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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ UMANISTICA SI PASSA DA UN TIPO DI LOGICA CHE DESCRIVE UN MODO DI ESSERE NECESSARIO AD UNA LOGICA CHE SI ESPRIME IN UN MODO DI PENSARE VOLONTARIO ...

Lezione N.: 
19

Prof. Giuseppe Nibbi        La sapienza poetica e filosofica dell’età umanistica        9-10-11  marzo  2016

Guglielmo di Ockham

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ UMANISTICA

SI PASSA DA UN TIPO DI LOGICA CHE DESCRIVE UN MODO DI ESSERE NECESSARIO

AD UNA LOGICA CHE SI ESPRIME IN UN MODO DI PENSARE VOLONTARIO ...

   Questo è il diciannovesimo itinerario del nostro viaggio di studio sul “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età umanistica” [siamo nel cuore della Quaresima e questa è la penultima Lezione prima della vacanza pasquale].

   Sappiamo che Giovanni Duns Scoto [che abbiamo incontrato anche nella prima parte dell’itinerario della scorsa settimana] ha costruito le basi di quella che è stata chiamata “la dottrina del primato della volontà sulla ragione”, inaugurando la corrente di pensiero cosiddetta del “volontarismo” per cui l’essenza dell’Essere è la Volontà. Il “volontarismo” molto accentuato di Giovanni Duns Scoto vuole dare un solido fondamento alla libertà, sia alla libertà con cui Dio crea e governa il Mondo [perché Dio fa quello che vuole], sia alla libertà con cui la persona è in grado di entrare in comunicazione con Dio [perché anche la persona fa quello che vuole, ma per il francescano Duns Scoto la persona è libera solo quando fa il Bene, contrariamente cade nella schiavitù del peccato].

   Per Giovanni Duns Scoto - contrariamente al pensiero aristotelico e platonico [i due grandi apparati che hanno condizionato tutto il movimento della Filosofia scolastica medioevale] - non è la volontà ad essere soggetta alla Necessità ma è la Volontà a governare la necessità e il tema del rapporto tra la Necessità e la Volontà caratterizza l’età dell’Umanesimo [un tema di carattere esistenziale che continua ad essere di attualità]. E, a questo proposito, dobbiamo imbastire una riflessione che la scorsa settimana abbiamo lasciato in sospeso.

   A questo punto si potrebbe pensare che, alle soglie del Trecento, sul territorio della Filosofia scolastica medioevale si formino due grandi correnti di pensiero antagoniste: una che considera “la volontà soggetta alla Necessità” e un’altra che considera “la necessità soggetta alla Volontà” e, difatti, così avviene; ma in realtà lo scenario - all’interno delle stesse correnti che privilegiano l’una la “necessità” e l’altra la “volontà” - si presenta in modo ben più complesso ed eterogeneo perché il termine “necessità” e il termine “volontà” non vengono interpretati allo stesso modo, e noi sappiamo che la parola “necessità” rimanda ai vocaboli “bisogno, fatalità, destino, obbligo, povertà”, mentre la parola “volontà” richiama i termini “arbitrio, intenzione, proposito, disposizione, desiderio”. Quindi succede che, in relazione ad ognuna di queste voci, richiamate dalle parole  “necessità” e “volontà”, corrisponde una diversa visione delle cose in un momento in cui [siamo nel cuore dell’autunno del Medioevo] la “filologia” esalta il significato del valore delle parole per cui si va formando un nuovo concetto di “logica” rispetto a quello basato sulle “categorie” di Aristotele, avviene una “rivoluzione nel campo della logica” e ci si domanda anche se, con questa rivoluzione “filologica”, sia finito qui il Medioevo, e questa è una delle tante ipotesi che sono state fatte per rispondere alla domanda: quando termina l’Età medioevale? A questa domanda sono state date tante risposte [le linee di confine tra l’Età medioevale e quella moderna sono molte] e, quindi, dobbiamo procedere con ordine.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Voi, oggi, quale di questi termini - bisogno, fatalità, destino, obbligo, povertà, o quale altro… - mettereste per primo accanto alla parola “necessità”?… 

Scrivetelo …

E quale di questi termini - arbitrio, intenzione, proposito, disposizione, desiderio, o quale altro… - mettereste per primo accanto alla parola “volontà”?…  

Scrivetelo…

   Sulla scia di questa riflessione possiamo subito dire che la parola “volontà” è stata variamente interpretata e il “volontarismo” [già piuttosto accentuato] di Giovanni Duns Scoto si differenzia da quello [fortemente accentuato] di un nuovo personaggio [al quale Duns Scoto passa il testimone] con il quale ci siamo già incontrate ed incontrati [ma appena incontrate ed incontrati] la scorsa settimana: Guglielmo di Ockham. Ricorderete senz’altro che incontrando Guglielmo di Ockham siamo state obbligate ed obbligati, in prima istanza, a puntare la nostra attenzione su una particolare situazione [piuttosto caotica] che ha lasciato un segno nella storia della cristianità. Quando s’incontra questo personaggio si finisce, inevitabilmente, col dover fare i conti con un argomento piuttosto ampio e complesso tanto che, se ben ricordate, lo abbiamo dovuto lasciare in sospeso per riprenderlo questa sera.

   Come sappiamo, Guglielmo è nato ad Ockham, in Inghilterra, intorno al 1290 [siete andate e andati con la guida della Gran Bretagna e navigando in rete a fare una visita ad Ockham che è un piccolo paese a sud-ovest di Londra nella contea del Surrey? Siete sempre in tempo per fare questa escursione…]. Da ragazzo Guglielmo di Ockham entra nell’Ordine francescano, va a studiare ad Oxford, diventa magister di Teologia,  ma nel 1324 per lui inizia un periodo difficile perché, come sappiamo, viene citato a comparire di fronte alla Corte papale di Avignone a causa di 51 proposizioni, considerate eretiche, contenute nel Commentario delle Sentenze, perché [come già sappiamo] anche Guglielmo di Ockham, allo stesso modo di Giovanni Duns Scoto, ha commentato il testo del Liber Sententiarum [il “Libro delle Sentenze”] di Pietro Lombardo, che raccoglie i pensieri - spesso contraddittori - dei Padri della Chiesa sui vari temi della dottrina.

   Il Commentario delle Sentenze di Guglielmo di Ockham è un testo che, dal 1319, sta circolando nelle principali Università europee, suscitando un grande interesse [soprattutto sul tema delle prerogative papali] e il tribunale dell’Inquisizione vuole vietarne la diffusione. Come sappiamo, ad Avignone Guglielmo di Ockham viene trattenuto in qualità di sorvegliato speciale [tenuto d’occhio da papa Giovanni XXII, del quale ci occuperemo tra poco] anche se non viene pronunciata nei suoi riguardi alcuna condanna per eresia [tutto rimane in sospeso]. A questo punto la scorsa settimana ci siamo domandate e domandati: che cosa ci fa la Corte papale ad Avignone, nel cuore della Provenza?

   Siamo al corrente del fatto che la Corte papale, per circa settant’anni, dal 1309 al 1377, si è trasferita ad Avignone e sappiamo che questo periodo è stato chiamato della “cattività avignonese” perché, in latino, il termine “captivitas” significa “prigionia” e abbiamo anche detto che il papa non era prigioniero ad Avignone, ma, di fatto, il papato era sotto il controllo del re di Francia, inizialmente di Filippo IV il Bello il quale ha preteso il trasferimento della sede papale in territorio francese, ma i passaggi di questa storia sono piuttosto complessi per cui il papato non è diventato immediatamente “avignonese” e Filippo il Bello, che è morto nell’estate del 1314, non ha assistito alla più stabile sistemazione della Corte papale ad Avignone.

   Se ben ricordate, la scorsa settimana abbiamo studiato l’antefatto, cioè abbiamo analizzato gli avvenimenti che hanno portato la sede del papato in territorio francese, e sappiamo che questa situazione si è determinata sul finire del 1200 a causa del conflitto tra il papa Bonifacio VIII e il monarca francese Filippo il Bello. Come sappiamo, Bonifacio VIII è stato un papa autoritario e teocratico [un papa che concepisce l’idea di una Chiesa che domina sui sovrani della Terra], tuttavia l’affronto che ha subito - che ha preso il nome di “schiaffo di Anagni” [un episodio che ben conosciamo] - da parte di Guglielmo di Nogaret [l’ambasciatore di Filippo il Bello] e di Sciarra Colonna [il capo militare della famiglia acerrima nemica dei Caetani] è molto grave, ma Bonifacio VIII [e lo deve riconoscere anche Dante che sconta l’esilio a vita per colpa di questo papa e, quindi, è molto adirato con lui] si comporta dignitosamente ed è pronto a morire pur di non abdicare come gli viene imposto da Filippo il Bello, tanto che il popolo di Anagni lo libera e lui torna a Roma dove muore comunque di crepacuore l’11 ottobre 1303.

