Prof. Giuseppe Nibbi La sapienza poetica e filosofica dell’età tardo-antica 6-7-8 febbraio 2013
Somerset Maugham
SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ TARDO-ANTICA
SI CAPISCE CHE L'EVENTO CRISTIANO NON EMERGE DAL NULLA
MA SI INSERISCE E TRAAE ALIMENTO DALLA STORIA DELLA CULTURA UMANA ...
Siamo a metà strada del nostro viaggio: un percorso con il quale stiamo attraversando il “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età tardo-antica”, questo è il quattordicesimo itinerario, siamo nel cuore dell’inverno e abbiamo ancora molta strada da fare. Il “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età tardo-antica” corrisponde [come sapete] ad una vasta area di confine che si estende tra il grande bacino della cultura antica e l’enorme contenitore della cultura medioevale e questo spazio si dilata nel tempo per circa cinque secoli, dal I al V secolo d.C..
In queste settimane abbiamo vissuto in compagnia di un gruppo di personaggi che, temporaneamente, hanno dato vita ad un Circolo culturale [del quale siamo entrate ed entrati a far parte] collocato all’interno di un importante paesaggio intellettuale quello della cosiddetta “Età giulio-claudia” che dura circa un secolo, dal 30 a.C. al 68 d.C., e che prende il nome della dinastia dei primi cinque imperatori romani: Augusto, Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone. Adesso siamo ancora attorniate e attorniati da questo bel gruppo di figure vissute al tempo di Nerone [tra il 54 e il 68] con le quali noi abbiamo fatto conoscenza in queste ultime settimane. In “circolo” attorno a noi c’è il filosofo Lucio Anneo Seneca, c’è l’apostolo Paolo di Tarso [che fa il pendolare: poi capiremo perché], c’è il poeta epico-storico Anneo Lucano, c’è il poeta satirico Aulo Persio, c’è Agrippina Minore [moglie, in seconde nozze, dell’imperatore Claudio, madre e vittima di Nerone che non ha composto opere letterarie ma ha dato spunto perché se ne producessero] e c’è anche Agrippina Solmo che è la protagonista di un romanzo di Luigi Capuana intitolato Il marchese di Roccaverdina [del quale abbiamo letto un certo numero di pagine], e poi c’è il proto-romanziere Petronio Arbitro, l’autore di un’opera assai famosa intitolata Satyricon e, inoltre [come ricorderete], la scorsa settimana si è aggiunto al gruppo un nuovo personaggio: il “fabulista” Fedro.
Citando questi due ultimi nomi, Petronio e Fedro, ora dobbiamo riflettere sul fatto che nel corso dell’Età tardo-antica si sviluppano tre generi letterari – il “romanzo” in forma ancora embrionale, la “novella” e la “favola”: nei secoli questi tre generi lasceranno un’impronta indelebile nella Storia del Pensiero Umano perché diventano i contenitori più importanti per la raccolta di parole-chiave fondamentali e i veicoli più efficaci per trasmettere rilevanti idee-cardine. I generi della “favola”, della “novella” e del “romanzo” sono strettamente legati tra loro e costituiscono la trafila evolutiva di un determinato processo narrativo. In principio è il “racconto orale” che trova la sua prima formulazione scritta nella “fiaba” e nella “favola”. Il testo della “favola” usufruisce del carattere sintetico che ha la scrittura poetica, ed è dal testo della “favola” che si attinge il contenuto per comporre la “novella”, un genere che usufruisce del carattere analitico che ha la scrittura in prosa. Il “romanzo”, in origine [dal II secolo a.C.], si presenta come una raccolta di “novelle” narrate dai protagonisti per dare un senso al racconto delle loro avventure, in particolare, amorose.
Adesso con la collaborazione di Fedro, autore delle Fabulae, e di Petronio, autore del Satyricon, possiamo fare un esempio significativo in proposito, un esempio che si caratterizza per avere la fisionomia dell’intreccio filologico.
Una delle Fabulae più significative di Fedro – tra le più studiate dalle esperte e dagli esperti di filologia – è intitolata La vedova e il soldato: nel testo di questa favola non ci sono gli animali ma i protagonisti sono esseri umani alle prese con le molteplici situazioni della vita. Nelle “fabulae senza animali” emerge un autore meno moralista e più filosofo che non tende a condannare nettamente un comportamento ma vuole invitare ad aprire una riflessione sulla complessità della condizione esistenziale. Nei componimenti di Fedro “senza animali” la morale della favola non è costituita da una battuta che denuncia nettamente una situazione di ingiustizia ma da una proposizione posta in forma interlocutoria che “invita a ragionare prima di giudicare” perché il percorso dell’esistenza umana – fatto soprattutto di distacchi, di dolori, di convenienze, di patteggiamenti, di passioni, di desideri, di opportunità, di superstizioni, di sentimenti – non è affatto lineare ma è assai variegato e alquanto complesso.
Leggiamo il testo della favola intitolata La vedova e il soldato dicendo ancora una volta che è il primo tassello di un intreccio filologico che dobbiamo dipanare per imbastire una riflessione in funzione della didattica della lettura e della scrittura.
LEGERE MULTUM….
Fedro, La vedova e il soldato
Una donna perse il marito a cui, da tenero affetto, era stata legata.
Il suo corpo in un sarcofago compose e nel sepolcro la vedova trascorreva in lacrime la vita
procurandosi la splendida fama di giovane donna immacolata.
Alcuni uomini, saccheggiatori del santuario di Giove, furono condannati e crocifissi
e, affinché nessuno le loro spoglie potesse prelevare ed onorare si collocarono dei soldati
a guardia dei cadaveri, proprio vicino al monumento dove la donna viveva reclusa.
Una notte uno dei soldati di guardia, preso dalla sete, chiese un po’ d’acqua
alla servetta che accudiva la sua padrona e aveva lavorato al lume e protratto la veglia fino a tardi.
Attraverso i battenti socchiusi il soldato vede una donna dall’aria sofferente e dal magnifico volto.
Ecco, il suo cuore, conquistato, si infiamma e il desiderio in lui diventa ardente.
Con scaltra acutezza egli trova mille pretesti per poter vedere la vedova più spesso.
Instauratasi una quotidiana consuetudine,
a poco a poco ella diventa sempre più compiacente con quel giovane ardente
e ben presto nutre lo stesso ardore e a lui incatena il suo cuore.
Mentre lo scrupoloso guardiano trascorre qui le sue notti, scompare un corpo da una delle croci.
Sconvolto, il soldato racconta alla donna ciò che è avvenuto. Ma lei, che è tutta purezza:
«Non hai da temere» dice, e consegna il corpo del marito da appendere alla croce
affinché l’amante suo non sia punito per la negligenza esercitata.
L’infamia soppiantò la lode ma forse tutti pensano sia meglio mettere in croce
un marito morto piuttosto che perdere un amante vivo.
La storia che Fedro narra nel testo di questa “favola” è un racconto che si è tramandato oralmente ed è, molto probabilmente, di provenienza mediorientale.
Dobbiamo notare che il genere letterario della “fabula” si caratterizza per il fatto di porre il racconto fuori dal tempo e dallo spazio: l’autore di “fabulae”, con la complicità della forma poetica, tende a eliminare i particolari [non dice dove siamo, in che periodo, i personaggi non hanno nomi propri] e tende a rendere universale il suo discorso mentre invece il genere della “novella”, con la complicità della scrittura in prosa [particolareggiata, descrittiva, circostanziata], colloca nello spazio e nel tempo la narrazione.
Probabilmente Petronio Arbitro ha preso spunto dall’opera di Fedro quando ha inserito in forma di “novella” nel testo del Satyricon [e quest’opera, essendo un proto-romanzo, è una vera e propria raccolta di novelle] il contenuto della fabula intitolata La vedova e il soldato e, naturalmente, dovendo comporre una novella – un genere scritto in prosa – ha dovuto e ha voluto recuperare tutti i particolari del racconto orale originario che Fedro ha escluso dalla narrazione per universalizzare il suo testo secondo il modello del genere letterario [la fabula] a cui s’ispira. Nel Libro XXII del Satyricon Petronio fa raccontare al vecchio e depravato poeta Eumolpo la “novella della Matrona di Efeso” e si presume che questo sia il titolo originario con il quale circolava oralmente questo racconto nell’Ecumene ellenistica del I secolo. Quindi, leggiamolo questo brano del Satyricon!
In funzione della didattica della lettura e della scrittura questo brano si presenta come il secondo tassello di un intreccio filologico da dipanare in modo che, innanzitutto, possiamo prendere atto del processo evolutivo della narrazione che si perfeziona in Età tardo-antica: del passaggio dall’oralità alla esposizione sintetica in forma poetica della “favola” fino al racconto analitico in prosa della “novella” che prelude alla formazione di quel genere che poi verrà chiamato il “romanzo” il quale, in origine, si presenta come una raccolta di novelle [nel Novecento si torna a scrivere romanzi seguendo lo schema delle origini].
