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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ TARDO-ANTICA S’INCONTRA IL CONCETTO UN PO’ PARADOSSALE DEL PESSIMISMO SCONSOLATO E DIVERTITO ...

Lezione N.: 
13

Prof. Giuseppe Nibbi La sapienza poetica e filosofica dell’età tardo-antica 30-31 gennaio  1 febbraio 2013

Le favole di Fedro

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ TARDO-ANTICA

S’INCONTRA IL CONCETTO UN PO’ PARADOSSALE

DEL PESSIMISMO SCONSOLATO E DIVERTITO ...

   Stiamo viaggiando sul “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età tardo-antica”: questo è il tredicesimo itinerario. Il “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età tardo-antica” è formato, come sappiamo, da una vasta area di confine che si estende tra l’Epoca antica e il Medioevo, e si tratta di uno spazio che nel tempo si dilata per circa cinque secoli, dal I al V secolo d.C.; ebbene, questo itinerario si compie ancora in compagnia di un gruppo di personaggi che, temporaneamente, hanno dato vita ad un Circolo culturale collocato all’interno del paesaggio intellettuale della cosiddetta “Età giulio-claudia” che – come sappiamo – prende il nome della dinastia dei primi cinque imperatori romani: Augusto, Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone i quali hanno regnato, nel bene e più che altro nel male, dal 30 a.C. al 68 d.C. [l’Età giulio-claudia dura circa un secolo].

   In questo momento, quindi, siamo attorniate e attorniati da un bel gruppo di figure vissute al tempo di Nerone [tra il 54 e il 68] con le quali noi abbiamo fatto conoscenza in queste ultime settimane. In “circolo” attorno a noi c’è il filosofo Lucio Anneo Seneca, c’è l’apostolo Paolo di Tarso, c’è il poeta epico-storico Anneo Lucano, c’è il poeta Aulo Persio, c’è Agrippina Minore [moglie, in seconde nozze, dell’imperatore Claudio, madre e vittima di Nerone] e poi, la scorsa settimana, si è aggregato Petronio Arbitro, l’autore di un’opera assai famosa intitolata Satyricon di cui ora dobbiamo ancora parlare alla quale è stato accostato il termine “romanzo” e, quindi, è necessario, subito in partenza, fare una breve riflessione di carattere filologico.

   Petronio Arbitro è l’autore di un’opera intitolata Satyricon assai famosa perché si tratta del primo esempio di un genere letterario che poi verrà chiamato “romanzo”. La parola “romanzo” nel I secolo, in Epoca tardo-antica, non esiste ancora e il termine “romanice”, accompagnato dal verbo “loqui [parlare]”, dà significato all’espressione “parlare una lingua che da romana [autentica] è diventata romanza [contaminata]”: questo è il significato letterale di “romanice loqui” e quest’espressione viene usata in provincia dove la lingua latina [romanus loqui, il parlare romano] si contamina con i linguaggi parlati nelle terre lontane da Roma e la dicitura “romanice loqui” compare proprio nel territorio della Gallia Narbonense – dove si presume sia nato Petronio – e, nel Medioevo, la parola “romanz [romanzo, insieme di sequenze narrative]” compare nella lingua neolatina del Francese antico. Bisogna aspettare l’Età moderna prima che il termine “romanzo” irrompa sulla scena però in Età tardo-antica questo particolare modello narrativo entra in incubazione.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Tra i romanzi che avete letto qual è quello a cui siete più affezionate, a cui siete più affezionati per via di un motivo particolare che vi lega a questo testo?...

Scrivete quattro righe in proposito...

   Il testo del Satyricon ci è pervenuto incompleto e questo fatto non permette di ricostruire tutta la trama della narrazione. L’opera non ci è giunta completa a causa della sua estensione, che doveva essere notevole, e a causa della sua struttura ricca di prose, di versi e di digressioni novellistiche che hanno una loro autonomia, per cui il Satyricon offriva abbondante materiale agli autori di antologie e, quindi, il testo è stato smembrato in tante raccolte di estratti che, nel tempo, si sono sostituiti all’opera completa. Il testo che non è andato perduto – attribuito a Caio Petronio Arbitro e raccolto da un filologo del III secolo che si chiama Terenziano Mauro e conservato attraverso i codici medioevali del IX secolo ben custoditi nelle biblioteche delle abbazie [era una lettura proibita] – è stato raccolto in ventisette Libri divisi in tanti brevi capitoli.

   Originariamente il Satyricon doveva essere il racconto divertito e sboccato delle avventure di un personaggio che si chiama Encolpio il quale va errando per il mondo, forse da Marsiglia a Crotone [bell’itinerario! Fatelo anche voi sulla carta geografica], per effetto di una persecuzione: come un novello Ulisse: Encolpio è infatti perseguitato da una divinità, il salace dio Priapo, che lo ha punito, condannandolo all’impotenza, a causa di un peccato non identificato da lui commesso. Ma la trama, per lo scrittore, non doveva avere una grande importanza nello sviluppo dell’opera proprio perché con tutta probabilità, fin dal suo primo concepimento, il Satyricon vuole essere una composizione che si distingue per l’assoluta libertà di invenzione e di distribuzione della materia: un genere fuori dai generi tradizionali. Infatti sul racconto centrale delle peripezie di Encolpio si inseriscono, con un raffinato gioco di fantasiosi incastri, una serie di novelle a se stanti raccontate dai personaggi del “romanzo”.

   Nel Satyricon è tutto un succedersi di situazioni sempre diverse create da continui colpi di scena che si caratterizzano per la loro imprevedibilità e chi legge, prima ancora di rendersi conto di quello che è successo, viene trascinato da una scuola di retorica a un postribolo [nell’incipit che abbiamo letto la scorsa settimana c’è questo passaggio, ricordate?], da una taverna a una pinacoteca, da una viuzza malfamata a un mercato, da una sala da pranzo di ostentata eleganza alla tolda di una nave, e i personaggi che si muovono in questi ambienti sono persone reali, spinte da una vivace irrequietezza. Encolpio è sempre in scena perché, oltre a essere il protagonista della vicenda, ne è anche l’io-narrante, ed è colui al quale è affidata la predicazione dell’ideologia presente nell’opera: un tema su cui, fra un po’, dobbiamo riflettere.

   Personaggi comprimari di Encolpio, insieme all’adolescente Gitone, dall’affascinante aspetto ermafroditico, di cui Encolpio è innamorato, sono altre due figure ambigue: Ascilto che è un giovane volgare e cinico il quale tenta di sedurre Gitone e poi Eumolpo, un anziano poeta, moralmente spregiudicato, abile nel parlare e acuto nel riflettere. Muovendosi da un’avventura all’altra, Encolpio, Gitone, Ascilto e nella seconda parte Eumolpo, si imbattono in una miriade di personaggi, e su tutti spicca la figura di Trimalcione, un liberto arricchito [il pensiero va sempre ai liberti di Claudio che approfittano del potere per arricchirsi a spese dell’amministrazione statale], grandioso e geniale nella sua volgarità e nella sua assoluta mancanza di buon gusto, che è il protagonista di una delle parti più consistenti dell’opera: una sorta di romanzo nel romanzo.

   “La cena di Trimalcione” – che nei secoli ha assunto il ruolo di straordinaria metafora dello spreco, dell’ingordigia, della volgarità, della trivialità, della pacchianeria, ispirando numerose opere [la società contemporanea non è immune da questi comportamenti] – è l’episodio più esteso, originale e famoso del Satyricon ed è illustrato in 52 capitoli contenuti dal V al XV Libro. Questo racconto viene condotto con feroce ironia e descrive, con grande leggerezza, il contesto sociale delle classi emergenti dei nuovi ricchi, con la volgarità delle loro idee e del loro linguaggio: Petronio offre un quadro straordinariamente acuto e ricco della corruzione, del cinismo, dell’avidità della società imperiale e il suo racconto penetra in quel sottofondo ripugnante che sempre fermenta sotto gli orpelli della ricchezza e della potenza, presentando lucidamente un’epoca torbida orientata inevitabilmente verso la decadenza.

   Siccome abbiamo ricevuto anche noi l’invito alla “cena di Trimalcione” dobbiamo incamminarci verso casa sua. Quindi interrompiamo per un momento la descrizione delle caratteristiche dell’opera per dedicarci all’esercizio della lettura: insieme a Encolpio, a Gitone e ad Ascilto seguiamo la processione che accompagna la lettiga di Trimalcione che torna a casa per cenare.

LEGERE MULTUM….

Petronio Arbitro,  Satyricon

Dopo tre giorni di banchetti eravamo finalmente alla cena di addio, ma sfiniti da tanti tormenti, avevamo più voglia di andarcene che di rimanere. Mentre studiavamo la maniera per disdire l’impegno che si annunciava pesante, un servo di Agamennone venne ad interrompere le nostre incertezze con queste parole: «Voi non ve lo immaginate neppure da chi si va a cena oggi! Da Trimalcione! Un uomo ricchissimo che nel triclinio ha piazzato un orologio e un trombettiere per sapere di ora in ora quanta vita ha perduto».                               

