Autorizzazione all'uso dei cookies

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ TARDO-ANTICA S'INCONTRA IL POEMA PHARSALIA DI LUCANO DOVE SI RIFLETTE SUL TEMA DEL RIMORSO, “CONSCIENTIA SERPENTIS INSTAR” ...

Lezione N.: 
11

Prof. Giuseppe Nibbi    La sapienza poetica e filosofica dell’età tardo-antica   16-17-18  gennaio  2013

Marco Anneo Lucano

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ TARDO-ANTICA

S'INCONTRA IL POEMA PHARSALIA DI LUCANO DOVE SI RIFLETTE SUL TEMA

DEL RIMORSO, “CONSCIENTIA SERPENTIS INSTAR” ...

   Abbiamo percorso più di un terzo del nostro viaggio e stiamo attraversando – questo è l’undicesimo itinerario – un vasto spazio culturale che prende il nome di “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età tardo-antica”, un territorio che si caratterizza – come ben sapete – per essere un’area di confine tra l’Epoca antica e l’Epoca medioevale [uno spicchio di tempo che sta tra il I e il V secolo]: abbiamo studiato che tra l’Antichità e il Medioevo non c’è una vera e propria linea di frontiera ma esiste un’ampia superficie nella quale si prolungano una serie di parole-chiave: “la patria e l’esilio, il sonno e il sogno, l’amore e l’odio, la malattia e il tormento, il trionfo della Morte e la speranza della Risurrezione”. Queste parole-chiave formano un catalogo [un insieme di idee-significative in evoluzione] che costituisce la principale struttura filologica capace di determinare l’inizio della fine dell’Età antica.

   Il territorio della “sapienza poetica e filosofica dell’Età tardo-antica” si distingue per essere un’area nella quale si “prolungano [si attardano, dal latino “tardus”]” i grandi temi dell’Antichità sottoposti – mediante una profonda riflessione – ad un’ampia revisione e, di conseguenza, nel vasto spazio che stiamo attraversando incontriamo grandi paesaggi intellettuali e noi – camminando sulla via dei Cinque Imperatori [Augusto, Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone] – abbiamo raggiunto il primo di questi paesaggi: quello dell’Età giulio-claudia [che è il nome della dinastia dei primi cinque imperatori romani che abbiamo citato] e ci troviamo ancora – siamo nel I secolo – nel cuore di questo ampio scenario intellettuale perché è particolarmente affollato: sono molte le figure significative che hanno lasciato un segno nel I secolo dell’Età tardo-antica.

   Qui – in queste ultime settimane – abbiamo fatto conoscenza con il filosofo Lucio Anneo Seneca autore delle Lettere a Lucilio e con l’apostolo Paolo di Tarso autore della Lettera ai Romani, ci sta facendo compagnia Giulia Agrippina Augusta [così si chiamava quando suo figlio Nerone era ancora un bravo ragazzo e aveva ancora un po’ di rispetto per lei], ora, molto più umilmente e confidenzialmente [non sappiamo quanta confidenza si possa dare a questa signora], si fa chiamare semplicemente Agrippina Minore [è vero che si è messa a studiare e in lei vediamo segni di ravvedimento].

   Il nome di Agrippina ci ha fatto incontrare lo scrittore Luigi Capuana [uno dei padri del “verismo o naturalismo” europeo] che ha voluto chiamare così [probabilmente pensando prima di tutto a Sant’Agrippina, patrona della cittadina di Mineo dove lui è nato nel 1839: avete fatto una ricerca su Sant’Agrippina e sulle date in cui viene festeggiata? Siete ancora in tempo.], ebbene, Luigi Capuana ha voluto dare il nome di Agrippina al principale personaggio femminile [uno dei personaggi più significativi della Letteratura italiana] del suo romanzo intitolato Il marchese di Roccaverdina [1901] del quale, la scorsa settimana, abbiamo letto l’incipit e ne leggeremo ancora qualche pagina.

   In questo paesaggio intellettuale dell’Età giulio-claudia c’è anche un personaggio che ci è venuto incontro insieme a Seneca perché anche lui, come Seneca, è residente nel tardo-antico ma abita [dall’inizio del XIV secolo] nel Limbo dantesco, nel Canto IV dell’Inferno della Divina Commedia dove Dante Alighieri ha raccolto in una Scuola i Classici antichi. Questo personaggio è il nipote di Seneca e si chiama Marco Anneo Lucano ed è un poeta.

   Perché è importante Marco Anneo Lucano come poeta? Marco Anneo Lucano è importante come poeta perché ha saputo interpretare in modo originale il poema epico latino: Lucano è stato messo in contrapposizione con Virgilio – si dice di Virgilio che sia il poeta che esalta l’Impero utilizzando la mitologia mentre Lucano ammira la Repubblica ed è fedele alla Storia – ma, in realtà, questa è una lettura mistificatoria perché Lucano ha capito benissimo la lezione dell’Eneide di Virgilio un poema [che noi abbiamo studiato nel corso del viaggio dello scorso anno scolastico] incentrato sul provocatorio concetto della “pietas” e sulla denuncia della “mentalità predatoria” frutto del sistema imperialista. Lucano, dopo aver fatto un’analisi storica ben precisa degli avvenimenti riguardanti le “guerre civili” traduce questa analisi in poesia affermando che l’avvento del potere imperiale non è apportatore di “elevati destini” ma di una decadenza inarrestabile. Chi è Marco Anneo Lucano? Mentre rispondiamo a questa domanda ne approfittiamo per incontrare anche un altro scrittore molto amico di Lucano che, seppur brevemente, dobbiamo conoscere: si chiama Aulo Persio Flacco.

   Marco Anneo Lucano è nato a Cordova ed è nipote di Lucio Anneo Seneca: la gens Annea è di origine iberica. Lucano è nato nel 39 e nel 40, quando ha appena un anno, si trasferisce a Roma con la famiglia e da adolescente comincia a frequentare con impegno la Scuola del filosofo stoico Lucio Anneo Cornuto originario di Leptis Magna [che appartiene alla famiglia Annea perché è stato adottato da Seneca]. Il compagno di banco di Lucano si chiama Aulo Persio Flacco appartenente ad una ricca famiglia di Volterra dove è nato nel 34 e, rimasto orfano, viene allevato da una madre intelligente e colta Fulvia Sisenna [dal cognome si capisce l’origine etrusca]: Lucano approva che noi ricordiamo Persio prima di parlare di lui perché Lucano e Persio [Persio ha cinque anni più di Lucano e per lui è come se fosse un fratello maggiore] diventano grandi amici e sono gli alunni prediletti del loro maestro Anneo Cornuto che li giuda alla conoscenza della dottrina stoica [di cui conosciamo i principi], e Persio diventa un importante scrittore di Satire in versi esametri [sul modello di Orazio].

   Il Libro che contiene le sei Satire di Persio [669 versi esametri pubblicati postumi] è scritto con un linguaggio sperimentale ricercato e oscuro, ricco di espressioni anche volgari e di termini osceni ma anche di toni ironici e parodistici tanto da formare un misto di gerghi popolari e di repertori retorici sofisticati e spesso enigmatici: leggere le Satire di Persio non è facile e, per farlo, non solo bisogna conoscere bene il latino ma anche la storia della lingua latina. Il Libro delle Satire di Persio contiene poi, messi in poesia, i concetti morali della filosofia stoica non presentati in tono precettistico ma descritti attraverso quadri di vita quotidiana, scene esemplari [exempla] che mettono a nudo il degrado morale a cui può giungere la natura umana. Anche Persio è un classico “pessimista ragionevole” [come il pensatore epicureo Lucrezio, come il filosofo Seneca, come l’apostolo Paolo, come il poeta epico Lucano] e, in coerenza con ciò che scrive, ha condotto una vita austera e appartata dedita allo studio e ai rapporti affettivi con gli amici, purtroppo Persio si ammala e muore nel 62 a ventotto anni e Lucano è molto rattristato per la perdita dell’amico.

   Di questa compagnia di giovani intellettuali [Lucano, Persio e altri] fa parte anche Nerone – che [alla metà degli anni 50] è un bravo ragazzo, studioso, amante della poesia [in questo momento Agrippina Minore è fortemente commossa: li conosce bene tutti i componenti di questo gruppo di ragazzi amici del figlio e non sapeva ancora che fine hanno fatto] – e Lucano, al ritorno dal tradizionale viaggio di studio ad Atene, diventa amico intimo di Nerone [che intanto ha ereditato la carica di Principe] perché hanno entrambi la stessa passione [studium] per la poesia e pensano anche ambedue che sarebbe necessario ripristinare le Istituzioni repubblicane. Durante l’autorevole governo di Seneca e di Burro, Lucano, ancora giovanissimo, ottiene la carica di questore ed entra a far parte del collegio degli àuguri [che si occupavano dell’organizzazione delle feste religiose].