Prima di leggere il testo della famosa “novella della Matrona di Efeso” dal Libro XXII del Satyricon dobbiamo compiere una riflessione di carattere introduttivo e inoltre, già che ci siamo, è anche opportuno – per poter procedere con cognizione di causa – riferire a grandi linee la trama della seconda parte del Satyricon.
Il Satyricon di Petronio Arbitro è un’opera che merita di essere letta in termini propedeutici [di perfezionamento all’esercizio della lettura] perché è ricca di modelli narrativi che hanno propiziato il sorgere di alcune importanti “questioni filologiche” sulle quali tuttora si continua a dibattere [noi ci occuperemo di una di queste questioni, la più importante] e poi perché molti spunti narrativi presenti nel Satyricon li ritroviamo nei testi dei romanzi moderni e contemporanei e questo fa sì che possiamo mettere in moto l’azione cognitiva della “inferenza”: l’inferenza è quell’azione dell’apprendimento che serve a trasportare, a trasferire una conoscenza da un oggetto all’altro e nella radice di questa parola c’è il verbo latino “fero” che significa “portare”, che significa “effettuare un trasferimento” in senso intellettuale.
Abbiamo detto che è opportuno riferire a grandi linee [senza scendere nei particolari perché questo prevede la lettura integrale del testo nel quale gli avvenimenti si susseguono a ritmo incalzante] la trama della seconda parte del Satyricon, ebbene, noi abbiamo lasciato, la scorsa settimana, i protagonisti del romanzo, Encolpio, Gitone e Ascilto [c’è anche un certo Agamennone che potrete conoscere leggendo l’opera], a cena da Trimalcione e sappiamo che La cena di Trimalcione è uno dei più famosi, dei più interessanti e dei più studiati brani di Letteratura [un romanzo nel romanzo] che possediamo.
Il banchetto culmina con la significativa parodia – talmente ricca di simboli da far nascere molte questioni filologiche [e anche psicoanalitiche] – dei funerali di Trimalcione che, per il gran chiasso fatto dai partecipanti, fa accorrere i vigili di quartiere e, nella confusione generale, i tre compagni, Encolpio, Gitone e Ascilto, ne approfittano per scappare da lì e si rifugiano in una locanda dove litigano per motivi di gelosia e si dividono. Encolpio, la voce narrante del romanzo, rimane solo e incontra un nuovo compagno: il poeta vagabondo Eumolpo, che si presenta come un personaggio piuttosto depravato e assai trasandato – mal vestito e mal lavato – ma geniale che recita una sua composizione sulla distruzione di Troia che allude anche in modo sarcastico alle velleità poetiche di Nerone che avrebbe voluto offuscare la fama di Omero. Il giovane e attraente Gitone, di cui Encolpio è innamorato e geloso, dopo essersi allontanato, torna a riunirsi a loro, ma tra Encolpio e Gitone si rinnovano subito le liti furibonde. I tre – la voce narrante Encolpio, il giovane attraente Gitone e il poeta trasandato Eumolpo – iniziano una nuova avventura e si imbarcano sulla nave di Lica di Taranto che è in viaggio per riportare a casa dall’esilio la sua amante Trifena, ma qui scoppia ancora una furibonda rissa tra Gitone ed Encolpio che è geloso di tutti coloro che, maschi o femmine, si avvicinano al bel ragazzo dall’attraente aspetto ermafroditico. La pace torna per merito di Eumolpo che racconta la novella della Matrona di Efeso: il poeta racconta questa storia senza propositi moralistici ma come una piccante parodia dei propositi di castità delle vedove e compiacendosi, filosoficamente, del fatto che la protagonista abbia ritrovato la gioia di vivere e abbia smesso di pensare che il suo dovere fosse quello di mostrare ipocritamente al mondo di essere “immacolata e pura” [la “depravazione” di Eumolpo ha un carattere libertario]. Una tempesta fa naufragare la nave: Lica muore, Trifena si salva su una barca mentre i tre avventurieri vengono gettati su una spiaggia vicino a Crotone. La grande città della Magna Grecia pullula di cacciatori di testamenti e i cittadini sembrano appartenere a due categorie: gli imbroglioni e gli imbrogliati. Per questo Eumolpo, dopo aver recitato un poemetto sulla guerra civile tra Cesare e Pompeo [a imitazione della Pharsalia di Lucano], si finge ricco e ammalato per sfruttare l’avidità dei Crotonesi. Mentre Encolpio viene adescato dalla bella e ricca Circe, ma diviene impotente per l’ira del dio Priapo – noi non sappiamo che cosa abbia fatto di male – e guarisce soltanto per l’intervento di Mercurio, Eumolpo, per sfuggire ai cacciatori di dote, tra cui la matrona Filomena, detta un testamento secondo il quale soltanto coloro che mangeranno la carne del suo cadavere potranno ereditare i suoi beni.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Abbiamo raccontato a grandi linee la seconda parte del “Satyricon” per consigliarne ancora una volta la lettura integrale: è un testo ricchissimo dal punto di vista narrativo ed è molto interessante perché raccoglie molti elementi che verranno in seguito sviluppati nel genere del romanzo moderno e contemporaneo e quindi la lettura del “Satyricon” costituisce un importante esercizio propedeutico in funzione della didattica della lettura e della scrittura…
Voi avete mai fatto la “parodia” di qualcuno?…
Scrivete quattro righe in proposito…
E ora leggiamo la “novella della Matrona di Efeso”-
LEGERE MULTUM….
Petronio Arbitro, Satyricon
Intanto Eumolpo, nostro difensore quando eravamo in pericolo e artefice della presente concordia tra me e Gitone, affinché l’allegria non si dissolvesse in mancanza di battute, pensò di ironizzare facendo finta di scagliarsi contro la leggerezza delle donne, dicendo con quanta facilità s’innamorino, quanto in fretta si dimentichino anche dei figli, e che non c’è donna tanto virtuosa da non far pazzie per un nuovo amore. Precisava che il suo discorso non si riferiva alle antiche tragedie e a nomi vecchi di secoli, ma alludeva a cose avvenute ai suoi tempi, che avrebbe raccontato se avessimo voluto ascoltarlo. E quando tutti i volti e gli orecchi si volsero verso di lui, cominciò: «Viveva in Efeso una matrona tanto nota per la sua virtù, che anche le donne dei paesi vicini ne parlavano con ammirazione. Avendo costei perduto il marito, non contenta di seguirne il funerale con i capelli sciolti e percuotendosi il petto nudo alla presenza di tutti, seguì il defunto anche nella cripta sepolcrale, dove cominciò a vegliare e a piangere giorno e notte presso il cadavere. Si struggeva tanto che sembrava volesse morire d’inedia, resistendo ai genitori e ai parenti che tentavano di riportarla a casa. Respinse anche i magistrati che avevano tentato di convincerla, e rimase ad offrire quel singolare esempio di fedeltà, compianta da tutti, per ben cinque giorni e sempre senza toccare cibo. Accanto a lei, altrettanto afflitta, sedeva la sua fedelissima ancella anch’essa in lacrime e sempre attenta ad alimentare la lucerna davanti alla tomba, ogni volta che l’olio si consumava.
Tutta la città parlava del fatto, e gli uomini d’ogni condizione affermavano che quello era l’unico, vero e lampante esempio di fedeltà e di amore.
In quei giorni il governatore della provincia aveva fatto crocifiggere dei ladri nelle vicinanze della cripta dove la matrona continuava a piangere il marito di recente scomparso. Avvenne così che la notte successiva, un soldato, che montava la guardia alle croci affinché nessuno venisse a portar via i corpi dei ladri per seppellirli, avendo notato un lumino in mezzo alle tombe e avendo percepito dei gemiti, per naturale curiosità desiderò sapere di cosa si trattasse. Scese nel sepolcro, e scorgendo la bellissima donna, si arrestò come se gli fosse apparso un mostro o qualche immagine infernale. Ma vedendo il corpo del morto, capì la ragione delle lacrime della donna e del suo viso solcato dalle unghie: la poveretta non poteva fare a meno del marito.