Dimenticati tutti i nostri guai, andammo allora a vestirci con cura e ci facemmo accompagnare al bagno da Gitone, che trovava gusto a servirci.

Ancora vestiti, andavamo gironzolando da un capannello all’altro tra motteggi e chiacchiere, quando improvvisamente vedemmo un vecchio calvo con indosso una tunica rossastra, che giocava a palla in mezzo a un gruppo di ragazzi dai lunghi capelli. Non furono tanto i ragazzi ad interessarci, benché ne valessero la pena, quanto il loro padrone che in pianelle si allenava con delle palle color verdino. Se una toccava terra non si curava di raccoglierla, perché aveva vicino un servo che gliene passava un’altra togliendola da un sacco. Ma non era questa la sola novità che ci toccò notare: c’erano due eunuchi collocati alle estremità del campo, uno dei quali reggeva un orinale d’argento, mentre l’altro teneva conto delle palle che cadevano a terra durante i lanci e le rimesse del gioco.  Stavamo ammirando codeste raffinatezze, quando accorse Menelao che disse: «Avete visto da chi andate a cenare? Potete già avere un’idea della festa!».  Menelao non aveva ancora finito di parlare, quando Trimalcione fece schioccare le dita. A quel segnale corse l’eunuco e gli mise sotto l’orinale. Vuotata la vescica Trimalcione chiese dell’acqua per le mani, e dopo aver bagnato un po’ le dita le asciugò sulla testa di un valletto.

Sarebbe stato troppo lungo notare ogni cosa. Così entrammo senz’altro nel bagno per poi passare, riscaldati dalla sudata, nell’acqua fredda. Trimalcione, cosparso di unguento, si asciugava non con delle lenzuola, ma con alcune pezzuole di morbida lana. Tre massaggiatori bevevano Falerno in sua presenza, e disputando tra di loro finivano col versarne una buona parte per terra, con gioia di Trimalcione, il quale diceva che non facevano altro che brindare alla sua salute. Dopo di ciò, avvolto in un panno di palpignana rossa, fu collocato sulla lettiga, che si mise in moto preceduta da quattro corrieri in divisa e da una carrozzina tirata a mano, sulla quale veniva trasportato il suo prediletto, un bambinone stagionato, cisposo, più brutto del suo padrone. Mentre Trimalcione veniva portato via, si avvicinò alla sua testa un suonatore con un minuscolo flauto, e come se gli stesse parlando in segreto all’orecchio, suonò per lui lungo tutta la strada. Dietro venivamo noi, già sazi di raffinatezze, insieme ad Agamennone. Arrivati davanti alla porta vi trovammo affisso un cartello dov’era scritto: Lo schiavo che uscirà senza il permesso del padrone prenderà cento legnate.

Proprio sull’ingresso stava un portiere vestito di verde e con una cintura color ciliegia, intento a sbucciare piselli in un piatto d’argento. Sopra la soglia pendeva una gabbia d’oro con dentro una gazza variopinta che salutava gli ospiti.

Guardavo stupito queste cose, quando dovetti fare un salto indietro così improvviso che a momenti mi spezzavo una gamba. Avevo visto sulla sinistra, e vicino alla guardiola del portiere, un grosso cane legato alla catena, dipinto sulla parete che pareva vivo, con scritto sotto a tutte maiuscole: ATTENTI AL CANE. I miei compagni ridevano, ma appena riuscii a prender fiato, continuai a passare in rassegna tutta la parete. Vi notai dipinto un mercato di schiavi, ognuno col suo cartello, e lo stesso Trimalcione con la verga in mano e i capelli lunghi che entrava in Roma sotto la guida di Minerva. Si vedeva poi come avesse imparato a far di conto e come fosse diventato tesoriere, in tanti quadri dipinti con cura da un pittore, e ciascuno con la sua didascalia. Verso la fine del portico si vedeva Mercurio che lo sollevava per il mento e lo metteva a sedere sopra una tribuna. La Fortuna gli stava vicino con in mano il corno dell’abbondanza e c’erano anche le tre Parche che filavano oro.

Sotto il portico notai una squadra di servi che si esercitavano agli ordini di un maestro. In un angolo c’era un grande armadio con dentro i Lari d’argento, una statua di Venere e una scatoletta d'oro dov’era conservata la prima barba del padrone.

Chiesi al custode che pitture ci fossero al centro. «L’Iliade e l’Odissea» mi rispose «e lo spettacolo gladiatorio di Lenate».

Non si poteva guardare tutto, anche perché eravamo già arrivati al triclinio, nella cui anticamera un tesoriere controllava i conti.

Notai con stupore che agli stipiti del triclinio erano inchiodati dei fasci con le scuri, dai quali sporgeva, in basso, una specie di rostro di nave in bronzo, dove si leggeva: “A Caio Pompeo Trimalcione sevìro augustale, il tesoriere Cìnnamo”. Proprio sotto l’iscrizione pendeva una lucerna a due becchi e due tabelle erano affisse sugli stipiti. Una portava, se ben ricordo, questa iscrizione: “Il trenta e il trentun dicembre il nostro Caio cena fuori”. Sull’altra era dipinto il corso della luna e l’immagine dei sette pianeti. Alcune borchie di diverso colore indicavano i giorni favorevoli e quelli contrari. Sazi di queste trovate cercavamo di entrare nel triclinio quando un valletto che era stato messo sulla soglia apposta per questo, gridò: «Col piede destro!». Restammo interdetti, nel timore che qualcuno di noi avanzasse col piede sinistro.

Entrati tutti col piede giusto, uno schiavo svestito si prostrò davanti a noi chiedendoci di strapparlo alla pena che lo attendeva per una colpa che non ci sembrò molto grave: al bagno gli erano state rubate le vesti del tesoriere, roba che poteva valere sì e no dieci sesterzi. Fatta marcia indietro con il piede destro, andammo a pregare il tesoriere che stava contando i pezzi d’oro nell’atrio, affinché condonasse la pena allo schiavo. Sollevando con superbia il capo, il tesoriere disse: «Non è tanto per il danno che m’incazzo, quanto per la sventatezza di quel cretino, per colpa del quale ho perduto l’abito da pranzo che un cliente mi aveva regalato il giorno del mio compleanno: un vestito di vera porpora di Tiro, benché già lavato una volta. In quanto al castigo, che vi debbo dire? Lascio fare a voi».

Obbligati per un così grande favore, rientrammo nel triclinio, dove lo schiavo per il quale avevamo interceduto ci venne incontro e ci coprì di baci, ringraziandoci della nostra bontà. «Ora saprete» disse «a chi avete fatto un favore. Il vino del padrone sarà il ringraziamento del coppiere».

   L’opera di Petronio ci dà la possibilità di continuare a riflettere sulla parola “romanzo” e in un Percorso in funzione della didattica della lettura e della scrittura questa riflessione è doverosa.

   Leggendo il testo del Satyricon ci si rende conto che quest’opera comincia ad avere la forma di un vero e proprio “romanzo [e noi sappiamo che questa parola in Età tardo-antica va messa tra virgolette]”. Le studiose e gli studiosi di filologia precisano che il Satyricon, almeno a giudicare dalla porzione di testo che ci è pervenuta, si presenta come una bizzarra, anche se coerente, parodia letteraria di quello che è stato chiamato il “romanzo greco” e spesso l’esercizio della “parodia [del ribaltamento formale]” costituisce – come in questo caso – un elemento di effettivo sviluppo del genere parodiato, e ancora una volta, quindi, dobbiamo fare una puntualizzazione di carattere filologico.

   La parola “romanzo” in Età antica e tardo-antica noi la usiamo per comodità perché, come sappiamo, questo termine comincia ad essere utilizzato solo in Età moderna, alla fine del XVI secolo. I Greci, dal II secolo a.C., chiamavano questa particolare forma di racconto [ancora insufficiente e difettosa] con due termini appropriati: “epos epos” se il racconto era composto soprattutto in versi e “logos logos” se il racconto era composto prevalentemente in prosa mentre in latino queste due parole vengono tradotte con il termine “fabula”. Dicevamo che il Satyricon si presenta come una parodia letteraria [un travestimento comico] del cosiddetto “romanzo greco di carattere amoroso”, un genere [piuttosto scadente] molto diffuso nella letteratura popolare nel corso dell’Ellenismo: l’esempio più antico, e probabilmente di un certo valore letterario, è una composizione del II secolo a.C. dello scrittore Aristide di Mileto intitolata Milesie [conosciuta in latino come “Fabulae Milesiae”] che però è andata completamente perduta e narrava licenziose storie d’amore, e Petronio, probabilmente, conosce bene quest’opera.

