Prof. Giuseppe Nibbi La sapienza poetica e filosofica dell’età tardo-antica 13-14-15 febbraio 2013
Inizio della traduzione latina del Vangelo secondo Marco
SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ TARDO-ANTICA
SI SVILUPPA L’ATTIVITà DELLA TENDENZA CONCILIATIVA
CHE INSERISCE L’EVENTO CRISTIANO NELLA STORIA DELLA CULTURA GRECA ...
Siamo in viaggio – questo è il quindicesimo itinerario – per attraversare il “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età tardo-antica”. Il “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età tardo-antica” è [come sapete] una vasta area di confine che si estende tra il grande bacino della cultura del mondo antico e l’enorme contenitore della cultura del mondo medioevale e questo spazio intermedio si dilata nel tempo per circa cinque secoli, dal I al V secolo d.C. perché le indigeste parole-chiave con cui comincia a finire l’Età antica prolungano la loro influenza nel tempo e le idee-cardine che caratterizzano l’Età medioevale sono soggette ad un lungo processo di incubazione.
In queste settimane – viaggiando nel primo periodo dell’Età tardo-antica [nel I secolo] – abbiamo incontrato “personaggi” e studiato “opere” contenute in un importante e assai vasto [per questo non riusciamo a staccarcene] paesaggio intellettuale, quello della cosiddetta “Età giulio-claudia” che dura circa un secolo, dal 30 a.C. [quando tutto il potere finisce nelle mani di Augusto] al 68 d.C. [l’anno della morte di Nerone] e, come sappiamo, quest’epoca prende il nome della dinastia dei primi cinque imperatori romani: Augusto, Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone [e “ce li siamo spupazzati tutti e cinque”, direbbe il giovane Holden].
Abbiamo detto la scorsa settimana che contiguo a questo paesaggio intellettuale ce n’è un altro [e sappiamo che Paolo di Tarso fa il pendolare tra l’uno e l’altro] e ora, mentre prendiamo il passo sull’itinerario di questa sera per spostarci di fronte a questo nuovo paesaggio, ci dobbiamo occupare della fine di Nerone [uno dei personaggi più discussi della Storia] per conoscere come si conclude la parabola della famiglia giulio-claudia al potere dal 30 a.C. e per perimetrare [se così si può dire], dal punto di vista storico, lo scenario al quale ci stiamo avvicinando.
Le scelte politiche e amministrative che Nerone fa tra il 64 [la data del famoso incendio di Roma: una questione che non è mai stata chiarita del tutto] e il 68, e tutta una serie di gesti crudeli [la responsabilità nella morte della moglie Ottavia, del fratellastro Britannico, della madre Agrippina, di Seneca, di Lucano, di Petronio e così via], creano un malcontento generale fra gli stessi pretoriani [“Lo tradisce perfino il feroce Tigellino”, così canta Ettore Petrolini formidabile interprete del celebre film “Nerone” di Alessandro Blasetti del 1930] e soprattutto nelle alte gerarchie dell’esercito. Per giunta in Palestina scoppia la cruenta guerra giudaica [gli Ebrei si ribellano e i cacciano i Romani da Gerusalemme e sconfiggono la guarnigione romana in Siria] e il generale Tito Flavio Vespasiano – coadiuvato da suo figlio Tito – è costretto ad intervenire con il grosso dell’esercito.
Da qui vediamo il primo scorcio del nuovo paesaggio intellettuale al quale ci stiamo avvicinando e dobbiamo subito segnare il passo per aprire una parentesi in funzione della didattica della lettura e della scrittura perché ci troviamo di fronte ad una importantissima opera dell’Età tardo-antica il cui testo è fondamentale per capire gli avvenimenti e lo spirito “ambiguo” di questo periodo storico: quest’opera s’intitola La guerra giudaica e ne è autore un personaggio che si chiama Giuseppe Flavio il quale ha vissuto in bilico tra il mondo romano che vuole affermare il proprio diritto ad assoggettare i popoli della Terra in nome del sistema imperialista e il mondo ebraico che lotta fieramente per il diritto alla propria indipendenza in nome della propria fede religiosa. Chi è Giuseppe Flavio?
Giuseppe Flavio, l’autore dell’opera intitolata La guerra giudaica, è nato a Gerusalemme nel 37 in una famiglia di grandi sacerdoti ebrei da parte del padre, mentre sua madre discende dalla famiglia reale degli Asmonei. Il nobile Giuseppe nasce poco prima della grande ribellione dell’anno 40 quando Caligola – che aveva la mania di farsi venerare come un dio – vuole far collocare una sua grande statua nel Tempio di Gerusalemme: gli Ebrei si sollevano, occupano il Tempio e fanno fallire l’operazione. Con l’avvento al potere di Claudio la situazione in Palestina si tranquillizza e Giuseppe – in questo clima di relativa calma – può crescere dedicandosi allo studio della cultura ebraica e soprattutto della cultura ellenistica: Giuseppe sa ben parlare e scrivere in aramaico [la lingua nazionale ebraica, la sua lingua materna], impara a parlare e a scrivere correttamente in greco [la lingua della cultura ellenistica] e in latino [la lingua del potere politico che domina sull’Ecumene]. Giuseppe segue le vicende dei vari gruppi sociali e politici ebraici: dei Farisei [la classe media degli artigiani, dei commercianti, dei rabbi, depositari della “perugìa, della separatezza in nome della purezza], dei Sadducei [la classe sacerdotale che scende a patti con i romani], dei Pubblicani [oggi diremmo: i faccendieri, i riscossori dei tributi e collaborazionisti dei Romani], degli Zeloti [il partito integralista che conduce la lotta armata], e negli anni 50 fa un’esperienza ascetica con gli Esseni, i monaci che hanno abbandonato la città e si sono ritirati a pregare e a studiare la Sacra Scrittura vivendo nelle grotte del deserto intorno al Mar Morto. Nel 64 Giuseppe viene scelto dal Sinedrio [l’organo di rappresentanza della classe sacerdotale ebraica] per andare a Roma a difendere in tribunale alcuni sacerdoti che erano stati denunciati per attività anti-romana. Giuseppe a Roma [sbarca a Pozzuoli dopo un viaggio per nave piuttosto travagliato] si trova a suo agio e si dimostra molto abile nel perorare la causa [i sacerdoti, dopo l’arringa di Giuseppe, vengono assolti dal procuratore Antonio Felice] e capisce che contro i Romani – troppo forti militarmente – bisogna usare l’intelligenza più che la violenza e a Roma conosce molte persone importanti tra cui un attore mimico di origine ebraica – l’attività teatrale vera e propria a Roma era cessata e resisteva la pantomima – di nome Alituro, amico di Poppea [l’amante e poi moglie di Nerone] e protetto dall’imperatore il quale lo presenta a Nerone: è un incontro breve e poco cordiale [Nerone teme gli Ebrei]. Nel 65 Giuseppe torna a Gerusalemme dove trova una situazione di grande tensione perché gli Zeloti, e anche tutti gli altri gruppi politici [che hanno stipulato un accordo], preparano l’insurrezione. Con un certo disappunto, perché non riesce a convincere i suoi compatrioti che si tratta di una scelta suicida, Giuseppe partecipa alla rivolta e ha un ruolo tanto come comandante delle operazioni militari in Galilea quanto come addetto alle trattative con il nemico finché, dopo l’espugnazione della città di Iotapata da parte di Vespasiano, di cui Giuseppe comandava la difesa, viene fatto prigioniero. Il comandante giudeo Giuseppe e il generale Vespasiano si conoscono già [si erano conosciuti a Roma e incontrati molte volte per negoziare] e l’autorevole prigioniero ebreo nell’arrendersi fa una dichiarazione nella quale sostiene che probabilmente la Provvidenza aveva scelto l’impero di Roma per governare il mondo: questa dichiarazione “ambigua” piace al generale vincitore che invita Giuseppe a diventare uno dei suoi consiglieri e lui accetta. Oggi tutte le studiose e gli studiosi di filologia ritengono che questa affermazione più che un tradimento nei confronti del suo popolo sia stata una mossa strategica per poter governare la “memoria”: che cosa significa? Intanto Giuseppe convince Vespasiano ad andare a Roma – il Senato lo ha convocato – ad accettare la carica di imperatore, e poi entra a far parte della sua famiglia e assume il nome di Flavio, il nome del suo “patronus [protettore]” che appartiene alla gens Flavia, accostando un nome “profano” al suo nome “sacro”.