Il soldato allora portò nella tomba la sua parca cena e cominciò ad esortare la donna perché non si ostinasse in un vano dolore, squassando inutilmente il petto con dei gemiti che a nulla potevano servire, perché identica è per tutti la fine e uguale l’ultima dimora. Le disse anche altre cose, che solitamente servono per riportare la calma nei cuori feriti, ma l’infelice, ancora più sconvolta da quella consolazione non richiesta, si lacerò con maggior violenza il petto e strappandosi i capelli si gettò sul corpo dell’estinto. Lungi dallo scoraggiarsi, il soldato ripeté le sue esortazioni, tentando di far accettare alla povera donna un po’ di cibo, finché l’ancella, sedotta dal profumo del vino e vinta dalla gentilezza di chi la invitava, allungò per prima la mano. Rifocillata dalla bevanda e dal cibo, tentò anche lei di vincere l’ostinazione della padrona dicendole: “Perché vuoi morire d’inedia e seppellirti viva prima che i fati richiamino la tua anima innocente? Credi che i morti sentano e capiscano? Scuoti di dosso questo errore e godi le gioie della vita fin che ti è possibile. Proprio il cadavere qui disteso dovrebbe convincerti a vivere”.
Nessuno è sordo del tutto alle parole di chi lo invita a mangiare quando ha fame. Così la donna, estenuata da lunghe giornate di digiuno, permise che la sua ostinazione venisse spezzata e si rimpinzò di cibo con non minore avidità dell’ancella. Ora, voi sapete quale altra tentazione susciti normalmente un ventre ben sazio. Ebbene, con le stesse lusinghe usate per convincere la donna a vivere, il soldato diede l’assalto alla sua virtù. Il giovane non parve alla casta donna né brutto né privo di spirito. L’ancella, per renderglielo simpatico, le ripeteva continuamente: “Ti opporrai forse a un gradevole amore? Non hai ancora capito in che mondo viviamo?”.
La donna, facilmente persuasa dal soldato, dopo aver rinunciato all’astinenza dal cibo, depose ogni altro ritegno. Giacquero dunque insieme non solo quella notte in cui fecero le nozze, ma anche il secondo e il terzo giorno, naturalmente dopo aver chiuso le porte in modo che, se qualcuno si fosse recato al sepolcro, potesse pensare che quella moglie virtuosissima era ormai spirata sul corpo del marito.
Conquistato dalla bellezza della donna e attirato dal sapore di mistero che l’impresa andava prendendo, il soldato comperava tutte le cose buone che poteva trovare con i suoi mezzi, e non appena scendeva la notte le portava nella tomba. Finché i parenti di uno dei crocifissi, vedendo che la sorveglianza si era allentata, nottetempo tolsero dalla croce il loro caro penzolante e gli resero l’estremo omaggio.
Il soldato, la cui sorveglianza era stata elusa mentre se la stava spassando, vedendo il giorno dopo una croce senza cadavere e temendo di essere punito, raccontò alla donna l’accaduto, dicendole che non avrebbe aspettato la sentenza del giudice, ma da se stesso, con la spada, avrebbe punito la sua mancanza. Dopo di che invitò la vedova a fargli un po’ di posto, visto che stava per morire, in quel sepolcro fatale che avrebbe contenuto insieme alle spoglie del marito anche quelle dell’amico.
La donna, che al pudore univa la pietà, esclamo: “Gli dèi non permetteranno che io assista in così breve tempo al funerale dei due uomini a me più cari. Preferisco crocifiggere un marito morto piuttosto che uccidere un amante vivo”.
Dette queste parole, fece togliere dal sarcofago il cadavere del marito e suggerì al soldato di affiggerlo alla croce che era rimasta vuota. Il giorno dopo, tutti si chiedevano con stupore come mai il morto fosse salito da sé sulla croce».
I marinai accolsero la storia con grandi risate, mentre Trifena arrossiva lievemente e appoggiava con grazia il suo volto sul collo di Gitone. …
L’azione cognitiva dell’inferenza è certamente entrata in funzione nella mente di ciascuna e di ciascuno di noi quando abbiamo letto le affermazioni che ci fanno inevitabilmente pensare alla Letteratura dei Vangeli: il tema della “crocifissione” e quello del “sepolcro vuoto” costituiscono due elementi che generano quel meccanismo intellettuale che chiamiamo “inferenza”. Questo preambolo ci porta di fronte ad una delle “questioni filologiche” – quella che viene considerata la più importante – che emergono dallo studio del testo del Satyricon di Petronio Arbitro.
Prima di occuparci di questa “questione filologica” dobbiamo dire che accanto al paesaggio intellettuale dell’Età giulio-claudia, di fronte al quale ci troviamo da un bel po’ di settimane, c’è, contiguo, un altro assai vasto paesaggio intellettuale [ecco perché abbiamo detto che Paolo di Tarso fa il pendolare] verso il quale cominciamo a indirizzare il nostro sguardo perché in esso vivono personaggi e sono contenute opere le quali ci fanno capire che l’evento cristiano – il quale trae origine dalla “buona notizia della risurrezione di Gesù” e si concretizza nel fenomeno della Letteratura dei Vangeli – non emerge dal nulla ma s’inserisce e trae alimento dalla storia della cultura umana.
E ora – mentre il sentiero si fa impervio – procediamo con ordine inserendo il terzo tassello dell’intreccio filologico che vogliamo dipanare. Molte studiose e molti studiosi di filologia si sono occupati – e continuano ad occuparsene – della “questione filologica” che riguarda il rapporto tra il testo del Satyricon di Petronio e il testo del Vangelo secondo Marco. La volontà di Petronio di alludere alla cultura giudaico-cristiana sembra emergere nel testo della sua opera, mentre sembra che l’autore del testo del Vangelo secondo Marco [il più arcaico dei Vangeli canonici, il cui autore risulta sconosciuto ma operante a Roma] abbia preso una serie di spunti narrativi dal testo del Satyricon: questa è una bella questione che ha animato, e continua ad animare, il dibattito culturale e la ricerca filologica in relazione al patrimonio letterario che abbiamo ereditato dall’Età tardo-antica e questa questione riguarda l’interessante tema [che abbiamo già trattato più volte in questi anni] del rapporto tra le Opere dei Classici latini e greci e le Opere della Letteratura dei Vangeli, a cominciare dall’Epistolario di Paolo di Tarso [un’opera che abbiamo recentemente e più volte studiato].
Il primo ad occuparsi del rapporto tra il testo del Satyricon e quello del Vangelo secondo Marco è stato il filologo e teologo tedesco Erwin Preuschen. Il filologo e teologo tedesco Erwin Preuschen [1867-1920], eminente studioso della Letteratura dei Vangeli e della Storia della Chiesa, con un saggio pubblicato nel 1902 [un saggio che ha fatto molto discutere] intitolato Possibili legami del Vangelo di Marco con il Satyricon di Petronio Arbitro, ha avanzato una serie di ipotesi concernenti la possibile relazione fra i due testi. Le ipotesi fatte in sede di ricerca filologica da Preuschen sono legate ad alcune importanti domande che sorgono inevitabili di fronte alle molte analogie che emergono tra i due testi che, quindi, si presume siano contemporanei: il Satyricon è stato scritto tra il 64 e il 65 e il testo del Vangelo secondo Marco è stato redatto nella sua completezza intorno all’anno 70 e l’intento del teologo Erwin Preuschen – ed è per questo che conduce la sua ricerca – è quello di dimostrare che alla metà degli anni 60 del I secolo le “sentenze” contenute nel testo del Vangelo secondo Marco hanno già preso forma, e a lui piace pensare che l’autore del Satyricon voglia fare del sarcasmo nei confronti della cultura giudaico-cristiana perché questo dimostrerebbe, inequivocabilmente, che i contenuti della Letteratura dei Vangeli sono già ben conosciuti e ben radicati negli ambienti letterari della prima metà del I secolo. Erwin Preuschen vuole rispondere agli intellettuali positivisti i quali, nella seconda metà dell’800, affermavano, in modo un po’ perentorio, che la Letteratura dei Vangeli era un prodotto più recente, non così [tardo] antico.
Le ipotesi fatte in sede di ricerca filologica da Preuschen sono legate ad una serie di domande per cui è inevitabile chiedersi se sia l’autore del Vangelo secondo Marco che abbia attinto al testo del Satyricon prendendo degli spunti a vantaggio della divulgazione della “buona notizia della risurrezione di Gesù” oppure se sia Petronio che, nel corso della tradizionale polemica tra il pensiero epicureo e il pensiero giudaico-cristiano, voglia intenzionalmente burlare le credenze contenute nel testo del Vangelo secondo Marco che si stavano rapidamente diffondendo in ambiente romano.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
La Scuola consiglia la lettura o la rilettura del “Vangelo secondo Marco” che è un bellissimo testo narrativo formato da sedici brevi capitoli contenuti in una quindicina di pagine…
In particolare potete leggere il famoso passo del capitolo 14 dal versetto 3 al versetto 9 che racconta l’emblematico episodio della cosiddetta “unzione di Betania” dove una donna, della quale non si cita il nome, versa del profumo di nardo purissimo sul capo di Gesù…
C’è un profumo che al percepirlo stimola il vostro ricordo?...
Scrivete quattro righe in proposito...