   Il successore di Bonifacio VIII, eletto rapidamente all’unanimità, come sappiamo, è il domenicano Niccolò Boccassini di Treviso, vescovo di Ostia, che prende il nome di Benedetto XI e si trova ad affrontare una situazione assai difficile per il papato, per cui agisce [essendo un buon diplomatico], facendo una politica di riappacificazione con Filippo il Bello al quale revoca la scomunica inflittagli dal suo predecessore.

   Però i continui scontri tra le varie fazioni che si fanno la guerra [i Colonna, i Caetani, gli Orsini, i Savelli] obbligano Benedetto XI a lasciare Roma per Montefiascone, poi si trasferisce a Orvieto e infine a Perugia dove ha il coraggio di aprire un processo sui fatti di Anagni [sulla violenza subita da Bonifacio VIII] che si conclude con la scomunica di Nogaret e di Sciarra Colonna, toccando anche, seppur indirettamente perché non viene mai nominato, Filippo il Bello, ma il pontificato di Benedetto XI non dura neppure un anno perché come sappiamo muore nel luglio del 1304 e si parla di avvelenamento; difatti, il cronista fiorentino Giovanni Villani [1276-1348], nella sua opera intitolata Nuova Cronica, allude al fatto [come abbiamo letto la scorsa settimana] che Benedetto XI sia stato avvelenato “con polvere di diamante” iniettata nei fichi [di cui era ghiotto] ed è facile pensare che i mandanti siano i Colonna con il benestare di Filippo il Bello, il quale [come sappiamo] vuole influenzare la scelta dei cardinali riuniti in conclave a Perugia per eleggere il nuovo papa, e ha anche buon gioco perché nel collegio cardinalizio c’è disaccordo [e persino la famiglia Orsini si divide]: c’è una fazione filoitaliana guidata dai cardinali Matteo Orsini e Francesco Caetani e quella filofrancese con a capo Napoleone Orsini e Niccolò da Prato, e le liti tra queste due correnti vanno avanti per un anno accompagnate dagli scontri armati tra i sostenitori delle due opposte fazioni: Filippo il Bello gongola perché ad un certo punto viene chiamato a fare da pacificatore e lui propone un suo candidato, fuori dalla mischia [non presente in conclave perché non è cardinale], il quale viene eletto il 5 luglio del 1305, ed è l’arcivescovo di Bordeaux, Bertrand de Got [una nostra vecchia conoscenza] che prende il nome di Clemente V [lo abbiamo incontrato quattro settimane fa in un altro contesto quando ha invitato Raimondo Lullo al concilio di Vienne nel 1311 senza però fare attenzione al grande progetto ecumenico di Lullo].

   Papa Clemente V, il guascone Bertrand de Got, arcivescovo di Bordeaux, che ha studiato ad Orléans e a Bologna, viene incoronato a Lione [non si muove dalla Francia] e si lascia guidare dal re Filippo il Bello in tutte le sue azioni: revoca i provvedimenti che aveva preso Bonifacio VIII per affermare il primato del pontefice sui sovrani temporali [vengono abolite le parti più incisive della bolla “Unam sanctam” per cui si permette al re francese di incamerare tutte le tasse ecclesiastiche che lui utilizza per rafforzare le Istituzioni statali]. Da questo momento la Corte papale abbandona Roma per trasferirsi in Francia: prima a Lione, poi a Cluny, poi a Bordeaux, poi a Poitiers e, dal 1309, su decisione di Filippo il Bello, in un castello di proprietà del re di Napoli nei pressi di Avignone.

   Dante colloca Clemente V all’Inferno nel canto XIX, quello dei simoniaci [ne abbiamo letto un frammento prima della vacanza natalizia] soprattutto per questa sua volontà di rimanere in Francia a scapito, secondo Dante, del “carattere universale della Chiesa” [la città di Roma dava - nella mentalità medioevale di Dante - universalità al cristianesimo]: Clemente V, nell’Inferno dantesco, fa compagnia a papa Niccolò III Orsini e a Bonifacio VIII Caetani, responsabili, con i Colonna, alleati del re di Francia, del fatto che secondo Dante la cristianità ha perso la sua centralità, tradendo la missione di Paolo di Tarso. Clemente V muore il 20 aprile 1314 a Carpentras dove si era trasferito l’anno precedente, è un papa girovago ma per lui l’importante è non uscire dai confini francesi per rimanere sotto l’ala protettrice di Filippo il Bello.

   In relazione a Carpentras dobbiamo affrontare una questione dolciaria perché la specialità di questa cittadina sono i “berlingots” (berlengò), caramelle di zucchero duro translucido dal forte gusto di menta, e la tradizione li vuole inventati all’inizio del Trecento [forse nel 1313] da un cuoco pasticcere di nome Silvestro come omaggio a papa Clemente V che ha insediato la sede papale proprio nella cittadina di Carpentras.

   Il “berlingot” è rimasto nella tradizione casalinga locale sino al 1843 quando è iniziata la produzione commerciale e nel 1874 il “berlingot” ha vinto una medaglia all’Esposizione di Parigi. Il nome di questo prodotto ha un’etimologia che deriva da una deformazione del nome di Clemente V, Bertrand de Got [berlingots]. Oggi se ne producono, sotto marchio di fabbrica, dalle 70 alle 80 tonnellate l’anno: non è difficile, quindi, da assaggiare i berlingots.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Utilizzando una guida della Francia e navigando in rete fate una visita a Carpentras in Valchiusa [lo diciamo in italiano perché c’è una ragione che definiremo a suo tempo]: osservate i monumenti di questa cittadina [che oggi ha più di trentamila abitanti] nella quale torneremo per vari motivi legati al nostro Percorso ai primi di maggio…  Vi piace la menta?

Scrivete quattro righe in proposito

   Questa volta però Filippo il Bello non può interferire sul conclave perché nell’estate del 1314 muore e gli succede suo figlio primogenito Luigi X detto l’Attaccabrighe o il Testardo, il quale si è subito trovato a dover contrastare la rivolta del clero, che non voleva pagare le tasse imposte da Filippo il Bello, e dei nobili che volevano estendere i loro privilegi che Filippo il Bello aveva ridimensionato in nome dell’autorità statale.

   Il conclave che si riunisce a Carpentras dopo la morte di Clemente V è uno dei più convulsi nella Storia delle elezioni papali. Nella primavera del 1314 a Carpentras si riunisce il collegio cardinalizio per eleggere il successore di Clemente V: i cardinali sono ventitré e solo sei sono italiani, tutti gli altri sono francesi o legati al re di Francia. I porporati italiani propongono Guglielmo vescovo di Palestrina perché desiderano che la sede papale sia riportata a Roma: anche Dante invia al conclave un appello [inascoltato] per far tornare “la sposa di Cristo” a Roma. Questo conclave si svolge tra intrighi, corruzione e violenza, e i cardinali italiani sono costretti addirittura a fuggire perché minacciati di morte. Questa situazione scandalosa si trascina per due anni [per 27 mesi] e Luigi X, il figlio e successore di Filippo il Bello, non è in grado di mantenere l’ordine [si è guadagnato l’appellativo di Attaccabrighe]. Ci riesce invece, quando gli succede, suo fratello Filippo V il Lungo [Luigi X muore a ventisette anni] che, nel giugno del 1316, con la forza fa prelevare i cardinali da Carpentras, li fa portare a Lione e li fa rinchiudere nel convento dei domenicani dove, finalmente, dopo un mese, il 7 agosto, viene eletto il nuovo papa che prende il nome di Giovanni XXII ed è, ancora una volta, un guascone: si chiama Jacques-Arnaud Duèse, nativo di Cahors e vescovo di Avignone, il quale decide di trasferire la Corte papale in questa città con il beneplacito del re angioino di Napoli, del quale Duèse era stato cancelliere e ministro delle finanze, perché la città di Avignone era di proprietà degli Angioini [era stata ereditata da Carlo d’Angiò] e la Corte papale deve pagare l’affitto del castello in cui pone la sua sede: il Palazzo dei papi nel 1316 non esiste ancora ad Avignone [non è ancora visitabile].