Giuseppe Flavio con questo nome [con questa “integrazione anagrafica”] – che lo mette al riparo da possibili censure – può “governare la memoria” e raggiunge questo obiettivo scrivendo l’opera intitolata La guerra giudaica. Quest’opera è ambientata nello stesso paesaggio di città, campagne e deserti dove, pochi anni prima, aveva predicato Gesù di Nazareth e questo testo, che ignora l’evento evangelico, fornisce però alle studiose e agli studiosi [esegeti, filologi, sociologi, antropologi] molte notizie utili per capire il contesto della Letteratura dei Vangeli. Giuseppe Flavio ne La guerra giudaica descrive, in un crescendo drammatico di battaglie, assedi e suicidi di massa [come quello nella difesa della fortezza di Masada], ed esalta la resistenza dei suoi connazionali in nome della libertà. Quindi Giuseppe Flavio apparentemente celebra la vittoria dei Romani sugli Ebrei perché, in realtà, in modo implicito ma inequivocabile, esalta il disperato tentativo del suo popolo di sottrarsi al dominio romano e commisera l’esito disastroso della ribellione e denuncia [senza usare questo verbo ma facendolo sorgere nella mente della lettrice e del lettore] l’incendio e la distruzione del Tempio di Gerusalemme [il Tempio di Salomone, c’era l’arca dell’Alleanza, le tavole della Legge] da parte di Tito, un atto deprecabile. La guerra giudaica di Giuseppe Flavio – scritta in latino, in greco e in aramaico – è una importante opera di storiografia che ha il pregio di affrontare un tema fondamentale dell’Epoca tardo-antica, quello dei delicati rapporti politici, culturali e religiosi tra il centro [Roma, i Palazzi del potere] e la periferia dell’Impero, visti con gli occhi ed elaborati con la mente di un cittadino della “periferia”.
Giuseppe Flavio ha scritto altre importanti e utili opere per la ricerca storiografica: Antichità giudaiche, sugli usi e i costumi degli ebrei, Contro Apione, in cui contrasta con decisione l’antisemitismo di questo personaggio e la Vita, un’interessante opera autobiografica. Di Giuseppe Flavio non conosciamo la data precisa della morte che è avvenuta subito dopo l’anno 100.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Uno dei monumenti più famosi di Roma è l’Arco di Tito che fa l’apologia della vittoria romana sugli Ebrei ed esalta anche l’aver fatto bottino delle spoglie del Tempio di Salomone: quest’opera rappresenta l’esatto contrario de “La guerra giudaica” di Giuseppe Flavio…
Se consultate una guida di Roma potete leggere le notizie che riporta sull’Arco di Tito fatto erigere da Domiziano, e poi sulla rete si trovano le immagini di questo interessante monumento e le potete osservare: che cosa vi colpisce?… Basta un enunciato minimo – una o due righe di scrittura – per rispondere...
È utile leggere l’incipit de La guerra giudaica di Giuseppe Flavio: sono poche righe ma contengono molte allusioni su quelle che sono le intenzioni dell’autore.
LEGERE MULTUM….
Giuseppe Flavio, La guerra giudaica
La guerra dei giudei contro i romani - la più grande non soltanto dei nostri tempi, ma forse di tutte quelle fra città o fra nazioni di cui ci sia giunta notizia - alcuni la espongono con bell’arte, ma senza aver assistito ai fatti e solo combinando insieme racconti malsicuri e disparati, mentre altri, che invece vi assistettero, ne danno una narrazione falsata o per compiacere ai romani o in odio ai giudei, sì che nelle loro opere ricorre sempre ora un giudizio di condanna, ora di esaltazione, ma non vi è mai posto per la verità storica. Mi sono allora proposto di raccontarla io agli abitanti dell’impero romano, traducendo in greco un mio precedente scritto in lingua nazionale dedicato ai giudei residenti in Mesopotamia. Sono Giuseppe figlio di Mattia, di stirpe ebraica, sacerdote da Gerusalemme, che ho avuto parte attiva nelle prime fasi della guerra contro i romani e poi ho dovuto assistere di persona ai suoi drammatici successivi sviluppi. …
Stavamo dicendo, prima di dedicarci a questa digressione, che le scelte politiche e amministrative che Nerone fa tra il 64 il 68, accompagnate da tutta una serie di gesti crudeli, creano un malcontento generale per cui oltre che in Palestina scoppiano insurrezioni anche in Gallia e in Spagna dove le legioni di stanza in queste province compiono un atto dirompente: proclamano decaduto Nerone e acclamano imperatore il loro generale Galba il quale marcia su Roma. Nerone rimane solo e, spaventato, fugge nella villa di un suo liberto sulla via Nomentana e si fa uccidere dal suo segretario Epafrodito: è l’anno 68 e con lui termina la dinastia giulio-claudia che ha lasciato il segno [c’è chi dice sia un segno macchiato di sangue] nella Storia.
