavera-estate del Medioevo, ed è uno dei discepoli più fedeli di Abelardo che nel 1140 diventa magister presso la Scuola della cattedrale di Parigi [di Notre-Dame] e poi vescovo della città: un vescovo tra i più illuminati che incentiva lo sviluppo della cultura per cui, durante la sua reggenza, ogni chiesa parigina apre una Scuola e diventa un centro dove si studia.
L’opera più importante e assai voluminosa di Pietro Lombardo è il Liber Sententiarum [il “Libro delle Sentenze”], un’opera scritta fra il 1150 ed il 1152, in cui fa l’inventario delle Opere degli autori cristiani che hanno scritto dal II al V secolo e ai quali diamo il nome di Padri della Chiesa, e Pietro Lombardo è il primo ad utilizzare il termine di “Filosofia patristica” e a mettere in ordine il repertorio di questa eterogenea corrente intellettuale: quindi è Pietro Lombardo che [nel corso della Scolastica] conia il termine di “Letteratura patristica” e ne costruisce il catalogo degli autori [Clemente Romano, Ignazio di Antiochia, Policarpo di Smirne, Tertulliano, Clemente Alessandrino, Origene, Atanasio, Basilio, Gregorio di Nazianzo, Gregorio di Nissa, Cirillo, lo Psuedo-Dionigi alias Proclo di Costantinopoli, Giovanni Damasceno, Ilario, Ambrogio, Gerolamo] tra i quali ha un posto privilegiato Agostino di Ippona [Sant’Agostino].
Pietro Lombardo nel Liber Sententiarum [il “Libro delle Sentenze”], in primo luogo e per primo, differenzia, a seconda delle loro caratteristiche, le Opere della Filosofia patristica e scrive che «Un’opera di Filosofia patristica può essere: “incidentale” [quando l’autore interviene solo per difendere la Fede], “frammentaria” [quando non contiene un vero e proprio sistema filosofico], “limitata” [quando l’autore si preoccupa di giustificare le verità di Fede con la Ragione che ha i suoi limiti], “imitatrice” [quando l’autore utilizza il pensiero della Filosofia greca, in particolare di Platone e di Aristotele]». Ma soprattutto nel Liber Sententiarum [nel “Libro delle Sentenze”] Pietro Lombardo raccoglie e cataloga tutte le affermazioni [le sentenze] formulate dai Padri della Chiesa [i Padri Apostolici, i Padri Apologisti] nelle loro Opere sui temi della dottrina: queste affermazioni sono spesso in contrasto tra loro e questo fatto aveva creato un certo scompiglio ermeneutico [interpretativo] e, quindi, Pietro Lombardo agisce con grande acume intellettuale per armonizzare le divergenze contenute nelle sentenze dei Padri della Chiesa in modo da creare una uniformità di pensiero basandosi sul principio - già utilizzato nel V secolo da Agostino - che “una parola” è contemporaneamente una cosa [res] e un argomento da interpretare [signum], e quindi, secondo Pietro Lombardo, il motivo delle divergenze di pensiero dei Padri della Chiesa sui temi della dottrina non appartiene alla natura delle cose trattate [quella non cambia] ma alla metodologia interpretativa che, a seconda delle situazioni, può variare.
L’opera di Pietro Lombardo, per l’ampiezza delle fonti e per la sua originalità, diventa il testo di riferimento per la didattica nelle facoltà di Teologia di tutte le maggiori Scuole e lo sarà fino alla fine del XVI secolo. Il Liber Sententiarum [il “Libro delle Sentenze”] di Pietro Lombardo dà ordine alla dottrina su quattro temi importanti: il tema di Dio, della sua natura e dei suoi attributi; il tema della creazione degli angeli, del mondo, dell’essere umano e del peccato originale; il tema dell’incarnazione di Gesù Cristo e della promessa della Grazia e, infine, il tema dei sacramenti e della loro efficacia.
Quindi Giovanni Duns Scoto [e ora torniamo a parlare di lui] per iniziare la sua opera di insegnante ad Oxford sceglie un tema particolarmente sensibile sul piano filologico e la fama delle sue Lezioni sul commento al Liber Sententiarum [il “Libro delle Sentenze”] di Pietro Lombardo si diffonde rapidamente per cui si richiede da parte dei francescani spirituali la sua presenza a Parigi dove viene soprannominato il “doctor subtilis” [il dottor sottile] per sottolineare le sue doti analitiche e per evidenziare il modo in cui si articola il suo pensiero teso verso due azioni fondamentali: la “distinzione” e la “enumerazione”.
Ma nel 1303 il soggiorno parigino di Giovanni Duns Scoto viene bruscamente interrotto perché prende posizione a favore del papa Bonifacio VIII nel conflitto contro il sovrano Filippo il Bello [abbiamo studiato a suo tempo i termini di questo scontro epocale in cui il papa ribadisce la sua superiorità in campo spirituale nei confronti dei sovrani perché il re di Francia vuole sottomettere il pontefice ai suoi voleri e, difatti, riesce anche ad umiliarlo] e, quindi, Giovanni, che non approva il comportamento del re francese, è costretto a lasciare la città; ma l’esilio è breve perché l’anno successivo, grazie all’intercessione del Generale dell’ordine francescano, viene nominato magister presso l’Università parigina dove insegna Teologia per un periodo di due anni ma poi il re di Francia, che non gradisce la sua presenza a Parigi, con un decreto lo espelle e lui torna ad Oxford dal 1305 al 1306 e dopo si trasferisce a Colonia dove l’ordine francescano lo invita perché lui insegni all’Università. Ma nel 1308, prematuramente a quarantadue anni, Giovanni Duns Scoto muore lasciando una vasta produzione di Opere molte delle quali erano rimaste incompiute per cui verranno, in seguito, portate a termine dai suoi allievi ed è per questo motivo che molti dei suoi Scritti vengono considerati apocrifi.
Le sue opere autentiche più importanti sono tre: la prima porta il titolo di Ordinatio [l’ordinare, il mettere in ordine] ed è il compendio delle Lezioni che Giovanni Duns Scoto ha tenuto a Oxford commentando il Libro delle sentenze di Pietro Lombardo, la seconda opera s’intitola Questiones subtilissimae super libros Metaphysicorum Aristotelis [Questioni sottilissime sui libri della Metafisica di Aristotele] ed è il compendio delle Lezioni che ha tenuto a Parigi su questo argomento, e la terza opera s’intitola Tractatus de primo principio [Trattato sul principio primo] composta a Colonia nella quale Giovanni Duns Scoto mette in ordine il tema delle dimostrazioni dell’esistenza di Dio [“Le sette possibili strade che sviluppano una dimostrazione dell’esistenza di Dio possibile e accettabile per la ragione umana”: questo è il sottotitolo dell’opera].