   Papa Giovanni XXII è un vecchio di settantadue anni, di umili origini, piccolo e brutto, ma dotato di una instancabile attività di mente e soprattutto di un prodigioso talento amministrativo. Dalla sua camera del castello angioino alla periferia di Avignone Giovanni XXII governa la Chiesa “nella pienezza della sua potestà” [come amava ripetere]: controlla puntigliosamente il pensiero contenuto nelle Opere dei teologi scolastici [a cominciare da quello di Guglielmo di Ockham], reprime i francescani spirituali che predicano la povertà assoluta [come Michele da Cesena] e, quindi, i teologi insorgono contro di lui, i frati francescani spirituali si ribellano e questi suoi oppositori si rifugiano tutti alla corte dell’imperatore germanico Ludovico il Bavaro che si è fatto incoronare ad Aquisgrana senza attendere, come era tradizione ormai del diritto ecclesiastico, la conferma papale e, quindi, Giovanni XXII lo scomunica.

   Si ripete lo storico scontro tra il papato - che, però, non ha sede a Roma - e l’impero per cui Ludovico scende in Italia [a Milano si fa incoronare con la corona ferrea] e a Roma riceve la corona dell’impero da Sciarra Colonna; poi, dopo aver creato un antipapa, il frate predicatore Pietro Rainalducci da Corvara, che prende il nome di Niccolò V, e dopo aver dichiarato deposto Giovanni XXII adducendo che la sede papale è a Roma, se ne torna in Germania. Ma, partito l’imperatore, il popolo romano insorge e Giovanni XXII scomunica l’antipapa, il quale, essendo un pio frate consapevole di non essere stato eletto dai cardinali secondo le regole canoniche, lascia Roma e si rifugia nel territorio pisano presso il conte Bonifacio di Donoratico che ottiene da Giovanni XXII l’assicurazione che il frate Pietro da Corvara avrebbe avuta salva la vita se fosse andato ad Avignone a fare atto di sottomissione con la corda al collo, e Pietro va, riceve il perdono del papa e viene collocato agli arresti conventuali-

   Questo era il momento adatto in cui Giovanni XXII avrebbe dovuto fare pace con i Romani, aprire un dialogo con l’imperatore e tornare a Roma ma non agisce in questo senso perché lui avrebbe voluto trasferire la corona imperiale sulla testa del re di Francia, e poi esagera con le scomuniche che perdono di efficacia perché non più sostenute dall’opinione pubblica per cui i teologi scolastici [a cominciare da Guglielmo di Ockham, come vedremo] mettono in questione i fondamenti del presunto primato papale su tutti gli altri poteri. Sul fronte economico ed amministrativo Giovanni XXII fa invece delle operazioni molto efficaci: organizza la curia romana in una forma che dura tuttora, ed istituisce “la camera apostolica” [una banca che lui dirige personalmente] che ha il compito di provvedere, investire e custodire il denaro occorrente per l’amministrazione della Santa Sede: questa innovazione [la Corte papale che si mette sul mercato] frutta ai forzieri avignonesi un tesoro valutato in venti milioni di fiorini d’oro (circa 250 milioni di euro) e sette milioni di preziosi (circa 85 milioni di euro, per un totale di 335 milioni di euro). Giovanni XXII ha fatto un uso utile di queste risorse ma, come sempre succede, nella rete burocratico-amministrativa che è venuta a crearsi nascono abusi, corruzione, malaffare.

   Giovanni XXII muore nel 1334 a novant’anni [ha regnato per 18 anni] e gli succede il cardinale Jacques Fournier di Tolosa che prende il nome di Benedetto XII che opera con decisione per eliminare la corruzione nella rete amministrativa e, nel 1335, comincia ad utilizzare il patrimonio accumulato dal suo predecessore per comprare un terreno e far costruire un palazzo papale [e viene edificata la parte detta “vecchio Palazzo dei papi”].

   Gli succede nel 1342 l’arcivescovo di Rouen Pierre Roger - una persona colta e di larghe vedute - che prende il nome di Clemente VI al quale si presenta l’occasione di fare un investimento in grande stile, visto che le risorse non mancano al papato, e acquista dalla regina di Napoli Giovanna I d’Angiò [che ha bisogno di soldi] la città di Avignone per ottantamila fiorini d’oro (circa 960 mila euro, un affarone!) e fa costruire, accanto al “vecchio”,  il “nuovo Palazzo dei papi” [in seguito queste due parti verranno inglobate in un’unica struttura]. Clemente VI deve anche affrontare il difficile momento della “peste nera”, negli anni 1348-1349, che ha falcidiato la popolazione europea e organizza una struttura di soccorso per gli ammalati e contrasta la diffusione della falsa credenza che il morbo sarebbe stato diffuso per colpa degli ebrei. Nel 1349, su richiesta dei Romani [una delegazione capeggiata da un certo Cola di Rienzo], pubblica una bolla che fissa la celebrazione del Giubileo ogni cinquant’anni e, quindi, nell’anno successivo, il 1350, viene celebrato a Roma - con l’afflusso di numerosissimi pellegrini - il secondo Giubileo, però senza papa.

   La Corte papale rimane ad Avignone ancora fino al 1377 e noi ora dobbiamo fermarci qui nella nostra incursione sulla “cattività avignonese” [se no andiamo troppo in là con gli anni] e il Palazzo dei papi - che ha la forma di una sobria e grande fortezza - crescerà ancora con diversi interventi ma nel 1350 questo monumento è praticamente completo nella sua struttura.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con la guida della Francia e navigando in rete fate visita ad Avignone, attraversata dal Rodano e, in particolare, al “Palazzo dei papi“: buon viaggio             

   E adesso dobbiamo tornare da Guglielmo di Ockham, il personaggio che ci ha obbligate ed obbligati ad occuparci, a grandi linee, del tema della “cattività avignonese” nel periodo dal 1309 al 1350 [l’anno del Giubileo senza papa]. Facciamo qualche passo indietro [ringiovaniamo di qualche anno].

   Come sappiamo, nel 1326 un’apposita commissione, presieduta da papa Giovanni XXII [personaggio con il quale abbiamo fatto conoscenza poco fa], dichiara che 51 proposizioni contenute nel Commentario delle Sentenze di Guglielmo di Ockham non sono in linea con l’ortodossia per cui Guglielmo viene trattenuto ad Avignone [agli arresti conventuali: brutto segno!], e in questo clima di grande incertezza Guglielmo incontra un grande personaggio della variegata galassia francescana e aderisce alle sue posizioni.

   Ad Avignone, nel 1326, Guglielmo di Ockham incontra Michele da Cesena, il leader dei francescani spirituali, che è arrivato nella città del papa con due confratelli, Bonagrazia da Bergamo e Francesco d’Ascoli, per sostenere la posizione dottrinale sul tema della povertà derivante dalla Regola di Francesco d’Assisi: «Gesù Cristo non era padrone dei suoi abiti quindi la Chiesa deve distribuire tutto quello che ha e tutto ciò raccoglie». Giovanni XXII che [come ben sappiamo] è dotato di uno straordinario talento finanziario e amministrativo non la pensa certo così, per lui «Gesù Cristo era padrone dei suoi abiti e la Chiesa è una grande azienda che, per sostenere anche opere caritatevoli, deve operare sul mercato», e chi non la pensa come lui rischia grosso [e anche Michele da Cesena, Bonagrazia da Bergamo e Francesco d’Ascoli finiscono agli arresti conventuali] perché Giovanni XXII considera la posizione del francescani spirituali non conforme con l’ortodossia.

   Nella notte [senza luna] del 26 maggio 1328 Guglielmo di Ockham, Michele da Cesena, Bonagrazia da Bergamo e Francesco d’Ascoli fuggono avventurosamente da Avignone convinti che per sostenere l’idea della povertà predicata dal Vangelo - e per sostenere tutte le loro idee in generale - è meglio restare vivi. Sanno che questo gesto - essendo loro, in pratica, dei prigionieri [gli viene impedito di lasciare Avignone] - avrà delle conseguenze gravi, e allora fuggono: dove sono diretti, chi li ospita? Dapprima riescono a raggiungere Pisa dove fornisce loro protezione l’imperatore Ludovico il Bavaro che, come sappiamo, è in conflitto con Giovanni XXII,  e poi, nel 1330, partono insieme con l’imperatore per Monaco di Baviera, divenuta la capitale dell’impero.

