Prof. Giuseppe Nibbi La sapienza poetica e filosofica dell’età umanistica 2-3-4 marzo 2016
SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ UMANISTICA
SI SVILUPPA L’IDEA CHE “LA PERSONA VUOLE UNA COSA NON PERCHÉ
È BUONA, MA LA COSA DIVENTA BUONA SE LA PERSONA LA VUOLE” ...
Questo è il diciottesimo itinerario del nostro viaggio di studio sul “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età umanistica”.
La scorsa settimana abbiamo incontrato Giovanni Duns Scoto, un personaggio, il quale, dopo aver condotto una riflessione [un’analisi] a vasto raggio sull’operato della Scolastica dal IX al XIII secolo inizia a sperimentare [a riflettere] seguendo un metodo di lavoro che lui ha elaborato occupandosi di filologia, commentando il Libro delle Sentenze di Pietro Lombardo, un’importante figura di intellettuale che Dante la scorsa settimana ci ha fatto incontrare in Paradiso. Il metodo di Giovanni Duns Scoto si traduce [come sappiamo] in una sintetica affermazione: “conoscere è distinguere”. E, a questo proposito, Giovanni Duns Scoto inizia a costruire un ragionamento progressivo [piuttosto complesso, e sempre sul filo della contraddizione] per cercare di capire come avviene il processo della conoscenza tanto in campo fisico [per conoscere il Mondo e la Natura] quanto in campo metafisico [per ipotizzare una conoscenza di Dio], perché la Metafisica, asserisce Duns Scoto, contrariamente alla Scolastica tradizionale, è una scienza speculativa, legata alla Filosofia e non alla Teologia che è una scienza pratica che aiuta a vivere meglio [“Beata la persona, afferma Giovanni Duns Scoto, che crede perché illuminata dal dono della Fede” che induce la persona a fare il Bene].
Giovanni Duns Scoto afferma che il processo della conoscenza avviene “a priori” senza l’ausilio dell’esperienza sensibile perché la prima funzione dell’intelligenza, secondo i canoni della disciplina metafisica, è quella di distinguere “ciò che è” da “ciò che non è”, quindi, l’Intelletto, sostiene Duns Scoto, per prima cosa distingue l’Essere dal Non-Essere e, di conseguenza, il primo oggetto della conoscenza non è la sostanza-sensibile nella sua individualità [data dall’esperienza che facciamo con i sensi, a posteriori] ma è l’Essere [prima conosciamo che una cosa “è” un ente, che una persona “è” un essere, e poi, di conseguenza, apprendiamo le sue determinazioni: se una persona è maschio o femmina, se è alta o bassa, se è giovane o vecchia…]; perciò, afferma Duns Scoto, l’Intelletto è in grado di cogliere l’Essere “a priori” perché «l’Essere, scrive Duns Scoto, è comune a Dio e alle sue creature e, di conseguenza, la persona è anche in grado di cogliere la singolarità di Dio in modo “univoco” [direttamente, facendo il Bene, realizzando la Volontà di Dio]».
Ma Giovanni Duns Scoto su questa affermazione ci vuole ragionare con il metodo della “distinzione” che lui ha messo a punto perché è convinto che “conoscere è distinguere”. Il fatto è che sottoponendo al metodo della “distinzione” la sua affermazione [«…l’Essere è comune a Dio e alle sue creature»] i conti non tornano più, ed è facile capire che, se facciamo le dovute “distinzioni”, il Creatore e la creatura sono due realtà simili [secondo il Libro della Genesi] ma non uguali, e questa constatazione genera necessariamente un interrogativo: se l’Essere appartiene tanto al Creatore quanto alla creatura [e questa affermazione può essere sostenuta come vera secondo la Rivelazione] è mai possibile che la qualità dell’essere umano sia la stessa di quella dell’Essere divino? Il versetto 27 del capitolo primo del Libro della Genesi dice: «Dio creò l’Uomo [l’Umanità] simile a sé, lo creò a immagine di Dio, maschio e femmina li creò» e, quindi, “essere somiglianti” non significa “essere uguali”, per cui se l’Essere della persona avesse la stessa qualità dell’Essere divino si dovrebbe pensare, riflette Duns Scoto, che tra il Creatore e la creatura non c’è differenza [e rimarrebbe senza risposta la prima domanda del Catechismo: chi ci ha creato?], e allora bisogna domandarsi: l’Essere del Creatore rispetto all’essere della creatura è davvero “univoco” [come sostiene Duns Scoto] oppure è “analogico” [come sostiene Tommaso d’Aquino], e che significato hanno [ci chiediamo noi] questi due termini? Il ragionamento di Giovanni Duns Scoto si muove in equilibrio sul filo della contraddizione.
In primo luogo dobbiamo dire [come preambolo] che Giovanni Duns Scoto - sempre utilizzando “la tecnica del distinguere per conoscere” - ha il merito di aver messo in luce il valore propositivo di questi due termini che cominciano ad assumere un ruolo nella Storia del Pensiero Umano, due termini, “univoco” e “analogico”, che trovano la loro adeguata collocazione nel momento in cui, ancora una volta, la Filosofia scolastica torna a riflettere sul tema della “qualità dell’Essere”, vale a dire su che cosa si fonda la peculiarità dell’Essere [sulla necessità, sulla volontà, sulla libertà? Qual è il motivo per cui noi “siamo”?]. La parola “univoco” [dal latino “unus” e “vox”, che significa “di un solo senso, di una sola direzione”] definisce un termine che si applica con lo stesso significato a più oggetti diversi che hanno le stesse affinità [per esempio, il termine “agrume” è univoco alle parole arancia, mandarino, limone], mentre la parola “analogico” [dal greco “ana-logicòs”, “in rapporto proporzionato”] indica una somiglianza di rapporti [formali] tra oggetti differenti che non hanno la stessa natura, e Tommaso d’Aquino, commentando il versetto 27 del capitolo primo del Libro della Genesi, afferma che l’Essere del Creatore e l’essere della creatura non può avere un rapporto “univoco” perché gli attributi applicati a Dio [la potenza, la bontà, la sapienza, l’essenza…] devono essere intesi in senso analogico, cioè non sono applicabili nella stessa misura alla creatura e a Dio come «l’aggettivo ridente [per esempio, scrive Tommaso] non ha lo stesso significato [è analogico] se riferito a un viso umano e a un paesaggio [e a una iena]».
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Scrivete qualche termine “univoco” e qualche termine “analogico”: si fa ricerca filosofica anche giocando con le parole…
Giocando con le parole ci si esercita ad investire in intelligenza …
Ma nonostante che l’affermazione di Tommaso d’Aquino confermi che l’Essere del Creatore e l’essere della creatura non possono avere la stessa qualità [essendo analogici], tuttavia Giovanni Duns Scoto intende dimostrare che è possibile prefigurare un rapporto “univoco” tra l’Essere della persona e l’Essere di Dio.
Per sostenere il concetto di “univocità” tra l’Essere del Creatore e l’Essere della creatura Giovanni Duns Scoto scrive un trattato intitolato De primo principio [Sul principio primo] nel quale inizia la sua riflessione partendo dalla dimostrazione dell’esistenza di Dio, dalla tradizionale dimostrazione “ontologica” di Anselmo d’Aosta per cui se nell’atto del pensare una cosa [un ente, òntos] c’è già la certezza della sua esistenza allora io penso e io esisto, io penso Dio e, quindi, Dio esiste a priori. Nel suo trattato De primo principio, Sul principio primo, Giovanni Duns Scoto - basandosi sulla riflessione “a priori” di Anselmo d’Aosta - sostiene che, se Dio esiste, c’è una gerarchia [tra tutte le cose del Mondo creato] tra tutti gli enti possibili [e tutte e tutti noi ne siamo consapevoli perché in questo sistema gerarchico ci viviamo dentro] e, quindi, in un contesto gerarchico, scrive Duns Scoto, è logico ipotizzare anche l’esistenza di un “valore massimo” che per le cose fisiche è visibile mentre in campo metafisico, per il momento, non è visibile. Ed è come se ci trovassimo, scrive Duns Scoto, di fronte ad una piramide di cui non si riesce a vedere la cima, non la si vede, però la si deduce e si capisce [a priori] che dal vertice della piramide l’Essere di Dio [in quanto Ente supremo] illumina in modo “univoco” l’Essere di tutte le creature: lo illumina in modo univoco e necessario.