   I rapporti di Lucano con Nerone si guastano bruscamente all’epoca in cui anche lo zio Seneca [nel 62] deve lasciare la corte: si pensa che l’allontanamento di Lucano sia dipeso dalla gelosia letteraria che il Principe [nella cui mente qualcosa ha cominciato a non funzionare bene] nutre nei suoi confronti perché Lucano si dimostra un grande poeta [che vince tutti i concorsi] mentre Nerone non è che un mediocre cantautore, ma lo scontro tra i due avviene per motivi politici: Lucano vorrebbe che Nerone restaurasse la Repubblica [come diceva da ragazzo] ma il Principe, quando rimane solo a governare, dopo la morte di Burro e dopo essersi sbarazzato di Seneca e della madre Agrippina Minore [uccisa nel 59, intanto Agrippina è sempre più commossa] trasforma lo Stato romano in una anacronistica monarchia assoluta basata sul populismo e sul culto della persona dell’Imperatore.

   L’inimicizia con Nerone porta Lucano a partecipare [insieme tutti gli intellettuali di valore] alla congiura ordita nel 64 dagli aristocratici e guidata da Calpurnio Pisone. Nel 65 Lucano viene arrestato dopo la scoperta della congiura dei Pisoni e viene condannato a morte [Tacito scrive che Lucano avrebbe addirittura denunciato sua madre Alicia pur di salvarsi ma non risulta che lei sia stata condannata e su questa affermazione di Tacito - che ogni tanto tende a fare il romanziere con racconti ad effetto - ci sono molti dubbi]: Lucano, che ha solo ventisei anni, si toglie la vita – così come lo zio Seneca e come molti altri – tagliandosi le vene e bevendo la cicuta secondo lo stile della Scuola stoica. Se fosse stato ancora vivo anche Persio, molto probabilmente, avrebbe seguito la stessa difficile strada del suicidio stoico e, a proposito dell’opera di questo scrittore, è doveroso, nonostante la difficoltà che può richiedere, leggerne qualche verso.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Non è difficile tradurre la poesia satirica di Persio però è complicato renderla efficace in una lingua diversa dal latino... Il “Libro delle Satire” lo potete comunque richiedere in biblioteca, e anche cercarlo in rete, e potete leggere qualche brano [qualche frammento] dei componimenti di Persio: sono versi spesso enigmatici ma noi possediamo dei riferimenti utili per capire il testo – conosciamo il catalogo delle virtù stoiche - e poi possiamo utilizzare le note esplicative che accompagnano sempre le opere dei Classici…

Accettate di buon grado la sfida che la lettura è, immancabilmente, capace di lanciare...

   Leggiamo qui e ora un brano tratto dal testo della IV Satira di Persio dove lo scrittore sembra voglia parlare di Socrate e di Alcibiade, invece allude a Nerone quando ha cominciato a fare il “populista”, a confiscare la terra ai ricchi per far fronte ai suoi debiti, e a curare il suo corpo – l’abbronzatura, la depilazione – per voler assomigliare a un dio ma l’ammonimento di Persio è quello di curare la propria interiorità e non l’esteriorità che spinge l’aspirante governante a mentire e a promettere cose che possono solo aggravare la situazione economica. Leggiamo:

LEGERE MULTUM….

Aulo Persio,  Satire IV

Immagina che il maestro con la barba - proprio quello che una funesta sorsata

di cicuta ti tolse dai piedi - ti domandi:

«Tu tratti affari pubblici, con quale affidamento? Dimmelo, o pupillo del grande Pericle.

Naturalmente intelligenza ed esperienza ti son cresciute veloci prima dei peli,

hai fatto il callo nelle cose da dire e da non dire.

Perciò, allorquando la plebaglia ribolle per gli agitati umori, tu sei portato a far tacere l’ardente turba

con la maestà della mano. E poi che predichi? Quiriti, questo, per esempio, non è giusto, questo è male, questo è meglio.

Tu non sai quello che dici però sai esattamente tener sospesa la giustizia sui due piatti dell’incerta bilancia,

distingui la linea retta nel punto dove curva o quando un regolo inganna il piede zoppo,

e sei capace di far finta di conficcare la negra theta [segno convenzionale che indica la morte] nel vizio.

Ma perché dunque, bello, - tu che ti vuoi far bello solo di fuori - non la smetti di scuotere anzi tempo

la coda davanti al popolino che t’applaude, e non sorbisci piuttosto l’ellèboro [pianta che fa impazzire] di Anticyra? 

Qual è per te il massimo del bene? Vivere fra ingrassate padelle e con la tua fine pelle sempre curata al sole?

E sia, ma sappi che ha più senno di te la vecchia Bauci cenciosa mentre canta imbonendo il suo basilico a uno straccione di schiavo,

che è un dio travestito [citazione da Le metamorfosi di Ovidio].

E lei, Bauci, che sa far funzionar la ragione, lo aveva intuito che quello era un dio

ma purtroppo pochi tentano di conoscere se stessi, mentre invece in molti guardano dentro la bisaccia

sulle spalle di chi li precede! Tu non sai far altro che chiedere: Conosci i campi di Vettidio?

Di chi? Di quel ricco stupido e avaro che coltiva a Cure tanta terra quanta non ne sorvola un nibbio?

Sappi che non riuscirai a portargliela via, perché è peggio di te, è un tipo maledetto da tutti e dal suo dio, che quando appende il giogo

ai crocicchi non stura una bottiglia di vino vecchio ma piagnucola mordendo la tunica

d’una cipolla con un po’ di sale, mentre i suoi servi fanno festa intorno alla pentola del farro,

e lui succhia la feccia dell’aceto evaporato. Stai pure sdraiato al sole, unto, perché ti trafigga la pelle.

Che bei costumi, passarsi la roncola sul pube e nell’intimità dei lombi e mostrare alla gente vulve fradice ma ben depilate!

Ma ricordati, imbecille, che se impallidisci alla vista del denaro e fai tutto ciò che garba al tuo pene finirai molto male:

rientra in te stesso e pensa a qual breve scorta di virtù possiedi»

 

   Persio apostrofa Nerone, ma lui non sente “rimorso”, sebbene questo sentimento stia per entrare in scena sul territorio del tardo-antico.

   E adesso, insieme a tutta questa “bella gente” che si è radunata intorno a noi nel paesaggio intellettuale dell’Età giulio-claudia – il filosofo Seneca, l’apostolo Paolo di Tarso, il poeta satirico Persio, il poeta epico-storico Lucano, l’augusta e commossa Agrippina Minore, il romanziere verista Luigi Capuana con Agrippina Solmo – vogliamo fare un esercizio in funzione della didattica della lettura e della scrittura.

   A questo punto, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, siamo in grado di impostare [se così si può dire] un’equazione di tipo filologico [fare un’equazione significa stabilire un rapporto, una connessione, un’equivalenza, una concordanza tra cose diverse per giungere a un risultato, per svelare un’incognita] e noi vogliamo mettere in connessione una serie di segmenti: l’assonanza con il nome di Lucano [e anche con quello di un certo Petronio che dobbiamo incontrare prossimamente], la Letteratura spagnola del XIV secolo, i principi morali della filosofia stoica, la capacità di comporre racconti esemplari [exempla] tipica della satira di Persio e la dinamica dei virtuosi processi di integrazione e di contaminazione intellettuale tra culture diverse. Ebbene, questi sono gli elementi di un’equazione di carattere filologico che porta ad un risultato, e il risultato è un’opera letteraria tanto importante quanto sconosciuta: e noi vogliamo sapere che c’è e quale sentimento scaturisca da quest’opera.

   Quest’opera, in lingua originarle, s’intitola El conde Lucanor o Libro de Patronio, in italiano Libro degli esempi del conte Lucanor e di Patronio [o Petronio]. Con questo titolo il dotto castigliano Argote de Molina ha pubblicato a Siviglia nel 1575 un’opera composta tra il 1328 e il 1335 dal duca Juan Manuel [1282-1349], studioso e scrittore, imparentato con la Casa reale spagnola [cugino del re Sancho IV]. Quest’opera – che è la prima opera in prosa, di valore veramente letterario, della letteratura castigliana – è composta da cinquantun capitoli o “esempi” ciascuno dei quali presenta un fatto morale, vero, verosimile o immaginario: il conte Lucanor è un gran signore che espone al suo fidato consigliere Patronio [o Petronio] dei fatti giunti a sua conoscenza nei quali c’è una certa disarmonia morale e, a sua volta Patronio [o Petronio], dopo aver ascoltato il racconto del conte, dà a ciascun caso una soluzione di ordine pratico e morale per mezzo di “esempi” nei quali emerge una norma razionale [secondo il pensiero delle Scuole dell’Ellenismo, stoiche in particolare] e una dose massiccia di esperienza culturale personale, la stessa esperienza, naturalmente, dell’autore Juan Manuel il quale si ispira certamente ai valori del Cristianesimo dominante [che, a dire il vero, ha perso, in particolare dopo l’esperienza delle Crociate, molto dello smalto evangelico]; ma soprattutto, per esortare a vivere secondo una morale umana universale, fa riferimento alle virtù stoiche come la prudenza, la sobrietà, la moderazione, la ponderatezza: è necessario imparare a praticare queste virtù se vogliamo diventare esseri “umani”.