   Guglielmo di Ockham risiede a Monaco fino alla sua morte, avvenuta nel 1349, rimanendo sempre fedele alla sua opposizione al papato avignonese e alla causa “pauperista” degli spirituali francescani. Il suo soggiorno a Monaco coincide con un ampliamento della sua attività letteraria che, dal campo della filosofia e della teologia, si sposta a quello della politica. Oltre al Commentario alle Sentenze scrive molte altre Opere come i sette libri di Quodlibeta [“Problemi qualsiasi”, che tratta di argomenti vari di natura filosofica e teologica], poi la Summa di logica [un compendio completo di logica scolastica che rivoluziona i canoni di questa disciplina]. Numerose sono inoltre anche le Opere a carattere politico, parte delle quali dirette contro il papa Giovanni XXII, tra cui si ricordano: L’opera dei novanta giorni [dedicata al tema della povertà], e il Compendio degli errori del papa Giovanni XXII. Le Opere scritte successivamente al 1338 sono dedicate ai rapporti tra il potere temporale e il potere spirituale: il Trattato sul potere imperiale, il Dialogo sul potere papale ed imperiale, La spada e lo scettro.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con la guida della Germania e navigando in rete è interessante fare una visita a Monaco di Baviera puntando l’attenzione sulla Cattedrale, la Chiesa di Nostra Signora [Frauenkirche], un edificio tardo-gotico di vaste proporzioni dove, all’inizio della navata destra, c’è il mausoleo dell’imperatore Ludovico il Bavaro in marmo nero e bronzo che merita di essere osservato…

Buon viaggio

   Quale incidenza ha nella prima metà del Trecento il pensiero di Guglielmo di Ockham in questo momento assai delicato per la Storia del Pensiero Umano? Con le sue riflessioni Guglielmo di Ockham lancia una sfida nei confronti della Scolastica tradizionale, una sfida che porta decisamente verso un cambiamento epocale, verso l’età che poi verrà chiamata dell’Umanesimo.

   Di fronte alla parola “sfida” noi dobbiamo ricordarci che stiamo leggendo [da quattro settimane] un romanzo e che siamo arrivate ad arrivati nel momento della narrazione in cui due contendenti - i due principali personaggi - si sfidano alla scacchiera. Come sapete il romanzo che stiamo per finire di leggere s’intitola Novella degli scacchi ed è stato scritto da Stefan Zweig nel 1941. L’autore ci ha portate e portati a bordo di un piroscafo che viaggia da New York a Buenos Aires dove due contendenti si sfidano alla scacchiera, da un lato c’è Mirko C., il campione mondiale di scacchi in carica, arrogante e venale ma veramente geniale, mentre dall’altro lato c’è l’enigmatico Signor B., colto, elegante, inquieto, dotato di un talento prodigioso e immaginifico. Ma prima che questi due personaggi-chiave arrivino a scontrarsi l’autore [come ricorderete] ce li ha fatti conoscere e ha raccontato come l’uno e l’altro si siano avvicinati agli scacchi: Mirko C., il campione poco acculturato ma geniale, ha trovato negli scacchi [come ricorderete] il modo per emanciparsi dalla sua misera condizione sociale, mentre il Signor B. ha utilizzato un Libro sugli scacchi [rubato in modo rocambolesco dalla tasca del cappotto di una guardia] per resistere mentalmente - studiando gli schemi delle partite contenuti in questo testo - ad una situazione di rigidissima segregazione dopo essere stato [come ricorderete] arrestato dalla Gestapo che lo interroga, tenendolo nell’isolamento più assoluto, per carpire a lui, che è un consulente finanziario al servizio dei monasteri austriaci e della monarchia asburgica, delle informazioni utili ai nazisti per impossessarsi dei soldi della Chiesa e dell’Impero.

   Il Signor B., dopo aver imparato a memoria tutti gli schemi delle partite contenuti nel Libro che ha rubato e cimentandosi poi a giocare contro se stesso, sdoppiando il suo Io, ha subìto una vera e propria “intossicazione da scacchi” per cui finisce sull’orlo della pazzia [come abbiamo letto la scorsa settimana]; se questo fatto, da una parte gli ha salvato la vita, perché i suoi carcerieri sono costretti [avendo lui cominciato a sragionare e ferendosi gravemente ad una mano] a farlo ricoverare in ospedale [dove viene curato da un medico compiacente] e poi lo mettono in libertà intimandogli di lasciare l’Austria, d’altra parte, noi sappiamo che il medico lo ha sconsigliato di giocare a scacchi perché potrebbe ripresentarsi la sindrome che lo ha colpito facendogli rischiare la pazzia e, quindi, lui sa [e anche il narratore lo sa] che non può esporsi e non può giocare più di una partita, di conseguenza, tanto per Mirko C. quanto per il Signor B., la situazione è assai delicata: è, per entrambi, una partita pericolosa.

   Stefan Zweig ha utilizzato questi due personaggi e li ha inseriti in un complesso contesto narrativo per presentare un quadro storico, politico e psicologico che ha un risvolto autobiografico: Stefan Zweig ha subìto la repressione della dittatura nazista ma è riuscito a fuggire e a salvarsi ma, per questo, si è sempre sentito in colpa fino ad auto-punirsi dando “scacco matto” a se stesso. Il Signor B. - dopo aver raccontato la sua storia al narratore viennese che lo deve convincere ad accettare la sfida - decide di giocare una sola partita contro il campione del mondo. E il giorno dopo, puntuali all’ora stabilita, le tre del pomeriggio, i protagonisti di questo romanzo e un certo numero di curiosi [noi comprese e compresi] sono tutti riuniti nella sala fumatori della nave.

LEGERE MULTUM….

Stefan Zweig, Novella degli scacchi

La nostra cerchia si era allargata ad altri due appassionati del Gioco dei Re, due ufficiali della nave che avevano chiesto appositamente di essere esonerati dal servizio per poter assistere alla partita. Anche Mirko C., a differenza del giorno precedente, non si fece attendere, e dopo l’obbligatoria scelta del colore ebbe inizio la memorabile partita di questo homo obscurissimus contro il celebre campione mondiale. Mi spiace che sia stata giocata solo per noi, spettatori del tutto incompetenti, e che il suo svolgimento sia andato perduto per gli annali della scienza scacchistica come le improvvisazioni al pianoforte di Beethoven per la musica.

Naturalmente i pomeriggi successivi tentammo di ricostruire tutti insieme la partita a memoria, ma invano Mirko C., l’esperto, rimase per tutto il tempo immobile come un blocco di marmo, gli occhi fissi con ostinazione sulla scacchiera; il riflettere sembrava costituire per lui uno sforzo addirittura fisico, che costringeva tutti i suoi organi alla più assoluta concentrazione. Il Signor B., al contrario, si muoveva spontaneo e rilassato. In quanto vero dilettante nel senso migliore del termine - a cui, nel gioco, solo il gioco, il diletto [In italiano nel testo], dà piacere - lasciava il corpo completamente disteso, durante le prime pause chiacchierava con noi per spiegarci le mosse, e quando arrivava il suo turno guardava la scacchiera per appena un minuto.

Ogni volta dava l’impressione di aver previsto in anticipo la mossa dell’avversario. Le obbligatorie mosse d’apertura si svolsero piuttosto in fretta. Solo alla settima o all’ottava mossa parve svilupparsi qualcosa di simile a un piano ben preciso.