   Petronio riprende, deformandoli e irridendoli, i temi e i motivi del “romanzo greco di carattere amoroso” il quale, nella sua forma canonica, narrava le peripezie di una coppia di innamorati che, soltanto dopo aver patito lunghe separazioni ed aver affrontato ogni sorta di avventure, riuscivano a ricongiungersi e a vivere insieme. Petronio, invece, porta in scena le avventure di una coppia di ragazzacci, uniti tra loro da una torbida relazione: Encolpio, la voce narrante, è una persona curiosa di tutto e, a suo modo, elegante e raffinata ma è terribilmente irrequieta e insoddisfatta, e il suo amante Gitone è un adolescente bellissimo ma capriccioso e inaffidabile. Petronio poi, nella complessa struttura del Satyricon, oltre a quello del “romanzo d’amore greco” e della “satira menippea”, mette a frutto anche la sua conoscenza di molti altri generi letterari, utilizzando elementi e spunti provenienti dalla “satira classica”, dalla “commedia”, dal “mimo” e dalle “fabulae” senza trascurare, specialmente a fini parodistici o polemici, l’epica e la filosofia.

   Da tanta disparità di modelli messi insieme sarebbe dovuto venir fuori un ammasso di scrittura farraginoso e slegato ma, invece, Petronio – soprattutto ricorrendo, con molta perizia, allo strumento della voce narrante – ne trae un buon prodotto letterario che ha la sua forza proprio nella bizzarria e nella stravaganza. La bizzarria e la stravaganza sono due caratteristiche tipiche di quelle opere che in Età moderna cominciano ad essere definite con il termine “romanzo”.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Le parole “bizzarria e stravaganza” che cosa – quale termine, quale situazione, quale personaggio, quale libro o che altro – vi fanno venire in mente?...

Basta una riga per rispondere, scrivetela...

   A proposito di bizzarria e stravaganza: stanno cominciando a portare in tavola gli antipasti e la cena di Trimalcione sta iniziando! E allora caliamoci nella lettura.

LEGERE MULTUM….

Petronio Arbitro,  Satyricon

Finalmente sedemmo. Dei fanciulli alessandrini vennero a versarci acqua fresca sulle mani, mentre altri si davano da fare ai nostri piedi per toglierci abilmente le pipite dalle unghie, cantando continuamente anche durante quel noioso servizio. Per vedere se tutta la servitù cantasse a quel modo, chiesi da bere. Un fanciullo velocissimo mi servì subito, cantando anche lui in tono acuto, come tutti gli altri che portavano in giro qualcosa. Pareva un coro di teatro più che il triclinio di un signore.

Arrivò un antipasto molto raffinato. Tutti si erano già messi a tavola tranne Trimalcione che, inaugurando una nuova moda, non solo si era riservato il primo posto, ma aveva deciso di sedersi per ultimo.

Sul piatto dell’antipasto c’era un asinello in bronzo di Corinto con le bisacce piene di olive bianche e di olive nere. Sopra l’asinello erano collocati due piatti che portavano inciso sull’orlo il nome di Trimalcione e il loro peso in argento. Alcuni ponticelli saldati insieme sostenevano dei ghiri cosparsi di miele e di papavero. Delle salsicce friggevano sopra una graticola d’argento, che reggeva anche delle prugne di Siria circondate da chicchi di melagrana.

Stavamo tra queste leccornie, quando Trimalcione arrivò portato a suon di musica e venne collocato fra piccoli guanciali provocando le risa della compagnia. Dal mantello rosso gli usciva la testa rapata. Intorno al collo infagottato nel vestito si era messo in un tovagliolo listato di porpora e con delle frange che pendevano da una parte e dall’altra. Sul mignolo della mano sinistra portava un grande anello dorato e uno più piccolo sull’ultima falange dell’anulare, che mi sembrò d’oro massiccio ma con incastrate dentro delle piccole stelle di ferro. Parendogli poche queste ricchezze, mise a nudo il braccio destro dove si vedeva un braccialetto d’oro e un cerchio d’avorio col fermaglio di lamina smaltata.   Dopo essersi stuzzicati i denti con uno spillo d’argento, disse: «Amici, non me la sentivo ancora di venire a tavola, ma per non farvi aspettare troppo, ho fatto a piacer vostro. Lasciatemi però finire la partita».

Lo seguiva infatti un valletto con una tavola di terebinto e dei dadi di cristallo. Notai una gran raffinatezza: le pedine bianche e nere erano sostituite da monete d’oro e d’argento. Mentre giocava sfoggiando un repertorio da manovali, ci fu portato, benché fossimo ancora all’antipasto, un vassoio con dentro un cesto nel quale stava accovacciata una gallina di legno con le ali aperte, come quelle che covano le uova.

Subito si avvicinarono due schiavi e tra il frastuono della musica cominciarono a frugare nella paglia, cavandone fuori delle uova di pavone che distribuirono ai convitati.     Girando la testa verso il tavolo, Trimalcione vide la scena e disse: «Amici, uova di pavone ho fatto mettere sotto questa gallina. Ma, per Ercole, ho paura che ci sia già dentro il pulcino. Vediamo se si possono ancora bere».

Con dei cucchiai che pesavano almeno mezza libbra, rompemmo le uova, che erano di pastafrolla. Stavo per gettar via il mio che mi sembrava avesse già dentro il pulcino, quando sentii un ospite abituale che diceva: «Dev’esserci dentro qualche cosa di buono». Infatti, rotto il guscio, vi trovai un grasso beccafico immerso nel tuorlo, ben pepato e lardellato.

Trimalcione, smesso il gioco, si era fatto servire le stesse cose, dando libertà a chi ne avesse voglia di mescersi vino mielato. L’orchestra diede un segnale e i servi portarono via gli antipasti cantando; nella confusione cadde per terra un piatto che un valletto raccolse subito da terra. Venne un cameriere con la scopa a spazzare il pavimento e quel bel pezzo d’argento finì tra le immondizie. Intanto entrarono due Etiopici dai lunghi capelli, i quali con dei piccoli otri simili a quelli che servono per bagnare la sabbia nell’anfiteatro, ci versarono vino sulle mani anziché acqua.

Lodato per la sua raffinatezza, il padrone di casa rispose: «Marte vuole che si combatta alla pari, perciò ho fatto mettere un tavolino per il servizio di fianco a ciascuno. Servirà anche, con questo caldo, a tener lontani i fetentissimi schiavi».

Ed ecco arrivare delle anfore di vetro sigillate con cura, che portavano appese al collo delle etichette con scritto: Falerno Opiniano di cento anni.                                .

Eravamo intenti a leggere le etichette, quando Trimalcione batté le mani. «Ahimè» disse «dunque il vino vive più a lungo dei miseri uomini! Beviamo a tutta canna. Il vino è vita. Offro dell’Opiniano genuino. Ieri, che avevo a tavola gente meglio di voi, non ho fatto servire un vino simile!».

Mentre si beveva tenendo conto di tanta finezza, uno schiavo portò uno scheletro d’argento con le giunture e le vertebre articolate in modo che si piegassero da ogni parte. Dopo averlo gettato una o due volte sulla tavola per far vedere che le giunture snodate gli consentivano diverse pose, Trimalcione  disse: «Ah, poveri noi! Ben poca cosa è il misero uomo! Così saremo tutti, quando ci avrà rapiti l’Orco. Viviamo allegramente dunque, fin che ci è concesso!».

Dopo gli applausi arrivò una portata non grande quanto ci si aspettava, ma d’una tale stranezza e bizzarria che tutti la guardarono. Su di un vassoio rotondo si vedevano in cerchio le dodici costellazioni, sopra ognuna delle quali il cuoco aveva posto la pietanza corrispondente: sopra l’Ariete dei ceci simili a piccole teste di montone, sopra il Toro un pezzo di carne bovina, sui Gemelli testicoli e rognoni, sopra il Cancro una corona, sul Leone un fico africano, sopra la Vergine una vulva di scrofa, sopra la Libra una bilancia che in un piatto aveva una torta di cacio e nell’altra delle focacce di miele, sopra lo Scorpione un pesciolino di mare, sopra il Sagittario un gufo, sopra il Capricorno un’aragosta, sopra l’Acquario un’oca, sopra i Pesci due triglie. Nel mezzo del vassoio, una zolla strappata con tutta l’erba sosteneva un favo. Il pane veniva portato intorno da un valletto egiziano sopra una griglia d’argento al canto della canzone II venditore di Silfio, che il ragazzo storpiava sgradevolmente.              

Vedendo che si metteva mano di malavoglia a dei cibi così comuni, Trimalcione disse: «Avanti, mangiamo! Questo è il meglio della cena».

Quattro schiavi accorsero danzando a suon di musica e tolsero il coperchio del vassoio che era comparso in tavola. Dentro c’erano pollastri e pancette di maiale intorno a una lepre fornita di ali come un Pegaso. Agli angoli del vassoio, quattro statuette di Marsii versavano da piccoli otri salsa pepata sopra dei pesci che nuotavano come se fossero nel canale di Èuripo [divide la parte meridionale dell’isola Eubea dalla Beozia]. La servitù diede il segno di un applauso generale, dopo il quale si andò tutti all’assalto di quelle squisitezze.