Adesso noi ci limitiamo ad affrontare il tema del rapporto tra il testo del Satyricon e il testo del Vangelo secondo Marco – che è un tema assai complesso e variegato [ma dovremmo forse rimuoverlo senza affrontarlo?] – secondo la natura del nostro viaggio cioè in funzione della didattica della lettura e della scrittura e, quindi, ci domandiamo: quali sono le affinità più significative tra il testo del Satyricon di Petronio Arbitro e il testo del Vangelo secondo Marco? Per rispondere a questa domanda leggiamo alcuni brani, che abbiamo ricucito insieme per mettere in evidenza ciò che ci interessa, tratti dal saggio di Erwin Preuschen intitolato Possibili legami del Vangelo di Marco con il Satyricon di Petronio Arbitro: di questo saggio non esiste un’edizione italiana, ci sono delle traduzioni fatte in funzione di studi, di tesi e di articoli e sono sufficienti per il grado di conoscenza e di comprensione che vogliamo raggiungere. Leggiamo queste due pagine con la consapevolezza che possediamo delle competenze per capire e per riflettere.
LEGERE MULTUM….
Erwin Preuschen, Possibili legami del Vangelo di Marco con il Satyricon di Petronio Arbitro
Alcune allusioni all’incendio di Roma del 64 orienterebbero la datazione del Satyricon agli anni 64-65, negli anni in cui, dopo l’incendio di Roma, i Cristiani subirono la loro prima persecuzione. … Protagonisti del romanzo di Petronio Arbitro sono due giovani, Encolpio e Gitone, cui si aggiungono successivamente Ascilto, ed il vecchio poeta Eumolpo. Tra le varie peripezie narrateci da Petronio, spicca il lungo racconto di una pantagruelica e lussuriosa cena organizzata in casa del ricchissimo e ignorantissimo liberto Trimalcione, comunemente identificato con Nerone. … Vorrei evidenziare le profonde somiglianze fra il passo del Vangelo di Marco, che racconta l’unzione di Betania, ed il passo del Satyricon in cui si narra di Trimalcione il quale, durante il banchetto da lui apprestato, procede all’unzione dei convitati con il nardo, prefigurando tramite gesti simbolici le proprie esequie, di qui, data la somiglianza di questo racconto con l’episodio evangelico, ed anche a causa dello stato degli studi sulla datazione dei Vangeli, si potrebbero spiegare tali somiglianze ipotizzando una imitazione di Petronio da parte dell’autore del testo secondo Marco, in questo caso, proprio sulla questione della datazione e della origine del Vangelo di Marco, si potrà notare che non è improbabile che Petronio nel momento in cui scrisse il Satyricon potesse essere a conoscenza di tale scritto, che secondo l’antica tradizione patristica fu redatto proprio a Roma da un discepolo di Paolo di Tarso. Non possiamo neppure negare che potrebbe essere stato Petronio a parodiare il Vangelo di Marco e questo fatto non cambierebbe l’ipotesi sulla datazione di questo testo che abbiamo formulato, anzi, la rafforzerebbe. …
Nel Satyricon, durante la cena, Trimalcione si fa recare le vesti preparate per la sua sepoltura, si fa portare del vino con cui saranno lavate le sue ossa e dell’unguento. Aperta un’ampolla di nardo unge i convitati in prefigurazione della sua unzione funebre e li invita a considerare il pasto come il suo banchetto funebre.
Nel Vangelo di Marco, mentre Gesù si trova a mensa, arriva una donna con un vaso di alabastro pieno di nardo genuino e prezioso, lo rompe e unge Gesù sul capo. Il Cristo dice a suo riguardo che ella sta ungendo in anticipo il suo corpo per la sepoltura. Come si può notare le somiglianze sono evidenti. Mettiamo in sinossi [in parallelo] i due testi, si legge nel Satyricon: “Porta anche dell’unguento e un assaggio da quell’anfora, con cui voglio siano lavate le mie ossa” … Subito aprì l’ampolla del nardo, unse tutti noi e disse “Spero che possa piacermi da morto quanto da vivo”. Poi comandò che fosse infuso del vino in una brocca e disse “Fate come se foste stati invitati ai miei funerali”. Si legge nel Vangelo di Marco: Essendo [Gesù] a Betania in casa di Simone il lebbroso, mentre giaceva, venne una donna che aveva un vaso di alabastro di unguento di puro nardo prezioso, rotto l’alabastro, lo versò sul capo di lui …E Gesù disse “Ciò che ebbe, ella lo fece: anticipò di ungere il mio corpo per la sepoltura”. …
Un altro passo della cena di Trimalcione pare avere reminiscenze evangeliche: Mentre diceva queste cose, un gallo domestico cantò. Turbato da quella voce, Trimalcione comandò che fosse versato del vino sotto la tavola e che anche la lucerna ne venisse cosparsa. Poi passò l’anello nella mano destra e disse: “Non senza ragione questo trombettiere ha dato il segnale, infatti o dovrà scoppiare un incendio, o qualcuno dei vicini dovrà morire. Lungi da noi! Per cui, chi mi porterà questo accusatore riceverà un premio”. In men che non si dica venne portato un gallo da una casa vicina, che Trimalcione ordinò venisse cotto in pentola”. Mentre qui il canto del gallo è visto come presagio di sciagura, nel resto della tradizione greco-romana esso è preannunzio del giorno e della vittoria, mai presagio di morte. Nel Vangelo di Marco il canto del gallo invece è indice del tradimento di Pietro prima della morte di Gesù. La definizione petroniana del gallo come “index”, ovvero, in linguaggio giuridico, come “denunziatore e accusatore”, sembra ricordare la funzione che rivestì il gallo in Marco, ovvero quella di denunziare il triplice tradimento di Pietro. …
Anche il noto episodio della matrona di Efeso, pare avere altri richiami evangelici: “Una matrona di Efeso, …avendo perso il marito, …seguì il defunto persino nel sepolcro. … Nello stesso tempo il governatore della provincia comandò che fossero crocifissi dei ladroni proprio accanto al sepolcro nel quale la matrona piangeva il recente cadavere. La notte seguente, quando il soldato che sorvegliava le croci affinché nessuno togliesse i corpi per seppellirli, notò un lume splendere tra le tombe e udì il gemito di qualcuno che piangeva … volle sapere chi fosse e che cosa facesse. Scese quindi nella tomba. … Dunque giacquero assieme non solo quella notte nella quale celebrarono le nozze, ma anche il seguente ed il terzo giorno, tenendo certamente chiuse le porte del sepolcro. … Ma i parenti di un crocifisso, come videro diminuita la sorveglianza, tirarono giù di notte l’appeso e gli resero l’estremo ufficio. E quando il giorno successivo il soldato … vide una croce senza cadavere, atterrito dal supplizio raccontò alla donna quello che era successo. … Ella disse allora di togliere il corpo del proprio marito dal sarcofago e di attaccarlo a quella croce che era vuota. Il soldato approfittò dell’ingegno dell’avvedutissima donna, ed il giorno dopo il popolo si meravigliava di come quel morto avesse potuto salire sulla croce”. La citazione di un governatore provinciale, forse Pilato?, dei ladroni crocifissi, della guardia sepolcrale e dei tre giorni nel sepolcro, e infine il tema del trafugamento del cadavere, un’accusa rivolta ai Cristiani già da tempo, ci farebbero pensare ad una parodia del racconto della morte e risurrezione del Cristo. …
Una volta accettata la dipendenza Marco-Petronio, molti passi si prestano a simili letture: ad esempio la presunta allusione all’eucaristia nelle parole di Eumolpo che lascia i suoi averi a chi mangerà pubblicamente le sue carni dopo la morte. …
Abbiamo raccolto le linee essenziali di questa importante questione filologica perché fa parte del grande tema riguardante i molti studi fatti – soprattutto nel secolo scorso – sul rapporto tra le Opere dei Classici greci e latini e le Opere della Letteratura dei Vangeli: tutti questi studi hanno confermato che la Letteratura dei Vangeli, a cominciare dall’Epistolario di Paolo di Tarso [nell’anno scolastico 2010-2011 abbiamo fatto un viaggio in compagnia di questo personaggio che ancora ci accompagna], si sviluppa e condiziona fortemente la cultura dell’Età tardo-antica. A questo proposito, dobbiamo fare una serie di considerazioni e [con la consulenza di Paolo di Tarso], volgiamo lo sguardo verso il paesaggio intellettuale attiguo a quello dell’Età giulio-claudia perché dobbiamo riflettere sul fatto che l’evento cristiano – che trae origine dalla “buona notizia della risurrezione di Gesù” e si concretizza nel fenomeno della Letteratura dei Vangeli – non emerge dal nulla ma s’inserisce e trae alimento dalla Storia del Pensiero Umano.