Con la morte di Nerone ha inizio una fase chiamata “anarchia militare” che dura due anni, il 68 e il 69, durante i quali i soldati delle legioni acclamano imperatori i loro generali: Galba, Ottone e Vitellio che combattono tra loro e muoiono tutti e tre di morte violenta eliminandosi a vicenda. L’ordine [se “ordine” si può chiamare] viene restaurato da un quarto generale [e lo abbiamo già incontrato] che si trova in Medio Oriente con il grosso dell’esercito a sedare la rivolta giudaica: Tito Flavio Vespasiano, il quale [anche su consiglio di Giuseppe Flavio] lascia il comando a suo figlio Tito e torna a Roma dove riceve dal Senato il titolo di Imperatore e con lui comincia la dinastia dei Flavi [che regna dal 69 al 96 con Vespasiano, Tito e Domiziano].
Tito Flavio Vespasiano in dieci anni di governo ripara molti danni fatti soprattutto dalla gestione schizofrenica di Nerone, cerca di far fronte al problema dell’istruzione – il sistema educativo era allo sbando – creando Scuole pubbliche con maestri stipendiati dallo Stato e per dare lavoro fa progettare e realizzare alcune grandi opere tra cui l’Anfiteatro Flavio, detto poi Colosseo, capace di contenere cinquantamila spettatori. Dal punto di vista istituzionale, per stabilizzare l’ordinamento imperiale che ormai si è imposto da circa un secolo, Vespasiano fa votare dal Senato una legge che introduce il sistema dinastico-ereditario per cui il potere imperiale [il titolo di Principe del Senato] si trasmette automaticamente di padre in figlio come se fosse una proprietà privata dell’imperatore.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Avete mai fatto visita al Colosseo?...
Scrivete quattro righe in proposito...
A Vespasiano succede il figlio Tito [dal 79 all’81] che viene ricordato per aver espugnato e depredato Gerusalemme e, paradossalmente, anche per la mitezza e la generosità per cui ha meritato di essere chiamato “Delizia del genere umano”, ma Tito non ha l’indole della persona clemente, recita ipocritamente questa parte per motivi politici, per passare alla Storia.
In proposito dobbiamo dire che esiste un dramma in tre atti di Pietro Metastasio [Pietro Trapassi, 1698-1782] intitolato La clemenza di Tito rappresentato a Vienna nel 1734 con la musica di Antonio Caldara [1670-1736]. Questo dramma è uno dei più noti del Metastasio perché è stato musicato da oltre una ventina di compositori attirati dal fatto che “la clemenza di Tito” celebrata da Metastasio è permeata di comicità e risulta puramente casuale: il poeta ironizza sul fatto che Tito si ostina a perdonare tutti quelli che congiurano contro di lui perché, per ironia della sorte o per fortuna sfacciata, nessuno riesce mai a colpirlo, e le donne che intrigano in questa storia si prendono gioco di lui senza che lui se ne accorga. Il dramma La clemenza di Tito è stato musicato anche da Wolfgang Amadeus Mozart [1756 1791] in soli diciotto giorni ed è stato rappresentato a Praga nel 1791 ed è un’opera che rivela momenti di bella purezza lirica.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Non è difficile trovare una registrazione del dramma “La clemenza di Tito” di Wolfgang Amadeus Mozart ed è possibile che sulla rete possiate accedere alla registrazione di una delle tante rappresentazioni di quest’opera: mettetevi alla ricerca…
Dobbiamo ricordare che durante il regno di Tito, nell’anno 79, una violenta eruzione del Vesuvio seppellisce le città di Pompei, di Ercolano e di Stabia: forse qualche divinità si è irritata per la distruzione di Gerusalemme?
A Tito succede il fratello minore Domiziano, un tipo avido e feroce che vuole trasformare l’Impero in una monarchia assoluta e fa eliminare tutti i Senatori, i tre quarti dell’assemblea, che gli si oppongono. Domiziano si circonda di delatori e, abusando della legge di lesa maestà, fa processare e uccidere i cittadini più ricchi per impadronirsi dei loro beni. Nel 96 finisce pugnalato in un attentato e il Senato ne condanna la memoria e fa cancellare il suo nome dai monumenti pubblici e, quindi, anche l’Età dei Flavi termina in modo drammatico e inquietante.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Nell’Overture de “La clemenza di Tito” – e poi in tutto il dramma – Wolfgang Amadeus Mozart sa ben esprimere questo elemento inquietante che s’insinua prepotentemente nell’impianto lirico dell’opera…
Ascoltate l’Overture de “La clemenza di Tito” che sintetizza questo stato d’animo...
Dopo la morte violenta di Domiziano, per impedire che l’esercito o i pretoriani acclamassero un nuovo imperatore, il Senato sceglie subito e nomina immediatamente ai vertici dello Stato il più autorevole dei suoi membri, il vecchio e stimato Cocceio Nerva, e qui entriamo in un’altra storia che ci proietta oltre il II secolo e verso il III secolo, ma noi ora ci dobbiamo ancora occupare dell’Età dei Flavi che abbiamo appena perimetrato.
La scorsa settimana ci siamo già rese e resi conto che questo nuovo scenario intellettuale che circonda l’Età dei Flavi contiene tutti gli elementi originari che hanno favorito la nascita e lo sviluppo di quel grande apparato culturale che chiamiamo la Letteratura dei Vangeli. Nel paesaggio intellettuale dell’Età dei Flavi vivono personaggi e sono contenute opere le quali ci fanno capire che l’evento cristiano – che trae origine dalla “buona notizia della risurrezione di Gesù” – non emerge dal nulla ma s’inserisce e trae alimento dalla storia della cultura e del Pensiero Umano. Abbiamo già detto la scorsa settimana che la prima importante questione culturale che, nel primo periodo dell’Età tardo-antica [a cavallo tra il I e il II secolo], i “primi cristiani” hanno dovuto affrontare è stata quella legata all’esigenza di dare un valore di “dottrina ben regolamentata” all’annuncio della “buona notizia della risurrezione” che, giorno dopo giorno, rischiava di evaporare e di perdere la sua carica di novità, anche perché senza regole, senza precetti, e senza l’impronta data dalla scrittura, i modi secondo i quali “l’amore solidale [l’agape, la charitas]” si realizza diventano evanescenti.