   Il fatto importante è che l’autore Juan Manuel, per comporre i suoi “esempi” scritti sotto forma di “novelle”, attinge alle letture che ha fatto e che appartengono ad uno spazio culturale molto ampio [di carattere ecumenico, cosmopolitico], e noi sappiamo che tutto il sud della penisola Iberica ha goduto dall’VIII secolo [con la penetrazione araba] di un fecondo periodo di integrazione tra cultura islamica, ebraica e cristiana: i governanti arabi hanno fatto arrivare nelle biblioteche dell’Andalusia opere straordinarie tra cui il Calila e Dimna che è una raccolta di favole di origine persiana che è penetrata in India e poi, tradotta in arabo, è arrivata nel sud della Spagna. Don Juan Manuel trae molto materiale da quest’opera persiano-indo-araba – oltre che dalle tradizioni castigliane, dalle leggende delle crociate, dalle favole di Esopo, dalle dottrine stoico-ellenistiche – e si diverte a sviluppare il processo di contaminazione che diventa un modo utile e virtuoso per investire in intelligenza.

   Se leggiamo quest’opera – erudita, magistrale e divertente – che troviamo [dovremmo trovare] in biblioteca, tradotta in italiano con il titolo Le novelle del Conte Lucanor, noi scopriamo da dove vengono molti apologhi [narrazioni esemplari per insegnare le virtù in modo ironico, satirico e divertente] che ci sono stati raccontati e che conosciamo [un certo numero di novelle provenienti da questo testo le abbiamo lette sul nostro Libro di lettura delle elementari]: quali, per esempio? Se facciamo una ricerca scopriamo che da tutte queste novelle scaturisce il sentimento del “rimorso”.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Abbiamo impostato una “equazione filologica” e le equazioni contengono delle incognite, quindi, utilizzando la biblioteca, leggete “Le novelle del Conte Lucanor” di Don Juan Manuel e scoprirete se ci sono “novelle” di vostra conoscenza: le incognite filologiche vanno svelate e per farlo, in questo caso, basta leggere...

Poi, se avete la possibilità di navigare in rete, potete allargare le vostre conoscenze mettendo in ricerca i termini: “Juan Manuel il conte Lucanor”, “Calila e Dimna”, “Castello di Almansa”...  Che cosa c’entra il Castello di Almansa?...    Perché volete rinunciare a fare un’escursione nella penisola Iberica, ad Almansa?...   Buon viaggio, chi cerca trova...   

   E ora – giocando sulle assonanze armoniche – da El conde Lucanor torniamo al poeta epico Marco Anneo Lucano. Dante Alighieri – nel suo grande sogno poetico – ha incontrato il poeta Lucano al Limbo insieme a Omero, a Orazio, a Ovidio e a Virgilio, ed è proprio Virgilio [lo buon maestro] che mostra a Dante la “bella scuola” dei Classici, e Dante vorrebbe tanto farne parte e, pensando a questa idea, cesella i suoi endecasillabi con arte mirabile: leggiamo dodici endecasillabi in proposito tratti dal Canto IV dell’Inferno della Divina Commedia, magari vi viene voglia di rileggerlo questo canto .

LEGERE MULTUM….

Dante Alighieri, Inferno  IV  85-96

Lo buon maestro cominciò a dire:Mira colui con quella spada in mano

    che vien dinanzi a’ tre sì come sire. Quegli è Omero, il poeta sovrano;

    l’altro è Orazio satiro, che viene; Ovidio è il terzo, e l’ultimo è Lucano.

Però che ciascun meco si conviene nel nome che sonò la voce sola,

    fannomi onore; e di ciò fanno bene.  Così vidi adunar la bella scuola

    di quei signor dell’altissimo canto che sovra gli altri com’aquila vola.

   Che cosa ha scritto di importante Lucano per cui è presente nella Storia della Letteratura universale? Lucano, sebbene non abbia avuto molto tempo in vita [è morto a ventisei anni], ha scritto molte opere ma soprattutto lo ha reso celebre un poema epico-storico intitolato Bellum civile [la guerra civile], più noto come Pharsalia [Farsaglia, il poema sulla battaglia di Farsalo].

   Dante cita Lucano perché nella Divina Commedia utilizza molte parti della Pharsalia, che è un’opera molto studiata nel Medioevo, tanto per gli avvenimenti storici che racconta quanto per i personaggi [nella battaglia di Farsalo si sfidano Cesare e Pompeo] che Lucano descrive con molto “realismo” coltivando [come il poeta Lucrezio, come lo zio Seneca, come Paolo di Tarso, come il satiro Persio] una visione del mondo orientata verso il “pessimismo ragionevole” che Lucano manifesta immedesimandosi in uno dei personaggi del suo poema epico-storico, una figura [alternativa a Cesare e a Pompeo] che è diventata “dantesca” perché il poeta “ghibellin fuggiasco” l’ha rappresentata proprio come la descrive Lucano nel suo poema. Ma procediamo con ordine.

   Prima di occuparci dell’opera principale di Lucano, della Pharsalia, dobbiamo aprire un’altra parentesi in funzione della didattica della lettura e della scrittura perché c’è qui Luigi Capuana il quale nei suoi romanzi ha coltivato lo stile “realistico dell’epica-storica” e ha elaborato, in termini contemporanei [per conto del movimento “verista”], l’idea del “pessimismo ragionevole”: Capuana ha utilizzato con profitto – come molte altre scrittrici e scrittori – un patrimonio di concetti e di parole-chiave ereditate dalla “sapienza poetica e filosofica” dell’Età tardo-antica. Un esempio significativo in cui emerge questa eredità è il personaggio di Agrippina Solmo – una figura realistica ed epica – che si trova nel romanzo verista intitolato Il marchese di Roccaverdina pubblicato da Luigi Capuana nel 1901 del quale, la scorsa settimana, abbiamo letto l’incipit, il primo capitolo e parte del secondo.

   Intanto Agrippina Minore [che è complice - una complicità positiva - del nostro incontro con Agrippina Solmo], dopo essersi commossa, è scoppiata a piangere quando ha potuto riabbracciare Persio e soprattutto Lucano, l’amico più intimo di suo figlio e solo ora [lei è stata uccisa nel 59] ha saputo che Nerone è diventato il carnefice di ambedue, della madre e dell’amico più caro.

   Prima di occuparci dell’opera principale di Lucano, la Pharsalia, e prima di leggere quattro pagine da Il marchese di Roccaverdina – visto che è entrato in ballo anche Dante e, di conseguenza, il tema delle origini della lingua italiana – riprendiamo a fare conoscenza con Luigi Capuana: abbiamo cominciato a parlare di lui la scorsa settimana dicendo che a venticinque anni lascia temporaneamente Mineo [che abbiamo visitato la scorsa settimana], lascia l’Università di Catania ed emigra a Firenze per seguire la sua passione [studium] per la Letteratura: avete fatto una passeggiata in via Cavour fino al n° 21 dove c’era il Caffè Michelangiolo, avete scoperto che cosa c’è oggi, avete letto l’iscrizione sulla lapide posta sul portone? Capuana ci passava qualche ora tutti i giorni al Caffè Michelangiolo ed era un grande intrattenitore e raccontava ai suoi amici intellettuali ed artisti, che si incontravano lì, molte delle sue avventure o “bravate” condotte, spesso, come veri e propri investimenti in intelligenza. C’è un episodio particolarmente illuminante, e divertente, che Capuana ha raccontato spesso pubblicamente e che fa riferimento alla Storia della lingua italiana e al fatto che i Siciliani hanno sempre rivendicato una priorità sulle origini dell’italiano “vulgaris, popolare” rispetto ai Fiorentini: i primi ad utilizzare una “lingua poetica” in Italia, sul modello provenzale, siamo stati noi dicevano gli intellettuali Siciliani e hanno delle buone ragioni per sostenerlo. Facciamocelo raccontare da lui questo episodio visto che lo ha anche scritto nei suoi Ricordi:

LEGERE MULTUM….

Luigi Capuana, Ricordi d’infanzia e di giovinezza

Negli anni in cui ho frequentato l’università a Catania invece di occuparmi dello studio della giurisprudenza, materia che ho sempre trovato assai noiosa, sono diventato collaboratore ed amico di Lionardo Vigo, uno studioso che ha messo insieme un’ampia raccolta di canti popolari siciliani per dimostrare l’esistenza, sulla scia della Scuola poetica Siciliana fondata da Federico II alla meta del Duecento, di una lingua sicilianaautonoma dal volgare toscano che poi sarebbe diventato la lingua nazionale. Per avvalorare la tesi di Vigo ho cominciato e contraffare con grande abilità i canti popolari siciliani che spacciavo come testi d’epoca normanna. Poi l’ho fatta grossa perché in uno di questi canti ho inserito addirittura un verso di Dante: «Donne c’aviti intellettu d’amuri». Il fatto è che questi documenti li avevo così ben contraffatti che anche i dottissimi studiosi di letteratura come Alessandro D’Ancona sono caduti nel tranello e hanno disquisito a lungo se il celebre verso della canzone «Donne ch’avete intelletto d’amore» sia una reminiscenza, in Dante, dell’anonimo poeta siciliano, o se il verso siciliano sia un calco di quello dantesco.