Mirko C. protrasse sempre più le sue pause di riflessione; e fu da questo segnale che ci accorgemmo che era cominciata la vera battaglia per il vantaggio. A onor del vero, noi non eravamo in grado di capire né cos’avessero in mente i due giocatori né quale dei due si trovasse effettivamente in vantaggio. Notavamo soltanto che alcune figure venivano fatte avanzare e usate a mo’ di leva per far saltare il fronte nemico, ma non eravamo in grado di capire - trattandosi di due giocatori di livello superiore - l’intento strategico che si celava in quell’andirivieni. Poi le interminabili pause di riflessione di Mirko C. cominciarono a irritare visibilmente il nostro amico il quale ordinava in continuazione dell’acqua minerale che buttava giù alla svelta bicchiere dopo bicchiere; era evidente che ragionava cento volte più velocemente di Mirko C. Ogni volta che questi, dopo una riflessione senza fine, si decideva a spostare in avanti un pezzo, il nostro amico si limitava a sorridere come chi vede avverarsi un evento a lungo atteso, e un attimo dopo aveva già contrattaccato. Con la mente che lavorava celere, doveva aver già calcolato in anticipo tutte le possibilità dell’avversario; più la decisione di Mirko C. si faceva attendere, più egli diveniva impaziente, ma Mirko C. non si fece in alcun modo mettere fretta. Rifletteva in silenzio, con aria caparbia, e faceva delle pause sempre più lunghe tanto più il campo veniva spogliato dei pezzi. Alla quarantaduesima mossa, dopo due ore e quarantacinque minuti buoni, sedevamo tutti attorno al tavolo ormai stanchi e quasi indifferenti. Uno degli ufficiali di bordo aveva preso un libro e si era messo a leggere, limitandosi ad alzare di tanto in tanto lo sguardo. Ma d’un tratto, a una mossa di Mirko C., accadde qualcosa d’imprevisto. Non appena il Signor B. notò che Mirko C. aveva afferrato il Cavallo per spostarlo in avanti, si rannicchiò su se stesso come un gatto pronto a spiccare il balzo. Cominciò a tremare in tutto il corpo, e neanche un istante dopo che Mirko C. ebbe terminato di muovere il Cavallo, egli, spingendo brusco la Regina in avanti, esclamò trionfante: «Ecco! Spacciato!»; poi si appoggiò allo schienale della sedia, incrociò le braccia e guardò Mirko C. con aria di sfida. Una luce infuocata gli balenò all’improvviso negli occhi. Tutti ci chinammo di riflesso sulla scacchiera per cercare di comprendere la mossa annunciata in tono così trionfante. Alla prima occhiata non si vedeva alcuna minaccia diretta. L’affermazione del nostro amico doveva quindi riferirsi a un successivo sviluppo che noi dilettanti, incapaci di pensare a così lungo raggio, non eravamo in grado di calcolare. Mirko C. era l’unico tra noi a non essersi mosso di fronte a quell’annuncio provocatorio; rimase del tutto impassibile, come se non avesse affatto sentito quell’offensivo spacciato!. Non accadde nulla. Passarono tre minuti, sette minuti, otto minuti, Mirko C. non si muoveva, ma avevo l’impressione che le narici carnose gli si fossero dilatate ancora di più per lo sforzo interiore. Per il nostro amico quell’attesa silenziosa sembrava intollerabile tanto quanto lo era per noi. Si alzò di scatto e cominciò a camminare avanti e indietro per la sala, sempre più veloce. Lo guardammo tutti un po’ meravigliati, ma nessuno più inquieto di me, poiché mi accorsi, con un brivido, che quel vai e vieni ricalcava in maniera inconscia le dimensioni della sua cella di un tempo; nei mesi di reclusione doveva aver camminato allo stesso modo avanti e indietro, come un animale in gabbia, le mani serrate convulsamente e le spalle curve così come ci appariva in quell’istante; ma la sua capacità di ragionare sembrava del tutto intatta, dato che di tanto in tanto si voltava impaziente verso il tavolo per vedere se Mirko C. si fosse deciso nel frattempo a muovere. I minuti però diventarono nove, poi dieci. E alla fine accadde ciò che nessuno di noi si sarebbe mai aspettato. Con lentezza, Mirko C. sollevò la mano pesante, sino ad allora rimasta inerte sul tavolo. Tutti aspettammo con ansia la sua decisione. Mirko C. però non fece alcuna mossa, ma con un gesto deciso spinse via col dorso della mano tutte le figure dalla scacchiera. Solo un istante dopo capimmo cos’era successo: Mirko C. aveva abbandonato la partita. Si era arreso per non subire uno scacco matto davanti a tutti. L’impossibile si era realizzato, il campione del mondo, vincitore di innumerevoli tornei, aveva issato bandiera bianca davanti a uno sconosciuto, a un uomo che non aveva toccato una scacchiera per venti o venticinque anni. Il nostro amico, l’Anonimo, l’Ignoto, aveva sconfitto lo scacchista più forte del mondo in uno scontro aperto! Senza accorgercene eravamo balzati in piedi uno dopo l’altro in preda all’eccitazione. Ognuno di noi aveva la sensazione di dover dire o fare qualcosa per dar sfogo al nostro gioioso sgomento.

L’unico che rimase tranquillo e immobile fu Mirko C. Solo dopo una pausa calcolata egli sollevò la testa e fissò il nostro amico con occhi di pietra. «Un’altra partita?», domandò. «Naturalmente», rispose il Signor B. con un entusiasmo che non mi piacque e, prima che potessi ricordargli il suo proposito di contentarsi di una sola partita, prese posto al tavolo e cominciò a disporre le figure con ansia febbrile. La frenesia con cui le sistemò sulla scacchiera fu tale che per ben due volte un Pedone gli scivolò a terra dalle dita tremanti; il mio imbarazzato disagio di prima per la sua innaturale eccitazione crebbe sino a trasformarsi in una sorta di angoscia. Era evidente che una sorta di esaltazione si era impossessata di quell’uomo prima tanto calmo e pacato, ora tremava in tutto il corpo come scosso da una febbre improvvisa.

«No!», gli bisbigliai sottovoce. «Non ora! Per oggi è abbastanza! E troppo faticoso per lei».

«Faticoso!», e con aria cattiva scoppiò in una fragorosa risata. «Avrei potuto giocare diciassette partite nello stesso tempo, anziché questo stillicidio! L’unica fatica, per me, è non addormentarmi giocando a questa velocità! Be’! Veda di iniziare!».

Le ultime parole, pronunciate in tono quasi sgarbato, erano rivolte a Mirko C. Questi lo osservò con aria tranquilla e compassata, ma il suo sguardo fisso e di pietra somigliava a un pugno chiuso.

   Come si articola il pensiero di Guglielmo di Ockham in quEsto momento assai delicato [un periodo di svolta] per la Storia del Pensiero Umano? Con le sue riflessioni, abbiamo detto, Guglielmo di Ockham lancia una sfida nei confronti della Scolastica tradizionale [dopo aver fatto tesoro di tutti i produttivi investimenti in intelligenza effettuati dal movimento della Scolastica tradizionale in particolare nel campo della “logica”], ma soprattutto Guglielmo attiva una dura polemica nei confronti della forma che l’Istituzione ecclesiastica si è data nei secoli, una forma poco conforme al dettato evangelico ma anche “fuori dalla logica” [che significato ha questa affermazione? Per rispondere a questa domanda è necessario imbastire un ragionamento progressivo]: la sfida del francescano Guglielmo di Ockham all’Istituzione ecclesiastica porta decisamente verso un cambiamento epocale, verso l’età che poi verrà chiamata dell’Umanesimo. E, allora, cerchiamo di fare chiarezza su quelli che sono i punti salienti del pensiero di Guglielmo di Ockham che aderisce come sappiamo alla corrente del “volontarismo” [per cui è la volontà che s’impone nei confronti della ragione] ricevendo il testimone da Giovanni Duns Scoto [ereditando il patrimonio intellettuale della Scuola di Oxford].

   Come sappiamo, Guglielmo di Ockham è sostenitore [come Giovanni Duns Scoto] del “volontarismo” [la dottrina del primato della volontà sulla ragione], ma, a differenza di Giovanni Duns Scoto, propugna un volontarismo molto “accentuato”. Che cosa significa? Dio, secondo Guglielmo di Ockham, non avrebbe creato il mondo “per intelletto e volontà” [secondo un programma comprensibile per la ragione dell’essere umano] - come pensa Tommaso d’Aquino, in linea con la Scolastica tradizionale - ma lo avrebbe creato “per sola volontà” e, dunque, in modo arbitrario, in base al suo imperscrutabile volere, senza né regole né leggi, che limiterebbero, sostiene Guglielmo, la sua libertà d’azione e la sua onnipotenza. Ne consegue che anche l’essere umano - in quanto creatura di Dio - è del tutto libero, e la moralità della persona si può fondare solo su questa assoluta libertà, i cui meriti o demeriti non possono in alcun modo influenzare la libertà di Dio, e la salvezza della singola persona non è, quindi, frutto né della sua predestinazione né delle sue opere ma è soltanto la volontà di Dio che determina, in modo del tutto incomprensibile e misterioso, il destino del singolo essere umano.