Di conseguenza [e Duns Scoto prosegue nel suo ragionamento cercando di mantenerlo “a priori”, dall’universale al particolare] se l’Essere è necessario alle creature, Dio è necessario per rendere possibile la realtà contingente che, appunto perché necessaria [e non casuale], non può essere fondata sulla contingenza delle creature ma è basata sull’esistenza di un superiore Ente Necessario. A questo punto, però, Giovanni Duns Scoto si rende conto che per dimostrare che Dio è “causa prima, fine supremo, perfezione assoluta” ha dovuto ragionare dal particolare [dalla base visibile della piramide] all’universale [al vertice invisibile della piramide], cioè ha dovuto formulare un ragionamento “a posteriori”, partendo dall’esperienza, dal particolare all’universale, allo stesso modo in cui ha ragionato Tommaso d’Aquino del quale lui vorrebbe contestare le tesi. E allora in che modo Giovanni Duns Scoto cerca di superare questa contraddizione?
Giovanni Duns Scoto, sempre giovandosi del pensiero di Anselmo d’Aosta, afferma che un Ente necessario e univoco come Dio non può che essere superiore a priori [Dio, afferma Anselmo d’Aosta, è “Qualcosa di cui non si può pensare nulla di maggiore, Id quo maius cogitari nequit”] e perciò Dio, scrive Duns Scoto, non può che manifestare la sua essenza mediante la sua “Volontà assoluta” perché “Dio non può essere preceduto o determinato da nulla”, ma è “causa che sussiste di per sé” [afferma Duns Scoto insieme ad Anselmo]: quindi Dio - mentre illumina con il proprio Essere in modo “univoco” l’Essere di tutte le creature - fa espandere anche la sua assoluta Volontà divina che incide sulla volontà umana; e di conseguenza, scrive Duns Scoto, anche la volontà umana è assoluta, cioè ha in sé il potere di autodeterminarsi: vuole una cosa, afferma Duns Scoto, solo perché la vuole, senza che sia l’Intelletto a dirigerla, ma, scrive Duns Scoto, è la stessa volontà che condiziona l’Intelletto a considerare buono ciò che essa vuole [quando, per esempio, vogliamo comprare una cosa che ci piace è la Volontà che condiziona l’Intelletto a ritenere buona quella cosa e non viceversa]. «La persona, afferma Duns Scoto, vuole una cosa non perché è buona, ma la cosa diventa buona se la persona la vuole » [con tutti i rischi che questa operazione porta con sé].
Naturalmente, afferma Duns Scoto, l’essere umano prima “distingue e conosce”, poi “giudica” e poi “vuole” ma le conoscenze e i giudizi non sono le cause del suo volere ma sono soltanto le occasioni [i pretesti] per cui, afferma Duns Scoto, la persona deve sapere e deve tener conto del fatto che l’unica legge valida per la volontà umana è, però, la Legge divina, e il Bene per la persona, afferma Duns Scoto, consiste nell’uniformarsi alla Volontà divina e nell’amare Dio, il Quale, a sua volta, accetta e contraccambia l’amore della persona mediante la Grazia santificante. La felicità umana, quindi, la si può ottenere solo dalla Rivelazione e dalla Fede, e per Giovanni Duns Scoto, in definitiva, la persona è libera di perseguire il bene e il male: Dio più che indicargli la strada giusta non può fare.
Qual è la novità nel pensiero di Giovanni Duns Scoto? Tutta questa complessa riflessione porta Giovanni Duns Scoto a definire un particolare concetto di “volontarismo” che modifica il sistema metafisico medioevale, finora in auge, basato sulla “necessità”. Giovanni Duns Scoto ha saputo dare - nonostante si contraddica quando sostiene il concetto dell’Essere applicato all’essere [per tenere fermo forzatamente un ragionamento “a priori”] - un solido fondamento alla libertà: sia alla libertà con cui Dio crea e governa le cose, sia alla libertà con cui la persona è in grado di corrispondere a Dio perché si è liberi solo se si fa il Bene, se fa il Male diventa schiavo. Si tratti di Dio o si tratti della persona, quel che importa è, per Giovanni Duns Scoto, mettere al sicuro l’idea di libertà da ogni contagio della “necessità”. Per Giovanni Duns Scoto - al contrario degli aristotelici di linea averroistica [ricordate Sigieri?] - non è la volontà ad essere soggetta alla Necessità ma è la Volontà [la buona Volontà nel senso di “sia fatta la tua Volontà”] a governare la necessità.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Anche noi siamo d’accordo nel dire che con la buona volontà si possono governare situazioni di necessità… Come si è concretizzata, in una situazione di necessità, la vostra buona volontà [quando avete detto “mi sono messa, mi sono messo di buona volontà e ho risolto la situazione!”] ?…
Scrivete quattro righe in proposito …
A questo punto non possiamo fare a meno di ricordare che stiamo leggendo un romanzo nel quale uno dei protagonisti si trova proprio a doversi confrontare con l’affermazione formulata da Giovanni Duns Scoto: «La persona vuole una cosa non perché è buona, ma la cosa diventa buona se la persona la vuole [a volte - come si suol dire - le cose bisogna farsele piacere]». Ma, a questo proposito, dobbiamo rinfrescarci la memoria.
Il romanzo che stiamo leggendo, come ben sapete, s’intitola Novella degli scacchi composto nel 1941 dallo scrittore viennese, con il quale abbiamo fatto conoscenza tre settimane fa, Stefan Zweig, e siamo ormai arrivate ed arrivati nel cuore di questo racconto considerato, dalle studiose e dagli studiosi, “perfetto” [nel senso di “completo, téleios”] nel sua forma.
La storia, come sapete, si svolge su un piroscafo in navigazione da New York verso Buenos Aires e il viaggiatore più importante presente a bordo è il campione del mondo di scacchi, Mirko C., del quale l’autore ci ha fatto conoscere la biografia e il carattere: sappiamo che Mirko C. è un uomo arrogante, venale, che si isola per non rivelare [perché ciò non gioverebbe alla sua immagine] le sue lacune culturali sebbene primeggi senza rivali in un gioco in cui bisogna possedere una serie di doti razionali [memoria, intelletto, volontà]. Proprio per questo motivo il narratore [che ci accompagna nella lettura ed è appassionato di psicologia] vorrebbe poter avvicinare il campione per analizzare il suo carattere geniale e, quindi, lo attira con uno stratagemma: organizza, nella sala fumatori della nave, delle partite a scacchi con altri viaggiatori interessati al gioco ma Mirko C. fa una fugace apparizione per rivolgere solo un’occhiata di commiserazione alla scacchiera e poi si allontana. Ma tra quei giocatori “di terza categoria” che si sfidano per divertimento c’è anche il signor McConnor, un intraprendete ingegnere minerario scozzese [uno scoto dalla corporatura massiccia che si è arricchito con i giacimenti di petrolio della California], che quando viene a sapere [perché non ne era al corrente] della presenza a bordo del campione mondiale di scacchi pretende di sfidarlo, non certo per vincere, ma per dire di aver comunque gareggiato con lui. Il signor McConnor si presenta a Mirko C. e gli propone la sfida ma Mirko C. è disposto a giocare solo a pagamento e il signor McConnor, sebbene contrariato, non ha alcuna difficoltà a sostenere la spesa: il campione accetta di giocare contro di lui e contro tutto il gruppo dei suoi compagni. L’indomani, nel corso della partita, Mirko C. tesse inesorabilmente la sua tela che lo sta portando a dare, in breve tempo, “scacco matto” ai suoi antagonisti, ma succede un fatto imprevisto: compare un misterioso personaggio che, guidando le mosse degli sprovveduti sfidanti, costringe il campione , piuttosto contrariato anche se non lo dà a vedere, al pareggio.