La scorsa settimana [e di sicuro lo ricordate!] abbiamo letto il brano allegorico, tratto dal capitolo 17 degli Atti degli Apostoli, in cui si racconta quando Paolo, ad Atene, sull’Areopago, di fronte ad un uditorio di intellettuali ateniesi, annuncia la “buona notizia della risurrezione di Gesù” e viene preso in giro perché gli uditori si attendevano da lui – che si presentava con le credenziali di un conferenziere – l’illustrazione di una “dottrina” secondo lo stile delle Scuole di pensiero ellenistiche [epicuree, stoiche, scettiche, eclettiche]. Le studiose e gli studiosi di filologia sostengono che gli autori del testo degli Atti degli Apostoli – il testo degli Atti [siamo in procinto di ripassare questo argomento] è frutto del lavoro della “Scuola ellenistica clementina” fondata a Roma intorno alla metà degli anni 90 dal primo papa storico, il primo dei Padri Apostolici, Clemente Romano che noi presto rincontreremo [e dico rincontreremo perché molte e molti di voi lo conoscono bene questo personaggio e tuttavia dobbiamo rinfrescarci la memoria in proposito] perché le opere dei Padri Apostolici [Clemente, Ignazio e Policarpo, i quali vivono gran parte della loro vita in questo paesaggio culturale] sono capolavori letterari dell’Età tardo-antica e bisogna conoscerle – ebbene, le studiose e gli studiosi di filologia sostengono che gli autori [di Scuola clementina] del testo degli Atti degli Apostoli, a distanza di circa quarant’anni dai fatti raccontati [dalla morte di Paolo], abbiano composto questo brano narrando un episodio mai avvenuto [infatti Paolo non ne parla nelle sue Lettere], e lo racconta per avvalorare il fatto che la “dottrina” è necessaria – non basta dare una “notizia” ma bisogna programmare l’insegnamento che deriva da questa notizia – e, non a caso, gli Atti degli Apostoli è il primo “catechismo” della Chiesa di Roma, e chi lo ha scritto per costruire una “dottrina efficace [ortodossa]” ha ritenuto utile e necessario fare appello al pensiero greco delle Scuole ellenistiche [tanto epicuree quanto stoiche] che i “catechismi” li hanno inventati [noi ne abbiamo studiato alcuni: epicurei, stoici]: il termine “katekon kàtekon” significa “dovere” ed è una parola-chiave del pensiero epicureo, stoico, scettico ed eclettico.
Naturalmente tra i “primi cristiani” c’è chi la pensa diversamente sul far appello alla cultura greca e noi sappiamo che l’annuncio della “buona notizia [del vangelo]” si propaga sul territorio dell’Ecumene ellenistica nella diversità di pensiero data dalla cultura di base dei propagatori che – anche inconsapevolmente – fanno avanzare il “messaggio cristiano” con quella straordinaria macchina che è la “polemica”, che si scatena in modo molto vivace e spesso anche violento; quindi, dobbiamo fare ordine nella nostra mente in relazione al fatto che l’evento cristiano non emerge dal nulla, ma è organico ad un contesto culturale senza il quale non potrebbe essere compreso nella sua pienezza e nella sua eterogeneità [molteplicità] perché il cristianesimo dell’Epoca tardo-antica non ha nulla di monolitico [e questa è una caratteristica che il cristianesimo ha conservato] ma è fortemente diviso e, paradossalmente, questa “divisione”, che scaturisce dalla “polemica intellettuale”, fa sì che la “buona notizia, il vangelo [euanghelon euanghelon]” si sia propagato più rapidamente.
Nel cristianesimo del I secolo, durante il primo periodo dell’Epoca tardo-antica, si delineano due linee di tendenza: la prima [filo-ellenistica] è stata chiamata “conciliativa” e mira ad assorbire il patrimonio del sapere filosofico greco all’interno della “nuova dottrina” come se la cultura greca fosse stata la preparazione intellettuale del cristianesimo, la seconda linea di tendenza [anti-ellenistica] è stata chiamata della “polemica intransigente” e, in nome della verità annunciata da Gesù Cristo [Gesù Cristo è la Verità incarnata], condanna ogni altro sapere come espressione di Satana, principe della menzogna.
La tendenza “conciliativa [filo-ellenistica]” è rappresentata, prima di tutto, da Paolo di Tarso il quale, pur senza volerlo in modo esplicito, nel suo Epistolario costruisce il catalogo [e lo abbiamo studiato] delle parole-chiave e delle idee-cardine che costituisce la base della “dottrina” del cristianesimo e questo catalogo nasce dalla mediazione che Paolo attua tra cultura ebraica [giudaico-ellenistica] e cultura greca [mutuata dallo studio delle opere dei Classici]. Appartengono alla tendenza “conciliativa” i discepoli che a Roma fanno comunità con Paolo e ne ereditano il pensiero che viene travasato nel testo del Vangelo secondo Marco, il testo evangelico più arcaico, modello per gli altri testi evangelici, redatto a Roma intorno all’anno 70, di stampo tipicamente paolino. Il pensiero della “tendenza conciliativa” è quello che pone le basi dell’ortodossia del cristianesimo. L’ortodossia [la conformità con le regole stabilite] del cristianesimo implica l’accettazione di tre elementi che prendono forma in Età trado-antica: il canone dei Libri riconosciuti come “ispirati”, una professione di fede in cui tutti si riconoscano e una direzione delle comunità da parte dei vescovi [i pastori successori degli Apostoli] che abbia il suo fulcro unitario nel vescovo di Roma; e difatti tra gli esponenti più significativi della tendenza “conciliativa” ci sono i Padri Apostolici, i tre vescovi [di Roma, di Smirne e di Antiochia] che per primi ricevono il titolo di Padri della Chiesa perché la “Chiesa cristiana” prende forma per l’opera di questi personaggi.
Ma procediamo con ordine a presentare le figure e le opere della “tendenza conciliativa”. Il grande merito di Paolo di Tarso [e questo tema noi lo abbiamo già studiato a suo tempo] è quello di essere stato il primo [all’inizio degli anni 50] a capire che l’evento cristiano –, “il vangelo [l’annuncio della buona notizia della risurrezione di Gesù, euanghelon]” – andava inserito nella Storia della cultura umana, andava fatto “conciliare” con la Storia del Pensiero Umano, e tradotto con lo strumento della scrittura secondo la tradizione degli autori dell’Antico Testamento [è Paolo che conia questa dicitura: Antico Testamento, presupponendone uno Nuovo] e secondo gli stili dei traduttori [giudaico-ellenisti] dei Libri della Bibbia in greco.