   Questa posizione [che accentua la concezione volontaristica di Giovanni Duns Scoto e anticipa, per alcuni aspetti, la Riforma di Martin Lutero, un argomento del quale ci occuperemo a suo tempo] porta Guglielmo di Ockham a negare il ruolo di mediazione fra Dio e l’essere umano che la Chiesa si è attribuita [se Dio fa quello che vuole, altrimenti non sarebbe onnipotente, la Chiesa - sostiene Guglielmo di Ockham - non può essere strumento di mediazione ma è solo un’organizzazione umana al servizio di Dio]. E il papa, afferma Guglielmo di Ockham criticando il concetto di “teocrazia” per cui la potestà del pontefice è superiore ad ogni altro potere, è fallibile come lo è ogni persona e, alla luce del Vangelo, non può avere alcun potere: né il potere temporale perché l’impero, afferma Guglielmo, esiste da più tempo della Chiesa e non dipende dal papa ma direttamente da Dio, né può avere il potere spirituale perché la sola possibilità che ha la persona di salvarsi dipende dalla Grazia divina, e se poi il papa attribuisce a se stesso “la prerogativa dell’infallibilità” mette in discussione l’onnipotenza di Dio e ciò, afferma Guglielmo, è in contrasto con la dottrina, e tutti i francescani della corrente degli spirituali aderiscono alle idee di  Guglielmo di Ockham. Ma anche l’imperatore, sostiene Guglielmo, è un uomo come tutti gli altri che deve impegnarsi per fare delle buone Leggi ed è sottoposto al proprio popolo, il quale, nel caso in cui l’imperatore non rispetti il principio dell’equità naturale [perché la Legge è uguale per tutti], è autorizzato a disubbidirgli perché la delega che il popolo dà all’imperatore nell’esercitare il potere è vincolata al suo buon operato e non è una delega assoluta. L’imperatore Ludovico il Bavaro, presso il quale Guglielmo di Ockham [insieme a Michele da Cesena, Bonagrazia da Bergamo e Francesco d’Ascoli] si rifugia [dicendogli, secondo la tradizione: «Tu difendimi con la spada e io ti difenderò con la penna!», ma c’è chi sostiene che sia stato l’imperatore a dire a Guglielmo: «Io ti difendo con la spada ma tu difendimi con la penna!»],  accetta di buon grado queste riflessioni [che sono alla base della politica moderna], mentre il papa, nella persona di Giovanni XXII, non approva assolutamente le tesi di Guglielmo di Ockham e le condanna, ma deve anche ammettere che è necessario riflettere sul tema del rapporto tra l’onnipotenza di Dio [da garantire] e le prerogative papali [da far rispettare].

   Giovanni XXII [che non è intellettualmente uno sprovveduto], se da una parte fa spiccare un mandato di cattura nei confronti di Guglielmo di Ockham dall’altra capisce che il concetto di “infallibilità”, che è stato attribuito al papa con la bolla Unam Sanctam di Bonifacio VIII, va regolamentato [perché l’infallibilità è un attributo dell’onnipotenza: e può il papa diventare onnipotente come Dio?] e in un decreto, che corregge la bolla Unam Sanctam, Giovanni XXII scrive che «l’infallibilità non è da considerarsi come impossibilità di sbagliare [anche il papa può sbagliare] né come prerogativa di assoluta perfezione [solo Dio è l’Essere perfettissimo] ma come “una fonte di sicurezza nel definire la dottrina” e, quindi, l’infallibilità del pontefice, vicario di Dio in Terra, scrive Giovanni XXII, è motivo di garanzia, di attendibilità, di affidabilità, di efficacia nell’indicare la via della salvezza ai fedeli secondo la Tradizione degli Apostoli». Giovanni XXII è molto abile, a parole, a garantire l’onnipotenza di Dio e, contemporaneamente, a ribadire il primato del pontefice sui temi della dottrina.

   Guglielmo di Ockham risponde a Giovanni XXII con il seguente messaggio: «Se tu leggi con attenzione la vita di san Francesco ti renderai conto di cosa vuol dire vivere da autentico cristiano. Non come te, papa inverecondo, che sguazzi dalla mattina alla sera in mezzo ai fiorini d’oro e ai gioielli contenuti nei tuoi forzieri! Sarebbe questa la Tradizione degli Apostoli? La sicurezza, per te, sta nell’onnipotenza del denaro?».

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

C’è un provvedimento che avete preso in funzione della vostra sicurezza?…

Scrivete quattro righe in proposito…

   La posizione “politica” di Guglielmo di Ockham nei confronti del papato, della Chiesa e dell’Impero non è la conseguenza di una rivolta sociale ma è il risultato di una rivoluzione che avviene nel campo della “logica”. E questo cambiamento di prospettiva sul piano della “logica” ci fa capire che stiamo camminando ormai sul territorio dell’Umanesimo propriamente detto. In che cosa consiste la rivoluzione che avviene nel campo della “logica”?

   In primo luogo dobbiamo dire che - per merito del movimento della Scolastica, in particolare delle correnti aristoteliche - la “logica” [dal greco “logos”: parola, pensiero, ragione, discorso] è diventata una vera e propria scienza che studia i principi generali del “pensiero valido” [il logos] e ricerca le condizioni perché una cognizione sia ben fondata tanto da considerarsi vera: quindi, mentre la psicologia indaga su come si pensa e si ragiona, la logica invece ricerca come si deve pensare e riflettere per cadere il meno possibile in errore di giudizio e di ragionamento. Sul territorio della “sapienza poetica e filosofica dell’Età umanistica” si passa da un tipo di logica che descrive il Mondo secondo il suo presunto “modo di essere necessario” [la logica delle Categorie di Aristotele] ad una logica che aspira a conoscere la realtà secondo il “modo di pensare volontario” [secondo la sintesi di Guglielmo di Ockham].

   Che cosa significa e qual è la differenza? Per rispondere a questa domanda dobbiamo procedere con ordine facendo una premessa di tipo metodologico in riferimento alla “scienza logica”: la Scuola di Parigi, come abbiamo studiato, basa il suo pensiero sui paradossi, sulle contraddizioni, ed insegna a rilanciare in continuazione “l’invece, [cioè] il contrasto” [l’antitesi, che è la chiave della dialettica di Aristotele finora in voga] mentre la Scuola di Oxford ha come prerogativa quella di insegnare che bisogna “andare subito al dunque” e per riuscire a far questo è necessario “tagliare via” tutto quello che, sulla strada della conoscenza, si può ritenere inutile o comunque superfluo [è necessario usare le forbici o il rasoio]. Sulla scia della Scuola di Oxford [che prevede di “andare subito al dunque”] Guglielmo di Ockham mette in discussione tutte le tesi che gli Scolastici hanno elaborato fino a quel momento intorno ai principali temi in discussione: se l’Essere sia univoco o analogico, se la Causa prima sia da ricercare nella fisica o nella metafisica, se la Sostanza sia un concetto naturale o trascendente. E poi Guglielmo di Ockham mette in discussione due temi di grande rilevanza legati alla conoscenza della realtà, due questioni-chiave sul piano della “logica” che sembravano risolte: il tema delle Categorie di Aristotele e quello degli Universali.

   Guglielmo di Ockham mette in discussione due pilastri della Scolastica tradizionale: il sistema logico di Aristotele per cui il Mondo lo si conosce “per categorie”, e gli Universali intesi come Idee che nell’Intelletto hanno una loro consistenza metafisica che definisce la forma delle cose. Per Guglielmo di Ockham [che va subito “al dunque”] le Categorie di Aristotele non servono per conoscere la realtà ma tutt’al più per descriverla in modo astratto mentre [i concetti] le Idee universali, secondo lui, non sono fatte con una sostanza metafisica ma sono solo parole, nient’altro che parole [flatus vocis] in rapporto grammaticale tra loro secondo “la logica del termini”. Secondo Guglielmo di Ockham [che vuole “andare subito al dunque”] le uniche entità che a suo giudizio devono essere prese in considerazione sono “Dio e gli esseri umani”.

   Sul tema dell’esistenza di Dio Guglielmo va “al dunque” affermando che «Dio esiste, ma non nel modo in cui hanno tentato di dimostrarlo Tommaso d’Aquino [con prove “a posteriori”] e Anselmo d’Aosta [con una prova “a priori”], perché per credere in Dio, scrive Guglielmo, basta leggere il Commento alle Opere di Aristotele di Averroè il quale da filosofo laico spiega che Dio esiste in quanto l’infinito è già un concetto immaginabile, e non ha alcun bisogno di essere dimostrato». Adesso noi sulle affermazioni di Guglielmo di Ockham [l’astrattezza delle Categorie, gli Universali come “flatus vocis, parole”, l’impossibilità di dimostrare l’esistenza di Dio] dobbiamo riflettere.