   Questo episodio illustra molto bene l’intraprendenza, l’estro, l’esuberanza, la vitalità che Luigi Capuana ha messo nella sua attività letteraria per oltre cinquant’anni. Capuana è stato romanziere, novelliere, drammaturgo, poeta, giornalista, critico letterario e teatrale, studioso e teorico di estetica, di sicilianistica, scrittore di fiabe e novelle per ragazzi e anche di libri per la scuola, si è interessato di fotografia, di incisione, di ceramica e persino, con particolare interesse e ironia, di “spiritismo”, un tema che, come abbiamo già detto la scorsa settimana, entra spesso nelle sue opere per creare un’atmosfera “magica”.

   Luigi Capuana nel 1864, vincendo con ostinazione l’opposizione dei familiari, lascia l’università di Catania dove è un mediocre studente alla facoltà di Legge e si trasferisce a Firenze: vuole seguire la sua vocazione letteraria e trova un posto [deve anche guadagnarsi da vivere] come critico teatrale al quotidiano La Nazione e su La Nazione pubblica la sua prima novella, Il dottor Cymbalus, la prima di una serie di circa trecento novelle. A Firenze frequenta gli artisti del Caffè Michelangiolo, il caffè dei Macchiaioli e simpatizza con Telemaco Signorini. Frequenta anche i salotti letterari conosce Gino Capponi, Francesco Dall’Ongaro, Aleardo Aleardi, Giovanni Prati e anche il suo compaesano Giovanni Verga di cui diventa amico fraterno. Capuana a Firenze legge le opere di Balzac e di Émile Zola e conquista una solida autorevolezza come critico teatrale. Dopo un ritorno a Mineo Capuna riparte e, questa volta, va a Milano dove viene assunto come critico teatrale al Corriere della Sera [tra l’altro recensisce, con entusiasmo, anche l’Agrippina di Händel]. Nel 1879 esce la prima edizione del suo primo romanzo importante intitolato Giacinta che, per l’argomento scabroso – Giacinta è una donna che ha subito violenza da bambina e si trova, per tutta la vita, a dover scontare questa “colpa” – fa scatenare un vivace dibattito intorno alla corrente “verista o naturalista”, che si sta imponendo in tutta Europa, di cui Luigi Capuana è il primo importante esponente in Italia.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

La Scuola consiglia la lettura del primo romanzo importante di Luigi Capuana intitolato “Giacinta”,  richiedetelo in biblioteca…

   Nel 1888 Capuana si trasferisce a Roma dove viene chiamato a insegnare Letteratura italiana alla facoltà di magistero: rimane a Roma più di tredici anni. A Roma conosce D’Annunzio, Pirandello, incontra Zola, e anche la signorina Adelaide Bernardini, che sposerà più tardi [nel 1908] a Catania [tra i testimoni c’è Giovanni Verga]. Nel 1902 l’università di Catania propone a Capuana la cattedra di Lessicografia e Stilistica, lui accetta e torna in Sicilia. Nel 1914 va in pensione e l’anno dopo, il 29 novembre 1915, muore di polmonite a Catania.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Per raccogliere altre informazioni sulla vita e sull’opera di Luigi Capuana potete consultare i numerosi siti che trovate sulla rete e leggere le introduzioni dei suoi libri che potete richiedere in biblioteca

   E adesso leggiamo ancora quattro pagine da Il marchese di Roccaverdina. Sappiamo che il marchese di Roccaverdina è un prepotente proprietario terriero siciliano e ha tenuto con sé per dieci anni, offrendole una vita più decorosa, Agrippina Solmo, una contadina giovane e bella, la quale si è dedicata a lui con amore, e con rassegnazione pur sapendo che il marchese – anche su pressione della sua famiglia altolocata – non l’avrebbe sposata per non disonorare il proprio casato. Il marchese – per salvare le apparenze – la dà in moglie a un suo devoto fattore, Rocco Criscione, esigendo però che entrambi giurino davanti al crocifisso di vivere come fratello e sorella. Quando però, qualche tempo dopo le nozze, gli viene il dubbio che Rocco e Agrippina – i quali hanno scoperto di stare bene insieme – stiano regolarmente “consumando” il loro matrimonio, il marchese, appostato di notte lungo la strada dove Rocco Criscione abitualmente passa sulla mula per tornare a casa, lo uccide con una fucilata. Del delitto viene accusato lo sfortunato Neli Casaccio, un povero cacciatore, che aveva pubblicamente minacciato Rocco, e questo innocente viene arrestato. Del vero responsabile del delitto nessuno sospetta [il marchese è un cittadino al di sopra di ogni sospetto], neppure il suo avvocato don Aquilante Guzzardi, il quale però, essendo colto, studioso e appassionato di spiritismo, con i suoi ragionamenti fa crescere l’ansia del marchese, e quest’ansia, a poco a poco, si trasforma in senso di colpa e il senso di colpa si converte in rimorso e il vero protagonista di questo romanzo diventa il sentimento del “rimorso”, un sentimento che si manifesta nell’animo del marchese attraverso il tormento, l’amarezza e l’afflizione.

   Lo scenario del romanzo è un paese che si chiama Ràbbato ed è un luogo immaginario, arso e immiserito [che ricorda il paese di Macondo di Cent’anni di solitudine] dove da sedici mesi non piove e la siccità [che è anche una metafora] screpola la terra e fa morire persone e bestie. Ora entriamo, insieme al parroco del paese, che si chiama don Silvio La Ciura ed è un sant’uomo [La Ciura è un cognome utilizzato anche da Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel bellissimo racconto intitolato “La sirena”: ricordate il professor Rosario La Ciura, grecista di fama internazionale? Lo abbiamo incontrato nell’ottobre del 2011 a Torino] nel salone del palazzo della baronessa di Lagomorto che è la zia del marchese di Roccaverdina [anche lei è una Roccaverdina] la quale si atteggia a donna caritatevole [in particolare con i cani] ma dimostra anche tutto il suo disprezzo per Agrippina Solmo che, secondo lei, è una “donnaccia” la quale avrebbe fatto uccidere il marito per tornare a vivere con il marchese.

   E ora, dopo questa necessaria introduzione, leggiamo:

LEGERE MULTUM….

Luigi Capuana, Il marchese di Roccaverdina

Ogni volta che entrava nel camerone, come veniva chiamato il salone della baronessa di Lagomorto, don Silvio La Ciura si sentiva compreso da un sentimento di ammirazione che lo rendeva più timido del solito. Era rimasto in piedi, con una punta del cappello da prete appoggiata alle labbra, e sembrava quasi smarrito tra i vecchi mobili che davano allo stanzone bislungo un’aria di decrepitezza e di abbandono.