Ci troviamo di fronte ad un argomento ostico – ignorato dai programmi scolastici – che noi dobbiamo affrontare. La storiografia cristiana, dal IV secolo [complice l’Imperatore Costantino, che rincontreremo a suo tempo], ha considerato in termini apologetici l’età di Augusto come il momento di pace universale predisposto dalla provvidenza perché l’umanità fosse in grado di accogliere il Salvatore del Mondo, anche se, in verità, i Padri della Chiesa [come Gerolamo] pensano che questo momento di pienezza sia dovuto più al “dissenso” degli intellettuali che alle opere dell’Imperatore e ritenevano che l’avvento di un “bambino salvatore” lo aveva profetizzato, nelle sue opere [le abbiamo studiate nel viaggio dello scorso anno scolastico] perfino il pio poeta Virgilio che subisce un vero e proprio processo di cristianizzazione. Questa visione delle cose è stata considerata – già dal Medioevo – piuttosto ingenua, però in questa impostazione storiografica c’è un nucleo di verità il quale corrisponde al fatto che l’evento cristiano non emerge dal nulla, ma è organico ad un contesto culturale senza il quale questo fenomeno non potrebbe essere compreso e come potrebbe dare una “speranza di salvezza”.
Il pensiero teologico nei secoli ha riflettuto, in termini assai variegati, su questo tema fondamentale: seguiamo anche noi le linee principali di questa riflessione. Il pensiero teologico nei secoli si è curato di studiare con impegno il fatto che l’evento cristiano [la buona notizia per la salvezza dell’Umanità, il vangelo] non emerge dal nulla ma s’inserisce e trae alimento dalla Storia della cultura umana e questo inserimento avviene in Età tardo-antica, nell’Età dei Classici.
A questo proposito un’importante svolta teologica, sul piano della ricerca filologica – anticipatrice del Concilio Ecumenico Vaticano II [1962-1965] –, avviene all’inizio del Novecento con la pubblicazione di un testo significativo [già citato in questo viaggio alcune settimane fa] scritto dal grande teologo Karl Barth autore del commento più famoso alla Lettera ai Romani. In quest’opera fondamentale del pensiero contemporaneo, intitolata L’Epistola ai Romani, Karl Barth mette in evidenza come Paolo di Tarso nel testo della Lettera ai Romani abbia insegnato che «tutto ciò che l’essere umano dice di Dio è l’essere umano che lo dice» e che, dunque, siccome si è espresso con le forme e con il linguaggio umano, l’evento cristiano rientra in pieno nell’ambito dell’esercizio della ragione critica, per cui questo evento deve essere studiato secondo la verità storica e alla luce delle varie confluenze culturali che lo hanno determinato, contrariamente [senza la “conoscenza”] non ci si salva.
La riflessione di Karl Barth parte dal ragionamento che Paolo di Tarso fa nella Lettera ai Romani sul tema del “peccato [omartias omartìas]”, un tema che abbiamo studiato nell’ultimo itinerario dell’anno 2012 [ricordate?]. La riflessione di Karl Barth su questo tema ha fatto sì che quest’opera sia diventata un punto di riferimento per il pensiero filosofico contemporaneo e sia considerata uno dei “manifesti” più significativi della corrente dell’Esistenzialismo.
Il teologo evangelico Karl Barth – nato a Basilea nel 1886 e morto nella stessa città nel 1968 – ha insegnato a Münster, a Bonn, a Tubinga, a Basilea e il testo de L’Epistola ai Romani è stato pubblicato a Berna nel 1919 [subito dopo la tragedia della prima guerra mondiale] e ha suscitato vivissimo interesse e violente polemiche, ed è stato ripubblicato nel 1922 con l’aggiunta di nuove riflessioni provocatorie in un’Europa in cui “esplodono – scrive Barth – grandi euforie patriottarde”. Barth elabora, attraverso il pensiero di Paolo, l’idea del “pessimismo necessario”, un concetto che diventa lo strumento per “non rimanere in superficie dove la vita è spettacolo di ricchezze e di miserie mentre – scrive Barth – in profondità la coscienza fa sempre i conti con le domande poste dal dramma dell’esistenza e della condizione umana, ma chi chiama le coscienze a riflettere?”. Secondo Barth è la figura di Gesù di Nazareth, attraverso la mediazione intellettuale dell’Epistolario di Paolo di Tarso, che chiama le coscienze a riflettere sul significato da dare all’esistenza umana, in particolare nella Lettera ai Romani che [come abbiamo studiato] affronta i temi cruciali dell’autorità, del tempo, della giustizia, della libertà e del peccato.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
In biblioteca potete richiedere “L’Epistola ai Romani” di Karl Barth al cui testo ci si avvicina con difficoltà, però potete leggere la “Prefazione alla prima edizione”: questa pagina è stata scritta dall’autore per portare Paolo di Tarso fuori dai recinti liturgici nei quali spesso è stato rinchiuso in modo da farlo diventare un compagno di viaggio sull’impegnativo cammino dell’esistenza alla ricerca di significati autentici da dare alla vita, significati che non siano quelli banali proposti di solito dai sistemi di potere per addormentare le coscienze...
Si parla spesso oggi di “risveglio delle coscienze” di fronte alla crisi: che cosa può risvegliare le coscienze secondo voi?...
Sintetizzate la vostra idea con una parola e scrivetela...
La figura di Gesù di Nazareth ha determinato un notevole “scatto creativo” nella storia dell’intelletto umano proprio perché anche lui è figlio di una cultura [la cultura dell’ebraismo apocalittico] del cui repertorio si è servito per esprimere il suo messaggio, e figli di una loro cultura [ebraico ellenistica] sono anche i discepoli che, come Paolo di Tarso, non hanno ascoltato direttamente Gesù ma ci hanno lasciato “memoria” della sua vita e del suo insegnamento attraverso una loro riflessione intellettuale soprattutto mediante l’uso della scrittura: una riflessione che unisce elementi culturali derivanti dalla Letteratura dell’Antico Testamento con elementi della cultura ellenistica. Sono nate e si sono sviluppate così, in Età tardo-antica, numerose correnti di pensiero che, attraverso gli strumenti della mediazione culturale, hanno trasfigurato il “Gesù storico [quel Gesù]” – del quale Paolo di Tarso, non sa quasi nulla – costruendo la figura del “Cristo della fede”, una figura che, a sua volta, si è strutturata assumendo volti diversi attraverso significative ricostruzioni letterarie [attraverso: lettere, vangeli canonici, vangeli apocrifi, opere didattiche e apocalittiche, catechismi] composte da molti autori in nome delle varie comunità dei credenti.
Abbiamo detto che l’evento cristiano non emerge dal nulla, ma è organico ad un contesto culturale senza il quale non potrebbe essere compreso e, quindi, dobbiamo domandarci: quali fenomeni culturali hanno influenzato la diffusione della “buona notizia” della risurrezione di Gesù sul territorio dell’Ecumene da Oriente verso Occidente? Da quali fenomeni culturali dipende la nascita, in Età tardo-antica, della Letteratura dei Vangeli?
Alla divulgazione del Cristianesimo in Età tardo-antica ha contribuito, prima di tutto, il complesso fenomeno – durato secoli, iniziato nel VI secolo a.C. – della migrazione forzata [a causa delle guerre e delle condizioni economiche] degli Ebrei fuori dalla Palestina: fenomeno che prende il nome di “diaspora ebraica”. Gli Ebrei della “diaspora” – della “dispersione” sul territorio dell’Ellenismo [a suo tempo abbiamo studiato questo fenomeno in molti dei suoi aspetti] – tengono un duplice comportamento apparentemente contraddittorio che si sintetizza nell’affermazione: “il massimo dell’integrazione [xenofilia xenofilia, la reciproca ospitale accoglienza tra diversi] nel minimo di assimilazione, cioè da una parte rifiutano in modo intransigente ogni contaminazione con il modo ellenico [coltivano la “perugia perugìa, la separatezza in nome della purezza” perché assimilarsi significa “perdere l’identità”] e, quindi, difendono ad oltranza la loro tradizione soprattutto rituale ma dall’altra sono curiosi della cultura greca e cercano la conciliazione di questa solida cultura con i valori religiosi dell’ebraismo.
Il fenomeno più importante in questo senso è, tra il 250 ed il 50 circa a.C., la traduzione in greco, avvenuta ad Alessandria d’Egitto [all’ombra della grande Biblioteca alessandrina], dei Libri dell’Antico Testamento. Questo avvenimento è l’evento culturale più importante dell’Ellenismo ed è anche una delle operazioni intellettuali più significative della Storia del Pensiero Umano, e voi sapete [perché abbiamo studiato questo complesso avvenimento, soprattutto lo scontro, fecondo sul piano letterario, tra controtraduzionisti e filotraduzionisti] che questa traduzione è stata chiamata dei LXX [Settanta] perché, secondo una leggenda ne sarebbero autori, in settanta giorni, settanta saggi ispirati da Dio. Questo fatto testimonia tre cose: che gli Ebrei di Alessandria [e della diaspora in generale] non conoscono più la lingua ebraica perché ormai parlano e pensano in greco, che, però, il testo fondamentale della loro vita rimane la Bibbia e che la “conoscenza” e la “sapienza” sono i motori della promozione umana e sono gli strumenti per essere [saggi] eredi delle cose divine.