   Guglielmo di Ockham [andando subito “al dunque”] distingue nettamente il campo dell’Esperienza da quello della Fede: l’Esperienza ha come suo oggetto il Mondo della natura fisica mentre la Fede è rivolta alla Teologia che per Guglielmo è una disciplina superflua. La Filosofia,  afferma Guglielmo, non deve perdere tempo con la Teologia perché la Filosofia e la Teologia corrispondono a due modi diversi di concepire la vita, divisi da un fossato invalicabile in quanto, afferma Guglielmo, nessun problema metafisico può essere sottoposto ad una dimostrazione razionale, e tra la Fede e la Ragione non ci può essere alcun rapporto. Quindi Guglielmo nega uno dei principi-cardine della Scolastica tradizionale: che si possa indagare razionalmente sulla Fede, perché le verità di Fede, afferma Guglielmo, non sono per nulla evidenti e non le può indagare la Ragione, ma solo la Fede, che è “dono gratuito di Dio”, può illuminarle, tenendo conto del fatto che la relazione tra Dio e il Mondo deve sottostare all’assoluta volontà divina dovuta all’onnipotenza del Creatore e il tema “dell’onnipotenza di Dio”, afferma Guglielmo, ci porta subito “al dunque”.

   Se si possiede il dono della Fede e si crede in Dio, sostiene Guglielmo, bisogna ammettere la sua onnipotenza e, ammettendo la sua onnipotenza [il fatto che Dio fa quello che vuole], se ne deduce, afferma Guglielmo, che la logica non è legata alla Necessità ma alla Volontà [tanto Dio quanto l’essere umano fanno ciò che vogliono] e, di conseguenza, l’Intelletto è subordinato alla Volontà individuale per cui la conoscenza è un fatto legato alla “soggettività” [noi conosciamo i singoli soggetti non le loro essenze, non le categorie]. Di conseguenza, la persona, sostiene Guglielmo, non può conoscere il Mondo attraverso le Categorie di Aristotele - per categorie la persona può descrivere astrattamente il Mondo ma con le categorie non può conoscerlo concretamente - perché il Mondo, afferma Guglielmo, nella sua realtà, non può stare incasellato in dieci idee [che hanno il massimo di estensione ma il minimo di comprensione], il Mondo non può essere racchiuso in dieci essenze [sostanza, qualità, quantità, relazione, luogo, tempo, azione, passività, stato, possesso] perché questa, afferma Guglielmo, è una logica ormai antica di natura statica che descrive “un modo di essere” basato sulla Necessità che, però, è soggetta alla Volontà [se Aristotele avesse creduto nell’onnipotenza di Dio avrebbe ragionato diversamente, afferma Guglielmo] e, quindi, la persona conosce attraverso la logica della Volontà, avvalorata dal principio dell’onnipotenza di Dio, che consiste in “un modo di pensare che si fonda sulla soggettività” per cui la persona vede la realtà “non così com’è, ma come lei pensa che sia” dandogli una forma con le parole.

   La logica, afferma Guglielmo, non descrive “un modo di essere necessario” ma “un modo di pensare volontario” quindi il Mondo, afferma Guglielmo, non è “quello che è” ma è “come la persona pensa che sia” e le cose esistono, afferma Guglielmo, nel momento in cui il pensiero le definisce con la parola, e la realtà è data dalle parole che la spiegano, e la conoscenza, afferma Guglielmo, è la descrizione [del campo dell’esperienza] delle esperienze che facciamo, e l’oggetto della conoscenza sono “i termini” e, quindi, la grammatica assume un ruolo centrale nel processo educativo.

   Nella prima metà del Trecento la logica aristotelica lascia il posto a quella che viene chiamata [in latino] “logica modi hodierni” [la logica del modo odierno, di oggi] ed è da questa dicitura [modus hodiernus] che nasce il termine “moderno”, e questo termine inizia a circolare molto tempo prima [due secoli prima] di quell’epoca che poi verrà chiamata “Età moderna”.

   La [cosiddetta] “logica dei moderni”, che si diffonde nelle Scuole del Trecento, è stata definita come “una grammatica di tipo speculativo” secondo la quale le cose esistono quando “significano” cioè quando c’è un termine [una parola] che le definisce, quindi, la conoscenza non dipende dai concetti universali ma ha come suo contenuto “il segno che sta al posto della cosa” e, afferma Guglielmo, questo segno è “un simbolo” [in latino Guglielmo lo chiama “suppositio”, una supposizione] che sta al posto della cosa per decisione della Volontà. L’assetto dell’Universo è dunque, afferma Guglielmo, “l’ordine posto dagli esseri umani nello stabilire i termini sostitutivi delle cose” e, quindi, la realtà non esprime “un modo di essere” ma è il risultato di “un modo di pensare” vale a dire di “una volontaria prova di forza del pensiero” mediante un ragionamento che Guglielmo chiama “a fortori” [con la forza del pensiero che scaturisce dalla volontà] e che supera i ragionamenti “a posteriori” [dal particolare all’universale] e “a priori” [dall’universale al particolare].

   Il ragionamento “a fortiori” studia e riconosce le parole, gli enunciati minimi, le proposizioni in forma orale, scritta e mentale, a dimostrazione che i concetti universali non esistono, sono, afferma Guglielmo, “finzioni dell’Intelletto”. «Il concetto, scrive  Guglielmo, è estraneo alle cose come il suono delle parole con cui si chiamano» e la Ragione, mediante il ragionamento “a fortiori”, non coglie l’universale ma conosce profondamente il particolare, per cui, l’unica forma di conoscenza adeguata è data dall’esperienza e “dal linguaggio”, un tema che fa irruzione nella Storia del Pensiero Umano sul finire dell’autunno del Medioevo.

   Si può ben dire che Guglielmo di Ockham non si è risparmiato per andare subito “al dunque” tagliando via tutto quello ritiene inutile o comunque superfluo per ribadire il primato della volontà sulla necessità, il primato dei termini sui concetti, il primato della soggettività sull’universalità.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

E voi, recentemente, avete “dato un taglio” a qualche cosa che ritenevate inutile, superfluo o dannoso?… 

Scrivete quattro righe in proposito… 

   E ora, per concludere, andiamo “al dunque” della Novella degli scacchi: l’Anonimo, l’Ignoto Signor B. ha sconfitto lo scacchista più forte del mondo in uno scontro aperto ma, preso da una sorta di esaltazione, che si è impossessata di lui, non rispetta la regola che si era dato di giocare solo una partita: saprà darci un taglio? 

LEGERE MULTUM….

Stefan Zweig, Novella degli scacchi

D’un tratto c’era qualcosa di nuovo tra i due giocatori: una tensione pericolosa, un odio impetuoso. Non erano più due giocatori che volevano misurare reciprocamente le proprie abilità in un gioco, erano due nemici che avevano giurato di annientarsi l’un l’altro. Mirko C. aspettò a lungo prima di fare la mossa d’apertura, ed ebbi la netta sensazione che esitasse a quel modo di proposito. Evidentemente l’abile stratega aveva già capito che a stancare e irritare il suo avversario era proprio la sua lentezza.

Così rimase immobile per non meno di quattro minuti prima di effettuare la più normale, la più semplice delle aperture, spostando il Pedone di Re delle consuete due case. Subito il nostro amico gli mandò incontro il proprio Pedone di Re, ma di nuovo Mirko C. fece una pausa lunghissima, quasi insopportabile; era come quando dal cielo precipita un fulmine violento e si aspetta il tuono col cuore che batte all’impazzata, ma il tuono non arriva. Mirko C. non si mosse. Rifletteva in silenzio, con lentezza e, come avvertivo, con studiata cattiveria; in compenso, tuttavia, mi concesse tempo a sufficienza per osservare il Signor B.Questi aveva appena buttato giù il terzo bicchiere d’acqua; senza volerlo rammentai ciò che mi aveva raccontato a proposito della sete di cui soffriva in cella, causata dalla febbre. Cominciavano a delinearsi con chiarezza tutti i sintomi di un’eccitazione fuori dal normale; vidi che aveva la fronte madida di sudore e la cicatrice sulla mano molto più nitida e violacea di prima. Tuttavia era ancora in grado di dominarsi. Solo alla quarta mossa, quando Mirko C. si immerse da capo in una riflessione senza fine, perse il controllo e lo aggredì di punto in bianco: «Insomma, si decida a muovere una buona volta!».

Mirko C. alzò lo sguardo con freddezza. «Per quanto ne so, abbiamo concordato dieci minuti di tempo per ogni mossa. Per principio non gioco con tempi più brevi».