Il fruscio della gonna sui mattoni verniciati del pavimento rivelò al prete la presenza della baronessa soltanto mentr’ella gli passava accanto per andare a sedersi in quell’angolo di canapè dove soleva rannicchiarsi le rare volte che riceveva la visita di un parente o di persone molto intime. Don Silvio era tra queste. Alta, stecchita, piena di rughe ma ancora rubizza, con capelli bianchissimi divisi in due bande che le coprivano le orecchie e le rimpicciolivano il volto tra le pieghe del fazzoletto di seta nera annodato sotto il mento; vestita di leggera stoffa grigia e coi mezzi guanti di filo dello stesso colore alle mani scarne e affilate, la baronessa era entrata senza far rumore dall’uscio a cui don Silvio voltava in quel momento le spalle. Il prete fece un profondo inchino, si accostò a baciarle la mano appena ella, messasi a sedere, gli ebbe accennato una poltrona; poi, con umile atteggiamento ed esile voce, incominciò: «Mi manda Gesù Cristo…». «Gesù Cristo vi manda da me troppo spesso!», lo interruppe la baronessa, sorridendo benignamente. «Si rivolge alle persone che possono fare e fanno volentieri la carità», rispose don Silvio.  E così dicendo, parve volesse rendere più piccola la sua personcina bassa, magra, che nelle occhiaie e nelle pallide gote infossate mostrava i segni dei digiuni e delle penitenze con cui macerava il misero corpo. «Gesù Cristo però», riprese la baronessa crollando la testa, «si ricorda dei poveri che non hanno come sfamarsi, e dimentica che ricchi e poveri abbiamo già bisogno della pioggia per i seminati, per le vigne, per gli ulivi!». «Pioverà, a suo tempo, se i nostri peccati non vi mettono ostacolo». «Voi fate penitenza per tutti, voi», soggiunse la baronessa. «Io sono più peccatore degli altri!». «Diteglielo, diteglielo a Gesù Cristo. Ci vuole la pioggia, Signore! Ci vuole la pioggia!». «Glielo dirò», rispose con semplicità il buon prete. «Intanto vengo a raccomandarle di nuovo quella povera donna, la moglie di Neli Casaccio. Ora che suo marito è in carcere, perisce di stenti la poveretta, con quattro figli che non possono darle nessun aiuto. Ella giura, al cospetto di Dio e dei santi, che suo marito è innocente». «Se è così, non potranno condannarlo». «Quando era in libertà, provvedeva lui alla famigliuola col suo mestiere di cacciatore». «Manderò un sacco di grano, anzi di farina; sarà meglio». «Dio glielo renda, tra cent’anni, in paradiso». … «Vorrei piuttosto», riprese la baronessa, «che Dio me lo rendesse un po’ anche in questo mondo, almeno aggiustando il cervello a mio nipote il marchese, liberandolo dalle male arti di quella donnaccia Tenta di riafferrarlo la sfacciata! Non ho chiuso occhio questa notte, dopo di aver saputo…».  «Sia fatta la volontà di Dio!», esclamò don Silvio, giungendo rassegnatamente le mani. «La volontà di Dio qui non c’entra per niente», replicò quasi stizzita la baronessa. «Dio non può permettere certe enormità; non può volere che la figlia di una raccoglitrice di ulive diventi marchesa di Roccaverdina. Pares cum paribus, ha detto il Signore ». «Siamo tutti uguali davanti a lui!». «Oh, no, no!», ella protestava. «Perché dunque Gesù Cristo ha voluto nascere da una madre di stirpe reale? San Giuseppe, falegname, fu padre putativo soltanto». La baronessa si fermò un istante, aspettando che don Silvio le desse ragione. E siccome il prete rimaneva zitto, con gli occhi bassi, ella continuò: «Ai miei tempi si rimediava a tutto col braccio delle autorità; ma oggi! Io però ho mandato a chiamare quella donna; dovrebbe già essere qui, se lo stolido di don Carmelo…».  In quel punto, il vecchio servitore che faceva da maestro di casa, da cameriere e da cuoco in casa della baronessa, affacciava la testa da uno degli usci, annunciando che quella donna attendeva nell’anticamera: «Posso farla entrare?». «Subito», rispose la baronessa.Agrippina Solmo salutò, con un cenno del capo, prima lei, poi don Silvio e, chiusa nella mantellina, eretta, quasi altera, gettando sguardi diffidenti e scrutatori ora su l’una, ora su l’altro, si avvicinò lentamente verso il canapè. «Che comanda, voscenza?».  Il tono della voce era umile, l’atteggiamento no. «Non comando niente; sedete». E rivolgendosi a don Silvio, la baronessa soggiunse: «Ho piacere che voi siate testimone. Sedete», replicò, vedendo che la Solmo restava ancora in piedi. Poi, dopo alcuni istanti di paura, con aria severa e accento duro, disse: «Figlia mia, parliamoci chiaro. Se avete fatto ammazzare vostro marito…»«Io?Io?». … La baronessa, senza lasciarsi intimidire dall’energica protesta, né dall’occhiata divampante di indignazione che l’aveva accompagnata, continuò: «C’è chi lo sospetta e lo farà sapere anche alla giustizia!». «E perché, perché lo avrei fatto ammazzare? Io? Oh, Vergine santissima!». «Chi sa che vi è passato per la testa! Tentazioni del demonio, certamente. Vi eravate messa in grazia di Dio prendendo marito Non vi accuso per quel che è accaduto prima; vi compatisco anzi La miseria, i cattivi consigli, la giovinezza Forse neppure comprendevate il male che vi si faceva commettere. Infatti, vi siete comportata quasi da donna onestaMio nipote, dall’altra parte, ha fatto il suo dovere. Si è tolto ogni scrupolo di coscienza. Siete ricca, si può dire, con la dote ch’egli vi ha datoPerché dunque non lo lasciate in pace? Che vi passa per la testa? Fingete di non capire quel che vi dico, eh?». «Masignora baronessa!». «Sbagliate, figlia mia, se v’immaginate che possa riuscirvi ora quel che non vi è riuscito l’altra volta!». «Che cosa, signora baronessa?». «Segnatevelo qui, su la fronte. C’è chi tiene bene aperti gli occhi e vi sorveglia! Se avete fatto ammazzare vostro marito per…». Agrippina Solmo scattò dalla seggiola, lasciò cascare su le spalle la mantellina, e levando in alto le braccia, imprecava: «Fulmini del cielo, Signore! Fuoco in questa e nell’altra vita a chi mi vuol male!». E coprendosi il volto con le mani, scoppiava in pianto dirotto.
«Calmatevi!», intervenne don Silvio. «La baronessa parla per il vostro bene…».

«Voi che siete un santo servo di Dio!», singhiozzava la vedova, asciugandosi le lagrime e facendo sforzi per frenarle. «Parlo a un confessore, come se fossi in punto di morte. L’hanno ammazzato, mio marito, a tradimento! Oh!Farlo ammazzare io! Chi lo dice? Venga in faccia a me! Giuri su l’ostia consacrata! Se c’è Dio in cielo…». «C’è, c’è, figliuola mia!», esclamò don Silvio, stendendo le mani, quasi volesse chiuderle la bocca e impedirle di bestemmiare. «Per quale scopo dunque andate così spesso da mio nipote?», strillò la baronessa. «Non vi cerca lui; non vi manda a chiamare lui!». … «Per il processo, per i testimoni». «Il processo? L’ha istruito il giudice. I testimoni? Deve forse scovarli mio nipote? Pretesti! Pretesti! Ormai dovreste averla capita. Se vi lusingate di ricominciare da capo, se vi siete messa in testa di salire alto dalla vostra condizioneEcco perché la gente sospetta: l’ha fatto ammazzare essa il marito!».   Agrippina Solmo si era rimessa a sedere. Non piangeva più; sembrava irrigidita contro la terribile accusa gettatale in viso dalla vecchia signora. E, quasi continuasse ad alta voce il rapido ragionamento interiore che le agitava le labbra e la faceva errare con sguardi smarriti lontano lontano, parlava senza rivolgersi a nessuno, ora lentamente, ora a sbalzi: «Dio solo può saperlo!Avevo sedici anni. Non pensavo al male; ma, insistenze, preghiere, promesse, minacce In che modo resistergli?E sono stata la sua serva, la sua schiava, dieci anni, volendogli bene come a un benefattore. In prova, il giorno che all’improvviso egli mi disse: Devi prendere marito, il marito che ti do io…”. Ah, signora baronessa! Abbiamo un cuore anche noi poverette!Avrei voluto continuare ad essere soltanto sua serva, sua schiavaChe ombra potevo dargli? Eppure non fiatai. Ha comandato, ed ho obbedito. Che ero io rimpetto a lui? Un verme della terraEd ora, infami! dicono che ho fatto ammazzare mio marito perché vorrei Ma a chi devo ricorrere in questa circostanza? Non ho più nessuno al mondo!». «Abbiate fiducia in Dio, figliuola mia!». «Se il Signore voleva proteggermi, non mi toglieva il marito!», ella rispose bruscamente a don Silvio, alzando le spalle. «È peccato mortale quel che dite!». «Si perde anche la fede in certi momenti!». Raccolse la mantellina, se l’aggiustò su la testa, chiuse sdegnosamente attorno al volto le falde davanti e, ritta, aggrottando le sopracciglia, stringendo le labbra, attese così che la baronessa la licenziasse.  La baronessa in quell’istante parlava sottovoce all’orecchio di don Silvio. «Ma è poi vero?», rispose il prete. «Le donnacce come lei sono capaci di tutto!». «Comanda altro, voscenza?». Agrippina Solmo non dissimulava l’impazienza di andarsene. «Badate a quel che fate! Uomo avvisato è mezzo salvato», rispose seccamente la baronessa. E la seguì fino all’uscio con gli sguardi aguzzi, tetri di rancore, che sembrava la sospingessero fuori per le spalle. «Questa è la grossa spina che ho nel cuore!», ella esclamò. «Dopo d’aver fatto tanto per indurre mio nipote a darle marito!Almeno non c’era più pericolo di vedergli commettere una pazzia! Ma già noi Roccaverdina siamo, chi più chi meno, col cervello bacato! Mio fratello il marchese, padre di mio nipote, sciupava tempo e danaro con le corse dei suoi levrieri. Voi non lo avete conosciuto. Si era fatto fare un vestito da burattino, all’inglese, diceva lui, e andava attorno per i paesi vicini a ogni festa di santi patroni, facendo la concorrenza ai ginnetti [cavalli di razza, bellimbusti] … Mio fratello il cavaliere si è rovinato per le antichità! Scava ossa di morti, vasi, brocche, lucerne, monetacce corrose, ed ha la casa piena di cocci. Suo figlio se ne è andato a Firenze a studiare pittura, in apparenza; a buttar via quattrini, in realtà; quasi suo padre non bastasse da solo a mandar per aria il patrimonio! Mio nipote, il marchese attuale Oh! C’è il castigo di Dio su la nostra casa!». S’interruppe vedendo entrare dall’uscio rimasto socchiuso quattro canini neri, bassi, mezzi spelati, con gli occhi cisposi, quasi vecchi quanto lei, che volevano saltarle tutti insieme su le ginocchia. «La mia pazzia, lo so», ella disse allontanando dolcemente i cani, «sono questi qui. Ma io non rovino nessuno; e per gli affari, me ne vanto, il cervello l’ho a posto. Così lo avesse avuto a posto il barone mio marito! Bravo, don Carmine!». Strascicando la gamba, reggendo con le due mani uno scodellone di pane e latte, il vecchio s’inoltrava cautamente per non versare la zuppa, imbarazzato dalla ressa delle quattro bestiole che, alla vista del loro pasto, erano corse ad abbaiargli e a saltellargli attorno alle gambe. Inutile precauzione! Sospingendosi, urtando lo scodellone con le zampe e coi musi, i cani facevano schizzare parte della zuppa sul pavimento; e la baronessa, intenerita, si chinava soltanto ad accarezzarli, chiamandoli per nome, per impedire che si mordessero, esclamando ripetutamente: «Povere bestie! Avevano fame, povere bestie!». Don Carmine, piegato in due, con le mani dietro la schiena, tentennava la testa osservando i bei mattoni di Valenza insudiciati. «Non occorre ripulire; ripuliscono essi», gli disse la baronessa mentre egli si chinava per riprendere lo scodellone vuotato. E leccato bene il pavimento, i cani andavano quatti quatti ad accucciarsi, raggomitolandosi a due a due, sui seggioloni destinati a loro in un angolo, con cuscini a posta. «Anche questa è carità, caro don Silvio!», disse la baronessa accomiatandolo.