Gli sfidanti esultano, e McConnor invita a sue spese il misterioso signore a giocare lui da solo contro Mirko C., ma costui, scusandosi per l’intrusione, si allontana velocemente dalla sala. I beneficati dal suo intervento si domandano chi sia e scoprono che è viennese [come Stefan Zweig], che si chiama Signor B. [l’autore mantiene il riserbo sulla sua identità] e che è una persona colta, elegante, nervosa e dotata di un prodigioso e immaginifico talento, e, a questo punto, al narratore [essendo austriaco anche lui] viene affidata dai suoi compagni la missione di convincerlo ad accettare la sfida, ma lui, paradossalmente, afferma di non essere interessato al gioco degli scacchi: è anche disposto a fare una partita con il campione, ma, più che altro, vuole raccontare una storia, la sua storia, per far sapere al suo interlocutore [e a noi] in quale drammatica circostanza “si è occupato parecchio di scacchi”. Veniamo così a sapere che il Signor B. è un economista, secondo la tradizione della sua famiglia, e ha amministrato, accortamente e nascostamente, i patrimoni di molti monasteri austriaci e anche della Casa reale asburgica, per cui quando i nazisti prendono il potere in Austria e vogliono impossessarsi del denaro della Chiesa e della Monarchia lui salva il salvabile ma - tradito da una spia - viene arrestato dalla Gestapo, viene rinchiuso in una stanza d’albergo nel più assoluto isolamento in modo che questo perfido e disumano stato di segregazione lo porti allo sgretolamento del proprio Essere e, quindi, ceda, nel corso dei numerosi e snervanti interrogatori a cui viene sottoposto, e riveli tutto ciò che sa. Quando il Signor B. sta per cedere a causa della nevrosi che gli procura “il nulla nel quale è immerso” - essendo fuori dal tempo e non avendo alcun strumento intellettuale sul quale riversare la sua attenzione - riesce [come abbiamo letto la scorsa settimana] a impossessarsi di un libro, rubandolo in modo rocambolesco dalla tasca del cappotto di una guardia e riuscendo a portarlo nella sua stanza.
Il fatto di non poter leggere era per lui una tortura e l’attrazione per questo oggetto ha scatenato la sua audacia, ma quando scopre di che libro si tratta la sua delusione è enorme: è un compendio sul gioco degli scacchi. Che poteva farsene? Tuttavia decide di misurarsi anche con “questa assurdità”. Il Signor B., dopo lo sconforto iniziale, si misura con l’affermazione formulata da Giovanni Duns Scoto: «La persona vuole una cosa non perché è buona, ma la cosa diventa buona se la persona la vuole [a volte - come si suol dire - le cose bisogna farsele piacere]». Dopo questo riepilogo, piuttosto lungo ma doveroso, non ci resta che continuare a seguire il racconto che il Signor B. fa al suo interlocutore e a tutte e a tutti noi.
LEGERE MULTUM….
Stefan Zweig, Novella degli scacchi
«Da ragazzo, al liceo, di tanto in tanto mi era capitato di cimentarmi per noia dinanzi a una scacchiera, come la maggior parte dei miei compagni. Ma che dovevo farmene di quella roba teorica? Di certo non si può giocare a scacchi senza un compagno, e senza pezzi, e senza scacchiera. Seccato, diedi una scorsa alle pagine, per scoprirvi qualcosa di leggibile, un’introduzione o delle istruzioni; ma non trovai altro che gli spogli schemi quadrati delle partite e, sotto, dei segni che mi risultarono del tutto incomprensibili: a2-a3, Cf1-g3, e così via. Sembrava una sorta di algebra, ma senza una chiave per decifrarla. Solo pian piano compresi che le lettere dalla a alla h venivano utilizzate per indicare le colonne, mentre i numeri da 1 a 8 per le traverse, e che la combinazione indicava la posizione di ogni singola figura; in questo modo gli schemi si trasformavano in un linguaggio. Forse, pensai, mi sarei potuto fabbricare una sorta di scacchiera lì nella mia cella e poi tentare di riprodurre quelle partite; e il fatto che il lenzuolo del mio letto riportasse per puro caso un grossolano motivo a quadri mi parve un segno divino. Ripiegandolo con cura, alla fine si poteva ottenere un quadrato con sessantaquattro caselle. Nascosi il libro sotto il materasso, dopodiché cominciai a modellare dei piccoli pezzetti di mollica, che mettevo da parte dal mio tozzo di pane, sino a forgiare - in maniera ridicola, va da sé - le figure degli scacchi, il Re, la Regina, e via dicendo; poi potei cominciare a ricostruire sul lenzuolo le posizioni raffigurate sul libro. Quando tentai di riprodurre l’intera partita, tuttavia, il mio intento fallì miseramente con quei ridicoli pezzi di mollica, metà dei quali avevo scurito con della polvere per poter distinguere i bianchi dai neri. I primi giorni mi ingarbugliai di continuo; ma chi disponeva di più tempo inutile di me, schiavo del nulla? Dopo sei giorni ero già in grado di giocare la partita sino alla fine in modo impeccabile, dopo altri otto non ebbi neppure più bisogno delle briciole sul lenzuolo per materializzare le posizioni del libro, e dopo altri otto giorni lo stesso lenzuolo divenne superfluo; i segni astratti del libro si trasformavano in automatico nella mia testa in posizioni visive, plastiche: avevo proiettato all’interno la scacchiera con le sue figure, e mi bastava un’occhiata d’insieme delle varie posizioni, così come a un musicista esperto è sufficiente dare una semplice scorsa alla partitura per sentire ogni singola voce e l’armonia dell’insieme. Dopo altre due settimane ero in grado di riprodurre con facilità ogni partita del libro a memoria; solo allora iniziai a comprendere quale beneficio mi ero assicurato col mio audace furto. Poiché d’un tratto avevo a disposizione un’occupazione che annientava il nulla intorno a me ero entrato in possesso di un’arma straordinaria contro l’opprimente monotonia del tempo e dello spazio. Da quel momento cominciai a suddividere con precisione ogni giornata: due partite al mattino, due al pomeriggio, e la sera un rapido riepilogo, e così mi ritrovavo occupato senza stancarmi, dato che il gioco degli scacchi ha il pregio di non stancare il cervello ma, piuttosto, di affinarne l’agilità e il vigore.
Così, poco a poco, la riproduzione, dapprincipio solo meccanica, delle partite dei campioni cominciò a risvegliare in me una piacevole sensibilità artistica. Imparai le raffinatezze, le astuzie e le accortezze nell’attacco e nella difesa, mi impadronii della tecnica del prevedere le mosse, delle combinazioni, della risposta, e ben presto fui in grado di riconoscere le caratteristiche individuali di ogni singolo maestro di scacchi dal modo in cui conduceva la partita, con la stessa infallibilità con cui si identificano i versi di un poeta sin dalle prime righe; la mia attività si trasformò in piacere, divenne la compagna nella mia solitudine, e le mie facoltà mentali riacquistarono la sicurezza di un tempo, già messa a dura prova: sentivo il cervello come rinvigorito, e addirittura per certi versi affilato, levigato. Il fatto che pensassi in maniera più chiara e concisa si dimostrò soprattutto durante gli interrogatori, avevo quadruplicato le mie capacità di difendermi da finte minacce e sotterfugi; da quel momento in poi non rischiai più di compromettermi durante i colloqui con i miei carcerieri, e mi sembrò persino che gli agenti della Gestapo avessero cominciato a guardarmi con un certo rispetto. Forse si chiedevano anche da quale fonte sconosciuta io attingessi la forza per opporre loro una tale incrollabile resistenza. Questo periodo felice durò all’incirca tre mesi. Poi, inaspettatamente, arrivai a un punto morto. D’un tratto mi ritrovai di nuovo davanti al nulla. Infatti, dopo aver giocato ogni partita per venti o trenta volte, essa perdeva il fascino della novità, della sorpresa, e la sua carica, un tempo così emozionante e stimolante, era come esaurita. Che senso aveva continuare a ripetere partite che conoscevo ormai a memoria da un pezzo? Non appena avevo fatto la prima apertura, ecco che l’evolversi dell’incontro proseguiva nella mia testa in modo quasi automatico, non c’erano più sorprese, tensioni, problemi. Per procurarmi di nuovo quello svago che mi era ormai divenuto indispensabile, mi sarebbe servito in realtà un altro libro con altre partite, e c’era una sola via d’uscita da quel labirinto di follia: dovevo inventarne di nuove. Dovevo tentare di giocare con me stesso o, meglio ancora, contro me stesso. Ma è facile capire che negli scacchi, trattandosi di un puro gioco di cervello, del tutto estraneo alle leggi del caso, l’idea stessa di voler giocare contro se stessi è, da un punto di vista logico, un assurdo perché l’attrattiva degli scacchi consiste proprio nel fatto che la sua strategia si sviluppa in maniera diversa in due cervelli diversi, e che, in questa guerra intellettuale, il Nero non conosce di volta in volta le manovre del Bianco, mentre dal canto suo il Bianco si sforza di superare le mire nascoste del Nero e di parare ogni suo attacco. Ora, se Bianco e Nero costituissero una sola e identica persona, questo darebbe luogo a una situazione paradossale; negli scacchi voler giocare contro se stessi rappresenta quindi un paradosso tanto quanto il voler saltare sulla propria ombra. Ora, per farla breve, nella mia disperazione ho tentato per mesi di realizzare questa impossibilità, questo assurdo. Ma non avevo altra scelta, nella mia situazione ero costretto a tentare questa scissione in un Io-Bianco e un Io-Nero, per non essere schiacciato dal tremendo nulla che mi circondava».