Questi tre elementi – la lingua greca, la Letteratura biblica e il valore della “conoscenza” – li troviamo ben sintetizzati in uno dei capolavori della Storia del Pensiero Umano: il Libro della Sapienza [l’evento evangelico non nasce dal nulla]. Il Libro della Sapienza è l’esempio più significativo dell’integrazione tra la cultura ebraica [giudaico-alessandrina] e la cultura greca: un’integrazione che influisce positivamente sulla successiva diffusione del cristianesimo in Età tardo-antica. L’autore del Libro della Sapienza è un intellettuale ebreo-alessandrino che ha scritto questo testo in greco tra il 30 e il 50 a.C., nell’Età di Giulio Cesare e di Augusto [alle soglie dell’Epoca tardo-antica], e il testo di quest’opera allude continuamente alla cultura greca, ai poemi di Omero, alle opere sociali del poeta Esiodo, ai Dialoghi di Platone e alla Fisica di Aristotele. Poi cita il re Salomone e lo fa parlare in prima persona come esempio idealizzato di buon governo perché Salomone chiede a Dio il dono della “sapienza” sapendo che è “dalla sapienza che nasce la giustizia”. Paolo di Tarso conosce bene il Libro della Sapienza e allude spesso a questo testo nel suo Epistolario.
L’incipit di questo Libro – che tratta di come si debba gestire il potere politico in modo che non si formi la “casta dei governanti” [un tema di stringente attualità] – è ammirevole perché comincia con una serie di esortazioni esemplari: «Amate la giustizia voi che governate il mondo …Chi ragiona in modo ambiguo si allontana da Dio …La sapienza non può entrare in un cuore malizioso».
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Utilizzate la Bibbia che avete nella vostra biblioteca domestica e leggete o rileggete i capitoli 6-7-8 e 9 del “Libro della Sapienza” [sono tre pagine], in particolare ponete attenzione alle parole dal versetto 22 al versetto 30 del capitolo 7 perché formano un bellissimo pezzo di poesia in lode della “sapienza” che va periodicamente riletto: tra questi versi scegliete la frase chi vi piace di più e scrivetela per la biblioteca itinerante…
La traduzione e la composizione in greco dei Libri della Bibbia porta anche ad elaborare un’interpretazione dei testi di carattere “allegorico”, cioè un criterio di lettura che, al di là del significato letterale del testo, cerca in esso un senso più ampio che ha come suo centro e come suo protagonista non il popolo d’Israele ma l’anima di ogni essere umano, e così i personaggi della Bibbia vengono interpretati come incarnazioni di atteggiamenti morali di carattere universale e come raffigurazioni allegoriche delle virtù e dei vizi umani: Paolo di Tarso è un ebreo-ellenista che cresce con questa mentalità [senza il fenomeno dell’interpretazione allegorica non esisterebbe la Letteratura dei Vangeli].
L’interpretazione dei testi biblici in chiave “allegorica” dà origine, ad Alessandria, ad un movimento di pensiero che prende il nome di “giudaismo ellenistico-alessandrino”. L’esponente più autorevole del “giudaismo alessandrino” è Filone di Alessandria [25 a.C. circa - 45 d.C., quindi contemporaneo di Gesù di Nazareth e di Paolo di Tarso] un intellettuale appartenente ad un’autorevole famiglia ebrea della diaspora in Egitto che ha scritto molte opere di commento ai Libri della Bibbia [soprattutto del Pentateuco] in una prosa [la koine koiné di Filone Alessandrino] molto elegante, colta, eloquente, aristocratica perché ha ricevuto un’educazione classico-umanistica molto solida basata sulle opere di Platone e di Aristotele. Filone nelle sue opere codifica il “metodo allegorico” che, di lì a poco, verrà ben utilizzato da Paolo di Tarso [si pensa che Paolo conosca le opere di Filone] quando, nei testi del suo Epistolario, interpreta in chiave “evangelica” le figure bibliche di Adamo, di Abramo e di Mosè. Filone Alessandrino attua una sintesi fra i valori della Legge mosaica [la toràh], il significato che hanno le figure della Letteratura dell’Antico Testamento e la filosofia greca di stampo neoplatonico.
Filone, abbiamo detto, è autore di innumerevoli scritti di cui ci restano per intero, o in ampi frammenti, 36 opere in 42 libri, pervenuteci in tre lingue diverse: greco, armeno e latino e, per piccoli frammenti, anche in lingua araba. Nell’opera intitolata L’Erede delle cose divine Filone ripercorre la vicenda biblica di Abramo e commenta il suo viaggio verso la “terra promessa” presentandolo, in chiave allegorica, come il viaggio di ogni persona [di ogni anima, di ogni intelletto] verso Dio. “L’anima – scrive Filone – cerca la compiutezza spirituale, e lotta strenuamente per raggiungerla e per conquistarla”. La storia di Abramo assurge, dunque, a modello [è la metafora] di ogni esperienza spirituale. L’Erede delle cose divine è uno degli scritti più avvincenti e più profondi della cultura classica dell’Età tardo-antica. Filone scrive che Abramo è l’erede della cose divine e l’erede è “colui che è degno dei doni spirituali di Dio” e Paolo di Tarso nel capitolo 4 della Lettera ai Romani [che non si finisce mai di commentare] fa lo stesso ragionamento per introdurre il “vero erede [il nuovo Abramo]”, Gesù Cristo. L’erede – afferma Filone – è la persona che rinuncia a ciò che è materiale per raggiungere il Logos [la Parola, il Pensiero di Dio], per acquisire la pace, la serenità, la grazia divina e soprattutto la sapienza che si manifesta nella capacità di interpretare metaforicamente la poesia [la scrittura] biblica. La storia di Abramo – raccontata nel Libro della Genesi dal capitolo 12 al capitolo 25 – rappresenta la storia dell’anima [di ogni anima] che cerca la sua compiutezza [in greco “teleios téleios”]: il significato della storia di Abramo diventa per Filone il modello di un itinerario che deve percorrere ogni persona che sia in cerca di perfezione, di Assoluto e in questo ragionamento s’incontrano la cultura ebraica in rinnovamento, quella giudaico-cristiana in gestazione e il pensiero neoplatonico in elaborazione.
Secondo Filone Alessandrino [così come secondo Paolo di Tarso] i personaggi biblici di Adamo, di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e di Mosè sono figure metaforiche che rappresentano la persona umana mentre si pone di fronte agli interrogativi dell’esistenza e cerca la via della salvezza che corrisponde alla “via della conoscenza”. La “conoscenza” è lo strumento di liberazione che permette di conquistare la saggezza il cui frutto è la felicità: cercare “momenti di felicità” è, secondo il pensiero di Filone Alessandrino [e di Paolo di Tarso], oltre che una necessità di carattere anche teologico, un vero e proprio dovere. Per gli antichi scrivani d’Israele, per Filone Alessandrino, per Paolo di Tarso e per tutti i Classici greci e latini la “conoscenza” è una virtù che va esaltata, mentre l’ignoranza è un peccato da condannare senza mezzi termini [Le opere di Filone contribuiscono alla nascita della Letteratura dei Vangeli].
Uno dei Libri dell’Antico Testamento su cui si sono formati Gesù di Nazareth, Filone Alessandrino [che ne cita spesso il testo], Paolo di Tarso [che utilizza i concetti fondamentali che questo testo contiene] e diverse generazioni di intellettuali cristiani e non cristiani è il Libro di Daniele composto nel II secolo a.C. e chiosato [sono state fatte delle aggiunte] in lingua greca in età tardo-antica ad Alessandria. Il Libro di Daniele è stato scritto in un momento drammatico di crisi politica quando la Palestina e lo Stato d’Israele vengono annessi al Regno di Siria governato dal 175 a.C. dal re tiranno senza scrupoli Antioco IV Epifane – che nel Libro viene rappresentato col nome di Nabucodonosor re di Babilonia – il quale, come tutti i monarchi dei Regni ellenistici [Egitto, Siria, Macedonia] nati dalla disgregazione dell’Impero di Alessandro Magno, vuole farsi venerare come un Dio: questo concetto è esecrabile per gli Ebrei e il personaggio di Daniele rappresenta l’opposizione nei confronti di questa perversa mentalità.