Paolo di Tarso tra il 64 e il 67 – mentre si trova a Roma – sparisce nel nulla [probabilmente vittima della cruenta e generalizzata persecuzione neroniana] ma lascia in eredità ad una piccola comunità di discepoli il catalogo delle parole-chiave che lui ha elaborato scrivendo le sue Lettere che cominciano ad essere raccolte e conservate. I termini-chiave della “dottrina” che Paolo elabora – la manifestazione della potenza e della sapienza di Dio [l’exousia], l’amore solidale [l’agape, la charitas], la resurrezione [l’anastasia], il dirsi grazie davvero [l’eucaristia] – sono, di solito, contenuti in una “sentenza”. La “sentenza” è un breve testo di carattere emblematico, simbolico, allegorico, paradigmatico che costituisce un vero e proprio genere letterario. Il pensiero delle Scuole ellenistiche viene presentato soprattutto con il genere letterario della “sentenza” che, spesso, viene inserita in una Lettera [si pensi alle Lettere di Epicuro o alle Lettere a Lucilio di Seneca] o in un testo teatrale [si pensi alle Tragedie di Seneca]. La Letteratura dei Vangeli ha inizio con la raccolta e la conservazione per iscritto delle “sentenze” contenute nei racconti orali su Gesù di Nazareth: racconti di carattere leggendario [spesso contraddittori] composti in funzione della predicazione e della diffusione della “buona notizia” della sua risurrezione. Le “sentenze” che hanno come protagonista Gesù di Nazareth rimarcano le sue virtù, i suoi gesti esemplari e i suoi detti significativi [si comincia a raccontare partendo dalla passione, dalla morte e dalla risurrezione di Gesù: la sua fine è l’inizio].
Paolo di Tarso, nel suo Epistolario, utilizza con grande determinazione il genere letterario della “sentenza” – un genere che ha certamente appreso nelle Scuole ellenistiche [di impronta epicurea, stoica e scettica] che ha frequentato –: Paolo utilizza il genere letterario della “sentenza” per dare al volto indeterminato di “quel Gesù” la fisionomia del “Cristo della fede”.
Come si presenta – per forma e per contenuto – una “sentenza”? La “sentenza” è una massima, un aforisma, un detto, un enunciato significativo, un adagio, un motto, un precetto, un assioma, un principio, ed è anche un avviso importante, un parere significativo, un’opinione autorevole, e inoltre la “sentenza” è un giudizio, una decisione, una deliberazione, una dichiarazione.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quali di queste sedici parole mettereste per prime accanto alla parola “sentenza”?…
Sceglietene non più di tre e scrivetele…
Abbiamo detto che Paolo di Tarso, a Roma, lascia in eredità ad una piccola comunità di discepoli l’indice delle sue “sentenze” con le quali trasforma la persona semisconosciuta di Gesù di Nazareth [quel Gesù] nella figura del “Cristo della fede” che ha un volto con una fisionomia particolare: questo volto ha i “lineamenti ebraici [Gesù è un rabbi ebraico]” ma ha uno “sguardo greco [è un maestro che - secondo la predicazione di Paolo - utilizza termini e schemi di pensiero ellenistici]” e questo è il primo atto che determina la linea della “tendenza conciliativa”.
Il glossario delle “sentenze” contenute nell’Epistolario di Paolo ispira alla generazione che viene dopo di lui [quella degli anni 70] la composizione del testo di un’opera che s’intitola Vangelo secondo Marco [La “buona notizia” annunciata secondo il pensiero di Marco] e la scorsa settimana la Scuola ha consigliato la lettura [propedeutica] di questo testo. Molte cose si potrebbero dire su quest’opera a cominciare dalla sua “forma”.
Il testo del Vangelo secondo Marco, per quanto riguarda la forma, crea un modello per la Letteratura dei Vangeli che mette insieme lo stile narrativo della “novella [il modello narrativo del Satyricon, per intenderci]” non però come contenitore di un elemento satirico ma come deposito del testo di una “sentenza” che presenta la “dottrina” in modo che sia insegnata attraverso un racconto edificante molto esplicativo; questa forma narrativa [già presente nella Letteratura dell’Antico Testamento] viene chiamata “parabola [“parabole parabolé” in greco significa “accostamento”: si mette in relazione il contenuto di una sentenza con un esplicativo racconto edificante per rendere il significato della dottrina più comprensibile]”, e le parabole, nel testo secondo Marco [che diventa il modello formale della Letteratura dei Vangeli], sono legate tra loro da significative descrizioni [da quadri] che creano, nella mente delle lettrici e dei lettori, un’immagine simile a quella di una scena teatrale [sul modello delle Tragedie di Seneca, scritte più per essere lette che per essere rappresentate]: di questo sistema letterario basato sulla descrizione di grandi “quadri scenici”, che hanno Gesù come protagonista soprattutto come taumaturgo [guaritore] fino a sfociare nelle “drammatiche scene” della sua passione, morte e risurrezione, se ne avvantaggerà poi l’Arte figurativa [La Storia dell’Arte non può prescindere dalla Letteratura dei Vangeli e dal testo “secondo Marco” in particolare].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Leggete o rileggete il finale del “Vangelo secondo Marco” cioè i capitoli 14, 15 e 16 [vi renderete conto che c’è un doppio brano finale dovuto a rimaneggiamenti], questi capitoli contengono il primo racconto organico [il più scarno] della passione, della morte e della risurrezione di Gesù ed è una descrizione per “quadri scenici” che darà vita alle “stazioni della via crucis”…
Che cosa vi fa venire in mente il termine “via crucis”?...
Scrivete quattro righe in proposito...
Sul contenuto del testo del Vangelo secondo Marco potremmo fare un viaggio di molti itinerari e noi adesso ci limitiamo a mettere in evidenza un elemento importante: questo elemento ci dà la possibilità di fare un esercizio filologico che ci permette di capire il processo evolutivo della “dottrina”, un processo che è durato per quattro secoli in Età tardo-antica e che è stato messo in atto da coloro che hanno aderito alla tendenza “conciliativa” curando il rapporto [che diventa sempre più stretto] tra l’evento cristiano e la cultura greca: è nel corso di questa evoluzione dottrinaria che ha preso forma la linea dell’ortodossia [la conformità con le regole stabilite] la quale, però, non è mai stata un oggetto immutabile ma bensì il prodotto di una graduale elaborazione culturale. Qual è l’elemento che vogliamo mettere in evidenza? Si tratta di un elemento che contiene il rilevante tema della “natura di Gesù [tutta umana? tutta divina? umana e divina insieme?]”: questo è uno dei temi fondamentali della “dottrina”. Procediamo con ordine, e anche in questo caso la riflessione parte dall’opera di Paolo di Tarso.
Paolo di Tarso, nei testi del suo Epistolario, a proposito della “natura” di Gesù, si esprime usando la dicitura “figlio di Dio” e intende dire – secondo la mentalità della Scuola farisea e secondo la cultura del Libro di Daniele – che Gesù [Yèshua] è stato “adottato da Dio” e la sua “natura” è, prima di tutto, totalmente “umana”. Questa visione – l’idea che Gesù sia “figlio adottivo di Dio” – si afferma nella comunità paolina negli anni 60 e 70 ed è soprattutto intorno a questo concetto, che riguarda la “natura” di Gesù di Nazareth, che la “tendenza conciliativa verso la cultura greca” comincia a compiere il suo cammino e noi dobbiamo riflettere in proposito in funzione della didattica della lettura e della scrittura.