Contento anche lui per quella bella sorpresa, Trimalcione chiamò: «Scalca!». E subito venne avanti un trinciatore che ballando a suon di musica fece le parti in modo tale che pareva un gladiatore, di quelli che combattono al suono dell’organo stando sopra il carro. Trimalcione continuava a dirgli con voce cadenzata: «Scalca, scalca». Mi venne il sospetto che la ripetizione dell’ordine nascondesse qualche doppio senso, e me ne informai dal commensale che stava dietro di me. Molto più pratico di quelle cene, egli mi disse: «Il servo che sta scalcando si chiama Scalca. Così tutte le volte che il padrone dice Scalca, chiama e comanda nello stesso tempo».

   Il modo in cui quest’opera è scritta e i suoi contenuti hanno influenzato la nascita del “romanzo moderno”: pensiamo, per esempio, a Gargantua e Pantagruel [1564] di François Rabelais.

   Nel testo del Satyricon ancora più interessanti dei personaggi principali sono le figure minori, quelle appena toccate dalla mano di Petronio come, per esempio, quelle che rappresentano la varia umanità che ruota intorno a Trimalcione o la serie di donne, sfrontate come e più dei maschi, che tanta parte hanno nell’economia narrativa di quest’opera: dalla bellissima e corrottissima Circe che sotto l’apparenza di una ricca dama cela le voglie di una donna di strada, a Quartilla, impareggiabile nell’escogitare ogni sorta di lascivia, a Tritona, assolutamente priva di ogni freno morale, a Criside, la servetta che non si nega nessuna esperienza, a Fortunata, la moglie di Trimalcione, che costituisce uno straordinario modello letterario.

   Come era inevitabile, di fronte alla sagacia con cui i vari personaggi sono descritti, le studiose e gli studiosi si sono dati da fare per scoprire in questa o in quella figura altrettanti personaggi storicamente esistiti al tempo di Nerone, ma non è indispensabile fare questa ricerca: le persone del Satyricon, infatti, sono soltanto se stesse e, pur senza mai ridursi a tipi fissi, sono psicologicamente credibili e artisticamente validi proprio perché recitano, dall’inizio alla fine, la loro parte rimanendo fedeli al loro personaggio sia quando parlano sia quando si muovono: cominciano ad essere già autentici personaggi da “romanzo”.

   E ora non possiamo fare a meno di ascoltare la descrizione di Fortunata, la moglie di Trimalcione, che è uno straordinario monumento alla petulanza, e poi in questo Libro VII, insieme ad Encolpio, possiamo ancora prendere atto dell’opulenza di Trimalcione e della ricchezza accumulata dai liberti come lui. Inoltre Trimalcione si esibisce come se fosse un gran saccente e ci spiega, a suo modo, il significato delle Costellazioni raffigurate sul vassoio delle vivande. Viene portato in tavola un grande vassoio con dentro un cinghiale col berretto in testa sul quale è scritto un motto del quale dobbiamo serbare memoria perché, strada facendo, – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – lo rincontreremo in un’altra occasione e, finalmente, un bisogno impellente costringe il padrone di casa ad allontanasi dalla tavola e questa uscita di scena dell’ospite ospitante è temporaneamente liberatoria per tutti gli invitati. E ora leggiamo:

LEGERE MULTUM….

Petronio Arbitro,  Satyricon

Non riuscendo a gustare più nulla, mi girai verso quel commensale per imparare tutto quello che potevo, cominciando, tanto per prendere le cose da lontano, col chiedergli chi fosse la donna che si vedeva correre qua e là.   «È la moglie di Trimalcione» mi rispose. «Si chiama Fortunata e conta i soldi a palate. Eppure, che cos’era fino a poco tempo fa? La tua buona grazia mi perdonerà, ma ti assicuro che non avresti accettato dalla sua mano neppure un pezzo di pane. Ora, senza né perché né percome, è salita in alto, ed è lei che fa tutto per Trimalcione. Se gli dicesse che è notte a mezzogiorno, ci crederebbe. Lui non sa neppure quanto possiede, tanto è ricco. Ma questa lupa sa e vede tutto, anche quello che non pensi. È sbrigativa, sobria e di buon senso: vale tanto oro quanto pesa, pur essendo una linguaccia e una gazza casalinga. Ma chi ama, ama, e chi non ama, non ama. Le terre di Trimalcione sono estese quanto può volare un nibbio, e i suoi soldi fanno montagna. C’è più argento nella stanza del suo portinaio di quanto ne possiamo avere tutti noi messi insieme. E che abbondanza di servitù! Neanche la decima parte conosce il suo padrone. In poche parole, potrebbe far strame di tutti cedesti babbei.          Non ha bisogno di comprar nulla. Tutto gli cresce in casa, dalla lana ai limoni e al pepe. Ci trovi anche il latte di gallina, se lo cerchi. La lana gli riusciva poco buona. Cosa fa? Va a Taranto, compra dei montoni di razza e li infila nel gregge. Per farsi in casa il miele dell’Attica, ha fatto venire le api da Atene, così che anche le sue miglioreranno stando insieme a quelle greche. Proprio in questi giorni ha scritto in India per comandare semenza di funghi. Non ha una mula che non venga da un asino selvatico. Vedi quanti cuscini? Sono tutti di porpora scarlatta. Tale è la beatitudine del suo animo! E guardati dal sottovalutare gli altri liberti, perché sono anch’essi ben forniti. Vedi quello sdraiato laggiù in fondo? È uno che oggi si può stimare padrone di ottocentomila sesterzi. È venuto su dal nulla. Non molto tempo fa portava ancora legna sulle spalle per conto di altri. Dicono, io non lo so ma ho sentito dire, che abbia rubato il cappuccio ad un folletto e che sia poi riuscito a trovare un tesoro. Quanto a me, non ho invidia: gli dèi sono padroni di dare a chi vogliono. È stato appena liberato e già si tratta da signore. Da qualche tempo ha esposto un cartello con questa scritta: “C. Pompeo Diogene dal 1° luglio loca la sua soffitta perché si è comperato una casa”. E che dire di quest’altro che siede nel posto riservato ai liberti? Come se l’è goduta! Per me, non lo biasimo. Era arrivato a possedere un milione di sesterzi, ma poi andò a gambe all’aria, tanto che penso non abbia più neanche un capello. E non è colpa sua, per Ercole, perché non c’è uomo migliore di lui. Tutta colpa dei suoi scellerati liberti che gli fregarono tutto. Lo sai come? La pentola che appartiene a molti bolle sempre male, e gli amici si conoscono nella sventura. Tu non immagini il bel mestiere che faceva! L’impresario di pompe funebri. Quando gli andava bene, pranzava come un re: cinghiali farciti, piatti preparati, uccelli. Non gli mancavano certo cuochi e pasticceri. Nessuno ha in cantina tanto vino quanto ne andava sparso sotto la sua tavola, era un sogno, non un uomo. Quando cominciarono ad andargli male gli affari, temendo di essere perseguitato dai creditori, bandì un’asta con questo avviso: C. Giulio Proculo mette all’asta ciò che ha di superfluo”».

Portato via il piatto, i convitati si erano dati allegramente al vino e alle chiacchiere, ma i loro piacevoli racconti furono interrotti da Trimalcione, che appoggiato sul gomito disse: «Dovete fare onore a questo vino. Bisogna che i pesci nuotino. Cosa credete? Che io sia contento di quel po’ di roba che avete visto sul piano del vassoio?

Così vi è noto Ulisse? Anche a tavola c’è posto per la cultura. E abbiano pace le ossa del mio ex padrone, che volle fare di me un uomo tra gli uomini. Comunque, come l’ultima portata ha dimostrato, non si può più trovare gran che di nuovo. Questo cielo, nel quale abitano dodici dèi, si muta in altrettante figure, ed ecco che ora diventa Ariete. Chi nasce sotto questa costellazione ha molto bestiame, molta lana, testa dura, faccia tosta e corna aguzze. È la costellazione sotto la quale nascano i pedanti e i piccoli zucconi»«Sia data lode alla tua finezza di astrologo» gli gridarono. «Aspettate!» disse lui. «Dopo l’Ariete il cielo passa nel Toro, e nascono gli scontrosi, gli zotici e gli egoisti. Sotto i Gemelli nascono le cose doppie: i buoi, i coglioni e quelli che hanno due facce. Quanto a me, sono nato sotto il Cancro, perciò sto su molti piedi e posseggo molte cose per terra e per mare: infatti il granchio procede sempre bene da qualunque parte. È per questo che sopra il suo simbolo non faccio metter niente dal cuoco: non vorrei soffocare la mia stella. Nel Leone nascono i mangiatori e i prepotenti. Nella Vergine le donne, gli schiavi che scappano e quelli che finiscono in prigione. Nella Libra i macellai, i profumieri e tutti quelli che vendono la merce a peso. Nello Scorpione gli avvelenatori e gli assassini. Nel Sagittario gli strabici, che pare guardino l’insalata e intanto fregano il lardo. Nel Capricorno i disgraziati destinati alle corna. Nell’Acquario, osti e teste vuote. Nei Pesci, cuochi e avvocati. E il cerchio gira come una macina distribuendo disgrazie, sia che gli uomini nascono, sia che muoiano. Quanto poi alla zolla che vedete nel mezzo con sopra un favo, sappiate che non ce l’ho messa senza ragione: vuol dire che la madre Terra, posta nel mezzo in forma di uovo, ha in sé tutti i beni al pari di un favo»«Bravo!» gridammo tutti insieme, e alzate le mani al soffitto giurammo che astronomi come Ipparco e Arato non erano neppure da paragonare a lui. Intanto arrivarono i servi e stesero sui letti delle coperte ricamate con reti e cacciatori in agguato, armati di spiedi e muniti di ogni genere di attrezzi. Stavamo cercando di indovinare cosa si stesse preparando, quando fuori dal salone si alzò un gran baccano e dei cani da caccia in corsa arrivarono fino alla mensa. Dietro di loro, sopra un vassoio venne portato un cinghiale di prima grandezza con un berretto in testa sul quale è scritto il motto Nessuno mi sfida senza correre un rischio [Nemo me impune lacessit]” e con appesi alle zanne due cestini intrecciati di foglie di palma, uno pieno di datteri freschi e l’altro di datteri secchi. Intorno all’animale c’era una corona di maialini fatti con pasta croccante i quali, attaccandosi alle mammelle, facevano capire che si trattava di una scrofa. I maialini vennero regalati ai convitati perché se li portassero a casa per ricordo.                