Il Signor B. si appoggiò allo schienale della sedia a sdraio e chiuse gli occhi per un minuto. Sembrava che volesse reprimere con violenza un ricordo sconvolgente. Poi si drizzò. «Purtroppo però adesso non sono affatto certo che sarò in grado di illustrarle il resto con la stessa chiarezza. La mia nuova occupazione, difatti, mi richiedeva un tale sforzo cerebrale da rendere impossibile al tempo stesso una qualsiasi forma di autocontrollo. Essendo costretto, com’ero io, a proiettare questa battaglia con me stesso, o se preferisce contro me stesso, in uno spazio immaginario, dovevo tenere ben presente nella mia coscienza la posizione dei pezzi sulle sessantaquattro case, calcolando non solo la costellazione di quel momento ma anche già le possibili mosse successive di entrambi i giocatori, vale a dire - mi rendo conto di quanto tutto ciò possa sembrare assurdo - immaginando in anticipo per ognuno dei miei Io, Bianco e Nero, le quattro o cinque mosse successive moltiplicate per due o tre volte, anzi, sei, otto, dodici volte. Ma l’aspetto più pericoloso del mio astruso esperimento non era questa sorta di autoscissione, bensì il fatto che, attraverso questo escogitare e ideare le partite in maniera autonoma, mi sentii mancare di colpo la terra da sotto i piedi e precipitai in un abisso senza fondo. La semplice messa in scena delle partite dei gran maestri, nella quale mi ero esercitato nelle settimane precedenti, in fondo non era stata più impegnativa del mandare a mente delle poesie o degli articoli di legge: era un’attività circoscritta, disciplinata e in virtù di ciò un eccellente exercitium mentale. Ma dall’istante in cui provai a giocare contro me stesso, cominciai inconsciamente a mettermi alla prova. Entrambi i miei Io, l’Io-Nero e l’Io-Bianco, dovevano competere l’uno contro l’altro e venivano assaliti, ognuno per conto proprio, da una brama smodata, da un’impazienza di vincere, di avere la meglio; ciascuno dei miei due Io esultava quando l’altro commetteva un errore e allo stesso tempo si irritava per la propria inettitudine. Tutto ciò può apparire insensato e frutto di schizofrenia ma non dimentichi che io, strappato con violenza da qualsiasi normalità, ero un prigioniero, rinchiuso senza alcuna colpa, torturato da mesi in maniera subdola con la solitudine, che da tempo voleva scaricare la sua rabbia, troppo a lungo accumulata, su qualcosa. Così, durante le partite, mi agitavo sino a raggiungere un’eccitazione maniacale. All’inizio riflettevo ancora con calma e ponderazione, facevo delle pause tra una partita e l’altra per riposarmi dalla fatica; poco a poco, tuttavia, i miei nervi eccitabili non mi concessero più alcuna tregua. Divenne un’ossessione che non riuscivo a reprimere; il piacere di giocare si trasformò in un desiderio bramoso, il desiderio in una mania, una furia frenetica che non pervase soltanto le mie giornate ma penetrò poco a poco anche nelle ore di sonno. Non riuscivo a pensare ad altro; a volte mi svegliavo con la fronte madida di sudore e mi accorgevo che probabilmente avevo continuato a giocare persino nel sonno, e quando venivo chiamato per gli interrogatori non riuscivo più a pensare in maniera concisa alle mie risposte; ho la sensazione di essermi espresso in modo piuttosto confuso durante gli ultimi colloqui, dato che i miei inquisitori mi guardavano a tratti sconcertati. Qualsiasi interruzione mi disturbava; perfino quel quarto d’ora in cui la guardia riordinava la mia prigione; a volte, la sera, la scodella con il pranzo era ancora intatta, poiché per via del gioco mi ero scordato di mangiare. … Naturalmente oggi mi rendo conto che lo stato in cui mi trovavo era già in tutto e per tutto una forma patologica di sovreccitazione mentale, per la quale non riesco a trovare altro nome che uno finora sconosciuto alla medicina: un’intossicazione da scacchi. Verso la fine, questa ossessione maniacale cominciò a intaccare non solo la mia mente ma anche il mio corpo. Iniziai a perdere peso, ad avere il sonno irrequieto e disturbato, e quando mi svegliavo dovevo fare ogni volta un grande sforzo per aprire le palpebre, pesanti come piombo; a volte mi sentivo talmente debole che, afferrando un bicchiere, riuscivo a portarmelo a stento alle labbra, tanto mi tremavano le mani; ma non appena cominciavo a giocare, subito venivo travolto da una forza selvaggia: camminavo avanti e indietro con i pugni serrati, e delle volte sentivo la mia stessa voce gridare a se stessa, stridula e cattiva: “Scacco al re” oppure “Scacco matto!”. Come questo stato sia degenerato in una crisi io stesso non sono in grado di raccontarlo. So solo che una mattina mi svegliai, e fu un risveglio diverso dal solito. Avvertivo il corpo quasi staccato da me, riposavo dolcemente, con una sorta di benessere. Sentivo una provvida stanchezza, di cui da mesi non avevo ricordo, gravarmi sulle palpebre con un tale sollievo che dapprincipio non riuscii a decidermi ad aprire gli occhi. Rimasi disteso così per alcuni minuti, già sveglio, gustandomi quel torpore con i sensi voluttuosamente addormentati. E di colpo fu come se sentissi delle voci dietro di me, voci umane di esseri in carne e ossa che pronunciavano parole, e non può immaginare quale fu il piacere che provai, poiché da quasi un anno, non avevo sentito altre parole che quelle dure, aspre e cattive dal banco dei giudici. “Stai sognando”, mi dissi, “continua a tenere gli occhi chiusi! Lascialo durare a lungo questo sogno altrimenti vedrai di nuovo quella maledetta cella. Stai sognando - continua a sognare!”. Ma la curiosità ebbe la meglio e con un atto di volontà aprii gli occhi». …
Che cosa scopre il Signor B. aprendo gli occhi con un atto di volontà? Lo sapremo fra poco. Ora la parola “volontà” ci riporta nel paesaggio intellettuale dove vive Giovanni Duns Scoto.
Nel complesso pensiero di Giovanni Duns Scoto, a volte contraddittorio, c’è tuttavia un’importante spunto innovativo. Lui capisce [sebbene questo fosse già un fatto acquisito] che non è possibile dimostrare l’esistenza di Dio né “a priori” né “a posteriori”: quello dell’esistenza di Dio è un tema che riguarda la Fede nella Rivelazione. Poi capisce che, nonostante lui continui a sostenere che tra Dio e la creatura c’è un rapporto “univoco”, tuttavia la qualità dell’essenza divina e di quella umana non può essere la stessa, c’è però una cosa, afferma Duns Scoto, che rende “univoco” il rapporto tra Dio e la persona: la volontà, la volontà assoluta. Giovanni Duns Scoto definisce un nuovo e particolare concetto di “volontarismo” che modifica il sistema metafisico medioevale finora in auge basato sull’idea dell’importanza che ha la Necessità per la vita dell’Universo, per cui è facile pensare che sia la Necessità a condizionare la volontà [anche quella di Dio].