L’affermare – come fa Paolo – che Gesù è stato “adottato” da Dio significa ribadire che la sua natura è totalmente umana ma siccome si presume che, quando qualcuno ti adotta coltivi l’idea di amarti, questo significa – e Paolo di Tarso ha utilizzato il pensiero di Platone, di Aristotele e delle Scuole ellenistiche per fare questa riflessione – che l’idea del Sommo Bene, che trascende la natura umana, ha proceduto da Dio verso colui che egli ama e, quindi, in questa persona l’idea – e le “idee”, per Platone, sono l’essenza delle cose – della natura divina è penetrata.
Il primo passo di questo cammino lo troviamo nel testo del Vangelo secondo Marco che è il più arcaico dei quattro vangeli canonici e contiene “sentenze” che sono databili alla fine degli anni 50, dal 58 in avanti, e il testo – così come noi lo possediamo – è stato composto all’inizio degli anni 70 [dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme per opera di Tito].
Il personaggio di Marco, a cui questo testo è dedicato – ricordiamoci che il nome degli evangelisti non corrisponde al nome degli autori ma fa riferimento ad una corrente di Pensiero – è stato compagno di Paolo [lo cita nelle sue Lettere: “Giovanni detto Marco”] e, molto probabilmente, è con lui a Roma all’inizio degli anni 60, e il testo del Vangelo che porta il suo nome fa riferimento al pensiero di Paolo che Marco, insieme ad altri, ha tramandato negli anni successivi alla morte dell’Apostolo. Il testo di questo Vangelo, scritto in greco, circola sul territorio dell’Ecumene: viene esportato ad Alessandria [dove questo testo viene sottoposto a delle modifiche], arriva a Smirne e ad Antiochia, i principali centri della diffusione dell’annuncio della “buona notizia della risurrezione”, dove la lingua più diffusa è quella della koiné greca.
In che posizione si trova nel testo del Vangelo secondo Marco il primo passo del cammino della tendenza “conciliativa”? Ricordate come inizia il testo del Vangelo secondo Marco, lo avete riletto? Il testo del Vangelo secondo Marco inizia, dopo la presentazione della figura di Giovanni il Battezzatore, con il famoso episodio [con il significativo “quadro di stampo teatrale” che tutte e tutti noi abbiamo negli occhi] del “battesimo di Gesù”. Nel testo più arcaico della Letteratura canonica dei Vangeli la ri-nascita di Gesù in quanto “Cristo della fede” [secondo la “sentenza sulla nascita di Gesù” composta da Paolo] corrisponde al momento in cui viene battezzato da Giovanni nel fiume Giordano: è questa l’occasione straordinaria in cui – attraverso un “quadro di stampo teatrale” – Gesù viene presentato come “figlio adottivo di Dio”, come “destinatario dell’idea di amore disinteressato che Dio ha per lui”.
Dobbiamo fare un esercizio filologico per [capire] renderci conto dell’evoluzione che – in circa quattro secoli – la tendenza “conciliativa” ha fatto compiere alla “dottrina” per far allineare l’evento cristiano alla cultura greca e latina non per assoggettarsi ad esse ma per “fecondare la cultura greca e latina” con i semi del messaggio cristiano [l’immagine è di Gerolamo]. L’esercizio filologico che stiamo compiendo per capire il significato dell’evoluzione dottrinale propiziata dalla “tendenza conciliativa” si svolge in due tempi-
Nel primo tempo dobbiamo concentrarci sui versetti 9 10 e 11 del primo capitolo del Vangelo secondo Marco facendo molta attenzione a come viene composto e poi tradotto il testo. Tutte e tutti noi abbiamo in mente la scena del battesimo di Gesù secondo il testo del Vangelo secondo Marco anche perché le raffigurazioni artistiche di questo avvenimento sono innumerevoli.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
C’è una raffigurazione artistica del “battesimo di Gesù” che vi è rimasta particolarmente impressa?… Pronunciatevi in proposito, bastano poche righe di scrittura...
Nel racconto del Vangelo secondo Marco [capitolo 1, versetti 9-10-11] subito dopo che Gesù è stato battezzato nel fiume Giordano, Giovanni il Battezzatore vede che si aprono i cieli e che scende lo Spirito [Pneuma, il Logos, la Parola, il Pensiero] sotto forma di colomba [“to pneuma os peristèran”, bellissima metafora per dare un’immagine all’Idea di Amore, di Sommo Bene], e Gesù sente una voce che nel testo greco dell’opera [il testo originale] dice letteralmente: «Tu sei quello che amo [“Su ei to agàpetos”, il verbo “agapetò” traduce “l’amore solidale”], in cui mi sono compiaciuto [“en soi eudòkesa”, che io ho adottato]» e questo è lo stesso ragionamento a cui allude Paolo nella Lettera ai Romani quando scrive la sua “sentenza adozionista” sulla nascita di Gesù.
Sul tema della “natura” di Gesù, dal I al IV secolo, in Età tardo-antica, si assiste ad un vivace dibattito [spesso assai violento] tra chi sostiene che in Gesù prevale la natura umana [il Gesù ebionita] e chi sostiene che in Gesù prevale la natura divina [il Gesù gnostico] e chi tende [come Paolo] a trovare una “formula conciliante” tra queste posizioni e, difatti, la dottrina sulla “natura” di Gesù attraverso il processo conciliativo con la cultura greca, attraverso l’influenza della filosofia neoplatonica [argomento che studieremo], si modifica gradualmente e Gesù da “figlio adottivo” di Dio [formula troppo legata alla cultura ebraica] assume la natura di “figlio sostanziale” di Dio [secondo il concetto di “sostanza, ousia” formulato da Aristotele] pur conservando la prerogativa di “vero uomo” a tutti gli effetti.
Come sappiamo, alla fine, prevale la formula – di tendenza “conciliativa” – che tuttora troviamo nel Credo, nel Simbolo niceno: «Gesù è vero Dio e vero uomo, generato non creato, della stessa sostanza del Padre». Per “conciliare” c’è voluto un Concilio e, difatti, il Concilio di Nicea del 325 [il primo Concilio ecumenico organizzato e gestito dall’imperatore Costantino che vuole dare stabilità all’ortodossia] vota a maggioranza questa formula, che è la “formula conciliativa della Chiesa accomodante di Roma” la quale trae alimento dalla Storia della cultura greca, dalla filosofia di Platone e di Aristotele.