A scalcare il cinghiale non venne quello Scalca che aveva tagliato i polli, ma un omone barbuto, con le gambe avvolte in fasce e con indosso un mantelletto multicolore. Costui, sguainato un coltello da caccia, squarciò violentemente il fianco del cinghiale, dal quale uscì un volo di tordi. Subito gli uccellatori, che erano già pronti con le canne, si diedero ad abbatterli mentre volavano per il triclinio. Trimalcione fece portare a ciascuno il suo uccello dicendo: «Guardate di che delicate ghiande si cibava questo porco selvatico!».

I valletti presero i cestini che pendevano dalle zanne del cinghiale e distribuirono in parti uguali i datteri secchi e quelli freschi.

Rifugiato nel mio angolino, pensavo e ripensavo perché mai il cinghiale fosse entrato col berretto in testa e sul berretto fosse scritto quel motto. Dopo aver fatto mille supposizioni, decisi di chiederlo al mio vicino.

«Te lo potrebbe dire anche il tuo servo» mi rispose. «Infatti non è un enigma, ma una cosa chiara: ieri questo cinghiale fu portato in tavola sul finire della cena e quindi lasciato perdere dai convitati, che lo hanno per così dire liberato. Perciò oggi ritorna nel banchetto col berretto in testa come un liberto che è sempre meglio non sfidare».   Maledissi la mia ingenuità e non domandai più nulla, per non sembrare nuovo tra gente tanto ammodo.

Mentre dicevamo queste cose, uno schiavetto assai notevole, cinto di pampini e di edera, dimenandosi in vari modi portò intorno dell’uva in un cestello, declamando con voce acuta le poesie del suo padrone. Trimalcione, giratosi a quel suono, disse: «Dionisio, che tu sia Libero». Il fanciullo tolse il cappello al cinghiale e se lo mise in testa.

Tutti lodarono la decisione di Trimalcione e baciarono il fanciullo che passava dall’uno all’altro. Dopo questa portata Trimalcione si alzò per andare al cesso, e noi, profittando dell’assenza del tiranno, cominciammo a discutere liberamente.

   Le tre righe con cui Petronio chiude il Libro VII del Satyricon contengono, in forma allusiva, una delle tante manifestazioni di dissenso verso il potere imperiale che possiamo trovare nel testo dell’opera [sappiamo che l’Età dei classici è la prima grande stagione del dissenso della Storia del Pensiero Umano]: a Roma non si può né parlare né tanto meno discutere liberamente perché c’è un tiranno che nessuno ha il coraggio di contraddire e che tutti lodano per paura e per interesse. Petronio non cerca giustificazioni: anche lui vive nella cerchia del tiranno e siede tra gli invitati del banchetto imperiale, anche se a tutto c’è un limite e la sua fine lo dimostra.

   L’originalità di Petronio come scrittore sta nel fatto che non si limita a descrivere frammenti di vita quotidiana e a commentarli in modo dispregiativo ma presenta una visione complessiva del reale con uno sguardo ironico e beffardo e senza dare un giudizio morale come invece fanno i poeti satirici, e questa rinuncia non significa che lo scrittore voglia ignorare il tema etico: questa “sospensione del giudizio [in greco  epoche epoché, secondo il pensiero della Scuola scettica]” costringe maggiormente le lettrici e i lettori a riflettere.

   Petronio affida al personaggio di Encolpio anche il ruolo del “predicatore”: un predicatore involontario ma molto efficace che utilizza più l’estetica che l’etica. Encolpio è sempre in scena perché è l’io-narrante e, in quanto tale, è colui al quale è affidata la predicazione dell’ideologia presente nell’opera e anche l’ideologia del Satyricon si fonda sul concetto del “pessimismo” che – come abbiamo già appreso – investe tutta l’area culturale del tardo-antico. Caio Petronio Arbitro, nel testo del Satyricon, predica un’ideologia di carattere pessimistico e anche il suo “pessimismo” può essere definito di tipo “ragionevole” perché è supportato da una continua riflessione sul significato dell’esistenza umana condotta, per quanto è possibile, in termini razionali. La riflessione di carattere esistenziale imbastita da Petronio porta la lettrice e il lettore a constatare che “la vita non ha alcun senso” e si presenta come una “sequela di prese in giro” tanto da subire quanto da infliggere agli altri, per questo il “pessimismo” veicolato dal testo del Satyricon non può essere definito di carattere “speranzoso” come quello di Seneca, di Paolo, di Lucano e di Persio i quali attendono un riscatto e anelano ad una salvezza di tipo metafisico. Quello di Petronio è stato denominato “pessimismo sconsolato” e anche, contemporaneamente, con un certo gusto del paradosso, “pessimismo divertito”: è stato usato questo termine perché nell’opera di Petronio c’è un ricorrente incitamento per la ricerca di vari espedienti ludici, materiali e intellettuali, che possano temporaneamente fugare la tristezza perché la vita, nonostante la sua insensatezza, elargisce molti piaceri grossolani per il corpo ai quali, però, è bene avvicinarsi con precauzione e offre anche dei divertimenti raffinati per lo spirito da ricercare con intelligenza per allontanare la “malinconia”, uno stato d’animo che, inevitabilmente, attanaglia la persona la quale è, fondamentalmente, per sua natura, un “essere sconsolato” perché non vede, non sente, non avverte alcuna possibilità di redenzione né per il corpo né per l’anima.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

C’è un gioco – un espediente ludico – che vi diverte particolarmente?...

Scrivete quattro righe in proposito tenendo conto del fatto che anche la scrittura può essere un efficace espediente ludico capace di fugare la tristezza e di domare la malinconia dopo averla sollecitata...

   Quando Trimalcione – dopo aver espletato i suoi bisogni – torna in sala, il banchetto continua con nuove portate e con sempre nuovi pretesti di carattere narrativo: Trimalcione è il protagonista di un vero e proprio romanzo nel romanzo che è stato anche pubblicato per conto proprio con il titolo di La cena di Trimalcione e questo testo merita di essere letto per intero perché le sue caratteristiche [formali e di contenuto] riemergono nella narrativa moderna e contemporanea.

   Ora che siamo entrate ed entrati nel gioco della narrazione “proto-romanzesca” petroniana abbiamo anche capito che, secondo lo scrittore, l’espediente ludico più efficace per contrastare l’insensatezza della vita è il “racconto”. Secondo Petronio l’unico modo possibile per dare un senso alla vita è il “racconto della vita stessa sotto forma di parodia” e, dopo aver acquisito questa chiave, è certamente più facile dedicarsi alla lettura del testo del Satyricon: la Scuola, quindi, consiglia di fare questo esercizio che presenta delle difficoltà – a cominciare dai nomi dei personaggi, dalla chiacchiera prolissa e verbosa della voce narrante, dal metodo continuamente allusivo della parodia, dalla scabrosità di certi episodi disgustosi …–, però, una volta messe in evidenza e identificate come “chiavi di lettura”, sono tutte superabili alzando un po’ il livello di attenzione.