Giovanni Duns Scoto ha costruito le basi di quella che è stata chiamata “la dottrina del primato della volontà sulla ragione”, e con questo tipo di “volontarismo”, molto accentuato, Giovanni Duns Scoto vuole dare un solido fondamento alla libertà, sia alla libertà con cui Dio crea e governa le cose, sia alla libertà con cui la persona è in grado di entrare in comunicazione con Dio. Per Giovanni Duns Scoto - al contrario del pensiero aristotelico e di quello platonico, i due grandi apparati che hanno condizionato tutto il movimento della Filosofia scolastica medioevale - non è la volontà ad essere soggetta alla Necessità ma è la Volontà a governare la necessità. E questa affermazione risente della volontà di far prevalere la Teologia come scienza pratica che fa vivere meglio le persone [perché, secondo Duns Scoto, la Fede aiuta a sperare nella salvezza] piuttosto che far primeggiare la Filosofia che, in quanto scienza speculativa, insinua nella persona l’inquietudine del dubbio, che, secondo Duns Scoto, adombra le coscienze.
Scrive Giovanni Duns Scoto nel Commento al Libro delle sentenze di Pietro Lombardo: «Come non è libero il corpo grave che cade verso terra, così non è libero l’amore platonico che spinge le anime verso il loro luogo naturale, il Bene in sé. All’eros greco vogliamo opporre l’agape cristiana, che è l’amore solidale con cui Dio vuole il bene delle creature e l’amore con cui i beati del cielo, godendo di Dio, non cessano di volere liberamente la sua volontà. Il fine ultimo dell’essere umano non sta nel contemplare Dio ma nell’amarlo e questo comporta la subordinazione dell’intendere al volere. Gli aristotelici dicono “[intelligere est pati] intendere è subire un’azione dall’esterno”, ma se è vero che nel suo atto primo l’intelletto è determinato dall’oggetto del conoscere, nella dinamica del processo conoscitivo, nel quale si intrecciano pensieri oscuri e pensieri distinti, la volontà ha un peso determinante, è la volontà che interviene per imporre concentrazione o distrazione, per rafforzare o indebolire gli atti conoscitivi e le loro concatenazioni, quindi, è la volontà che muove l’intelletto. Niente altro che la volontà è causa totale della volontà nella volontà. Come all’origine del mondo sta un volontario atto libero, quello del Creatore, così la causa determinante del destino della persona è il suo volontario atto libero». Secondo Giovanni Duns Scoto alle origini [in principio] c’è la volontà di Dio che ha stabilito alcune Leggi invece che altre, e non le ha stabilite per arbitrio ma, avendo creato quest’ordine di cose invece che un altro, afferma Duns Scoto, con la sua mentalità oxfordiana da sperimentatore, ne conseguono alcune Leggi che, appunto per questo, diciamo “naturali”. Ma queste Leggi “naturali”, in una creazione diversa, sarebbero state diverse, sostiene Duns Scoto, e, quindi, anche sul piano storico possono verificarsi circostanze in cui certe “Leggi di natura” possono consentire delle modificazioni.
Il pensiero di Giovanni Duns Scoto disegna uno spazio culturale profondamente diverso da quello della grande scolastica del Duecento, in questo nuovo paesaggio intellettuale sta prendendo forma un clima di “relatività” e, oltre al “volontarismo”, stanno fermentando i germi di un’altra caratteristica tipica dell’Umanesimo: lo “storicismo” [e questo è un argomento di cui ci occuperemo a suo tempo].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
C’è una cosa che avete voluto fortemente e siete riuscite e riusciti ad ottenere?… E ce n’è una che, invece, avreste voluto ma non siete riuscite e riusciti ad ottenere?…
Scrivete quattro righe in proposito…
Arrivate e arrivati a questo punto noi potremmo pensare che, alle soglie del Trecento, nel movimento della Filosofia scolastica medioevale si formino due grandi correnti di pensiero antagoniste: una che considera “la volontà soggetta alla Necessità” e un’altra che considera “la necessità soggetta alla Volontà” e, difatti, così avviene ma, in realtà, lo scenario - all’interno delle stesse correnti che privilegiano l’una la “necessità” e l’altra la “volontà” - si presenta in modo ben più complesso ed eterogeneo e su questo tema torneremo a riflettere la prossima settimana [è una serata in cui tutta una serie di argomenti rimangono in sospeso ma non possiamo, non dobbiamo e non vogliamo fare confusione e voi sapete che da una parte c’è la foresta e dall’altra c’è la radura e noi camminiamo “al limite boschivo”]: siamo sulla soglia di “una rivoluzione nel campo della logica” e bisogna procedere più che mai con circospezione.
Adesso possiamo subito dire che la parola “volontà” è stata variamente interpretata e il “volontarismo” [già piuttosto accentuato] di Giovanni Duns Scoto si differenzia da quello fortemente accentuato di un nuovo personaggio [al quale Duns Scoto passa il testimone] con il quale abbiamo appuntamento e che stiamo per incontrare e che la scorsa settimana non ho potuto annunciare perché è “un ricercato”, e si chiama Guglielmo di Ockham. Chi è Guglielmo di Ockham e perché, incontrandolo, siamo obbligate ed obbligati, in prima istanza, a puntare la nostra attenzione su una particolare situazione [piuttosto caotica] che ha lasciato un segno nella storia della cristianità? E, come abbiamo detto, bisogna procedere con ordine partendo dalla biografia di Guglielmo di Ockham ma poi avventurandoci su un altro terreno piuttosto ampio per cui dovremo lasciare in sospeso l’argomento per riprenderlo nel prossimo itinerario.
Guglielmo [William of Ockham, oppure Guglielmo Occam] nasce ad Ockham in Inghilterra tra il 1285 e il 1290.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Con la guida della Gran Bretagna e navigando in rete fate una visita ad Ockham che è un piccolo paese a sud-ovest di Londra nella contea del Surrey: buona escursione…
Nel 1306 Guglielmo di Ockham entra nell’Ordine francescano e nel 1307 va a studiare ad Oxford dove, nel 1318, diventa magister ed insegna Teologia fino al 1324 quando per lui inizia un periodo difficile a causa della conflittualità che si accentua all’intermo dell’Ordine francescano e nell’ambito della cristianità in generale.
Infatti nell’anno 1324 viene citato a comparire di fronte alla corte papale di Avignone, perché molti elementi del suo pensiero, contenuti in un’opera intitolata Commentario delle Sentenze, vengono considerati eretici. Il Commentario delle Sentenze è un’opera in cui Guglielmo di Ockham - esattamente come ha fatto Giovanni Duns Scoto, che ha creato un vero e proprio genere letterario [un genere in cui si analizzano le Sentenze dei Padri della Chiesa per giudicare, alla luce della Tradizione evangelica, i comportamenti dell’attuale mondo ecclesiastico] - commenta il testo del Liber Sententiarum [il “Libro delle Sentenze”] di Pietro Lombardo [e, come ricorderete, le caratteristiche di quest’opera le abbiamo studiate la scorsa settimana anche con la collaborazione di Dante Alighieri]. Il Commentario delle Sentenze di Guglielmo di Ockham è un testo che, dal 1319, sta circolando in tutte le Università delle principali città europee ma una serie di proposizioni contenute in quest’opera vengono giudicate poco ortodosse, soprattutto sul tema delle attribuzioni papali [sui giudizi che vengono dati a proposito di certi comportamenti papali soprattutto sul piano politico].
La permanenza ad Avignone di Guglielmo di Ockham, in qualità di sorvegliato speciale [tenuto d’occhio da papa Giovanni XXII, del quale ci occuperemo prossimamente], dura quattro anni, il tempo necessario perché un’apposita commissione possa estrapolare le tesi, oggetto di sospetto, contenute nella sua opera, e nel 1326 cinquantuno proposizioni tratte dal Commentario delle Sentenze vengono condannate dal tribunale dell’Inquisizione e Guglielmo viene trattenuto ad Avignone [agli arresti conventuali] anche se non viene pronunciata nei suoi riguardi alcuna condanna per eresia [tutto rimane in sospeso].