L’autore del Libro di Daniele sostiene due idee fondamentali: che nessun uomo può farsi venerare come un Dio e che Dio, se vuole, può adottare una persona [un profeta] per additare la via della salvezza e per rivelare un messaggio di liberazione e Dio, se vuole, può anche far risorgere questa persona che lui ha adottato. La seconda parte del Libro riferisce le quattro visioni, piene di simboli solo apparentemente misteriosi, che Daniele ha avuto e il testo è scritto con uno stile che viene chiamato “apocalittico” – dalla parola greca “apocalisse” che significa “rivelazione” –: questo stile avrà una grande risonanza nei secoli successivi specialmente in Età tardo-antica [Il Libro di Daniele contribuisce in modo determinante alla nascita della Letteratura dei Vangeli].
Il Libro di Daniele – così come il Libro della Sapienza – è uno degli oggetti per mezzo del quale noi possiamo capire che l’evento cristiano non emerge dal nulla, ma è organico ad un contesto culturale senza il quale non potrebbe essere compreso.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Dopo aver consultato l’indice della vostra Bibbia leggete o rileggete il “Libro di Daniele” che è formato da un bellissimo testo narrativo che assomiglia ad un romanzo e del quale alcuni episodi sono molto noti…
Il Libro è suddiviso in dodici brevi capitoli contenuti in una decina di pagine, leggetele…
Siamo entrate ed entrati in contatto con il Libro di Daniele per sottolineare il fatto che per tutti gli scrivani d’Israele dell’Età antica e per tutti i Classici greci e latini di Epoca tardo-antica la “conoscenza” è una virtù che va esaltata, mentre l’ignoranza è un peccato da condannare senza mezzi termini; c’è la consapevolezza che la “via della conoscenza” è la “via della salvezza” e nel Libro di Daniele si legge: «I sapienti rifulgeranno come lo splendore della distesa celeste …e la conoscenza aumenterà, mentre chi non impara perde la propria vita … e un ignorante può essere stracciato come un pesce … perché la disgrazia viene soltanto a causa dell’ignoranza, e non dovremmo concedere nessuna misericordia a chi è privo di conoscenza: senza conoscenza, come si possono raccogliere i frutti del discernimento?».
A proposito della raccolta dei “frutti del discernimento” leggiamo un significativo frammento da L’erede delle cose divine di Filone Alessandrino per renderci conto dell’impasto tra cultura giudaico-ellenistica e cultura neoplatonica: un impasto nel quale si amalgamerà la predicazione della “buona notizia” della risurrezione di Gesù di Nazareth [l’evento evangelico non emerge dal nulla]. Filone sa amalgamare anche magistralmente sapienza poetica e competenza filosofica.
LEGERE MULTUM….
Filone Alessandrino, L’erede delle cose divine
L’anima dell’erede delle cose divine è come un cielo sulla terra.
[86] Dunque Dio condusse Abramo fuori di sé e disse: «Volgi i tuoi occhi al cielo e conta le stelle se mai riuscirai a contarle. Così sarà la tua discendenza» (Gen. 15, 5). Assai giustamente disse «così sarà» e non «così numerosa», come se dovesse essere dello stesso numero delle stelle. Infatti, non voleva solo riferirsi alla quantità, ma a molte altre cose che portano alla felicità nella sua completezza e perfezione.
[87] Dunque Egli dice che sarà «così», cioè celeste; «così», cioè piena di luce trasparente e pura, giacché nel cielo non c’è tenebra, simile in sommo grado alle stelle, ben ordinata, seguace di un ordine indefettibile, che si mantiene immobile ed identico a sé. [88] Infatti, Egli vuol far vedere che l’anima del sapiente è una imitazione del cielo o, per dirla con una immagine iperbolica (sproporzionata), che è un cielo sulla terra, perché in lei, come nell’etere, ci sono realtà pure, movimenti ordinati, danze armoniose, divine rivoluzioni, raggi di virtù in sommo grado simili alle stelle e luminosissimi. E se nessuno riesce a contare il numero delle stelle sensibili, come potrebbe contare quello delle intelligibili? [89] Infatti, di tanto differisce, io penso, il giudizio di chi giudica meglio da quello di chi giudica peggio – l’intelletto, infatti, è migliore della sensazione, e la sensazione, quando giudica, è meno penetrante dell’intelligenza – di altrettanto differiscono anche le cose giudicate. Allo stesso modo, il numero delle realtà intelligibili supera di gran lunga quello delle realtà sensibili. In effetti, gli occhi del corpo non sono che una minima parte rispetto all’occhio dell’anima; se l’occhio dell’anima assomiglia a un sole, gli altri sono come lumicini abituati ad essere accesi e spenti. …
Quindi, in Età tardo-antica il Cristianesimo per la sua diffusione sul territorio dell’Impero romano può avvalersi di due fenomeni culturali fondamentali: la “traduzione in greco” dei Libri della Bibbia – un apparato letterario che diventa comprensibile ad ampio raggio, che suscita curiosità e che si diffonde in fretta nell’Ecumene ellenistica – e lo “sviluppo del metodo allegorico” per interpretare i testi biblici non più in “senso nazionalistico” ma in “senso universale” per cui secondo Filone Alessandrino e poi secondo Paolo di Tarso i personaggi biblici di Adamo, di Abramo e di Mosè sono figure metaforiche che rappresentano la persona umana mentre si pone di fronte agli interrogativi dell’esistenza e cerca la via della salvezza che corrisponde alla “via della conoscenza”. La “conoscenza” – sia per gli antichi scrivani ebraici che per gli scrittori del movimento giudaico-alessandrino, che per gli autori della letteratura dei vangeli e per i classici greci e latini – è lo strumento di liberazione per eccellenza che permette di coltivare la “sapienza” e di conquistare la “saggezza”.
Altro elemento importate per la diffusione del cristianesimo in Età tardo-antica – oltre al fenomeno della traduzione in greco dei Libri della Bibbia e della lettura allegorica di questi testi – è dato dal rapporto intellettuale che nasce e si sviluppa tra chi trasmette la “buona notizia” della risurrezione di Gesù [gli autori della Letteratura dei Vangeli] e il pensiero greco. Noi sappiamo che le maggiori Scuole ellenistiche [epicuree, stoiche, scettiche, eclettiche] sono anch’esse portatrici di dottrine di salvezza e sono organizzate come vere e proprie “ekklesie ekklesìe [chiese]”, come assemblee, con i loro dogmi e con la loro ansia di non contaminarsi con l’impuro sistema imperialistico romano.
Dai dati che possediamo sappiamo che Paolo di Tarso è il primo “apostolo [inviato speciale]” a confrontarsi con i filosofi greci e latini: non è stato un confronto facile, non è stato semplice introdurre il discorso sul tema della “croce di Gesù Nazareno come strumento di salvezza” e l’eco di queste difficoltà noi lo conosciamo attraverso il vivace racconto degli Atti degli Apostoli, al capitolo 17, quando Paolo – siamo intorno all’anno 50 – ad Atene comincia a discutere non solo nella sinagoga con gli ebrei della diaspora ma anche “sulla piazza principale [sull’agorà] con quelli che incontrava” e poi si mette a ragionare anche con alcuni filosofi epicurei e stoici ma quelli che lo ascoltavano dicevano: “Con questi strani discorsi che cosa vorrà mai insegnare questo ciarlatano?”. Il capitolo 17 degli Atti degli Apostoli ci racconta – circa quarant’anni dopo questo presunto avvenimento che ha un carattere allegorico – che Paolo si prenota per tenere una conferenza sull’Areopago, dove avvenivano i dibattiti di un certo rilievo. «Tutti gli Ateniesi infatti e gli stranieri colà residenti – scrive, con una certa malizia, l’autore degli Atti degli Apostoli – non avevano passa-tempo più gradito che parlare e sentir parlare». Che cosa dice – secondo il testo degli Atti – Paolo di Tarso dal pulpito prestigioso dell’Areopago agli intellettuali ateniesi? Rileggiamolo questo brano per rinfrescarci la memoria e per aprire la via di una riflessione.
LEGERE MULTUM….