Il Signor B. si morse il labbro; notai che batteva sempre più inquieto la suola della scarpa contro il pavimento, e anch’io divenni sempre più nervoso, in maniera quasi incontenibile, forse per via del gravoso presentimento che qualcosa di assurdo si stesse preparando, dentro di lui, a prendere il sopravvento. E in effetti all’ottava mossa si verificò un secondo incidente. Il Signor B., che aveva aspettato visibilmente impaziente, non fu più in grado di trattenere il suo nervosismo; si spostava avanti e indietro sulla sedia e senza accorgersene cominciò a tamburellare con le dita sul tavolo. Di nuovo Mirko C. sollevò il pesante testone da contadino. «Posso chiederle di non tamburellare sul tavolo? Mi disturba. Così non riesco a giocare».

«Questo si vede», disse ridendo il Signor B. Mirko C. si fece rosso in viso. «Cosa vorrebbe dire con questo?», domandò tagliente e minaccioso. Ma ancora una volta il Signor B. scoppiò in una breve risata cattiva. «Niente. Solo che è chiaramente piuttosto nervoso». Mirko C. tacque e chinò la testa. Fece la mossa successiva solo dopo sette minuti, e la partita si trascinò con questo ritmo fatale. E ogni volta Mirko C. si paralizzava sempre più come un blocco di pietra; alla fine protrasse le pause sino al massimo del tempo concesso prima di decidersi a muovere, e tra un intervallo e l’altro il comportamento del nostro amico diveniva sempre più insolito. Sembrava quasi che non avesse più alcun interesse per la partita ma fosse assorto in tutt’altro.

Lasciò perdere il suo frenetico avanti e indietro e rimase seduto immobile al suo posto. Fissando il vuoto davanti a sé con uno sguardo vitreo e quasi folle, mormorava di continuò parole incomprensibili; evidentemente si era perso in combinazioni senza fine oppure - e questo era il mio intimo sospetto - stava elaborando tutt’altre partite, dato che, quando Mirko C. aveva finalmente effettuato la sua mossa, era necessario richiamarlo per scuoterlo da quello stato catatonico. Dopodiché gli occorrevano sempre alcuni minuti per raccapezzarsi; man mano che si andava avanti avevo sempre più il sospetto che in realtà egli si fosse scordato da un pezzo di Mirko C. e di tutti noi, e fosse sprofondato in quella gelida forma di follia che poteva esplodere all’improvviso in una sorta di furore. E in effetti alla diciannovesima mossa esplose la crisi. Non appena Mirko C. ebbe spostato il suo pezzo, il Signor B., senza neanche guardare bene la scacchiera, fece avanzare l’Alfiere di tre case e, a voce talmente alta da farci sussultare, strillò: «Scacco! Scacco al Re!». Guardammo subito la scacchiera, pieni d’aspettativa di qualche mossa speciale. Ma dopo un minuto accadde qualcosa che nessuno di noi si aspettava. Mirko C. sollevò la testa molto, molto lentamente e rivolse lo sguardo - cosa che finora non aveva mai fatto - verso il nostro gruppo, spostando gli occhi dall’uno all’altro. Sembrava godere di qualcosa in maniera sconfinata, poiché poco a poco cominciò ad affiorargli sulle labbra un sorriso soddisfatto e addirittura sprezzante. Solo dopo che ebbe gustato sino in fondo il suo trionfo, per noi ancora incomprensibile, si rivolse alla nostra cerchia con finta cortesia: «Desolato, ma non vedo nessuno scacco. Qualcuno dei signori vede forse uno scacco al mio Re?».

Lanciammo un’occhiata alla scacchiera e poi, turbati, al Signor B. dall’altro lato del tavolo. La casa del Re di Mirko C. era in effetti pienamente protetta - se ne sarebbe accorto persino un bambino - da un Pedone, pertanto era impossibile dare scacco con l’Alfiere. Diventammo irrequieti. Forse il nostro amico, nella sua frenesia, aveva spostato una figura lì accanto, una casella troppo avanti o troppo indietro? In quell’istante anche il Signor B., che il nostro silenzio aveva reso di nuovo vigile, guardò la scacchiera e subito cominciò a balbettare agitato: «Ma il Re deve stare in f7 sta nel posto sbagliato, completamente sbagliato. Lei ha sbagliato a muovere! È tutto sbagliato in questa scacchiera il Pedone deve stare in g5 e non in g4 ma questa è una partita completamente diversa Questa è …». Si bloccò all’improvviso. Gli avevo afferrato il braccio con forza o, meglio, gliel’avevo artigliato con tanta violenza che egli fu costretto ad accorgersi della mia stretta persino nel suo stato di febbrile confusione. Si voltò verso di me e mi fissò come un sonnambulo. «Cosa vuole?». Non gli dissi altro che: «Remember!», e al contempo gli sfiorai con un dito la cicatrice sulla mano. Egli seguì di riflesso quel movimento, poi all’improvviso cominciò a tremare, e fu scosso da un brivido. «Per l’amor di Dio», mormorò con le labbra livide. «Ho detto o fatto qualcosa di irragionevole, alla fine sono di nuovo?»

«No», gli sussurrai piano. «Ma deve interrompere subito la partita, è tempo. Si ricordi di ciò che le ha detto il medico!».

Il Signor B. si alzò di scatto. «La prego di scusarmi per il mio stupido errore», disse con la voce garbata di prima, inchinandosi di fronte Mirko C. «Quello che ho detto è senz’altro una pura assurdità. Naturalmente la partita è sua». Poi si girò verso di noi. «Anche i signori sono pregati di scusarmi. Ma li avevo avvertiti in anticipo che non dovevano aspettarsi troppo da me. Vi prego di scusare l’indecorosa figura, questa è stata in assoluto la mia ultima partita a scacchi». Fece un inchino e se ne andò, con lo stesso contegno umile e misterioso con cui era comparso la prima volta. Solo io sapevo per quale motivo quell’uomo non avrebbe più toccato una scacchiera, mentre gli altri, un poco confusi, vennero lasciati con la vaga sensazione di essere scampati per un pelo a qualcosa di sgradevole e pericoloso. … «Dannato imbecille!», ringhiò McConnor in preda alla delusione. L’ultimo ad alzarsi fu Mirko C., che lanciò ancora un’occhiata alla partita lasciata a metà. «Peccato», disse magnanimo. «L’attacco non era disposto per niente male. Per essere un dilettante quel signore è davvero straordinariamente dotato».

   Con la forza della volontà, “a fortiori”, il Signor B., per fortuna, ha saputo dare un taglio ad una situazione che si era fatta per lui - per il suo equilibrio mentale - molto pericolosa, e questo romanzo, che abbiamo letto per intero, si conclude con il richiamo che l’autore fa a tre importanti parole-chiave sulle quali la Filosofia scolastica ci ha invitate e invitati a riflettere: l’intelletto, la memoria e la volontà.

   Il modo di affrontare la realtà di Guglielmo di Ockham è passato alla Storia del Pensiero Umano con il nome di “rasoio di Ockham”. Il “rasoio di Ockham” è una metafora che indica un particolare sistema logico: come funziona? Funziona bene ma, anche se si tratta di una metafora, come con tutti i rasoi [che finiscono per essere anche delle armi improprie], bisogna usare cautela per non tagliarsi. Come utilizza Guglielmo di Ockham il suo metaforico “rasoio” per investire in intelligenza?

   Per rispondere a questa domanda dobbiamo seguire la via dell’Alfabetizzazione culturale e funzionale con lo spirito utopico che lo studio porta con sé prendendo atto che in molti versetti del Libro dei Salmi, afferma Guglielmo, e anche in molti capitoli del Libro del Siracide, c’è un invito rivolto alla persona perché si liberi dal dominio dell’ignoranza [e imbocchi la via dell’istruzione e della sapienza] e, quindi, non perda mai la volontà d’imparare: «Liberatevi dal dominio dell’ignoranza, dice il Signore, non avrete che da perdere le vostre catene».

   Che relazione c’è tra il testo di questo versetto [che ha ispirato anche Karl Marx e Friedrich Engels] e il “rasoio di Ockham”?

   Per affrontare l’argomento non perdete l’ultima Lezione prima della vacanza pasquale: la Scuola è qui e il viaggio è ancora lungo [ma non abbiamo che da perdere le nostre catene e, forse, vale la pena percorrerlo questo viaggio!]…

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Marzo 11, 2016