Ma noi, a questo punto, oltre a chiederci quali sono le proposizioni per cui Guglielmo di Ockham viene incriminato [e naturalmente questa non è una domanda alla quale si possa rispondere in due battute, ce ne occuperemo nei prossimi itinerari], dobbiamo domandarci: che cosa ci fa la Corte papale ad Avignone, nel cuore della Provenza?
Tutte e tutti voi siete al corrente del fatto che la Corte papale, per circa settant’anni, dal 1309 al 1377, si è trasferita ad Avignone e questo periodo è stato chiamato della “cattività avignonese” perché, in latino, il termine “captivitas” significa “prigionia” e non è che il papa fosse prigioniero ad Avignone, ma, di fatto, il papato era sotto il controllo del re di Francia, inizialmente di Filippo IV il Bello il quale ha preteso il trasferimento della sede papale in territorio francese ma [siccome i passaggi di questa storia sono piuttosto complessi] non è che il papato sia diventato immediatamente “avignonese” e Filippo il Bello - che è morto nell’autunno del 1314 - non ha assistito alla più stabile sistemazione della Corte papale ad Avignone.
Questa sera noi [per il tempo e per lo spazio che abbiamo a disposizione] ci possiamo occupare solo dell’antefatto: dell’analisi della situazione che ha portato la sede del papato in territorio francese, una situazione che viene a determinarsi a causa del conflitto che si è sviluppato [sul finire del 1200] tra il papa Bonifacio VIII e il monarca francese Filippo IV il Bello.
Sappiamo [perché abbiamo già studiato questi avvenimenti, ma dobbiamo approfondire la questione in rapporto ad un altro contesto] che Bonifacio VIII ha subito una cocente umiliazione che ha preso il nome di “schiaffo di Anagni” [anche se non si tratta di un vero e proprio atto materiale] da parte di Guglielmo di Nogaret [l’ambasciatore di Filippo il Bello] e di Sciarra Colonna [il capo militare della famiglia acerrima nemica dei Caetani]. Bonifacio VIII [e conosciamo il personaggio anche in relazione al primo Giubileo della Storia della Chiesa, quello del 1300] è stato un papa autoritario e teocratico [un papa che concepisce l’idea di una Chiesa dominatrice del mondo che detta le regole ai sovrani della Terra], un papa dalla mania di grandezza, narcisista, borioso, un superbo che vuole divinizzare la sua persona [nessun papa prima di lui si era fatto immortalare in un così gran numero di statue e di pitture]; tuttavia l’affronto che ha subito è molto grave e anche Dante - che [come sappiamo, perché abbiamo già preso atto di questo fatto] mette Bonifacio VIII all’Inferno [tra i simoniaci] - deplora il fatto che Nogaret e Sciarra Colonna si siano permessi, con il benestare di Filippo il Bello, di fare violenza al papa e nel canto XX del Purgatorio Dante - mentre condanna l’avarizia [“Maledetta sie tu, antica lupa, … per la tua fame senza fine cupa!”] - fa predire a Ugo Capeto [Ugo Ciapetta, lo chiama Dante], il capostipite dei Capetingi, quanto saranno sciagurati [e Dante li vuole bollare con questo termine] certi suoi successori [Carlo d’Angiò, Filippo l’Ardito, Carlo di Valois, Filippo il Bello].
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La Scuola consiglia di leggere - utilizzando il testo della Divina Commedia che avete nella vostra biblioteca domestica - il canto XX del Purgatorio dove Dante presenta una serie di esempi di povertà premiata, la figura di Maria nel presepio, i personaggi di Fabrizio e Niccolao, l’invettiva di Ugo Capeto contro i Capetingi e una serie di esempi di avarizia punita con il tremito finale della montagna del Purgatorio…
Armatevi di pazienza e fate questo esercizio…
Adesso leggiamo insieme e commentiamo un frammento del canto XX del Purgatorio, otto versi [dal verso 86 al verso 93] perché sono parte integrante del paesaggio intellettuale che stiamo osservando questa sera.
LEGERE MULTUM….
Dante Alighieri, Purgatorio Canto XX 86-93
Dante scrive facendo parlare Ugo Capeto …
«…veggio in Alagna entrar lo fiordaliso
vedo entrare in Anagni le truppe con lo stendardo del re di Francia
e nel vicario suo Cristo esser catto.
vedo Cristo essere fatto prigioniero nella figura del suo vicario.
Veggiolo un’altra volta esser deriso;
veggio rinnovellar l’aceto e l’ fele,
e tra vivi ladroni essere anciso.
i ladroni vivi, che faranno morire di crepacuore il papa, sono Nogaret e Sciarra Colonna.
Veggio il nuovo Pilato sì crudele,
che ciò nol sazia; ma senza decreto
porta nel tempio le cupide vele» …
vedo Filippo il Bello che, non contento di aver oltraggiato Bonifacio VIII, lo mette nelle mani,
come fosse Pilato, dei suoi peggiori nemici, i Colonna e, per cupidigia, senza rispettare nessun decreto papale (
e qui Dante allude a papa Clemente V) il re di Francia accusa i Templari di eresia
e, con la violenza, ne incamera i beni …
Dante odia Bonifacio VIII perché, come sappiamo, è responsabile del suo esilio che non avrà mai fine [il papa ha tradito e ha tramato contro il governo della Repubblica fiorentina] ma sa anche che Bonifacio VIII si è comportato dignitosamente quando Nogaret e Sciarra Colonna [il 7 settembre 1303] entrano armati nel palazzo dei Caetani ad Anagni e gli intimano di abdicare e di consegnarsi prigioniero se vuole salva la vita, ma Bonifacio VIII respinge indignato questa ingiunzione, riveste le insegne papali e offre la sua testa pronto al martirio. Nogaret non vuole la morte del papa perché deve condurlo vivo dal suo re, da Filippo il Bello [che dirige l’operazione da Roma], mentre Sciarra Colonna vorrebbe fosse ucciso, e questo contrasto d’opinioni salva la vita a Bonifacio VIII perché, dopo tre giorni di prigionia, l’esercito cittadino di Anagni guidato dalla borghesia si muove, con tutto il popolo, a difesa del papa-concittadino e lo libera mettendo in fuga i Francesi e i Colonna.
La sera del 9 settembre 1303 papa Bonifacio VIII dal balcone del suo palazzo benedice il popolo di Anagni che lo acclama e poi, scortato dagli Orsini [tradizionali alleati dei Caetani], torna a Roma molto provato nel fisico e nel morale e non è più il grande papa-teocratico che si era illuso di essere. Bonifacio VIII muore un mese dopo, l’11 ottobre 1303, e viene sepolto in San Pietro nella cappella Caetani che si era fatto costruire da Arnolfo di Cambio ma questo monumento, un capolavoro dell’arte gotica, non lo possiamo più vedere perché è stato abbattuto nel 1506 quando papa Giulio II ha ordinato l’inizio dei lavori della nuova basilica e le spoglie di Bonifacio VIII sono state traslate in un semplice sepolcro nelle grotte vaticane [ma questa è un’altra storia e noi ora dobbiamo riprendere il filo della narrazione che ci riguarda].
Durante il funerale di Bonifacio VIII scoppiano sanguinosi tumulti tra le opposte fazioni [i Caetani e gli Orsini da una parte e i Colonna dall’altra], ed è per questo che i cardinali si riuniscono subito in conclave, e il 22 ottobre 1303 [in appena dieci giorni, un record per l’epoca] eleggono, all’unanimità, il nuovo pontefice. Il successore di Bonifacio VIII è il domenicano Niccolò Boccassini di Treviso, vescovo di Ostia, che prende il nome di Benedetto XI e si trova ad affrontare una situazione assai difficile per il papato, per cui agisce, essendo un diplomatico, facendo una politica di riappacificazione con il re di Francia Filippo il Bello al quale revoca la scomunica inflittagli dal suo predecessore.