E allora veniamo al dunque: al secondo tempo dell’esercizio filologico che stiamo compiendo in funzione della didattica della lettura e della scrittura. Quando Gerolamo, nel V secolo, traduce in latino [la famosa traduzione chiamata “Vulgata”, terminata nel 420] tutti i Libri della Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, si comporta secondo la disciplina del Concilio di Nicea seguendo il cammino della tendenza “conciliativa” che ha portato a termine la sua missione di legare l’evento cristiano alla storia della cultura, in particolare alla cultura greca e latina e, quindi, nel volgere dal greco in latino i versetti 9 10 e 11 del primo capitolo del Vangelo secondo Marco Gerolamo modifica la formula originaria e fa esplicitamente dire a Dio: «Tu sei mio figlio, io ti ho mandato» e questa dicitura trasforma definitivamente la “natura” di Gesù che da “figlio adottivo” diventa “figlio sostanziale” di Dio, un concetto sostenuto da un modello filosofico [di carattere platonico e aristotelico] molto solido sul piano culturale e molto utile per costituire la base di una salda “dottrina” proiettata verso un’Epoca nuova [con la traduzione detta “Vulgata” di Gerolamo comincia l’Età medioevale?È una delle tante ipotesi, ma noi ci siamo spinte e spinti troppo avanti].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II [dopo il 1965] la nuova traduzione del capitolo 1 del Vangelo secondo Marco è stata ancora modificata con l’intento di favorire la “conciliazione” tra il testo originale e la traduzione [la Vulgata] di Gerolamo: andate a leggere – sul testo della Bibbia in lingua corrente – come è stato reso il versetto 11 del capitolo 1 del Vangelo secondo Marco… Andate a constatare come – su mandato del Concilio – hanno operato i traduttori: «Tu sei il Figlio mio, che io amo. Io ti ho mandato»...
La “tendenza conciliativa [la predisposizione mentale all’accordo, all’intesa, al patto, al compromesso, all’accomodamento]” è una corrente di pensiero che, in Età tardo-antica – senza avere un programma ben definito – opera per inserire l’evento cristiano nella Storia del Pensiero Umano e, in particolare, i personaggi che appartengono a questa corrente utilizzano le dinamiche della cultura greca per investire in intelligenza e questo investimento intellettuale favorisce [come sappiamo] la composizione dei testi delle Lettere di Paolo di Tarso, del testo del Vangelo secondo Marco e poi delle Opere dei Padri Apostolici [Clemente, Ignazio e Policarpo] che rincontreremo prossimamente, ma sappiamo già che non tutti, nella variegata area della predicazione dell’annuncio della “buona notizia della risurrezione di Gesù”, sono d’accordo a scendere a compromessi con la cultura greca e con la cultura umana in generale.
Prima di continuare la nostra riflessione su questo tema – sul contrasto tra tendenza “conciliativa” e tendenza della “polemica intransigente” – dobbiamo, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, fare un’incursione nella Letteratura contemporanea, e quest’incursione l’abbiamo già annunciata quando, alla fine dell’itinerario della scorsa settimana, abbiamo letto l’incipit di un romanzo che contiene una “sentenza” ripresa da La cena di Trimalcione, vale a dire, dall’episodio più ampio e significativo [un vero e proprio romanzo nel romanzo di cui conosciamo le caratteristiche] contenuto nel Satyricon di Petronio Arbitro [opera che abbiamo studiato recentemente]. Non c’è solo questa coincidenza – la citazione dal Satyricon con cui l’autore di questo romanzo vuol far capire a chi legge che anche lui guarda la società novecentesca che lo circonda con lo stesso spirito disincantato con cui Petronio Arbitro guarda la società dell’epoca tardo-antica [ci sono delle affinità] – per cui incontriamo questo romanzo che s’intitola La diva Julia, ma ce ne sono altre due: la seconda riguarda il “titolo” e la terza riguarda il tema del “teatro”.
Il titolo La diva Julia richiama una persona che noi abbiamo incontrato alla fine di novembre dello scorso anno, quasi tre mesi fa, e avevamo anticipato che avremmo fatto un accostamento tra il soprannome [la diva Julia] che – soprattutto per la sua bellezza – le è stato attribuito, in Età giulio-claudia, al tempo di Caligola, di Claudio, di Valeria Messalina e di Agrippina Minore e il titolo di un romanzo contemporaneo. Questa persona si chiama Giulia Livilla: ve la ricordate? Giulia Livilla è stata una protagonista della vita politica e culturale romana e, forse, è doveroso che ci rinfreschiamo la memoria in proposito.
Giulia Livilla è nata sull’isola di Lesbo nel 17 o nel 18 perché suo padre, il “probo e valente” generale Germanico era sempre impegnato in campagne militari sui confini orientali e sua moglie Agrippina Maggiore lo seguiva con i figli e le figlie: Giulia Livilla è una delle sorelle dell’imperatore Caligola. L’educazione intellettuale di Giulia è stata molto accurata anche perché fin da bambina è attratta dallo studio e poi per la sua bellezza e “per il modo in cui, come se fosse una grande attrice, si muove sul palcoscenico del mondo” – come riportano le fonti dell’Epoca – riceve il soprannome di “diva Julia”, e questo fatto ci permette, ora, di fare un interessante accostamento letterario. Lo scrittore che ha composto il romanzo intitolato La diva Julia – di cui stiamo per rileggere l’incipit e l’intero primo capitolo – è molto abile a giocare con le “inferenze” facendo appello al suo amore per la cultura classica, lasciandosi ispirare da certe figure reali dell’Età tardo-antica che possono dare un’anima a personaggi letterari contemporanei.
Giulia Livilla sposa nel 33 Marco Vinicio, di rango equestre che, nel 38, è proconsole in Asia: stando ad un’iscrizione, Giulia avrebbe accompagnato il marito in Asia e lì si sarebbe dedicata con piacere allo studio della filosofia e all’attività teatrale. Durante i primi anni di regno del fratello Caligola, Giulia e le sue due sorelle maggiori, Agrippina Minore e Drusilla, ricevono onori e privilegi e le loro effigi vengono rappresentate persino sulle monete. Però Giulia partecipa ad una congiura, forse organizzata da Agrippina Minore, per spodestare Caligola ma la congiura viene sventata e Giulia e Agrippina vengono condannate all’esilio. Nel 41, dopo l’assassinio di Caligola, Giulia Livilla e la sorella sono richiamate a Roma dal nuovo imperatore, il loro zio Claudio, ma Giulia deve scontrarsi con la gelosia dell’imperatrice Valeria Messalina [la diva Julia è troppo bella e colta per non suscitare invide e risentimenti] che riesce a farla nuovamente esiliare accusandola di adulterio, di essere l’amante [e difatti lo è] di Lucio Anneo Seneca. Giulia Livilla viene deportata a Pandataria [l’isola di Ventotene] e probabilmente nel 42 Messalina ne ordina la morte, ma non possediamo notizie certe sulla fine di Giulia Livilla. Quando Agrippina Minore, dopo la morte di Messalina, sposa Claudio e diventa imperatrice fa riportare a Roma i resti della sorella Giulia Livilla che sono stati deposti e conservati nel Mausoleo di Augusto.