Atti degli Apostoli 17
Cittadini ateniesi, vedo che in tutto siete molto timorati degli dèi. Passando infatti ed osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato anche un’ara con l’iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio. Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è signore del cielo e della terra, non dimora in templi costruiti dalle mani dell’uomo né dalle mani dell’uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa, essendo lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa. Egli creò da un solo essere tutte le nazioni, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio, perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi. In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti [Paolo cita i poeti Epimenide e Arato per dimostrare che conosce la Letteratura greca] hanno detto: «Poiché di lui stirpe noi siamo». Essendo noi dunque stirpe di Dio, non dobbiamo pensare che la divinità sia simile all’oro, all’argento e alla pietra, che porti l’impronta dell’arte e dell’immaginazione umana. Dopo esser passato sopra ai tempi dell’ignoranza, ora Dio ordina a tutte le persone di tutti i luoghi di ravvedersi, poiché egli ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare la terra con giustizia per mezzo di un uomo che egli ha adottato, dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti [Paolo parafrasa il Libro di Daniele]. Quando gli ascoltatori sentirono parlare di risurrezione [anastasis] di morti, con un ironico sorriso sulle labbra, dissero: «Ti sentiremo un’altra volta su questo argomento». …
Nella reazione di questi intellettuali ateniesi al discorso di Paolo c’è una ragione molto seria di cui solo di tanto in tanto, nella millenaria diatriba tra la fede e la filosofia, si è tenuto conto e c’è da dire che ne hanno sempre tenuto conto le teste pensanti più lucide [tra costoro molti hanno vissuto a Firenze] e cito per tutti padre Ernesto Balducci che ha sempre lucidamente sostenuto che “ci siamo cristianizzati nell’ignoranza senza mai studiare il grande processo culturale, fatto soprattutto di significative e fruttuose polemiche intellettuali [la polemica intellettuale è un formidabile meccanismo di crescita], attraverso il quale la cristianizzazione è avvenuta”.
L’autore del testo degli Atti degli Apostoli afferma che Paolo si è accorto del carattere equivoco del suo intervento in campo filosofico [nelle Lettere Paolo non parla di questo episodio e questa pagina è certamente frutto della riflessione dell’autore degli Atti]: da Atene Paolo va a Corinto [e questo è confermato dal suo Epistolario] dove il suo uditorio è formato da povera gente [ricordiamoci che Paolo si mantiene col lavoro delle sue mani e vive come un proletario] e questo gli consente di predicare senza dover usare gli accorgimenti del “sapere umano” e gli permette di annunciare soltanto “Gesù crocifisso e risorto”.
La differenza e la difficoltà di comunicazione tra Paolo di Tarso e i filosofi ateniesi – che l’autore del capitolo 17 degli Atti degli Apostoli ci fa riscontrare – sta nella diversità delle forme del sapere che, nella prima metà del I secolo, l’uno e gli altri rappresentano: Paolo parla e scrive non per insegnare una “dottrina”, ma per annunciare la “buona notizia” di un fatto storico avvenuto di recente che apre una prospettiva per il futuro e che è solidamente ancorato al passato attraverso un vasto repertorio di scrittura. Quello che l’uditorio degli intellettuali ateniesi si attendeva da Paolo era la presentazione di una “dottrina” sul modello delle Scuole ellenistiche, esposta per via dimostrativa, attraverso una riflessione di carattere logico, razionale, etico. Paolo dimostra di essere una persona di cultura – cita la Letteratura greca ed ebraica –ma vuole rompere uno schema: la “vera filosofia” per lui non è una “dottrina ben regolamentata [quando gli chiedono di dare delle regole si irrita]” ma è la “buona notizia della risurrezione perché cambia la qualità della vita e la regola è quella di manifestare l’amore solidale”.
La prima importante questione culturale che, in Età tardo-antica, i “primi cristiani” hanno dovuto affrontare è stata quella legata all’esigenza di dare un valore di “dottrina ben regolamentata” all’annuncio della “buona notizia della risurrezione” che, giorno dopo giorno, rischiava di evaporare e di perdere la sua carica di novità [le notizie invecchiano velocemente dalla mattina alla sera], anche perché senza regole, senza precetti, e senza l’impronta data dalla scrittura, i modi secondo i quali l’amore solidale si realizza diventano evanescenti.
Le studiose e gli studiosi di filologia sostengono che gli autori del testo degli Atti degli Apostoli – il testo degli Atti è frutto del lavoro della “Scuola ellenistica clementina” fondata a Roma intorno alla metà degli anni 90 dal primo papa storico, il primo dei Padri Apostolici, Clemente Romano che noi rincontreremo prossimamente [e dico rincontreremo perché molte e molti di voi lo conoscono bene questo personaggio ma dobbiamo rinfrescarci la memoria] perché le opere dei Padri Apostolici [Clemente, Ignazio e Policarpo] sono capolavori letterari dell’Età tardo-antica –, a distanza di circa quarant’anni, abbiano composto il brano dell’intervento infruttuoso di Paolo ad Atene sull’Areopago per avvalorare il fatto che la “dottrina” è necessaria e, non a caso, gli Atti degli Apostoli è il primo “catechismo” della Chiesa di Roma, e per costruire una “dottrina efficace” è utile e necessario fare appello al pensiero greco delle Scuole ellenistiche [tanto epicuree quanto stoiche] che i “catechismi” li hanno inventati: il termine “katekon kàtekon” significa “dovere” ed è una parola-chiave del pensiero epicureo, stoico, scettico ed eclettico.
Naturalmente tra i “primi cristiani” c’è chi la pensa diversamente sul far appello alla cultura greca e noi sappiamo che l’annuncio della “buona notizia [del vangelo]” si propaga sul territorio dell’Ecumene ellenistica nella diversità di pensiero data dalla cultura di base dei propagatori che – anche inconsapevolmente – fanno avanzare il “messaggio cristiano” con quella straordinaria macchina che è la “polemica intellettuale”, che si scatena in modo molto vivace e spesso anche violento. Quindi, dobbiamo fare ordine nella nostra mente in relazione al fatto che l’evento cristiano non emerge dal nulla, ma è organico ad un contesto culturale senza il quale non potrebbe essere compreso nella sua pienezza e nella sua eterogeneità [molteplicità] perché il cristianesimo dell’Epoca tardo-antica non ha nulla di monolitico ma è fortemente diviso e questa “divisione”, che scaturisce dalla “polemica intellettuale”, fa sì che la “buona notizia, il vangelo [euanghelon euanghelon]” si propaghi più rapidamente.
Nel cristianesimo del I secolo, durante il primo periodo dell’Epoca tardo-antica, si delineano due linee di tendenza: la prima [filo-ellenistica] è stata chiamata “conciliativa” e mira ad assorbire il patrimonio del sapere filosofico greco all’interno della “nuova dottrina” come se la cultura greca fosse stata la preparazione intellettuale del cristianesimo, la seconda linea di tendenza [anti-ellenistica] è stata chiamata della “polemica intransigente” e, in nome della verità annunciata da Gesù Cristo, condanna ogni altro sapere come espressione di Satana, principe della menzogna. Chi rappresenta la tendenza “conciliativa [filo-ellenistica]” e chi rappresenta la tendenza della “polemica intransigente [anti-ellenistica]”? Nel prossimo, e nei prossimi itinerari, affronteremo i temi che emergono da queste domande.
E ora concludiamo con un guizzo che si presenta come un’anteprima in funzione della didattica della lettura e della scrittura. Abbiamo iniziato questo itinerario con il Satyricon di Petronio e abbiamo detto che la lettura di quest’opera costituisce un importante esercizio propedeutico in funzione della didattica della lettura e della scrittura perché raccoglie molti elementi che verranno in seguito sviluppati nel genere del romanzo moderno e contemporaneo. Il frammento che stiamo per leggere contiene una citazione [la citazione di una “sentenza”] che proviene dal testo del Satyricon e l’autore la utilizza per farci capire che anche lui guarda la società che lo circonda con lo stesso spirito disincantato con cui Petronio Arbitro guarda la sua.
La scorsa settimana nel brano che descrive La cena di Trimalcione abbiamo letto che ad un certo punto viene portato in tavola un grande vassoio con dentro un cinghiale col berretto in testa sul quale è scritto un motto [una sentenza]: “Nemo me impune lacessit [Nessuno mi sfida senza correre un rischio]”. E ora leggiamo:
LEGERE MULTUM….
Somerset Maugham, La diva Julia
La porta si aprì e Michael Gosselyn alzò gli occhi. Julia entrò.
«Ehilà! Un momento, finisco di firmare qualche lettera».
«Fai con comodo. Sono venuta solo per vedere che posti sono stati mandati ai Dennorant. Cosa ci fa qui quel giovanotto?». Adattando istintivamente, da attrice consumata, il gesto alle parole, Julia accennò con la bella testa alla stanza per cui era passata. «È il ragioniere. È qui da tre giorni».
... continua la lettura ...
Abbiamo letto l’incipit di un romanzo il cui titolo è evocativo: noi, strada facendo, abbiamo già incontrato una “diva Julia”, ricordate?
Lasciamo in sospeso tutte le possibili domande che, in questo momento, ci vengono in mente perché per rispondere è doveroso seguire la scia dell’Alfabetizzazione e dell’Apprendimento permanente perché l’Alfabetizzazione culturale e funzionale è un bene comune [come una raccolta di novelle] e l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona: per questo la Scuola è qui con il suo carattere “peregrinante” per esortare ad investire in intelligenza.
Il viaggio continua…