   Ma ecco che si sta avvicinando al nostro gruppo un nuovo personaggio il quale si dirige verso Petronio, e Petronio lo osserva [è la sua dote principale] con grande curiosità perché, dall’abito servile e dai suoi modi, ha identificato la sua condizione sociale e anche il suo lavoro: questa comparsa lo turba un po’. Questo personaggio, rivolgendosi a Petronio, prende la parola: «Caro Petronio Arbitro mi complimento con te perché hai composto un quadro straordinario della società romana imperiale nella quale ho vissuto anch’io, da bambino sotto Augusto, poi sotto Tiberio e Claudio, anche se tu non ti sei mai accorto di me, oppure hai fatto finta di non accorgertene. Mi dispiace, caro Petronio, che tu non abbia rappresentato quelli come me - in questo caso non sei stato un arbitro imparziale -, capisco che non eravamo figure abbastanza negative e, quindi, non propriamente degne del tuo racconto. Io appartengo ad una categoria di tipi insignificanti, i magìsteri, i grammatici di origine greca, tutti in condizione di schiavitù, che tiravamo a campare dando lezioni ai figli dei ricchi e accompagnavamo ai banchetti i nostri padroni come accessori di pregio e ci veniva sempre chiesto di recitare qualcosa perché si sapeva che eravamo autori di qualche testo spiritoso e per puro divertimento ci chiamavano in causa quando tutti erano già un po’ brilli e facevano fatica a capire il vero senso dei nostri componimenti che erano brevi, in versi sintetici, ironici, ai quali era stato dato il nome di fabulae. Ti ricordi di noi, Petronio? È per merito nostro che hai imparato a utilizzare così bene il genere della parodia che ti ha reso e ti rende celebre nei secoli». Petronio annuisce, mentre noi stiamo pensando che non riusciamo proprio ad allontanarci dal primo paesaggio intellettuale dell’Età tardo-antica!

   I personaggi che sono radunati qui in Circolo [con la C maiuscola] intorno a noi domandano in coro al nuovo venuto: «E tu chi sei?». E lui risponde: «Mi chiamo Caio Giulio Fedro e forse mi avete sentito nominare con il solo nome di Fedro e, stando nell’ombra ma con molto interesse, ho seguito gli itinerari di questo viaggio e sono soddisfatto soprattutto di aver conosciuto il testo del romanzo scritto da Luigi Capuana intitolato Il marchese di Roccavedina del quale abbiamo letto un certo numero di pagine.Sapete che io [dice Fedro] ho seguito il consiglio della Scuola e mi sono avvantaggiato nella lettura e ho fatto una scoperta interessante, e questa scoperta gratificante mi ha convinto a non restare in disparte ma ad entrare in Circolo». A questo punto Fedro, da saggio grammatico che conosce il metodo socratico, tace con un classico silenzio interlocutorio che invita a fare ricerca: a che cosa si riferisce Fedro quando dice di aver fatto una scoperta nel testo del romanzo Il marchese di Roccaverdina?

   Intanto diciamo che Fedro è un nome che ben conosciamo e soprattutto abbiamo esperienza della sua opera – chi non ha sentito parlare, chi non ha letto qualcuna delle sue Fabulae? – e la sua opera la conoscono anche i personaggi del gruppo che fa Circolo intorno a noi, sopratutto Petronio che, forse, ha qualcosa da nascondere in proposito, ma procediamo con ordine.

   Prima di occuparci di Fedro e della sua opera dobbiamo tornare sul testo del romanzo Il marchese di Roccaverdina – lo state leggendo? – per conoscere e per capire a che cosa si riferisce Fedro quando dice che ha fatto una scoperta interessante. Rinfreschiamoci le idee: il marchese di Roccaverdina secondo il suo modo di fare da feudatario ha sedotto una giovane e bella contadina, Agrippina Solmo, l’ha introdotta nel suo palazzo, l’ha disonorata senza volerla sposare per non screditare il suo casato e non essere diseredato dalla zia baronessa. Per salvare le apparenze il marchese decide di dare in moglie Agrippina al suo devoto fattore Rocco Criscione, e pretende che i due giurino davanti a Dio di non consumare il matrimonio perché è lui il legittimo proprietario del corpo di Agrippina. Dopo le nozze, però, al marchese viene il dubbio che tra Rocco e Agrippina ci sia una buona intesa e, quindi, una notte il marchese tende un agguato a Rocco Criscione mentre torna a casa e lo uccide con una fucilata. Del delitto viene accusato lo sfortunato Neli Casaccio, un povero cacciatore, che aveva pubblicamente minacciato Rocco perché pensava gl’insidiasse la moglie e questo innocente viene arrestato, viene processato e viene condannato per omicidio volontario. Del vero responsabile del delitto nessuno sospetta [il marchese ha il privilegio di essere un cittadino al di sopra di ogni sospetto] ma in molti sono convinti che Neli Casaccio non sia l’assassino di Rocco Criscione, ma sia una vittima. Il marchese, quando torna in paese dopo la sentenza di condanna di Neli Casaccio alle Assise di Caltagirone, rievoca nel Casino di conversazione – il Circolo dove si riunivano gli aristocratici che il marchese non frequentava – come se fosse un attore drammatico le varie fasi del processo: vuole convincersi e vuole convincere che sia stata fatta giustizia ma è la cattiva coscienza che lo spinge a reagire: il senso di colpa  che, ben presto, si trasforma in rimorso.

   Sappiamo che  il vero protagonista di questo romanzo è il sentimento del “rimorso”, un sentimento che si manifesta nell’animo del marchese attraverso il tormento, l’amarezza e l’afflizione. Questo aspetto del romanzo – dove il sentimento del “rimorso” diventa protagonista – suscita l’interesse di Anneo Lucano, di Petronio Arbitro e, naturalmente, di Fedro.

   E ora leggiamo il brano che ha permesso a Fedro di fare una gratificante scoperta e noi non avremo difficoltà a capire.

LEGERE MULTUM….

Luigi Capuana, Il marchese di Roccaverdina

A Ràbbato si era già saputa, per telegrafo, la notizia della condanna di Neli Casaccio:
«Quindici anni!».

E due giorni dopo, i testimoni, di ritorno, erano assediati dalla gente che voleva conoscere tutti i particolari della causa.

Neli, appena udito Quindici anni! si era coperto il volto con le mani scoppiando in singhiozzi. Poi, levata in alto la mano destra, aveva gridato: «Signore, lo giuro al vostro divino cospetto: sono innocente! E se non dico la verità, fatemi cascare morto, qui, davanti a voi!»

Nella sala tutti gli occhi si erano rivolti verso il Crocifisso appeso alla parete dietro il seggio del Presidente, quasi il Crocifisso avesse dovuto dare davvero la risposta al gesto e alle parole del condannato. Ma i carabinieri, presolo per un braccio, lo avevano condotto via, che si reggeva male sulle gambe e balbettante:
«Poveri figli! Poveri figli miei!».

E la moglie! Si era buttata ai piedi del Presidente della Corte, coi capelli disciolti, col viso inondato di lagrime, chiedendo grazia per il marito: «È innocente come Gesù Cristo, eccellenza!». Gli si era aggrappata ai ginocchi, disperatamente, né voleva lasciarlo.

«Ma io non sono il Re, figliuola mia! Le grazie può farle lui soltanto».

«Vostra eccellenza può tutto!Vostra eccellenza ha in mano la giustizia!Un padre di quattro bambini!». Bisognò farle violenza per staccarla.

E la gente, chi giudicava che Neli Casaccio era stato condannato a torto, chi a ragione. Non aveva egli detto: «Gli faccio fare una fiammata?». Questo dovrebbe insegnare a tenere in freno la lingua, chi non parla non falla.

I signori del Casino di conversazione attendevano il ritorno del marchese di Roccaverdina e di don Aquilante per conoscere tutto l’andamento della discussione e il verdetto dei giurati. Gli avevano negato fin le attenuanti? Non era possibile! Per ciò alcuni dei più curiosi si erano aggruppati in Piazza dell’Orologio per fermare la carrozza al passaggio.

E fu proprio una sorpresa il vedere la strana compiacenza del marchese che, sceso dalla carrozza assieme con don Aquilante, circondato da quei signori e seguito da una folla di persone, si avviò verso il Casino dove egli, quantunque socio, aveva messo piede due o tre volte in tanti anni, anche perché, secondo lui, vi si ammetteva facilmente troppa gentuccia.

Il marchese sembrava trasfigurato. Da due giorni, don Aquilante lo guardava stupito e stava ad ascoltarlo ancora più stupito.

I soci del Casino si erano schierati in semicerchio e, dietro i seduti, si pigiava la siepe dei curiosi che, invaso quel salone a pianterreno, stendevano il collo e si sollevavano su la punta dei piedi per sentir parlare il marchese o l’avvocato seduti là in faccia sul canapè addossato al muro.

Alcuni erano fin montati su gli zoccoli delle quattro colonne di finto marmo che reggevano la volta del salone, per vedere e udir meglio. Questo mosse a sdegno il marchese. «Che c’è? L’opera dei pupi? Che cosa vogliono tutti costoro? Non siamo in Piazza dell’Orologio qui Cameriere!».

E scoperto il poveretto del cameriere che si affaticava inutilmente a fare uscir fuori quegli intrusi, lo apostrofava: «Don Marmotta! Ma che: prego, signori miei! Prendeteli per le spalle se non sanno l’educazione».

Allora parecchi soci si levarono da sedere, e cominciarono a spingere indietro la gente, che esitava e si voltava a guardare dopo aver fatto pochi passi, non sapendosi rassegnare a dover andar via senza cavarsi la curiosità.

Intanto il marchese aveva cominciato a parlare. Ora, anche per lui il processo era stato imbastito meravigliosamente. Il giudice istruttore, dapprima, era andato tastoni, senza lume, senza guida. Aveva poi trovato il filo conduttore, e le prove erano balzate fuori, chiare e lampanti.