Il fatto è che Roma è nel caos e le varie fazioni [i Colonna, i Caetani, gli Orsini, i Savelli] si fanno la guerra e Benedetto XI decide di lasciare Roma per Montefiascone, poi si trasferisce a Orvieto e infine a Perugia dove, coraggiosamente, apre un processo sui fatti di Anagni [sulla violenza subita da Bonifacio VIII] che termina con la condanna e la scomunica di Nogaret e di Sciarra Colonna e, quindi, il verdetto tocca anche, seppur indirettamente [perché non viene mai nominato] Filippo il Bello, ma il pontificato di Benedetto XI non dura neppure un anno perché muore nel luglio del 1304: si parla di avvelenamento, e questo è un fatto assai probabile secondo la Nuova Cronica di Giovanni Villani. Benedetto XI è sepolto nella Chiesa di S. Domenico a Perugia.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Con una guida dell’Umbria e navigando in rete potete osservare il monumento funebre di Benedetto XI nella Chiesa di San Domenico a Perugia che è uno degli esempi più interessanti di tomba in stile gotico italiano della Scuola di Arnolfo di Cambio e di Lorenzo Maitani …
Visitate questo monumento…
Il mercante e cronista fiorentino Giovanni Villani [1276-1348] nella sua opera intitolata Nuova Cronica riporta, nella sua bella [e pittoresca] lingua trecentesca, una notizia sulla morte di Benedetto XI, ascoltiamo che cosa scrive.
LEGERE MULTUM….
Giovanni Villani, Nuova Cronica
Stando il papa [Benedetto XI] a sua mensa a mangiare gli venne uno giovane vestito e velato in abito di femmina, come serviziale delle monache di Santa Petronilla di Perugia, con uno bacino d’argento, iv’entro molti belli fichi fiori, e presentogli al papa da parte della badessa di quello monastero sua divota. Il papa gli ricevette a gran festa, e perché gli mangiava volentieri, e senza farne saggio, perché era presentato da femmina, ne mangiò assai, onde incontinente cadde malato, ed in pochi dì morìo. …
Giovanni Villani allude al fatto che Benedetto XI sia stato avvelenato “con polvere di diamante” iniettata nei fichi. Il fatto è che non ci sono prove, che non è mai stata aperta un’inchiesta, ma i mandanti sarebbero ben identificabili.
Nel conclave di Perugia, in seguito alla morte di Benedetto XI, il collegio cardinalizio si presenta spaccato in due fazioni che litigano violentemente per un anno intero. Filippo il Bello gongola perché ad un certo punto si presenta come pacificatore e lui propone un suo candidato fuori dalla mischia [un arcivescovo francese che non fa neppure parte del collegio cardinalizio] ma che è alle sue dipendenze [il quale non ha alcuna intenzione di muoversi dalla Francia].
Ma, per ora, ci dobbiamo fermare qui, però il filo di questa storia, naturalmente, lo riprenderemo nel prossimo itinerario: ad Avignone c’è Guglielmo di Ockham che ci sta aspettando e sappiamo di avere appuntamento con lui. Guglielmo di Ockham nel 1326 è agli “arresti conventuali” [tenuto d’occhio da papa Giovanni XXII, del quale ci occuperemo prossimamente].
E ora ci dobbiamo domandare: ma il Signor B. - che ci ha raccontato la storia della sua detenzione nella Novella degli scacchi - che cosa scopre aprendo gli occhi dopo aver perso conoscenza? Scopre di trovarsi ricoverato in una clinica, e di essere stato scarcerato a causa di una violenta crisi maniacale che lo ha colpito [come abbiamo letto] e, in questo caso, deve, paradossalmente, proprio dire “grazie agli scacchi”. E allora leggiamo che cosa ha ancora da raccontarci il Signor B..
LEGERE MULTUM….
Stefan Zweig, Novella degli scacchi
«Lento e cauto, sollevai le palpebre. E, miracolo: quella in cui mi trovavo era un’altra stanza, una camera più ampia e spaziosa della cella in albergo. Da una finestra senza inferriate entrava libera la luce e si poteva intravedere uno scorcio di alberi, alberi verdi che ondeggiavano al vento anziché l’immobile muro spartifuoco, le pareti luccicavano bianche e lisce, e bianco e imponente si ergeva il soffitto sopra di me - era vero, ero disteso in un letto nuovo, sconosciuto, ed era vero, non era un sogno, dietro di me delle voci, voci umane, sussurravano sommesse. Per la sorpresa dovevo essermi mosso di scatto, poiché già sentivo dei passi avvicinarsi alle mie spalle. Una donna dalla camminata lenta e morbida stava venendo verso il mio letto, una donna con una cuffia bianca sui capelli, un’infermiera. Sentii un brivido di ebbrezza corrermi lungo la schiena: era da un anno che non vedevo una donna. Fissai la leggiadra apparizione, e dovette essere uno sguardo estatico, selvaggio, poiché la figura che si avvicinava si affrettò a tranquillizzarmi: “Calmo! Stia calmo!”. Ma io ascoltavo solo la sua voce - era proprio un essere umano quello che mi parlava? C’era davvero ancora qualcuno sulla terra che non mi interrogava, non mi tormentava? E come se non bastasse - inconcepibile miracolo! - una voce calda, morbida. Le fissai la bocca bramoso, poiché mi era diventato inconcepibile che un essere umano potesse parlare con gentilezza. Lei mi sorrise - sì, sorrise, c’erano ancora persone in grado di sorridere benevole - poi si portò un dito alle labbra, esortandomi a tacere, e passò oltre senza far rumore. Ma non potei obbedire al suo ordine. Con impeto cercai di drizzarmi sul letto per continuare a guardarla, ma non ci riuscii. Nel punto in cui un tempo c’era la mia mano destra, il polso e le dita, avvertivo qualcosa di estraneo, senza dubbio un’abbondante fasciatura. Dapprima fissai sbalordito questa cosa estranea alla mano, poi, poco a poco, cominciai a capire dove mi trovavo e a riflettere su ciò che mi era potuto accadere. Dovevo essere stato ferito, oppure ero stato io stesso a farmi del male. Mi trovavo in un ospedale. A mezzogiorno venne il medico, un affabile signore di una certa età. Conosceva il nome della mia famiglia e menzionò mio zio, medico personale dell’imperatore, con una tale deferenza da darmi subito la sensazione che fosse bendisposto nei miei confronti. Proseguendo la conversazione mi rivolse domande di ogni genere, soprattutto una che mi lasciò sbigottito - se ero un chimico o un matematico. Dissi di no. “Strano”, mormorò. “Durante la febbre gridava di continuo delle strane formule - c3, c4. Nessuno di noi è riuscito a capirci qualcosa”. Mi informai su quello che mi era accaduto. Il medico sorrise in maniera curiosa. “Nulla di serio. Un’acuta irritazione dei nervi”, e soggiunse, dopo essersi guardato intorno con prudenza: “Decisamente comprensibile, d’altro canto. Dal 13 marzo, non è vero?”. Annuii. “Non c’è da meravigliarsi, con quel metodo”, mormorò. “Non è il primo. Ma non si preoccupi”. Dal modo rassicurante con cui mi bisbigliò queste parole e dal suo sguardo comprensivo capii che da lui, in quel reparto, ero al sicuro. Due giorni dopo il dottore mi spiegò che cosa mi fosse successo. La guardia mi aveva sentito urlare a perdifiato nella mia cella e sulle prime aveva creduto che vi si fosse introdotto qualcuno col quale stavo litigando. Ma non appena era comparso sulla soglia mi ero precipitato verso di lui e l’avevo assalito con urla selvagge, che più o meno dicevano: “E sbrigati una buona volta con questa mossa, farabutto, vigliacco!”, poi avevo cercato di agguantarlo alla gola e alla fine aggredito con una tale furia da costringerlo a chiamare aiuto. Quando poi, in quello stato rabbioso, mi avevano preso e portato via per sottopormi a una visita medica, ero riuscito di colpo a strattonarmi e mi ero scagliato contro la finestra del corridoio, frantumando il vetro e tagliandomi la mano - può vedere lei stesso la profonda cicatrice, qui. Avevo trascorso le prime notti in ospedale in una sorta di febbre cerebrale, ma al momento egli trovava il mio sensorio del tutto lucido. “Tuttavia”, soggiunse sottovoce, “preferirei non metterne a parte i signori, altrimenti finirà che la riporteranno