Salta all’occhio il fatto che Giovanni Duns Scoto s’impegna [investe in intelligenza] per fare chiarezza sulle “distinzioni” [sulle molte ipotesi] che la Scolastica [le varie Scuole, in cinque secoli di fermento intellettuale] hanno prodotto sui vari argomenti riguardanti la “dottrina” e sente la necessità impellente di operare per “mettere in ordine” i molteplici temi emersi, in modo da salvaguardare l’ortodossia ma anche tutte le questioni non ortodosse che sono emerse in un serrato dibattito durato cinque secoli.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
L’azione di “ordinare, di fare ordine” è sicuramente importante: quale di questi termini - disporre secondo un criterio, mettere a posto, sistemare, strutturare, regolare, organizzare, dare un assetto - mettereste per primo accanto alla parola “ordinare”?…
Quando, dove, come, che cosa e perché avete “messo in ordine” ultimamente?…
Scrivete quattro righe in proposito: un esercizio che presuppone già di per sé una messa in ordine…
A questo punto, per fare ordine, interviene Dante Alighieri e vuole un po’ di spazio per sé [e come si fa a rifiutare la compagnia di Dante?] perché lui questo compito lo ha già svolto a suo tempo, soprattutto nel momento in cui ha composto la cantica del Paradiso quando ha dovuto, in primo luogo, “sistemare in un certo ordine”, nei vari Cieli, i personaggi della Scolastica. «Avete citato Pietro Lombardo, afferma Dante, e allora non dimenticate che sta in Paradiso, nel paradiso della mia sapienza poetica e filosofica!». Ora io non vorrei dire che Dante ha la memoria corta, ma, siccome è piuttosto anzianotto [sta per compiere 751 anni (ed è quell’1 in più che lo frega)] succede che alla sua età non si ricordino [voglio usare il congiuntivo] le cose avvenute da poco.
Dante Alighieri colloca Pietro Lombardo nel Paradiso della Divina Commedia, nel Cielo quarto o del Sole dove stanno i Dottori in Teologia e in Filosofia, e circa tre mesi fa - dovreste ricordare insieme a Dante - abbiamo puntato l’attenzione sul Canto X del Paradiso per sottolineare la presenza in questo Cielo de “l’anima etternamente luminosa” di un personaggio che [sicuramente] sarà rimasto nella vostra memoria: Sigieri di Brabante. Dante, in questo Canto, fa presentare a Tommaso d’Aquino gli “Spiriti sapienti” che formano la prima corona del Cielo del Sole: ci sono le anime del fior fiore della sapienza antica, tardo-antica, alto-medioevale e Scolastica [Tommaso d’Aquino, Alberto Magno, Francesco Graziano, Salomone, Dionigi Areopagita, Lattanzio o Paolo Orosio, Severino Boezio, Isidoro di Siviglia, il venerabile Beda, Riccardo di San Vittore, Sigieri di Brabante] e tra queste anime Dante cita anche Pietro Lombardo [al quarto posto della corona] ricordando proprio l’importante opera che questo magister ha scritto, il Liber Sententiarum [il “Libro delle Sentenze”], un’opera che Dante conosce bene e che Giovanni Duns Scoto sta commentando proprio nel momento in cui Dante sta componendo la sua Commedia. E il sommo poeta, con la sua consueta sapienza poetica, in tre versi [il 106, il 107 e il 108 del Canto X del Paradiso], presenta [lo fa presentare da Tommaso d’Aquino] il personaggio di Pietro Lombardo [“quel Pietro”], e poi cita la sua preziosa Opera [il “suo tesoro”] e, in una parola, ne condensa anche il Prologo [“che con la poverella”].
Tre mesi fa siete state sollecitate e sollecitati a fare un esercizio che ora la Scuola vi invita a ripetere perché la Divina Commedia dantesca è stata scritta per essere letta e riletta in conseguenza al ruolo che riveste di grande enciclopedia del sapere scolastico [La Divina Commedia è in primo luogo una “Summa” della cultura prodotta dal movimento della Scolastica].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Utilizzando il volume della Divina Commedia che avete nella vostra biblioteca domestica leggete o rileggete i versi dal 91 al 148 del Canto X del Paradiso dove Tommaso d’Aquino indica a Dante gli Spiriti sapienti della prima corona [della prima ghirlanda] del Cielo del Sole [un Cielo che contiene tre corone]… Dice Tommaso a Dante [versi 91 e 92a]: «Tu vuo’ saper di quai piante s’infiora questa ghirlanda …», ebbene, fate come se Dante l’avesse scritta anche per voi questa esortazione [a non perdere mai la volontà d’imparare] e leggete o rileggete i 58 versi indicati usufruendo delle note e dei commenti che corredano il vostro testo della Commedia dantesca… La lettura di Dante necessita solo di un intermediario: la pazienza …
E ora con la necessaria pazienza noi leggiamo e commentiamo i tre versi [sono tre versi ma contengono un uni-verso] nei quali Dante condensa la figura di Pietro Lombardo, la sua Opera e il Prologo di quest’opera, del Liber Sententiarum [il “Libro delle Sentenze”], così mettiamo al corrente di questa operazione poetica anche Giovanni Duns Scoto che, a suo tempo, non ha fatto a tempo a leggere la Divina Commedia e adesso, “in spiritu alphabetizzationis” [direbbe Duns Scoto], deve e può recuperare. Quindi leggiamo e commentiamo che cosa scrive Dante nei versi 106, 107 e 108 del Canto X del Paradiso.
LEGERE MULTUM….
Dante Alighieri, Paradiso Canto X 106-108
L’altro ch’appresso addorna il nostro coro, quel Pietro fu
Tommaso d’Aquino fa conoscere a Dante, una per una, le undici anime dei Sapienti che “infiorano” la prima ghirlanda [la corona, il coro] del Cielo del Sole e al quarto posto presenta Pietro Lombardo …
che con la poverella offerse a Santa Chiesa suo tesoro. …
Queste parole alludono al Prologo del “Libro delle Sentenze” nel quale Pietro Lombardo scrive: «Questa mia opera vuole essere un modesto contributo alla chiarezza della dottrina della Santa Chiesa e si pone nel ricordo dell’episodio evangelico - Marco 12,42 e Luca 21,2 - della vedova poverella che offre al tesoro del tempio la monetina che costituisce tutto il suo avere». Le parole di Pietro Lombardo vogliono essere una professione di modestia, ma anche una dichiarazione che merita la lode, perché Gesù nel Vangelo loda la poverella più di coloro che sono ricchi e, quindi, senza fatica fanno grosse offerte.
E Giovanni Duns Scoto per iniziare la sua attività di insegnante ad Oxford fa “tesoro” del Liber Sententiarum [il “Libro delle Sentenze”] di Pietro Lombardo, in particolare del suo metodo filologico che prevede le due azioni fondamentali della “distinzione” e della “enumerazione”, per cui Giovanni impara a fare le sue mosse con molta oculatezza [usando memoria, intelletto e volontà] come se fosse, abbiamo detto prima, un avveduto giocatore di scacchi, e questa affermazione ci fa ripensare al racconto composto da Stefan Zweig, del quale nelle due ultime settimane abbiamo già letto un certo numero di pagine, intitolato Novella degli scacchi. Però, ancora una volta, prima di andare avanti a leggere questo romanzo [siamo ormai arrivate ed arrivati nel cuore del racconto] dobbiamo osservare in che modo Giovanni Duns Scoto dispone sulla scacchiera [le pedine] gli elementi costitutivi che sostengono i due principali temi contrastanti che hanno, fin da principio, caratterizzato il vivacissimo dibattito all’interno del movimento della Scolastica e, inoltre, dobbiamo riflettere su come Giovanni Duns Scoto opera, facendo le sue mosse, per tessere una trama che porta ad “una nuova sintesi di pensiero” che apre una terza fase della Scolastica dopo quella tradizionale e dopo quella empirico-sperimentale.