   Lo scrittore ci ha fatto entrare nel salone del palazzo della baronessa di Lagomorto [Agrippina, nonostante tutto, si rivolge a lei dandole del “voscenza”] e ci ha fatto capire che l’invadente zia del marchese di Roccaverdina, ha una visione della “carità cristiana” in linea con il pensiero delle sua classe sociale, con il modo di vedere la cose che ha la “razza padrona” e può prendersi anche la briga di contraddire, sul piano pastorale, l’umile e sottomesso don La Ciura. Che cosa fa Agrippina Solmo dopo questo drammatico colloquio con la baronessa? Lo vedremo prossimamente: leggeremo ancora qualche pagina di questo significativo romanzo di Luigi Capuana che viene considerato un capolavoro del movimento “verista o naturalista” europeo.

   E ora torniamo a farci una domanda che abbiamo lasciato in sospeso: che cosa ha scritto di importante il poeta Anneo Lucano per cui è presente nella Storia della Letteratura universale? Lucano, sebbene sia morto giovane, ha scritto molte opere. Marco Anneo Lucano è un poeta di vocazione perché fin dall’adolescenza incomincia a comporre opere di vario genere. Però di tutte le sue opere, tranne una, rimangono solo i titoli: Iliacon, che era un poemetto sulla guerra di Troia; Catachtonion [Discesa agli Inferi], che era un poemetto sulla discesa agli Inferi di un eroe; Orpheus, che era un epillio su Orfeo; Silvae, che era un’opera in dieci libri di liriche varie; Medea, che era una tragedia sullo stile di Seneca; Fabulae salticae, che erano quattordici testi [quattordici Libretti] scritti per un mimo [quattordici pantomime] da recitare sul palcoscenico.

   L’unica opera che ci è rimasta di Lucano è il poema epico-storico intitolato Bellum civile, più noto come Pharsalia [Farsaglia, ispirato alla battaglia di Farsalo], con un testo di circa ottomila esametri, diviso in dieci Libri. Quest’opera è incompiuta [forse doveva essere dodici Libri come l’Eneide] e si interrompe bruscamente, probabilmente per la morte dell’autore [nel 65], al verso 546 del Libro X con Cesare assediato dall’esercito del re egiziano Tolomeo nel palazzo di Alessandria. I primi tre Libri di Pharsalia sono stati pubblicati nel periodo in cui Lucano era ancora amico intimo di Nerone, gli altri postumi. Il soggetto del poema è un fatto storico, la guerra civile tra Cesare e Pompeo [dal 49 al 45 a.C.], un fatto ben conosciuto dai contemporanei perché, anche se era passato più di un secolo da questi avvenimenti, erano stati decisivi per la storia di Roma.

   Lucano, come autore, segue la linea di Nevio e di Ennio [due scrittori che abbiamo incontrato nel viaggio dello scorso anno scolastico] ma come storico si discosta da loro perché vuole essere molto rigoroso e non trascura nessuna delle cause e nessun avvenimento principale: tutto è scelto con cura ed è esposto secondo un preciso ordine cronologico e, difatti, Lucano è stato spesso citato come unica fonte storica per certi particolari che solo lui racconta e sembrano attendibili. Non si sa quanta materia dovesse comprendere questo poema il cui evento centrale – che dà il titolo all’opera ed è collocato nel VII Libro – è la battaglia di Farsalo in Tessaglia, dove l’esercito di Pompeo viene definitivamente sbaragliato da quello di Cesare il 9 agosto del 48 a.C..

   La novità nell’opera di Lucano sta nel fatto che elimina il tradizionale repertorio mitico [per questo si distingue da Virgilio anche se l’Eneide è un punto di riferimento fondamentale per Lucano] ed esclude ogni concezione provvidenzialistica della storia, gli dèi non intervengono nelle vicende umane, ma nel testo del poema non manca l’elemento fantastico e meraviglioso: vi sono prodigi, sogni, leggende, magia, astrologia, responsi di oracoli, scene macabre e spiritismo [se vogliamo giocare con gli intrecci filologici - che è un gran bel gioco - potremmo dire che un attento lettore di Pharsalia sarà sicuramente stato anche l’avvocato del marchese di Roccarvedina, don Aquilante Guzzardi che si diletta con lo spiritismo]. Le pagine macabre e orride – del Libro VI in particolare – sono quelle che hanno sempre attirato maggiormente l’attenzione delle studiose e degli studiosi di filologia. I personaggi principali del poema – Giulio Cesare, Gneo Pompeo, Catone l’Uticense – sono ben delineati nei loro caratteri e nei loro pensieri, e i frequenti discorsi, le orazioni, le descrizioni contribuiscono a drammatizzare l’azione, nella quale interviene continuamente l’autore in prima persona [Lucano - come tutti i pensatori stoici - avrebbe voluto il ripristino delle austere Istituzioni repubblicane] e commenta i fatti alla luce della propria ideologia e anche in preda al sentimento inquietante del “rimorso”: inveisce con acrimonia contro chi vuole l’Impero ed esalta con enfasi chi è schierato per la Repubblica.

   Il poema si apre con l’elogio di Nerone, ma via via [contemporaneamente al complicarsi dei rapporti tra il poeta e il principe] assume sempre più nitidamente i toni di una denuncia del potere imperiale di cui Giulio Cesare è considerato il perfido antesignano, contrapposto alla grandezza ormai puramente ideale di Pompeo che, comunque, non è del tutto limpido come personaggio. L’avvento del potere imperiale non è per Lucano apportatore di elevati destini ma causa di decadenza inarrestabile: non per niente la figura più nobile che viene esaltata è quella di Catone l’Uticense che trova nel suicidio stoico l’unico margine di libertà consentitogli dalla rovina ormai imminente dei valori dello Stato repubblicano. Nel viaggio dello scorso anno scolastico [alla fine di marzo del 2012] abbiamo fatto conoscenza con Catone l’Uticense [ricordate?] e abbiamo detto che lo avremmo incontrato ancora sul territorio dell’Età tardo-antica perché avremmo studiato un’opera intitolata Pharsalia [Farsaglia] e ora, puntualmente, strada facendo ci siamo arrivate, ci siamo arrivati a studiare quest’opera e il suo autore.

   Che cosa colpisce – e che cosa ha colpito nei secoli: in età medioevale [i Padri della Chiesa, Dante, Petrarca], in età barocca [gli scrittori spagnoli del Seicento] e in età romantica [da Goethe a Foscolo, da Alfieri a Leopardi, fino ai decadenti] – le lettrici e i lettori di Pharsalia? Colpisce il fatto che quest’opera appare come rivoluzionaria perché in essa – come già nell’Eneide di Virgilio, sebbene con un altro stile di scrittura – la storia non è più interpretata secondo il compiacimento dei vincitori ma secondo la disperazione dei vinti.

   Riflettere oggi sul poema Pharsalia – permeato da un alone magico e fantastico sul quale si proiettano le potenti immagini di scene memorabili: il passaggio del Rubicone, i presagi terrificanti della guerra, le atrocità dell’assedio di Marsiglia, i sortilegi negromantici della sacrilega maga Erictho [Erittone], il campo di Farsalo dopo la battaglia, l’allucinante traversata del deserto libico da parte dei soldati di Catone, il banchetto di Cesare e Cleopatra nella reggia di Alessandria [tutti episodi che, nei secoli, hanno ispirato altre opere] – significa non solo ritrovare la tematica tragica di ogni guerra civile ma anche scrutare l’orizzonte d’angoscia che, tale quale ad allora, appare dinnanzi al mondo contemporaneo. Il poema Pharsalia è sempre attuale perché Lucano questo orizzonte d’angoscia lo mette in evidenza con i suoi versi attraverso lo stato d’animo dei due personaggi contendenti – Pompeo e Cesare – i quali sono in continuazione angustiati da tristi presagi che non dipendono dallo scatenamento di forze maligne ultraterrene frutto dell’immaginazione ma dalla loro cattiva “coscienza” perché entrambi sono ambiziosi, assetati di potere, avidi di gloria e ne sono consapevoli, e questa consapevolezza fa crescere la loro ansia, e quest’ansia – scrive Lucano – si trasforma in senso di colpa [sanno di non operare per il bene dello Stato ma per passare alla Storia] e il senso di colpa si converte in rimorso e il sentimento del “rimorso” [come nel romanzo “Il marchese di Roccaverdina”] si manifesta nell’animo dei due contendenti attraverso il tormento, l’amarezza e l’afflizione: il “rimorso” è come una “bestia infida, insinuante, subdola e strisciante”.