di nuovo lì. Si fidi di me, farò del mio meglio”. Cos’abbia riferito quel medico ai miei aguzzini, lo ignoro. A ogni modo ottenne ciò che voleva: il mio rilascio. Può darsi che mi abbia dichiarato incapace di intendere e di volere, o forse ero divenuto poco importante per la Gestapo. Così, dovetti sottoscrivere soltanto l’impegno a lasciare la nostra patria entro due settimane, e questi quattordici giorni furono talmente pieni di mille formalità - documenti militari, polizia, fisco, passaporto, visto, certificato di buona salute - che non ebbi tempo di riflettere su ciò che mi era accaduto. A quanto pare il nostro cervello è regolato da forze che operano in maniera misteriosa, e che cancellano in automatico ciò che può essere gravoso o pericoloso per la coscienza: poiché ogni volta che ho voluto ripensare al periodo che ho trascorso in cella è come se nel mio cervello si fosse spenta la luce; solo dopo settimane, e a dire il vero solo qui sulla nave, ho trovato di nuovo il coraggio di ricordare ciò che mi è successo. E forse ora potrà capire per quale motivo mi sia comportato in modo tanto sconveniente, e credo anche incomprensibile, davanti ai suoi amici. Bighellonavo per puro caso nella sala fumatori quando li ho visti seduti lì davanti alla scacchiera; senza volerlo sono rimasto paralizzato per il terrore e lo stupore. Avevo difatti del tutto dimenticato che si potesse giocare a scacchi dinanzi a una scacchiera reale e con figure reali, e che in questo gioco due persone diverse potessero sedere fisicamente l’una di fronte all’altra. Mi ci sono voluti un paio di minuti per ricordare che ciò che facevano i due giocatori era, in sostanza, lo stesso gioco nel quale, nella mia disperazione, mi ero cimentato per mesi contro me stesso. Non ho potuto fare a meno di fissare la scacchiera come ipnotizzato, e vi scorgevo i miei schemi - Cavallo, Torre, Re, Regina e Pedoni - sotto forma di figure reali intagliate nel legno; per poter avere una visione d’insieme della partita, prima ho dovuto automaticamente trasporla dal mio astratto mondo di sigle a quello dei pezzi mossi dai giocatori. Poco a poco la curiosità di osservare un incontro vero tra due veri avversari ha avuto la meglio. Ed è così che sono incorso in quel penoso incidente, che mi sia immischiato nel vostro gioco, scordandomi di ogni cortesia. Ma la mossa sbagliata del suo amico è stata come una pugnalata al cuore. Che l’abbia trattenuto in quel modo, è stata una pura reazione istintiva: l’ho afferrato d’impulso, un po’ come si agguanta, senza riflettere, un bambino che si sporge oltre un parapetto. Solo dopo ho preso coscienza della grossolana mia invadenza». Mi affrettai a rassicurare il Signor B., spiegandogli quanto tutti noi fossimo grati a quella circostanza che ci aveva consentito di fare la sua conoscenza, e che dopo tutto quello che mi aveva raccontato ero doppiamente curioso di poterlo vedere, l’indomani, mentre giocava una partita improvvisata. … Il Signor B. fece un movimento brusco. «No, davvero, non si aspetti granché. Per me non dev’essere altro che una prova … una prova per valutare se … se sono veramente in grado di giocare una normale partita a scacchi, una partita su una scacchiera reale con delle vere figure e un avversario in carne e ossa. … Spero che lei non si aspetti sul serio da me che sia in grado di dare del filo da torcere a un maestro di scacchi, e men che meno al più grande a livello mondiale. Quello che m’interessa è solo la curiosità - a posteriori - di stabilire se quello che facevo nella mia cella fosse davvero giocare a scacchi o era già follia - questo, questo soltanto m’interessa». … In quell’istante dall’estremità della nave tuonò il gong che ci chiamava per la cena. … Dovevamo aver chiacchierato per quasi due ore. Lo ringraziai calorosamente e mi congedai. Ma non avevo ancora percorso tutto il ponte per lungo che egli mi fu già alle spalle e, visibilmente nervoso e persino balbettando un poco, soggiunse: «Ancora una cosa! Vorrebbe per favore riferirla in anticipo ai signori, così che non rischi di apparire scortese in un secondo momento: gioco soltanto una partita …non dev’essere altro che un punto alla fine di un vecchio conto in sospeso - una faccenda da concludere in maniera definitiva, e non un nuovo inizio…Non desidero davvero cadere di nuovo in quell’esaltata febbre del gioco, alla quale riesco a ripensare solo con orrore…e tra l’altro anche il medico mi ha messo in guardia, all’epoca… Chiunque sia caduto vittima di un’ossessione maniacale è a rischio per tutta la vita, e nel caso di una - per quanto guarita - intossicazione da scacchi sarebbe meglio non avvicinarsi a una scacchiera … Quindi, capisce - solo questa partita di prova, per me stesso, e niente di più».
Il giorno dopo, puntuali all’ora stabilita, le tre, eravamo riuniti nella sala fumatori. …
La prossima settimana saremo anche noi spettatrici e spettatori di questo incontro. E poi dovremo conoscere e capire come si sviluppa la questione, che abbiamo lasciato in sospeso, della “cattività avignonese” fino ad incontrare papa Giovanni XXII che ha un ruolo nei confronti di Guglielmo di Ockham del quale dobbiamo studiare il pensiero.
Nel 1326 un’apposita commissione, presieduta da Giovanni XXII, dichiara che cinquantuno proposizioni contenute nel Commentario delle Sentenze di Guglielmo di Ockham non sono in linea con l’ortodossia per cui Guglielmo viene trattenuto ad Avignone [agli arresti conventuali] anche se non viene pronunciata nei suoi riguardi [almeno per il momento] alcuna condanna per eresia [tutto rimane in sospeso].
In questo clima di grande incertezza Guglielmo incontra un grande personaggio [e aderisce alle sue posizioni], Michele da Cesena, il leader dei francescani spirituali, che è arrivato ad Avignone con due suoi confratelli [Bonagrazia da Bergamo e Francesco d’Ascoli] per sostenere la posizione dottrinale sul tema della povertà derivante dalla Regola di Francesco d’Assisi: «Gesù Cristo non era padrone dei suoi abiti quindi la Chiesa deve distribuire tutto quello che ha e tutto ciò raccoglie».
Giovanni XXII - e lo conosceremo meglio la prossima settimana - che è dotato di uno straordinario talento finanziario e amministrativo non la pensa certo così, per lui Gesù Cristo era padrone dei suoi abiti e la Chiesa è una grande azienda che opera sul mercato e chi non la pensa come lui rischia grosso [e anche Michele da Cesena, Bonagrazia da Bergamo e Francesco d’Ascoli finiscono agli arresti conventuali].
Nella notte [senza luna] del 26 maggio 1328 Guglielmo di Ockham, Michele da Cesena, Bonagrazia da Bergamo e Francesco d’Ascoli fuggono avventurosamente da Avignone convinti che per sostenere l’idea della povertà predicata dal Vangelo è meglio restare vivi. Sanno che questo loro gesto - essendo in pratica prigionieri - avrà delle conseguenze, e allora: dove sono diretti, chi li ospita? E soprattutto quale incidenza ha il pensiero di Guglielmo di Ockham in questo momento così delicato per la Storia del Pensiero Umano?
Per rispondere a queste domande dobbiamo seguire la via dell’Alfabetizzazione culturale e funzionale: una via dove ci s’abitua a non perdere mai la volontà d’imparare.
Non era facile, nel buio, fuggire indenni da Avignone [difatti questa fuga è passata alla storia] ma i fuggiaschi sanno che “quando si fa buio c’è bisogno di una luce e per trovarla bisogna essere abituati a cercarla”, e loro erano abituati a cercarla, la luce, con tre strumenti adatti: la volontà, la memoria e l’intelletto.
E siccome loro sono convinti che: “la Storia non è altro che il presente che prende coscienza del passato”, e siccome ne siamo convinte e convinti anche noi: la Scuola è qui, e nell’immediato futuro il viaggio continua [e la prossima è già la penultima Lezione prima della vacanza pasquale]…