Giovanni Duns Scoto vuole dare un assetto il più solido possibile al pensiero eterogeneo della Scolastica, vuole “mettere in ordine” le molteplici ipotesi fatte dalla Filosofia cristiano-latina negli ultimi cinque secoli, ipotesi che, spesso, risultano contrastanti l’una con l’altra per cui “la dottrina traballa”, e difatti, sostiene Giovanni Duns Scoto, bisogna tener conto del fatto che, in pratica, tutti i grandi pensatori della Scolastica hanno scritto Opere straordinarie, contenenti idee di grande valore, ma non ce n’è uno che non sia caduto nella rete dell’Inquisizione [trionfa l’eterodossia, la pluralità di pensiero], e quindi, il progetto di Giovanni è ambizioso perché, in primo luogo, vuole [vorrebbe, è meglio usare il condizionale] armonizzare due grandi apparati [quelli più utilizzati da tutte le correnti del movimento scolastico: la cristiano-latina, l’arabo-islamica, l’ebraico talmudica, la naturalistico-sperimentale]: Giovanni vuole [vorrebbe] mettere d’accordo il pensiero dialettico di Aristotele con quello neoplatonico di Agostino, senza perdere nessuno, sebbene siano in contrasto, dei principi contenuti in questi due importanti dispositivi del sapere.
Di conseguenza, nel commento al Libro delle Sentenze di Pietro Lombardo, Giovanni Duns Scoto prende in considerazione [mette da un lato della scacchiera] i punti fondamentali [le pedine] del pensiero aristotelico di Tommaso d’Aquino, un pensiero che [nell’opera Ente ed essenza di Tommaso] distingue nettamente il campo della Ragione da quello della Rivelazione divina e la persona viene invitata ad avvicinarsi alle verità di Fede con l’ausilio del patrimonio intellettuale ereditato dalla Ragione umana [bisogna capire in che cosa si crede per avere Fede, più si sa e più si crede]; poi Giovanni Duns Scoto prende in considerazione [mette dall’altro lato della scacchiera] i punti fondamentali [le pedine] del pensiero neoplatonico di Agostino, un pensiero secondo il quale la Rivelazione divina e la Ragione si identificano e la persona viene indirizzata - secondo l’itinerario di Bonaventura da Bagnoregio, nell’opera Itinerario dell’anima a Dio - ad avvicinarsi alle verità di Fede in virtù del patrimonio mistico elargito dalla Grazia divina [bisogna avere Fede per capire, più si crede e più si sa].
Giovanni Duns Scoto vuole [vorrebbe] mettere in accordo la riflessione fatta da [dal domenicano] Tommaso d’Aquino sulle potenzialità che ha la Ragione umana nell’indagare sul tema della Fede [come in Ente ed essenza] con la riflessione fatta da [dal francescano] Bonaventura da Bagnoregio sui benefici ricevuti dalla contemplazione mistica [come in Itinerario dell’anima a Dio].
Dobbiamo dire [e non a caso abbiamo usato il condizionale] che il tentativo per far conciliare [la partita a scacchi finisce alla pari…] le due grandi anime della Scolastica [Bisogna capire per avere Fede? Oppure bisogna avere Fede per capire?] non è riuscito, ma la riflessione che ha intrapreso Giovanni Duns Scoto non ha portato ad un fallimento perché lavorando con l’obiettivo di armonizzare il pensiero dialettico di Aristotele con quello neoplatonico di Agostino sebbene non sia riuscito a far conciliare le istanze razionalistiche di Tommaso con quelle mistiche di Bonaventura tuttavia ha costruito la base di una sua dottrina filosofica dimostrando che lo studio analitico della Storia del Pensiero Umano - nel suo caso il “mettere in ordine” le idee fondamentali elaborate dalla Scolastica - serve per costruire, allargare, rendere creativo, dare fecondità al “pensiero individuale”, serve a “dinamicizzare” [a far passare dalla potenza all’atto] il pensiero di ciascuna persona, e questo concetto ci fa capire che siamo ormai entrate ed entrati nel territorio dell’Umanesimo propriamente detto [a dar valore alla singolarità del pensiero umano], e ci troviamo di fronte ad uno scenario che è stato denominato il “paesaggio intellettuale della nuova sintesi” nel quale spicca la figura di Giovanni Duns Scoto. La “nuova sintesi” si presenta non tanto originale per i contenuti [che sono quelli tradizionali del tema del rapporto tra Fede e Ragione e rimangono distinti nella loro diversità] ma è originale per il metodo, per i modi che viene ad acquisire il lavoro intellettuale.
Abbiamo capito che il lavoro intellettuale di Giovanni Duns Scoto è di carattere “analitico”, è teso alla “distinzione”, alla “enumerazione”, alla “catalogazione”, e da questa esperienza analitica [descritta nelle Lezioni di commento al Libro delle Sentenze di Pietro Lombardo dove l’autore cerca di armonizzare la Letteratura patristica con la Filosofia scolastica] Giovanni Duns Scoto trae una sintesi che si traduce nell’affermazione “conoscere è distinguere” e, sul piano della conoscenza, non si tratta di avere più Ragione rispetto alla Fede o di avere più Fede rispetto alla Ragione perché, afferma Giovanni Duns Scoto, Fede e Ragione sono entrambe “un dono di Dio” e la persona deve, piuttosto, domandarsi se ha la volontà di meritare questo dono.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
In quale occasione avete ricevuto un dono che non vi aspettavate di ricevere?…
Scrivete quattro righe in proposito: un dono inaspettato fa sempre riflettere e induce all’interpretazione…
Giovanni Duns Scoto, dopo aver condotto una riflessione [un’analisi] a vasto raggio sull’operato della Scolastica [dal IX al XIII secolo] sperimentando il metodo di lavoro che si traduce nella sintetica affermazione “conoscere è distinguere”, decide di disporre sulla scacchiera gli elementi costitutivi [le pedine] delle due discipline scolastiche più rappresentative: la Teologia e la Filosofia per capire che cosa le accomuna ma, soprattutto, che cosa le distingue l’una dall’altra. Ma, prima di occuparci di questo tema, dobbiamo andare avanti nella lettura [abbiamo già rimandato due volte] del romanzo intitolato Novella degli scacchi composto nel 1941 da Stefan Zweig [siamo ormai arrivate ed arrivati nel cuore del racconto].
Siamo [come sapete, ma la memoria ha bisogno di essere rinfrescata] su un piroscafo che sta navigando da New York verso Buenos Aires e il viaggiatore più importante presente a bordo è il campione del mondo di scacchi, Mirko C., del quale conosciamo la storia perché abbiamo già letto le pagine nelle quali ci viene raccontata. Sappiamo che Mirko C. è un uomo piuttosto rozzo, arrogante, venale, il quale non comunica né con il suo prossimo né con il mondo dell’informazione [se non per lo stretto necessario] per non rivelare [perché ciò non gioverebbe alla sua immagine] le sue lacune culturali nonostante lui sia un grande campione in un gioco in cui bisogna possedere una serie di doti razionali [memoria, intelletto, volontà].