Oltre al nome ci sono anche altre affinità [o allusioni] tra il personaggio di Giulia Livilla e il personaggio di Julia Lambert la protagonista assoluta del romanzo La diva Julia di William Somerset Maugham pubblicato nel 1937: è soprattutto il tema del teatro che unisce queste due “eroine problematiche”, l’una tardo-antica [età in cui il genere teatrale langue] e l’altra novecentesca [un’età in cui il teatro prospera]. Il tema del teatro riguarda anche – come abbiamo studiato strada facendo questa sera – la “forma” della Letteratura dei Vangeli: abbiamo detto che questa Letteratura presenta le sue “sentenze” e illustra la sua “dottrina” con significative descrizioni [veri e propri “quadri”] che creano, nella mente delle lettrici e dei lettori, un’immagine simile a quella di una scena teatrale, e questo sistema, basato sulla descrizione di grandi “quadri scenici”, diventa un vero e proprio genere letterario in un momento in cui l’attività teatrale è ridotta al minimo.
La protagonista del romanzo La diva Julia si chiama Julia Lambert ed è una grande attrice osannata dal pubblico e dalla critica, ed è sorretta da un talento naturale così spiccato per cui può permettersi di ignorare i precetti e le tecniche di recitazione perché Julia [la diva Julia] fonda l’intera sua arte sul semplice principio per cui non si deve “essere naturali”, ma soltanto “sembrare naturali”, e questa sua disposizione alla finzione è in lei talmente interiorizzata da estendersi alla vita reale e, quindi, succede che fra lei stessa e l’autenticità dei suoi sentimenti e delle sue emozioni s’interpone come un diaframma. Julia Lambert [la diva Julia] – come se fosse perennemente su un palcoscenico – assume un atteggiamento che le conferisce un ferreo controllo su se stessa, sugli altri, sul mondo e ciò, apparentemente, la rende vincente ma in realtà ogni esperienza che le capita di fare possiede sempre i tratti di una sconfitta perché lei non è dentro l’esistenza ma è sopra l’esistenza: su una scena dove sta recitando l’esistenza.
Lo scrittore William Somerset Maugham – che è stato soprattutto un fecondo scrittore di testi teatrali – presenta in modo esilarante le avventure di Julia Lambert: questo romanzo merita di essere letto, noi ne iniziamo insieme la lettura e poi voi, se volete – utilizzando la biblioteca –, potrete continuare per vostro conto.
LEGERE MULTUM….
Somerset Maugham, La diva Julia
La porta si aprì e Michael Gosselyn alzò gli occhi. Julia entrò.
«Ehilà! Un momento, finisco di firmare qualche lettera».
«Fai con comodo. Sono venuta solo per vedere che posti sono stati mandati ai Dennorant. Cosa ci fa qui quel giovanotto?». Adattando istintivamente, da attrice consumata, il gesto alle parole, Julia accennò con la bella testa alla stanza per cui era passata. «È il ragioniere. È qui da tre giorni». … «Sembra molto giovane». … «È praticante, ma ci sa fare. Si meraviglia per come teniamo i conti, non immaginava che un teatro fosse gestito con criteri tanto razionali. Dice che la contabilità di certe ditte della City è roba da far venire i capelli grigi».
... continua la lettura ...
Julia Lambert [la diva Jiulia] pensa che non rincontrerà più questo ragazzo di cui non conosce neppure il nome. E invece lo rincontrerà, ma dopo un’ottantina di pagine del romanzo perché prima Julia Lambert – guardando le sue fotografie – comincia a ricordare che cosa è successo negli anni precedenti e ce lo racconta: leggete questo romanzo intrigante!
Ma chi è l’autore de La diva Julia, chi è William Somerset Maugham? È uno scrittore che ha composto molte opere, alcune delle quali particolarmente significative che meritano di essere lette: ne parleremo la prossima settimana.
La prossima settimana dovremmo andare ad indagare nel campo di quella che è stata chiamata la tendenza della “polemica intransigente” e dovremmo incontrare, quindi, coloro che non vogliono accettare il condizionamento della cultura greca né della cultura in generale in merito all’annuncio della “buona notizia della risurrezione di Gesù di Nazareth”. Ma perché usiamo il condizionale? Perché prima di avere del materiale che ci permetta di studiare il pensiero di questa corrente passa un po’ di tempo e noi potremo documentare l’attività di questo movimento e dei suoi protagonisti quando ci troveremo davanti ad un paesaggio intellettuale che incontreremo strada facendo, per il momento è ancora la corrente “conciliativa” che, nell’ambito della predicazione dell’annuncio della “buona notizia della risurrezione di Gesù”, produce opere, pensiero, idee e dottrina.
Però nell’Età dei Flavi, a Roma e nelle più importanti città dell’Impero, c’è un gran fiorire di culti pagani perché più la crisi morde e più le persone sentono il bisogno di cercare una via di salvezza che possa consolare, e la via della salvezza la si cerca nell’ambito delle religioni misteriche eredi della grande tradizione orfico-dionisiaca e anche il pensiero cristiano in formazione dovrà [come sappiamo] fare i conti con la figura di Dioniso [e torneremo su questo importante tema].
Intanto, nell’Età dei Flavi, la tradizione orfico-dionisiaca riemerge nella Letteratura latina – già nel testo del Satyricon di Petronio Arbitro ci sono molti riferimenti a riguardo [come l’uso del verbo “affascinare”] – per merito dell’opera di un autore di grande “fascino” il quale c’insegna che su questa parola, la parola “fascino”, non dobbiamo e non possiamo “cadere in fallo” [Siamo di fronte ad un gioco di parole che dobbiamo dipanare]. Chi è questo autore e che tipo di gioco di parole sarebbe questo?
Per rispondere a queste domande è doveroso seguire la scia dell’Alfabetizzazione e dell’Apprendimento permanente perché l’Alfabetizzazione culturale e funzionale è un bene comune [come i “quadri” delle pantomime teatrali] e l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona: per questo la Scuola è qui con il suo carattere “migratore” per invitarci ad investire in intelligenza.
Il viaggio continua [e faremo anche un’incursione nella penisola Iberica la prossima settimana]…