«Ah, quel Procuratore del Re! Un fiume di eloquenza. Gelosia? Forza irresistibile? Chiudiamo dunque le prigioni e lasciamo assassinare la gente!Qui ci troviamo davanti a una premeditazione di lunga mano!Sì, o signori giurati, c’è la legge anche per coloro che disturbano l’altrui pace domestica, che insidiano l’onore delle famiglie! Se tutti volessimo farci giustizia con le nostre mani, addio società! Ognuno crede di avere ragione soprattutto quando ha torto. Soltanto il magistrato imparziale e giusto, perché non interessato, soltanto i giudici popolari istituiti per questo scopo…».
Sembrava che il Procuratore del Re fosse lui, e che quei soci, seduti in semicerchio là attorno, fossero i giurati che dovevano giudicare. La sua voce prendeva il solito tono alto, come quando egli teneva udienza lassù, nella spianata del Castello, e la gente messa fuori del salone e rimasta davanti all’aperta grande vetrata poteva udirlo meglio che se fosse rimasta dentro, perché la voce rimbalzava per la sonorità della volta e si faceva sentire vibrante fin dal centro della piazza.

«E così il povero avvocato della difesa si è vista chiusa la bocca prima di parlare Oh, non già che non abbia parlato! Un’ora e mezzo, con furia di gesti, battendo i pugni sul tavolinoSe l’è presa anche contro i pezzi grossi che autorizzano con l’esempio le soperchierie dei loro dipendenti! Come se, in questo caso, il marchese di Roccaverdina avesse detto a Rocco: Va’ a rubargli la moglie a Neli Casaccio!. Povero avvocato! Non sapeva dove sbatter la testa, armeggiava con le braccia e con la lingua, dopo che il Procuratore del Re gli aveva troncato anticipatamente i soliti argomenti. La gelosia! La forza irresistibile! Si capiva che parlava unicamente per parlare. E poivoleva provar troppo. Processo d’indizi! Le testimonianze? Ho sentito dire!” “Mi è stato detto!” “Ha minacciato! È un uomo feroce, cacciatore di mestiere! Si può decidere della libertà di un cittadino su così fragili basi?”…».

E il marchese rifaceva la voce e i gesti dell’avvocato con evidentissimo accento d’ironica commiserazione, ridendo perché i circostanti ridevano, lieto dell’effetto prodotto su coloro che dovevano sembrargli proprio i giurati, o altri giurati da giudicare in appello, tanto egli si animava nel ripetere le frasi più altisonanti e più comuni dell’avvocato, aumentando l’ironica intonazione fino alla ripresa del Procuratore del Re che volle parlare l’ultimo per dare il colpo di grazia!

«Una botta da maestro intanto l’aveva già data il nostro avvocato qui. Poche parole, ma sostanziose, ma gravi, di quelle che non ammettono replica…».  Don Aquilante che, con le mani incrociate, gli occhi socchiusi, ora storceva le labbra, ora scoteva la testa, e sembrava di non accorgersi del mormorio di approvazione seguito alle parole del marchese, si scosse con un sussulto allo scatto di voce, che parve un tuono, con cui quegli rispondeva al dottor Meccio, detto San Spiridione non si sapeva perché. 

Il dottor Meccio, seduto proprio di faccia al marchese, era stato ad ascoltarlo a testa bassa, col mento appoggiato al pomo dorato della sua canna d’India quasi più lunga di lui, non si era mosso, né aveva fatto nessun altro segno di approvazione, né riso come tutti gli altri. E rizzandosi improvvisamente su le interminabili magre gambe - la sua vecchia tuba pareva dovesse arrivare a toccar la volta del salone - aveva sentenziato: «L’hanno condannato a torto. È il mio parere».

Il marchese era scattato: «Come a torto? Con tante prove? Che ne sapete voi?».

«È il mio parere. I giurati non sono infallibili ».

«Chi ha dunque ammazzato Rocco?».

«Non lo ha ammazzato Neli Casaccio».

«Chi dunque? Ci vuole un bel coraggio a parlare così! Perché non siete andato a dirlo al giudice istruttore quand’era tempo? Non vi rimorde la coscienza di aver lasciato condannare, secondo voi, un innocente? Ecco come siamo! È il mio parere! Ma il vostro parere non vale un fico contro la sentenza dei giurati! Il giudice istruttore è stato dunque un bestione? Il Presidente e i giudici della Corte di Assise sono stati pure bestioni? Chi è dunque l’assassino? Dov’è?».

«Non vi scaldate troppo, marchese!».

«Dite, dite: chi è stato l’assassino! Dov’è?».

Il marchese, in piedi, pallido dalla collera, gesticolava, urlava, ripetendo:
«Chi è stato l’assassino? Dov’è?».

«Può essere qui, tra noi, tra quella folla davanti la vetrata, e forse ride di me, di voi, dei giurati, dei giudici, della giustizia! E se dico una sciocchezza, lasciatemela dire! La parola è libera!».

San Spiridione gli teneva testa imperterrito, mentre parecchi tentavano di condurlo via per por termine a quella scena sconveniente, e altri circondavano il marchese pregandolo di compatire un presuntuoso che diceva sempre no quando uno diceva sì, per vizio d’indole, per abitudine

«E perché me lo dice in faccia? L’ho fatto forse io il processo? L’ho discussa io la causa? L’ho condannato io Neli Casaccio?».

E, tornato a sedersi, riprendeva la relazione daccapo, minuziosamente, riferendo le testimonianze a una a una, e l’arringa del Procuratore del Re, e le arringhe degli avvocati

«Tanto, a me che può importare se hanno condannato uno invece di un altro? È affare dei giurati, dei giudici della Corte Disgraziatamente», concluse, «per gli assassinii che commettono i medici ignoranti non c’è processi né Corte di Assise!…».
Ma il dottor Meccio non poté rispondere a questa frecciata. Era andato via borbottando: «Se il marchese si figura che il Casino sia la spianata del Castello!».

La sceneggiata ebbe fine ma i più cominciarono a pensare davvero che il povero Neli Casaccio aveva fatto la fine dell’agnello della favola e non potevano non domandarsi, sospettosamente, chi poteva essere allora il lupo [lupus in fabula]

   La scoperta fatta da Fedro salta agli occhi: «Allora è proprio vero – afferma Fedro con soddisfazione – che sono stato io a far diventare proverbiale nei secoli il detto “agnus et lupus in fabula”. Il marchese di Roccaverdina – afferma Fedro – mi ricorda i “lupi” che spadroneggiavano a Roma in età imperiale con la differenza che il marchese coltiva un senso di colpa che va crescendo nel suo animo, mentre i “lupi” delle mie fabulae sono in preda all’arroganza e non conoscono il rimorso, e – continua Fedro – anche i tuoi personaggi, Petronio, privi di ogni freno morale, non hanno mai nulla di cui pentirsi». Fedro ha fatto una giusta considerazione perché è, senza dubbio, un ottimo osservatore: e noi che cosa sappiamo di questo personaggio?

   All’umile liberto Caio Giulio Fedro dobbiamo il genere della “breve favola in versi”, un componimento nel quale si trovano uniti l’esortazione “morale” e l’idea di un “pessimismo generalizzato e diffuso” che si manifesta con un tono particolare del linguaggio usato dall’autore con il quale sembra dire: «Io la morale [la morale della favola] ve la faccio, ma so che voi vi farete una bella risata e ve ne infischierete senza provare alcun senso di colpa!».

   Fedro [15 ca. a.C. - 50 ca. d.C.] è nato molto probabilmente in Tracia, la regione ad est della Macedonia, ed è stato condotto a Roma da adolescente come schiavo e sembra sia stato affrancato da Augusto, difatti, nel titolo della sua opera si legge “Favole di Fedro liberto di Augusto”. È possibile che abbia subito la persecuzione di Seiano, il potente ministro di Tiberio, che gli avrebbe intentato un processo per presunte allusioni offensive alla sua persona: forse ha subito anche una condanna perché nel III Libro delle Fabulae lamenta di essere stato vittima di un’ingiustizia. Fedro, dagli indizi che si possono ricavare dalla sua opera, è vissuto fino al regno di Claudio, fino agli anni 50.

   L’opera di Fedro costituisce la prima raccolta di favole scritte in latino sullo stile di quelle in prosa attribuite al greco Esopo [VI secolo a.C.]. La caratteristica principale delle “fabulae” è quella di avere come protagonisti prevalentemente gli animali, usati [come in molte altre culture diverse da quella greco-latina] come elementi di classificazione dei comportamenti umani. La “fabula”, creando una rete di analogie tra la sfera degli animali e quella degli umani, descrive il mondo, assai imperfetto, delle “persone”. La “fabula” di Fedro, dal punto di vista formale, non è un oggetto “ingenuo” ma costituisce un’importante sintesi di carattere letterario.