Per questo motivo il narratore [che ci accompagna nella lettura ed è appassionato di psicologia] vorrebbe poterlo avvicinare per studiarlo da vicino, per analizzare il suo carattere geniale e, quindi, pensa a come poter fare per entrare in contatto con lui: ritiene di poterlo attirare con uno stratagemma, cioè cominciando a giocare a scacchi nella sala fumatori della nave, prima con sua moglie e poi con altri viaggiatori interessati al gioco, ed effettivamente ad un tratto fa la sua apparizione anche Mirko C. ma per un attimo e solo per rivolgere un’occhiata di commiserazione alla scacchiera e poi si allontana. Ma tra quei giocatori “di terza categoria” che stanno giocando per divertimento c’è anche il signor McConnor, un intraprendete ingegnere minerario scozzese [uno scoto, dalla corporatura massiccia, che si è arricchito con i giacimenti di petrolio della California], che quando viene a sapere [perché non ne era al corrente] della presenza a bordo del campione mondiale di scacchi pretende di sfidarlo, non certo per vincere, ma per dire di aver comunque giocato con lui. Il signor McConnor si presenta a Mirko C. e gli propone la sfida ma Mirko C. è disposto a giocare solo a pagamento e il signor McConnor, sebbene contrariato, non ha alcuna difficoltà a sostenere la spesa: il campione accetta di giocare contro di lui e contro tutto il gruppo dei suoi compagni.
Mirko C., l’indomani, all’ora stabilita, dopo aver dettato le regole, e per nulla impensierito dalla temeraria sfida lanciatagli da questo gruppetto di dilettanti, sta tessendo inesorabilmente la sua tela che lo sta portando a dare, tra breve, “scacco matto” ai suoi antagonisti, ma succede un fatto imprevisto a modificare l’andamento della partita perché compare un misterioso personaggio che, guidando le mosse degli ingenui sfidanti, costringe il campione [piuttosto irritato anche se non lo dà a vedere] al pareggio.
Gli sfidanti esultano, e McConnor invita [a sue spese] il misterioso personaggio a giocare lui da solo contro Mirko C., ma costui, scusandosi per l’intrusione, si allontana velocemente dalla sala. Di lui si sa solo che è viennese [come Stefan Zweig] e, a questo punto, il narratore - essendo austriaco anche lui - viene delegato dai suoi compagni a convincere il Signor B. - questa è la sigla che l’autore attribuisce a questo personaggio enigmatico, colto, elegante, nervoso e dotato di un prodigioso e immaginifico talento - ad accettare la sfida, ma lui, paradossalmente, afferma di non essere interessato al gioco degli scacchi: è anche disposto a fare una partita con il campione, ma, più che altro, vuole raccontare una storia, la sua storia, per far sapere al suo interlocutore [e a noi] in quale drammatica circostanza “si è occupato parecchio di scacchi”.
E ora - dopo questo lungo ma necessario prologo - entriamo, leggendo, nel cuore della Novella degli scacchi dando la parola al Signor B..
LEGERE MULTUM….
Stefan Zweig, Novella degli scacchi
Il Signor B. sorrise di nuovo con aria trasognata. «Sì, mi sono occupato parecchio di scacchi. Ma questo è accaduto in circostanze particolari, direi del tutto uniche. È una storia che potrebbe rappresentare un piccolo contributo ai nostri cari bei tempi andati. Se ha mezz’ora di pazienza…».
Accettai di buon grado il suo invito. Il Signor B. si tolse gli occhiali da lettura, li posò da una parte e cominciò. «Lei è stato molto gentile a dirmi che, in quanto viennese, ricordava il nome della mia famiglia. Ma presumo che non avrà mai nemmeno sentito parlare dello studio legale che dirigevo assieme a mio padre e in seguito da solo, dato che non seguivamo nessuna causa di cui si riferisse sui giornali. In realtà non avevamo neppure un vero e proprio studio legale, ma ci limitavamo esclusivamente alla consulenza e soprattutto all’amministrazione patrimoniale dei grandi monasteri. E poi ci era stata affidata l’amministrazione dei fondi di alcuni membri della famiglia imperiale. Questi rapporti con la corte e con il clero - uno dei miei zii era medico personale dell’imperatore, un altro abate a Seitenstetten - risalivano già a due generazioni prima; noi ci eravamo limitati a mantenerli con discrezione e affidabilità, due qualità che il mio defunto padre possedeva in enorme misura; e quando poi il nazismo prese il potere in Germania e cominciò a razziare i possedimenti della Chiesa e dei monasteri, passarono per le nostre mani anche diverse trattative e transazioni avviate dall’altra parte della frontiera per cercare di salvare dalla confisca per lo meno i beni mobili, e riguardo a certe negoziazioni politiche segrete della curia e della casa imperiale, io e mio padre eravamo al corrente di molte cose. Ma proprio l’estrema discrezione del nostro studio fu in grado di tenerci al riparo da controlli indesiderati, e nel modo più efficace. Di fatto, in tutti quegli anni nessuna istituzione austriaca sospettò mai che i corrieri segreti dell’imperatore continuassero a ritirare o a consegnare la corrispondenza più importante presso il nostro studio al quarto piano, così poco appariscente.
Tuttavia, i nazisti, ben prima di armare le loro milizie contro il mondo intero, avevano cominciato a organizzare un altro esercito, egualmente pericoloso e addestrato, in tutti i paesi confinanti … In ogni ufficio, in ogni azienda erano annidate le loro cosiddette “cellule”, ovunque erano stati piazzati i loro spioni e le loro sentinelle. Persino nel nostro insignificante studio legale avevano il loro uomo, come venni a sapere sfortunatamente troppo tardi. Altri non era che uno scrivano privo di talento, che avevo assunto dietro suggerimento di un parroco unicamente per dare allo studio l’apparenza di una regolare attività; in realtà non lo impiegavamo per null’altro che innocui incarichi da fattorino. Non aveva mai il permesso di aprire la posta, ero io a scrivere a macchina di mio pugno tutte le lettere importanti, senza lasciarne copia e portando a casa di persona ogni documento essenziale, e tenevo i colloqui segreti esclusivamente nell’ufficio del priore del monastero o nell’ambulatorio di mio zio. Grazie a queste misure precauzionali, la spia non poté vedere nulla dei procedimenti più importanti; ma doveva aver notato che accadeva qualcosa di interessante alle sue spalle. Chissà, forse in mia assenza è capitato che uno dei corrieri abbia parlato incautamente di “Sua Maestà” anziché, come d’accordo, del “Barone Fern”, oppure quel mascalzone deve aver aperto le lettere andando contro gli ordini ricevuti - in ogni caso, prima che potessi insospettirmi, ottenne l’incarico di sorvegliarci da Monaco o da Berlino.