   In latino il termine “rimorso” è reso da Lucano con la parola “conscientia” e per definire la “cattiva coscienza” dei due condottieri che si contendono il potere affianca alla parola “conscientia” il termine “serpens [serpente]” e costruisce l’espressione “conscientia serpentis instar [una coscienza a forma di serpente: il rimorso]. Quando invece descrive la figura di Catone l’Uticense, il quale non combatte né per il potere né per la gloria personale ma per la libertà di tutti, Lucano lo definisce in possesso di una “conscientia papilionis [di farfalla] instar [una coscienza leggera come una farfalla: libera dal rimorso]”.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Il sentimento del “rimorso” comincia a manifestarsi letterariamente in Età tardo-antica nelle opere dei Classici... Non c’è persona che non abbia avuto rimorsi, e voi quando avete provato questo sentimento?...

Scrivete quattro righe in proposito, non lasciate che vi venga il rimorso per non aver fatto questo utile esercizio...

Quale di queste parole - senso di colpa, rincrescimento, tormento, amarezza, afflizione – mettereste per prima accanto alla parola “rimorso”?...

Scrivetela...

   Questa riflessione che riguarda la parola-chiave “rimorso” nella sua versione di “conscientia serpentis instar [una coscienza a forma di serpente] non si è ancora conclusa: dobbiamo ancora fare un riferimento filologico significativo in funzione della didattica della lettura e della scrittura. Ma procediamo con ordine.

   Abbiamo citato Catone l’Uticense perché è il personaggio positivo per eccellenza del poema Pharsalia e Anneo Lucano racconta, in versi esametri, che nel 49 a.C. allo scoppiare della guerra civile tra Cesare e Pompeo, Catone l’Uticense [95 a.C. - 46 a.C.] – nipote di Catone il Censore [che è stato nostro compagno di viaggio nel Percorso dello scorso anno] –, per tutelare la libertà repubblicana, si schiera a fianco di Pompeo, che è stato nominato dal Senato difensore delle Istituzioni, e lo segue in Oriente [anche Cicerone fa la stessa cosa]: Giulio Cesare per Catone è un despota che ha disubbidito al Senato e che darà il colpo di grazia alla Repubblica. Dopo la battaglia di Farsalo [48 a.C.] in cui Cesare sconfigge Pompeo [Pompeo fugge in Egitto e viene fatto decapitare dal re Tolomeo che vuole ingraziarsi Cesare], Catone raduna i superstiti dell’esercito senatoriale e continua la guerra in Africa, ma, assediato in Utica, si toglie la vita: mentre si trafigge tiene stretto un libro, un rotolo, sul quale è scritto il testo del dialogo di Platone intitolato Fedone [sull’immortalità dell’anima, che è leggera come una farfalla, simile alla “coscienza di Catone, libera dal rimorso”].

   Lucano esalta la figura di Catone l’Uticense perché muore eroicamente per la libertà consapevole del fatto che Cesare, per soddisfare il suo interesse personale, ha “scardinato le regole” su cui si fondavano le Istituzioni repubblicane e la libertà [sostiene Lucano pensando anche a come si sta comportando Nerone] nasce e si promuove con il rispetto delle regole che la società civile si è data per il perseguimento del bene comune, non per il successo e la gloria personale del più forte.

   Sappiamo che Catone l’Uticense – per merito del poema Pharsalia di Lucano –, dal Medioevo in avanti, è stato sempre evocato come il simbolo della lotta per la libertà e dell’impegno per liberarsi dal male della tirannide [secondo i filosofi laici] e dalla schiavitù del peccato [secondo i Padri della Chiesa]: Catone l’Uticense sostiene che la libertà non ha partito ma deve essere la bandiera di ogni cittadino della Res-publica. Poteva Dante Alighieri – che all’inizio del Trecento sta soffrendo l’esilio politico – non evocare nel testo della Divina Commedia la figura di Catone l’Uticense? Non solo lo evoca con una corposa citazione ma lo pone come guardiano del Purgatorio e, difatti, Catone l’Uticense appare nel primo Canto della seconda Cantica della Commedia, e, nel corso del viaggio dello scorso anno scolastico [molte e molti di voi lo ricorderanno], abbiamo letto 57 versi del primo Canto del Purgatorio dove Dante, accompagnato da Virgilio, incontra e descrive la figura di Catone l’Uticense ispirandosi al poema Pharsalia di Lucano.

   Se il vostro ricordo è sfumato è buona pratica ravvivarlo, è buona pratica dare alla memoria un futuro e, quindi: rileggetevi i primi 75 versi del primo Canto del Purgatorio del Divina Commedia di Dante. Alcuni di questi versi sono molto famosi – sono versi autobiografici del Dante esule [di Dante sconfitto ma convinto di aver combattuto per una giusta causa] –, in questi versi Catone domanda assai preoccupato come sia stato possibile a Dante arrivare fin lì essendo ancora vivo e ancora da giudicare e Virgilio risponde: «Ora ti piaccia gradir la sua venuta: libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa, chi, per lei, vita rifiuta. Tu ‘l sai; che non ti fu per lei amara, in Utica, la morte, ove lasciasti la veste che al gran dì sarà sì chiara». C’è un verso memorabile nel poema Pharsalia di Lucano che esalta Catone l’Uticense tanto da farlo diventare il simbolo per tutte le persone che, pur avendo combattuto per una giusta causa, sono state sconfitte ma, nonostante abbiano perso la vita, non  hanno perso la fiducia che un giorno la giusta causa per la quale si sono battute trionferà: leggiamolo questo verso famoso.

LEGERE MULTUM….

Anneo Lucano, Pharsalia  I 138

Victrix causa deis placuit, sed victa Catoni.

[La causa vincitrice piacque agli dei, ma quella sconfitta piacque a Catone]

   Lo stile di scrittura drammatico ed espressivo di Lucano [Dante e gli autori medioevali seguono anche questo stile] è frutto di sperimentazione – l’Età tardo-antica è un periodo di sperimentazioni intellettuali che sono il risultato dell’avvenuta integrazione tra culture diverse con la nascita di nuovi modelli stilistici – e il linguaggio poetico di Lucano è difficile perché presenta inevitabilmente numerose antitesi [contraddizioni], molte iperboli [amplificazioni], frequenti nessi verbali arditi e oscuri, un gran numero di periodi complessi e, di conseguenza, ancora una volta dobbiamo affermare con molto realismo che leggere il poema Pharsalia non è impresa facile ma non è impossibile: è possibile affrontare la lettura di questo testo per frammenti con la necessaria pazienza, e questo è il consiglio di tutte le autorevoli lettrici e gli autorevoli lettori che, nei secoli, hanno affrontato la lettura di questo testo. I frammenti interessanti da leggere sarebbero davvero molti e fare una scelta non è facile: noi ci orientiamo secondo quelle che sono le caratteristiche dell’itinerario che stiamo seguendo e poi – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – vogliamo farci influenzare da alcuni lettori eccellenti [Goethe, Foscolo, Alfieri, Leopardi, solo per citarne alcuni], i quali, alla domanda: quali versi del poema Pharsalia ti hanno colpito maggiormente? Hanno risposto: i versi [dal 507 all’830] del Libro VI dove il poeta – come non aveva mai fatto nessuno prima – porta la lettrice e il lettore nell’àmbito dell’orrido, del macabro e del superlativo negativo. Nella seconda parte del Libro VI della Pharsalia il figlio di Pompeo Magno, Sesto Pompeo, entra in contatto, un contatto blasfemo e sacrilego, con l’efferata maga Erictho [Erittone] che gli rivela la rovina che si sta per abbattere sulla sua famiglia e su Roma. L’efferata maga Erictho [Erittone] è una vera e propria [come ha scritto Leopardi] “giocoliera della morte”, è una figura che “si ciba della morte” e opera con i suoi malefici perché la battaglia tra il Grande Pompeo e il Sommo Cesare avvenga a Farsalo in Tessaglia dove lei vive in modo da “possedere tanti morti e godere del sangue del mondo”. Lucano sperimenta senza remore la descrizione dell’orrido, del macabro e del superlativo negativo, ed era pericoloso, in un mondo superstizioso come quello romano, parlare di certi argomenti come quello del “trionfo della Morte” come se i grandi condottieri non fossero i responsabili dell’apoteosi del massacro, dell’esaltazione della distruzione.