   L’affinità psicologica tra gli umani e gli animali emerge già nel racconto mitico che, non di rado, attribuisce anche agli dèi un aspetto animale [si pensi alle metamorfosi di Zeus], ma soprattutto accomuna gli dèi, gli umani e gli animali sotto categorie specifiche, due in particolare: quella dell’intelligenza astuta [in greco “metis metis”] e quella della sfrontatezza [in greco “anaideia anaideia”]. Visto che gli dèi sono delle caricature, gli animali sono al di là del bene e del male, Fedro mette in evidenza che sono gli esseri umani i soli responsabili della sfera morale ma, purtroppo, tendono a far finta di non saperlo – si credono dèi, si mascherano da animali – e propendono per essere “furbi e sfrontati” piuttosto che “buoni e sinceri”. Per questo motivo la “fabula” unisce al “racconto” un proposito moraleggiante che vorrebbe [il condizionale è d’obbligo, anche Fedro coltiva il pessimismo] istruire con semplicità, ammonire, mettere in guardia, oltre che, come dice Fedro, “mostrare la vita stessa e i costumi degli umani”: per questo nella “fabula” s’incontrano, insieme agli animali [che hanno fatto erroneamente delle favole di Fedro una letteratura per bambini], anche interessanti figure umane protagoniste di “novelle per adulti” che tanta fortuna hanno avuto nella letteratura successiva e anche Petronio – sebbene non lo abbia mai detto – ha attinto a questa fonte.

   Il corpus delle favole di Fedro doveva essere molto esteso, a noi sono pervenuti 93 componimenti divisi in 5 Libri, più 32 favole della cosiddetta Appendix Perottina, scoperte dall’umanista Niccolò Perotti nel 1465 [Nicola Perotto, vescovo di Mafredonia]: questi testi sono considerati autentici e in essi emergono i temi che s’ispirano alla rivendicazione dei diritti degli umili contro i soprusi e l’ingiustizia dei potenti; l’opera di Fedro è autobiografica e la sua scrittura possiede un’aspra carica personale di sofferenza, di umiliazione e di fierezza che si avvicina a quella degli illustri poeti satirici, però, le composizioni di Fedro – brevi e vivaci nello stile, felici nella scelta degli epiteti – hanno un tono popolaresco di grande comprensibilità e accessibilità rispetto a quello più colto della “satira classica” e, quindi, sono testi più “pericolosi” perché il potere costituito li sottovaluta e non li censura, ma li considera, erroneamente, più un innocuo esercizio di divertimento che una esplicita manifestazione di dissenso.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Le “Favole di Fedro” sono state pubblicate in molte edizioni e le trovate facilmente in biblioteca e sulla rete... Ogni “favola” è un’opera completa di poche righe: leggetevene una al giorno, dieci minuti di tempo bastano e avanzano

   Dieci minuti bastano e avanzano al lupo per mangiarsi l’agnello, al rospo per esplodere, all’asino per sottomettersi, alla volpe per farsene una ragione, al leone per non mantenere fede al patto, e via dicendo, e questo tempo deve bastare per capire che nei testi delle Favole di Fedro c’è tutt’altro che la “fanciullesca ingenuità” che sembra emergere a prima vista.

   Facciamo solo un esempio e prendiamo il caso classico del lupo e dell’agnello,  “Agnus et Lupus in fabula”: questa espressione è diventata proverbiale. Se leggiamo il testo latino della favola intitolata Lupus et Agnus ci rendiamo conto – dal modo con cui Fedro costruisce il discorso – di come sia penetrante la sua denuncia. Leggiamo traduciamo e commentiamo:

LEGERE MULTUM….

Fedro, Fabulae

LUPUS ET AGNUS

Ad rivum eundem lupus et agnus venerant, siti compulsi: superior stabat lupus

Un lupo e un agnello erano venuti allo stesso ruscello, spinti dalla sete. Il lupo stava più in su,

Longeque inferior agnus. Tunc fauce improba latro incitatus iurgii causam intulit.

l’agnello stava molto più in giù. Allora il lupo assassino, mai sazio, cercò una causa di litigio,

«Cur - inquit - turbolentam fecisti mihi aquam bibenti?» Laniger contra timens:

e disse: «Perché mi intorpidisci l’acqua che bevo?». L’agnello lanosetto timidamente rispose:

«Qui possum, quaeso, facere, quod quereris, lupe? A te decurrit ad meum os haustus liquor».

«Come posso fare, abbi pazienza, ciò di cui ti lamenti, o lupo? L’acqua che bevi scorre dalle tue verso le mie labbra».

Repulsus ille veritatis viribus: «Ante hos sex menses male - ait - dixisti mihi».

Il lupo, vinto con le forze della verità, disse: «Sei mesi fa tu hai detto male di me».

Respondit agnus: «Equidem natus non eram». «Pater tuus hercule - inquit - male dixit mihi».

L'agnello rispose: «Veramente non ero nato». Replica il lupo: «Tuo padre, per Ercole, ha detto male di me».

Atque ita correptum lacerat iniusta nece.

E così, afferratolo, lo sbrana uccidendolo ingiustamente.

Haec propter illos scripta est homines fabula, qui fictis causis innocentes opprimunt.

Questa favola è stata scritta a vantaggio di quegli uomini che, con cause inventate, opprimono gli innocenti.

   Due considerazione dobbiamo fare         .

   La prima considerazione riguarda la frase “iurgii causam intulit”, il lupo “cercò una causa per litigare”: con questa affermazione Fedro denuncia il fatto che i potenti sono astuti e sono sfrontati perché vogliono commettere delle violenze, vogliono sopraffare i deboli in modo “legale” e, di solito, riescono paradossalmente a gestire l’illegalità col favore delle leggi. Il lupo, in prima istanza, vuole mangiarsi l’agnello per “giusta causa”: lo vuole provocare perché lui reagisca malamente per poterlo sbranare per invocare la legittima difesa.

   La seconda considerazione riguarda quello che si chiama il tema delle “parodie lessicali” cioè del “ribaltamento delle regole della logica grammaticale” su cui si regge la lingua latina: se si ribaltano le regole si commettono degli “errori formali” che non alterano la comprensione del testo ma lo rendono scorretto.

   Fedro è maestro nelle “parodie lessicali”, ebbene, per rendercene conto facciamo un esempio. Riflettiamo sulla prima parte dell’ultimo verso della favola: “Haec propter illos scripta est homines fabula …”, “Questa favola è stata scritta a vantaggio di quegli uomini che …”, ebbene, il termine “propter”, in latino, serve per esprimere il complemento di vantaggio, cioè per comunicare il godimento di un beneficio non per procurare un danno. Fedro costruisce una forma grammaticale scorretta – una “parodia lessicale” – perché questo espediente letterario ha la capacità di dare al testo un più efficace significato sostanziale, in modo da attirare sarcasticamente l’attenzione sul tema dell’ingiustizia perché il vero errore è lo scandalo dell’ingiustizia che i prepotenti commettono nei riguardi dei deboli, degli indifesi, dei miti.

   La “parodia” sul tema che “il vero lupo è l’uomo che non sente rimorso”, non se la lascia scappare il poeta-fabulista Carlo Alberto Salustri detto Trilussa che senza Fedro [è lui che lo dice] non sarebbe esistito. Leggiamo dalla raccolta intitolata proprio Lupi e Agnelli:

LEGERE MULTUM….

Trilussa, Lupi e agnelli

L'Agnello infurbito

Un lupo che beveva in un ruscello vidde, dall’antra parte de la riva,

l’immancabbile Agnello. - Perché nun venghi qui? - je chiese er Lupo

- L’acqua , in quer punto, è torbida e cattiva e un porco ce fa spesso er semicupo.

Da me, che nun ce bazzica er bestiame, er ruscelletto è limpido e pulito

- L’Agnello disse: - Accetterò l’invito quanno avrò sete e tu nun avrai fame.

... continua la lettura ...

   Il concetto elaborato da Fedro che «all’atto pratico l’Uomo non è che un lupo diplomatico che specula sul sangue dell’agnello» avrà un grande successo in Età moderna e, a suo tempo, ce ne renderemo conto. Nelle “fabulae” di Fedro s’incontrano, insieme agli animali anche interessanti figure umane protagoniste di “novelle” che tanta fortuna hanno avuto nella letteratura successiva e anche Petronio – che sta annuendo – ha attinto a questa fonte. Che cosa ha attinto Petronio alla fonte di Fedro?

   Per rispondere a questa e ad altre domande è doveroso seguire la scia dell’Alfabetizzazione e dell’Apprendimento permanente perché l’Alfabetizzazione culturale e funzionale è un bene comune [come la fabula] e l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona: per questo la Scuola è qui con il suo carattere “errabondo” per esortare ad investire in intelligenza.

    Il viaggio continua…

 

    Questa Lezione è dedicata alle persone che hanno fatto il bestiale viaggio verso l’orrore della deportazione e non sono tornate, ed è dedicata ai pochi che sono tornati e hanno sentito l’urgenza di scrivere.

   La Scuola è qui per incentivare la memoria e per stimolare in ciascuna e ciascuno di noi l’urgenza di scrivere, l’urgenza di scrivere…

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Febbraio 1, 2013