Solamente molto dopo, quand’ero ormai prigioniero da tempo, mi ricordai che il suo iniziale lassismo sul lavoro negli ultimi mesi si era trasformato in uno zelo inaspettato e che si era offerto più volte, in modo inopportuno, di portare la mia corrispondenza all’ufficio postale. Non posso quindi assolvermi del tutto dall’accusa di una certa imprudenza, ma anche i più grandi diplomatici e militari non sono forse stati raggirati in maniera infida? Che la Gestapo mi avesse rivolto da tempo la sua attenzione con scrupolo fu dimostrato in maniera quanto mai evidente da una particolare circostanza: il giorno prima che i nazisti facessero il loro ingresso a Vienna, io ero già stato arrestato dalle SS. … Per mia fortuna avevo fatto in tempo a bruciare le carte più importanti, e il resto dei documenti compromettenti lo mandai a mio zio - nascosto in un cesto per la biancheria tramite la mia vecchia fidata governante - un attimo prima che quei farabutti martellassero alla porta». Il Signor B. si interruppe per accendersi un sigaro. … «Ora probabilmente immaginerà che le stia per raccontare del campo di concentramento in cui vennero in effetti deportati tutti coloro rimasti fedeli alla nostra vecchia Austria. Ma non accadde niente del genere. Fui inserito in un’altra categoria. Non fui trascinato tra quelle orde di disgraziati, bensì assegnato ad uno sparuto gruppetto al quale i nazisti speravano di strappare informazioni importanti. Ovviamente, di per sé la mia modesta persona era del tutto insignificante per la Gestapo. Ma dovevano essere venuti a sapere che noi eravamo stati gli amministratori e i confidenti dei loro acerrimi nemici, e ciò che speravano di estorcermi era materiale incriminante: prove contro i monasteri, che volevano incolpare di sottrazione di beni patrimoniali, prove contro la famiglia reale e contro tutti coloro che avevano appoggiato la monarchia con spirito di abnegazione. Supponevano - e in realtà non a torto - che di quel capitale passato per le nostre mani esistesse ancora, nascosta da qualche parte, una scorta sostanziosa, al momento inaccessibile alla loro ingordigia; perciò vennero a prelevarmi sin dal primo giorno per carpirmi, ricorrendo ai loro metodi ormai ben sperimentati, questi segreti. Alla gente della mia categoria veniva riservato un trattamento speciale, e anch’io - sebbene fossi un modesto personaggio - fui trasferito all’Hotel Metropole, che era al tempo stesso il quartier generale della Gestapo, in cui a ognuno dei reclusi veniva destinata una stanza separata, e anche a me venne concesso questo onore. Una camera d’albergo tutta per sé può sembrare estremamente umano, non è vero? Tuttavia, mi creda se le dico che la pressione con la quale intendevano strapparci il “materiale” necessario doveva funzionare in maniera più sottile rispetto a rozze bastonate o torture fisiche, cioè attraverso il più ingegnoso isolamento pensabile. Non ci veniva fatto alcunché - venivamo soltanto abbandonati nel nulla più totale: e com’è risaputo, niente al mondo è in grado di esercitare una tale pressione sull’anima umana come il nulla. Alla prima occhiata la stanza che mi era stata assegnata non mi parve affatto spiacevole. Aveva una porta, un letto, una sedia, un catino, una finestra munita di inferriate. Ma la porta rimaneva chiusa giorno e notte, sopra il tavolo non poteva esserci né un libro né un giornale né un foglio di carta o una matita, la finestra dava su un muro spartifuoco; attorno al mio Io e al mio stesso corpo era stato costruito il nulla più totale. Mi era stato sottratto ogni oggetto, l’orologio, così che perdessi la cognizione del tempo, la matita, così che non potessi scrivere, il coltello, così che non mi potessi tagliare le vene … Al di fuori della guardia, sempre muta, non vedevo mai un volto umano né sentivo mai una voce umana; occhi, i sensi non ricevevano mai nutrimento; rimanevi solo con te stesso senza possibilità di scampo; vivevi come un palombaro sotto una campana di vetro, immerso nel nero oceano di quel silenzio, e addirittura come un palombaro che intuisce già che non verrà mai più tirato fuori da quelle profondità senza suono. Non c’era niente da fare, niente da sentire, niente da vedere; c’era soltanto il nulla, il vuoto più totale senza spazio e senza tempo. Si camminava su e giù per la stanza, e assieme ai passi anche i pensieri andavano di continuo avanti e indietro. Ma persino i pensieri, sebbene privi di sostanza, necessitano di un punto d’appoggio, altrimenti cominciano a roteare e non riescono a sopportare il nulla. Aspettavi che accadesse qualcosa. Continuavi ad aspettare e pensare finché le tempie non ti facevano male. Per quattordici giorni vissi fuori dal tempo, e il mio mondo consisteva soltanto in tavolo, porta, letto, catino, sedia, muro e finestra, e continuavo sempre a fissare la stessa tappezzeria sulla stessa parete. Poi, finalmente, cominciarono gli interrogatori. Si veniva chiamati all’improvviso, senza nemmeno sapere bene se era giorno o notte. Si veniva chiamati e condotti lungo un paio di corridoi, senza sapere dove; poi si aspettava da qualche parte e d’un tratto ci si trovava di fronte a un tavolo, attorno al quale sedevano un paio di persone in uniforme. Posato sul tavolo c’era un mucchio di fogli, le pratiche, di cui si ignorava il contenuto, e poi avevano inizio le domande, quelle vere e quelle finte, quelle chiare e quelle subdole, le domande di routine e quelle a trabocchetto e, mentre si rispondeva, dita ignote e ostili sfogliavano le carte di cui si ignorava il contenuto, dita ignote e ostili scrivevano qualcosa in un verbale, e non si sapeva cosa scrivessero. Per me, tuttavia, l’aspetto più spaventoso di questi interrogatori era il non riuscire mai a intuire e a stabilire se la Gestapo fosse effettivamente al corrente di quanto accadeva nel mio studio. Come le ho già detto, avevo spedito all’ultimo minuto i documenti realmente compromettenti a mio zio, tramite la governante. Ma mio zio li aveva ricevuti? Non li aveva ricevuti? E quanto aveva rivelato lo scrivano? Quante lettere avevano intercettato, o magari quant’erano riusciti a estorcere nel frattempo a qualche maldestro ecclesiastico in uno dei monasteri tedeschi di cui eravamo fiduciari? E quelli giù a fare domande. Che titoli avevo comperato per quel monastero, con quali banche ero stato in corrispondenza, se conoscevo o meno il signor tal dei tali, se ricevevo lettere dalla Svizzera. E dato che non ero in grado di valutare quanto a fondo fossero già andati con le indagini, ogni risposta si trasformava in una responsabilità mostruosa. Se ammettevo qualcosa, magari tradivo qualcuno inutilmente. Se negavo troppo, danneggiavo me stesso. Ma l’interrogatorio non era il peggio. Il peggio era il ritorno, dopo l’interrogatorio, nel mio nulla. Perché non appena mi ritrovavo solo con me stesso, tentavo di ricostruire ciò che sarebbe stato più astuto rispondere e ciò che avrei dovuto dire la volta seguente per sviare i sospetti che, forse, avevo provocato con un’osservazione imprudente. Riflettevo, ponderavo, analizzavo, riesaminavo ogni mia deposizione parola per parola, ricapitolavo ogni domanda che mi avevano posto, ogni risposta che avevo dato, e così i miei interrogatori non finivano mai, grazie all’insidiosa tortura di quella solitudine. Solo allora mi accorsi di quant’era diabolicamente ingegnoso il sistema della camera d’albergo. Forse in un campo di concentramento sarei stato costretto a trascinare pietre sino a che le mani non avessero sanguinato e i piedi non mi fossero diventati due pezzi di ghiaccio ma avrei potuto vedere delle facce, guardare un campo, una carriola, un albero, una stella, qualcosa, qualsiasi cosa, mentre lì, intorno a me, tutto era spaventosamente uguale. Ed era proprio questa la loro intenzione - dovevo soffocare nei miei pensieri, finché questi non mi avessero strangolato e non avrei potuto far altro che sputarli, confessare tutto, consegnare finalmente loro le prove e le persone. Poco a poco mi resi conto che i nervi cominciavano a cedere sotto quella mostruosa pressione del nulla e, consapevole del pericolo, cercai di inventarmi una qualsiasi forma di distrazione. Tentai di tutto per tenermi occupato, recitando e ricostruendo nella mia mente ciò che un tempo sapevo a memoria, l’Inno popolare e le filastrocche dell’infanzia, l’Omero del liceo, gli articoli del codice civile. Poi provai a contare, a sommare e a dividere numeri a casaccio, ma in quel vuoto la mia memoria sembrava aver perso la capacità di fissare i dati. Non riuscivo a concentrarmi su niente. E frattanto, lo stesso identico pensiero continuava a balenare a intermittenza: Cosa sanno? Cos’ho detto ieri, cosa devo dire la prossima volta? … Questo stato, in realtà indescrivibile, durò quattro mesi. Ora: quattro mesi, è facile da scrivere, appena undici lettere! È facile da dire: quattro mesi, quattro sillabe. Basta una frazione di secondo. Ma nessuno è in grado di descrivere, di misurare, di dimostrare, né ad altri né a se stesso, come ti corrode e ti distrugge il niente che conduce alla follia. … Da piccoli segnali mi resi conto con inquietudine che il mio cervello stava precipitando nel caos. Dapprincipio, durante gli interrogatori, avevo conservato una certa lucidità mentale, avevo parlato in maniera calma e ponderata; quel doppio binario del pensiero - cosa potevo e non potevo dire - funzionava ancora. Ora, tuttavia, non riuscivo più ad articolare neppure le frasi più semplici se non balbettando, perché mentre parlavo fissavo come ipnotizzato la penna che scorreva sul foglio mettendo a verbale ciò che dicevo, come se volessi inseguire le mie stesse parole. Sentivo che si avvicinava sempre di più il momento in cui, per salvarmi, avrei detto tutto ciò che sapevo e forse anche di più, in cui, pur di sfuggire a quei pensieri che mi strangolavano, avrei tradito dodici persone e i loro segreti, senza procurarmi, con quella confessione, niente più che un attimo di respiro. Una sera giunsi davvero quasi fino a quel punto: quando la guardia mi portò da mangiare, di colpo mi misi a gridarle dietro: “Mi porti all’interrogatorio! Voglio dire tutto! Voglio confessare ogni cosa! Voglio dire dove sono le carte, dove sono i soldi! Dirò tutto, tutto!”. Per fortuna già non mi sentiva più. Forse non voleva nemmeno sentirmi. In quel momento di estrema sofferenza e difficoltà accadde qualcosa di imprevisto che fu la mia salvezza - salvezza almeno per un certo tempo». …
Sapremo che cosa accade quando riprenderemo la lettura.