   Leggiamo questa pagina indigesta contenente la traduzione di 323 versi dal Libro VI di Pharsalia: è la versione [con alcune varianti] di Giacomo Leopardi che, da adolescente, si divertiva come un pazzo a tradurre i testi dei Classici.

LEGERE MULTUM….

Marco Anneo Lucano, Pharsalia  VI  507-830

L’efferata maga Erictho [Erittone], come una bestia infida, insinuante e subdola  

condanna tali riti perché troppo pietosi, e aveva sospinto la sordida arte a nuove pratiche.

Era per lei un sacrilegio inchinare il macabro capo ai tetti d’una città

o ai Lari; abitava in vuoti sepolcri e occupava i tumuli, scacciate le ombre, grata

agli dèi dell’Erebo [gl’Inferi]. Né i celesti, né l’essere viva le impedivano di assistere

alle silenti riunioni dei morti, di conoscere le dimore dello Stige e i misteri

del sotterraneo Dite. Un’orribile magrezza scavava le guance della sacrilega,

e la faccia ignara del cielo sereno era orribilmente oppressa dal pallore stigio

e gravata dalla chioma scomposta. Se cupe nubi offuscano le stelle, la maga

di Tessaglia esce dai nudi sepolcri e cerca di catturare i fulmini notturni.

Dove calpesta, brucia il seme d’una messe feconda e con l’alito corrompe l’aria che prima non era mortale.

Non prega i celesti, non invoca con supplice canto l’aiuto d’un nume, ignora le fibre propiziatrici;

s’inebria nel porre sulle are funeree fiaccole e incenso che ghermisce dai roghi funebri.

I celesti temono di udire i suoi scongiuri. Seppellisce nelle tombe anime che ancora vivono e reggono i corpi;

per altri ai quali il Fato riserba anni di vita, costringe la morte a venire; e pervertendo le esequie, trae

i cadaveri dai tumuli, e le salme fuggono dalle bare. Invola dal colmo dei roghi

le ceneri fumanti e le ossa ancora ardenti dei giovani e persino la torcia brandita

dai genitori; raccoglie i residui del catafalco dai quali sale un nero fumo, e le vesti che cadono

in cenere, e le braci che conservano l’odore delle membra. Ma quando

i corpi si serbano sotto le pietre allora avida affonda le mani negli occhi, si estasia

a scavare i globi ghiacciati, e addenta le pallide escrescenze delle mani essiccate.

Prima delle fiere e dei rapaci, si asside presso i cadaveri che giacciono sulla nuda terra;

non ama dilaniare le membra con il ferro o con le proprie mani, ma aspetta che le mordano i lupi

per strappare gli arti dalle loro gole fameliche. Non rifugge dall’assassinio, se ha bisogno di sangue vivo che erompa

nei primi fiotti d’una gola squarciata [non si astiene dall’uccidere, se i riti richiedono sangue vivo] e se

le funebri mense esigono viscere palpitanti; così estrae i feti da porre sulle are ardenti da uno squarcio nel ventre

e non per la via naturale; tutte le volte che servono anime forti e selvagge, ella procura le vittime:

utilizza tutte le morti. Strappa il fiore dalle gote degli adolescenti, svelle con la sinistra la chioma ai fanciulli in agonia.

Spesso nel funerale d’un parente la crudele maga di Tessaglia si getta sulle care membra,

e imprimendovi un bacio ne tronca il capo, coi denti dischiude la rigida bocca, e mordendo la lingua incollata all’arido palato

soffia tra le gelide labbra un murmure, e invia qualche nefando segreto alle ombre dello Stige.

I consueti e fidi ministri

delle sue scelleratezze, vagando fra tumuli e sepolcri profanati la scorsero lontano assisa su una roccia scoscesa, d

ove l’Emo degradando continua i gioghi di Farsalo. Ella sperimentava formule sconosciute agli dèi della magia,

e componeva nuovi incantesimi da usare. Infatti, temendo che l’errante Marte si spostasse altrove

nel mondo, e che la terra emazia venisse così privata d’un tale massacro, la maga, contaminando Filippi

con scongiuri e aspergendola di succhi velenosi, impedì che la guerra la oltrepassasse

per possedere tanti morti e godere del sangue del mondo. Spera di mutilare i cadaveri dei re uccisi,

di asportare con sé le ceneri della gente esperia, d’impadronirsi delle ossa di personaggi famosi e di gloriose ombre.

Questa è la sua brama e il suo unico pensiero: quale parte possa rapire del corpo abbandonato

del Grande Pompeo o delle membra del Sommo Cesare.

   Abbiamo letto questa pagina anche perché ci permette di fare un’ulteriore considerazione di carattere filologico: nella mente dell’autore questi versi rappresentano una metafora di uno degli argomenti principali del poema su cui abbiamo riflettuto a scopo propedeutico, in funzione della didattica della lettura e della scrittura: il tema del “rimorso”, in latino “conscientia”. Questo tema rappresenta anche un elemento autobiografico – che coinvolge una cerchia di intellettuali di scuola stoica di nostra conoscenza –, riguardante il fatto che Lucano prova “rimorso”, nel senso di “conscientia serpentis instar [una coscienza a forma di serpente: che si muove come una bestia infida, insinuante, subdola e strisciante, che tormenta l’anima], per avere sostenuto Nerone in una sorta di complicità anche per motivi di privilegio, e per non aver reagito con fermezza per contrastarne il potere: un potere che ha permesso a Nerone di fare il “giocoliere della morte”. Lucano utilizza la figura della maga Erictho [Erittone] per creare l’immagine allegorica della “cattiva coscienza [conscientia serpentis instar]” che genera il “rimorso”, un sentimento che assume la forma di una “bestia infida, insinuante, subdola e strisciante”: la figura della maga Erictho [Erittone] rappresenta questo tormentoso sentimento perché il nome “Erittone” significa “metà essere umano e metà serpente”.

   Il poema Pharsalia è importante perché contiene una presa di coscienza, un’autocritica, una confessione dell’autore che sente il “rimorso” per avere vissuto un rapporto ambiguo con i vertici di un potere corrotto e violento – questo è successo a Seneca, a Persio, a Petronio, a molti altri, e a Lucano che se ne fa portavoce  – ed è anche la prova di un riscatto morale, civile e politico che prelude al gesto finale [imitando Catone l’Uticense] di dare la vita in nome della libertà nel segno dell’amarezza ma senza perdere la speranza che la “sapienza poetica e filosofica” possa essere uno strumento capace di additare la via del cambiamento e della salvezza creando un clima culturale in cui ci si possa educare a trasformare la “cattiva coscienza, conscientia serpentis instar” che genera il “rimorso” in “conscientia papilionis instar, una coscienza leggera come una farfalla, libera dal rimorso”. Sarà questo, nei secoli a venire, un tema letterario e filosofico di grande importanza con il quale entreremo spesso in contatto, strada facendo.

   Abbiamo evocato lo “spiritismo” sul versante del macabro e dell’orrido e ora torniamo nell’ambito del normalità [se così si può dire] leggendo, per concludere, che cosa scrive sull’argomento – con maggior leggerezza – il poeta Carlo Alberto Salustri [1871-1950] detto Trilussa quando un medium, di fronte al suo scetticismo in materia di comunicazione con i defunti, dice di aver chiamato l’anima di suo nonno [il nonno di Trilussa era un musicista], ma quest’esperienza si rivela tale da far aumentare il suo pessimismo “ragionevole”. Leggiamo:

LEGERE MULTUM….

Trilussa,  Spiritismi

 

- Eh, te capisco! - seguitò a di’ lui - tu nun ce credi e trovi ch’è impossibbile

che un omo possa vede l’invisibbile; ma se parlassi co’ li morti tui?

co’ tu’ nonno, presempio? - In de ‘sto caso - je feci - resterebbi persuaso.

... continua la lettura ...

   La prossima settimana Lucio Anneo Seneca – non è facile allontanarsi da questo paesaggio intellettuale – ci vuole raccontare, tanto per rimanere in argomento con leggerezza, che cosa è successo quando lui ha pronunciato un famoso “elogio funebre”. Agrippina Minore sorride – ha già pianto troppo questa sera, e piangerà ancora prossimamente –; sorride perché questo elogio funebre, pronunciato da Seneca, ha creato una distrazione nell’opinione pubblica di cui lei si è giovata, ma ne parleremo la prossima settimana quando incontreremo anche un altro personaggio che, in questo paesaggio intellettuale, vive piuttosto appartato perché si è fatto la fama di “arbiter” e l’arbitro deve essere imparziale e per essere il più possibile imparziale deve tenere le distanze. Chi è costui, e in che cosa consiste il suo “arbitrato”?

   Per rispondere a queste domande è doveroso seguire la scia dell’Alfabetizzazione e dell’Apprendimento permanente perché l’Alfabetizzazione culturale e funzionale è un bene comune [come il rimorso quando serve per educare alla buona coscienza] e l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona: per questo la Scuola è qui con il suo carattere “errante” per esortare ad investire in intelligenza .

   Il viaggio continua…

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Gennaio 18, 2013