Giovanni Duns Scoto, dopo aver condotto una riflessione [un’analisi] a vasto raggio sull’operato della Scolastica [dal IX al XIII secolo] inizia a sperimentare seguendo il metodo di lavoro che lui ha elaborato occupandosi di filologia e che si traduce nella sintetica affermazione “conoscere è distinguere” e, quindi, inizia a costruire un ragionamento progressivo [piuttosto complesso] seguendo questo criterio.
Giovanni Duns Scoto crede [secondo il programma della Scuola sperimentale di Oxford dove si è formato] nel valore della Scienza e nel ruolo che le discipline scientifiche hanno assunto sul piano della conoscenza, affermando [secondo la prerogativa che “conoscere è distinguere”] che nella Scienza si possono distinguere due campi: il campo delle discipline dimostrabili che formano il terreno della “scienza speculativa” [basata su affermazioni che possono essere rigorosamente dimostrate] e il campo delle discipline probabili che formano il terreno della “scienza pratica” [basata su affermazioni che non possono essere dimostrate].
E poi, sostiene Duns Scoto, per riuscire realmente a “distinguere” tra “scienza speculativa” [che può dimostrare] e “scienza pratica” [che non può dimostrare] bisogna chiedersi, afferma Duns Scoto, che natura abbia il concetto della “dimostrazione”: che cosa significa “dimostrare”? Anche in questo caso, sostiene Duns Scoto, bisogna utilizzare il metodo della “distinzione” e, analizzando i risultati acquisiti dalla Scolastica, bisogna ammettere, sostiene Duns Scoto, che l’unica forma di dimostrazione valida - che chiamiamo “apodittica” [evidente di per sé] - è quella del “sillogismo a priori” cioè del “ragionamento che procede da un concetto universale verso il particolare”, vale a dire una dimostrazione ricavata da concetti dati per certi e, quindi, Giovanni Duns Scoto ragiona come Aristotele commentato da Avicenna, che cosa vuol dire? Scrive Duns Scoto in proposito: «Come la prima funzione della vista è distinguere tra il bianco e il nero [altrimenti come giochiamo a scacchi?], così la prima funzione dell’intelligenza è distinguere “ciò che è” da “ciò che non è”, quindi, l’Intelletto per prima cosa distingue l’Essere dal Non Essere» e, di conseguenza, il primo oggetto della conoscenza non è la sostanza-sensibile nella sua individualità [data dall’esperienza che facciamo con i sensi a posteriori] ma l’oggetto della conoscenza è l’Essere [prima conosco che una persona è un essere, che una cosa è un ente e poi, di conseguenza, conosco le sue determinazioni: se una persona è maschio o femmina, se è alta o bassa, se è giovane o vecchia …], e allora il ragionamento “a posteriori”, quello dal particolare all’universale [dagli effetti alla causa, come sostiene Tommaso d’Aquino], non è valido perché è basato su concetti non fondati sull’essenza ma solamente supposti dai sensi. E, alla luce di questa riflessione, afferma Duns Scoto, è necessario usare “il metodo della distinzione” nei confronti delle due discipline per eccellenza: la Teologia e la Filosofia.
La Teologia, afferma Duns Scoto secondo i risultati acquisiti dalla Scolastica, non è “scienza speculativa” basata sulla Ragione [su rigorose dimostrazioni razionali] ma è “scienza pratica” perché si basa sui valori deducibili dalla Rivelazione contenuti nel patrimonio della Sacra Scrittura, un lascito che ci permette di acquisire il dono della Fede senza bisogno, afferma Duns Scoto, dell’ausilio dell’Intelletto perché, sebbene l’Intelletto sia uno strumento dotato di molte potenzialità tuttavia, sostiene Duns Scoto in quanto uomo di Fede, risulta legato alla situazione storica che lo limita a causa dell’influenza negativa del “peccato del mondo” [come lo chiama Paolo di Tarso nel suo Epistolario], a causa della nefasta condizione esistenziale che fa della Ragione umana una facoltà nella quale si annida anche l’astuzia [la diabolica astuzia della Ragione] che fa sviare spesso la persona dalla via del Bene.
E, in definitiva, la Teologia e la Filosofia, afferma Duns Scoto, sono due discipline inequivocabilmente separate, e mentre la Filosofia, in quanto “scienza speculativa”, comunica il dubbio, la Teologia, afferma Duns Scoto, in quanto “scienza pratica”, aiuta la persona a vivere meglio e, di conseguenza: «Beati quelli che hanno Fede, scrive il francescano Duns Scoto, perché saranno più lieti nel tempo della maturità della vita, proprio quando si comincia a pensare» e, quindi, la Teologia, ribadisce Duns Scoto, non è solo una materia teorica ma è, in primo luogo, una disciplina pratica.
Se la Teologia è “scienza pratica” basata sul patrimonio dei valori della Rivelazione e la Filosofia è “scienza speculativa” soggetta alla dimostrazione razionale allora bisogna fare una ulteriore e necessaria distinzione [conoscere è distinguere] perché finora, afferma Duns Scoto, abbiamo considerato la Metafisica come una disciplina legata alla Teologia e abbiamo sbagliato collocazione perché - con la complicità di Aristotele - ne abbiamo fatto la più importante materia tra le scienze speculative e allora, afferma Duns Scoto, la Metafisica va staccata dalla Teologia che è “scienza pratica” e va inserita nell’ambito della Filosofia come disciplina speculativa per eccellenza: questa [logica] affermazione - questa “necessaria distinzione” - mette in subbuglio i custodi dell’ortodossia ma Giovanni Duns Scoto è molto sicuro nel sostenere la sua posizione intellettuale perché sa garantire tanto l’autonomia della Fede quanto l’indipendenza della Ragione.
Giovanni Duns Scoto, con il metodo della distinzione, dimostra che la Metafisica è la scienza speculativa per eccellenza, una scienza basata, quindi, su affermazioni che possono essere rigorosamente dimostrate a priori e siccome l’oggetto della Metafisica è l’Essere, tutte le altre scienze, sostiene Duns Scoto, sono inferiori perché hanno per oggetto la Natura che è “una determinazione [un derivato] dell’Essere”.
E la Metafisica, sostiene Duns Scoto, c’insegna che gli “esseri” sono composti di materia e di forma ma ci suggerisce anche che né la materia né la forma sono in grado da sole di definire individualmente un “essere” anche se esiste una sostanza [una essenza particolare], un “quid” [in latino] - per cui Duns Scoto chiama questa sostanza “quidditas” - comune agli individui simili che, però, non è in grado di connotare individualmente un “essere” [le persone hanno un quid umano, i cavalli hanno un quid animale, le montagne hanno un quid naturale]. Con la “quidditas”, scrive Duns Scoto, però non si conosce il particolare, e se l’Intelletto si fida della “quidditas” sarebbe in grado, afferma Duns Scoto, di distinguere tra una persona e un asino ma non sarebbe in grado di distinguere Socrate da Platone [una persona dall’altra], e allora come è possibile arrivare ad individuare l’Essere? Per fare questo, sostiene Duns Scoto, - visto che non si può contare né sulla materia né sulla forma né sulla quidditas [tre elementi che non sono in grado di individuare l’essenza particolare] - si deve riflettere [metafisicamente parlando] sul concetto di “individuazione” domandandoci: perché allora noi siamo in grado di distinguere una persona dall’altra e una cosa dall’altra? Se noi sappiamo distinguere una persona dall’altra e una cosa dall’altra, afferma Duns Scoto, bisogna ammettere che l’Intelletto possiede, a priori, una facoltà [che, come tutte le facoltà, può essere sviluppata con l’esercizio intellettuale, con lo studio] la quale ha la capacità di andare oltre la forma specifica senza confondersi con la forma specifica, quindi, l’Intelletto possiede una facoltà che ha carattere metafisico. L’Intelletto ben esercitato, afferma Duns Scoto, possiede la facoltà di cogliere a priori [e Duns Scoto lo dice in latino] “haec res” [proprio “questa cosa qui”, da cui il termine “haecceitas”]: l’Intelletto, sostiene Duns Scoto, coglie a priori “l’haecceitas”, la singolarità dell’Essere, e questo significa, sostiene Duns Scoto, che la persona conosce a priori [senza bisogno dell’esperienza] l’Essere e, successivamente, conosce la sostanza sensibile [aprendo le porte all’esperienza] e, quindi, l’Essere umano conosce dall’universale al particolare e, di conseguenza, afferma Duns Scoto, la persona è in grado di cogliere anche la singolarità di Dio in modo “univoco” perché l’Essere è comune a Dio e alle sue creature: su questa affermazione torneremo a riflettere la prossima settimana. Il fatto che si conosca dall’universale al particolare fa sì che si colga la singolarità [l’haecceitas].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Il termine “singolarità [“l’haecceitas”]” corrisponde anche alle parole “originalità” e “rarità” …
C’è qualcosa di originale e di raro che vi permette di scrivere quattro righe in proposito?…
Quale oggetto “originale, raro” potrebbe lenire lo stato di segregazione del Signor B.? Per rispondere a questa domanda dobbiamo continuare a leggere la Novella degli scacchi: avanziamo di due pagine continuando a seguire il racconto del Signor B..
LEGERE MULTUM….
Stefan Zweig, Novella degli scacchi
«Era fine luglio, una giornata buia, piovosa, il cielo coperto: ricordo questo particolare con tanta precisione perché la pioggia martellava contro i vetri mentre venivo condotto all'interrogatorio. Giunto nell’anticamera dell’ufficio del giudice istruttore dovetti aspettare. Prima di ogni interrogatorio bisognava sempre aspettare: anche quest’attesa faceva parte della tecnica. Prima ti dilaniavano i nervi chiamandoti all’improvviso, magari prelevandoti dalla cella nel cuore della notte, poi, quando ti eri ormai predisposto all’interrogatorio, quando avevi fatto appello a ogni briciolo di ingegno e volontà per opporre resistenza ai tuoi aguzzini, ti lasciavano lì ad aspettare - un’attesa insensata o più che sensata - un’ora, due ore, tre ore, per indebolirti il corpo e fiaccarti l’anima. E quel giovedì, 27 luglio, venni lasciato ad aspettare in anticamera particolarmente a lungo, due ore buone; ricordo persino la data con tanta esattezza per un preciso motivo: in quel vestibolo in cui fui costretto a rimanere impalato - ovviamente senza potermi sedere - per due ore, era appeso un calendario, e non sono in grado di descriverle in che modo fissai, nella mia fame di parole stampate, di cose scritte, quell’unica cifra, quelle poche parole sul muro, “27 luglio”; le divorai quasi come un animale, ingurgitandole nel cervello. E dopo continuai ad aspettare, fissando la porta in attesa che finalmente si aprisse, e allo stesso tempo pensavo a ciò che avrebbero potuto domandarmi stavolta gli inquisitori, pur sapendo che mi avrebbero chiesto cose completamente diverse da quelle per cui mi ero preparato. Ma nonostante tutto, il supplizio di quell’attendere e stare in piedi era al contempo un sollievo, un piacere, dato che quella stanza era pur sempre diversa dalla mia, un po’ più grande e con due finestre anziché una soltanto, senza il letto e senza il catino e senza quella spaccatura sul davanzale che avevo osservato milioni di volte. La porta era verniciata di un altro colore, poggiata alla parete c’era una sedia diversa e a sinistra uno schedario con i documenti, e lì accanto a un guardaroba con delle grucce, dentro al quale erano appesi tre o quattro cappotti militari umidi di pioggia, i cappotti dei miei aguzzini. Avevo insomma qualcosa di nuovo, qualcosa di diverso da guardare, finalmente qualcosa di diverso per i miei occhi affamati, ed essi si aggrapparono bramosi a ogni particolare. Osservai ogni singola piega di quei cappotti, notai ad esempio una goccia che pendeva da uno dei baveri bagnati e aspettai di vedere se quella goccia alla fine si sarebbe decisa a staccarsi, per scorrere via lungo la piega, oppure avrebbe scelto di opporsi alla forza di gravità e indugiare ancora - sì, rimasi a fissare per interi minuti quella goccia, senza flato, come se lì appesa in quel modo ci fosse la mia stessa vita. Poi, quando alla fine scivolò via, ricontai da capo i bottoni sui cappotti; i miei occhi palpavano, sfioravano, afferravano tutti questi dettagli con un desiderio che non riesco a descriverle. E di colpo lo sguardo mi si bloccò su qualcosa. Avevo scoperto che la tasca laterale di uno dei cappotti era un pochino rigonfia. Mi accostai e, dalla forma rettangolare della sporgenza, credetti di riconoscere ciò che nascondeva quella tasca: un libro! Le ginocchia presero a tremarmi: un Libro! Erano quattro mesi che non tenevo in mano un libro, e già la sola idea - un libro nel quale poter osservare parole allineate, righe, pagine e fogli, un libro dal quale potere leggere, inseguire, mandare a mente pensieri nuovi, sconosciuti, capaci di distrarre - aveva un che di inebriante e allo stesso tempo di stordente. Gli occhi continuarono a fissare il piccolo rigonfiamento formato dal libro dentro la tasca, guardando ardenti quel punto invisibile come se volessero incendiare la stoffa sino a fare un buco nel cappotto. Già solo il pensiero di poter toccare un libro con le mani attraverso il tessuto mi incendiava i nervi delle dita fino alle unghie. Quasi inconsciamente, mi avvicinai sempre di più. Per mia fortuna la guardia non fece caso al mio comportamento, di certo singolare; forse anche a lui sembrava naturale che, dopo due ore passate in piedi, un essere umano volesse appoggiarsi un poco al muro. Così, alla fine giunsi vicinissimo al cappotto, mettendo di proposito le mani dietro la schiena, di modo che potessero toccare l’indumento senza dare nell’occhio. Toccai il tessuto e percepii in effetti qualcosa di rettangolare attraverso la stoffa. E come un fulmine mi balenò il pensiero: “Ruba questo libro! Magari ci riesci, e te lo puoi nascondere nella tua cella, e poi potrai finalmente leggere di nuovo!”. Il pensiero si era appena fatto strada dentro di me che subito ebbe l’effetto di un potente veleno; di colpo cominciarono a ronzarmi le orecchie e il cuore a martellarmi nel petto, le mani mi divennero gelide e non obbedirono più ai miei comandi. Ma dopo il primo stordimento mi accostai ancora di più al cappotto, muovendomi cauto e furtivo, e poco a poco, con le mani nascoste dietro la schiena, spinsi dal fondo della tasca il libro verso l’alto, sempre più in alto, continuando a fissare la guardia. E poi: preso!, un leggero, cauto strattone, e tutt’a un tratto avevo il libro, un oggetto piccolo e non troppo voluminoso, tra le mani. Solo allora rimasi atterrito da ciò che avevo fatto. Ma non potevo più tornare indietro. E tuttavia, dove potevo andare col mio bottino in mano? Sempre con le mani dietro la schiena, spinsi il volume sotto i pantaloni, all’altezza della cinghia, e da lì lo feci passare pian piano sul fianco, di modo che camminando lo potessi trattenere con la mano, posata in maniera militaresca lungo la cucitura laterale. Ora però c’era la prima prova. Mi allontanai dal guardaroba, un passo, due passi, tre passi. Reggeva. Era possibile tener fermo il libro anche camminando, purché premessi con forza la mano sulla cintura. Poi ci fu l’interrogatorio. Richiese un impegno maggiore del solito, perché in realtà mentre rispondevo non ero concentrato sulla deposizione, ma mi preoccupavo piuttosto di tenere fermo il libro in modo che non desse nell’occhio. Per fortuna quella volta l’interrogatorio si concluse quasi subito, e portai il libro sano e salvo nella mia cella - non voglio annoiarla con tutti i particolari: a un certo punto scivolò pericolosamente giù per i pantaloni in mezzo al corridoio, e dovetti fingere un violento attacco di tosse per chinarmi e sospingerlo di nuovo su al sicuro, sotto la cintura. Ma in compenso, ah, che momento, quando rientrai con il libro nel mio inferno, finalmente solo eppure non più solo! Ora probabilmente lei immaginerà che abbia afferrato subito il volume, che l’abbia guardato, letto. Assolutamente no! Per prima cosa volli pregustare sino in fondo il piacere di avere un libro lì con me, la voluttà, artificiosamente prolungata, di sognare che genere di libro fosse quello che avevo rubato: stampato fìtto fìtto, soprattutto, con moltissime lettere e molte pagine sottili, così che potessi leggere a lungo. E poi mi augurai che fosse un’opera che richiedesse un certo impegno intellettuale, niente di piatto, niente di leggero, piuttosto qualcosa da studiare, da mandare a memoria, poesie, magari Goethe o Omero. Ma alla fine non riuscii a trattenere oltre il mio desiderio, la mia curiosità. Disteso sul letto, di modo che la guardia non potesse cogliermi in flagrante spalancando la porta all’improvviso, trassi con mano tremante il libro da sotto la cintura. La prima occhiata fu una vera delusione e mi provocò persino una sorta di rabbia esasperata: il bottino procacciato con un rischio così straordinario, serbato con tanta ardente aspettativa altro non era che un compendio di scacchi, una raccolta di centocinquanta partite dei più grandi campioni. Se non fossi stato rinchiuso, sprangato, in un primo impeto di rabbia avrei scaraventato il libro fuori dalla finestra; cosa dovevo farci, cosa potevo farci con quell’assurdità?» …
E la prossima settimana, proseguendo nella lettura di questo romanzo, sapremo che cosa ci farà - sebbene deluso - il prigioniero Signor B. con “quella assurdità”: con un compendio di scacchi.
Giovanni Duns Scoto afferma che l’Intelletto è in grado di cogliere l’Essere a priori, quindi, la persona è anche in grado di cogliere la singolarità di Dio in modo “univoco” perché l’Essere è comune a Dio e alle sue creature.
Ma, come ben sappiamo, Giovanni Duns Scoto è convinto che ci si avvicina alla conoscenza attraverso il metodo della “distinzione” [conoscere è distinguere] e, di conseguenza, pensa [un pensiero elementare] che tra il Creatore e la creatura bisogna distinguere perché è chiaro che sono due realtà diverse, e questa constatazione genera necessariamente un interrogativo: se l’Essere appartiene tanto al Creatore quanto alla creatura è mai possibile che la qualità dell’essere umano sia simile a quella dell’Essere divino? Se rispondiamo affermativamente a questa domanda, riflette Duns Scoto, finiamo per pensare che tra il Creatore e la creatura non c’è differenza [e rimane senza risposta la prima domanda del Catechismo: chi ci ha creato?], e allora l’Essere del Creatore rispetto all’essere della creatura è davvero “univoco” [come sostiene Duns Scoto] oppure è “analogico [come sostiene Tommaso d’Aquino]”, e che significato hanno questi due termini? Ci vien da dire: che senso ha perdere tempo su queste questioni di lana caprina quando poi tanto Tommaso l’Aquinate quanto Giovanni lo Scoto, alla fine, sono costretti ad ammettere che “credere in Dio” dipende solo dalla Fede nella Rivelazione? Ha un senso eccome [dicono - sebbene siano in disaccordo - Tommaso e Giovanni]! Ha un senso perché è comunque la Ragione a garantire l’autonomia della Fede per cui “aver Fede” [religiosamente in Dio o laicamente nell’Idea del Bene] significa continuare comunque a navigare in un mare di interrogativi [Essere “umani” vuol dire farsi delle domande perché conoscere è distinguere!] e, a questo proposito, è ancora una volta Dante Alighieri a rispondere per tutti facendo dire ad Ulisse [mentre varca le Colonne d’Ercole] che: «Fatti non fummo a vivere come bruti ma per seguir virtute [la Rivelazione] e canoscenza [i Classici]» per cui non bisogna mai perdere la volontà d’imparare, ma d’imparare come: in modo “univoco” oppure in modo “analogico”? E che significato hanno questi termini?
E proprio perché la barchetta della Scuola naviga nel mare agitato degli interrogativi più inconsueti: il viaggio continua, deve continuare…