Prof. Giuseppe Nibbi La sapienza poetica e filosofica dell’età umanistica 13-14-15 aprile 2016
SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ UMANISTICA
IN GIAPPONE ANCHE LO ZEN SI FA DOTTRINA, ED EMERGE
UNA RELAZIONE CAUSALE TRA L’IGNORANZA E LA SOFFERENZA ...
Questo è il ventitreesimo itinerario del nostro viaggio di studio sul “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età umanistica” e, come sapete, siamo in Oriente, in estremo Oriente.
Come ben sapete, la scorsa settimana abbiamo fatto tappa in Iran per studiare la corrente “dell’avicennismo persiano” che, nella seconda metà del XII secolo, si è sviluppata attraverso l’opera di un singolare personaggio che si chiama Suhrawardi, del quale abbiamo studiato il pensiero: la predicazione di Suhrawardi, come sappiamo, è incentrata sulla “metafora dell’Oriente come patria delle anime”, come una regione che sta oltre la barriera dei dogmi, uno spazio in cui l’anima si mette in rapporto diretto con il Pensiero divino. L’Oriente poi, sostiene Suhrawardi, è presente, in modo allegorico, nell’interiorità di ogni persona sotto forma di Intelletto attivo: la facoltà che orienta l’essere umano verso la conoscenza delle “Idee costitutive” [l’uguaglianza, la giustizia, la pace, la solidarietà, la misericordia] dette “Intelligenze pure” [i valori dell’Umanesimo].
Tra il XII e il XIV secolo succede in Asia [abbiamo detto la scorsa settimana] ciò che è successo in Europa: si sviluppa una forza centrifuga. In territorio asiatico la forza centrifuga si orienta - attraverso il fenomeno dell’espansione e dallo sviluppo del pensiero buddista - dall’India verso la Cina e poi dalla Cina verso il Giappone dove, durante il periodo che corrisponde all’autunno del Medioevo, le idee buddiste originarie [che abbiamo ripassato nel corso dell’itinerario della scorsa settimana] vengono sottoposte ad un processo di trasformazione e si formano tre correnti di pensiero, e abbiamo anche capito che tra le varie correnti culturali giapponesi, fiorite durante l’autunno del Medioevo, c’è una vivace polemica in corso.
Durante il periodo che corrisponde all’autunno del Medioev, in Giappone le idee buddiste originarie [che abbiamo ripassato nel corso dell’itinerario della scorsa settimana] vengono sottoposte ad un processo di trasformazione e si formano tre correnti di pensiero: la corrente amidista, quella zen e la corrente legata alla dottrina di un maestro che si chiama Nichiren.
La settimana scorsa abbiamo studiato il pensiero della corrente Amidista e abbiamo anche capito che tra i vari movimenti intellettuali giapponesi, sviluppatisi durante l’autunno del Medioevo, c’è una vivace polemica in corso sul tema di come ci si possa salvare: la Scuola Amidista [con i maestri Honen Shonin e Shinran, che abbiamo incontrato la scorsa settimana e dei quali abbiamo studiato il pensiero] sostiene che ci si salva “per merito altrui, per grazia ricevuta” e questa idea corrisponde al termine “tariki” [merito altrui e grande veicolo], mentre i maestri della corrente zen [che stiamo per incontrare] sostengono che ci si salva “per merito proprio, con la propria energia personale” e questa idea corrisponde alla parola “jiriki” [merito proprio e piccolo veicolo].
Il termine giapponese “zen” corrisponde al termine indiano “dhyana” [verso l’Illuminazione]e a quello cinese “ch’an” [camminare meditando]. Intorno alla cultura zen, in Giappone, è fiorita una vasta Letteratura fatta di “storie” che possiamo chiamare “parabole” anche perché se si chiede ad un maestro zen che cosa sia lo zen lui risponde raccontando “una parabola” nella quale risalta il fatto che lo zen non è una filosofia, non è una dottrina, non è un’ideologia ma è “un particolare atteggiamento nei confronti della vita”, un atteggiamento di carattere universale che ogni persona può avere.
E, visto che il nostro Percorso è specificatamente orientato in funzione della didattica della lettura e delle scrittura, a questo proposito non possiamo fare a meno di prendere in considerazione [ancora una volta, perché abbiamo già incontrato questo testo in altri contesti] l’antologia intitolata 101 Storie Zen, raccolte nel 1939 da Nyogen Senzaki e Paul Reps. Questa raccolta ha avuto molto successo e ha condizionato anche la Letteratura della seconda metà del secolo scorso [del ‘900].
Come voi certamente sapete, lo zen è un atteggiamento radicato nel pensiero umano già dall’Età assiale della storia [da 2500 anni fa] che non si esplicita per dar vita ad un gruppo organizzato [una setta, una chiesa, una comunità] di adepti ma si rivolge all’individualità dell’essere umano: lo zen è un atteggiamento che può essere universalmente presente in tutte le persone, e si manifesta come un’arte, un proposito, un programma di vita, un’esperienza che si prefigge di mettere la persona di fronte al proprio Io in modo che l’individuo acquisisca la consapevolezza della propria interiorità. Lo zen - ammesso che lo si possa definire [ma, non può essere racchiuso in definizioni anche se siamo qui a definirlo perché di definizioni non se ne può fare a meno] - è il momento in cui l’essere umano prende coscienza della propria interiorità.
Lo zen si sviluppa in India col nome di “dhyana”, in Cina col nome di “ch’an”, e poi sbarca in Giappone [già dal 729, dall’VIII secolo, quando in Europa ha inizio il movimento della Scolastica] e passa trasversalmente attraverso il pensiero induista, buddista, confuciano, taoista e scintoista; però in Giappone, nel corso dell’autunno del Medioevo, lo zen è andato assumendo un taglio dottrinario che non avrebbe mai voluto avere, ma delle strutture scolastiche neppure lo zen può fare a meno. Lo zen è penetrato in Occidente perché è stato visto con simpatia da tutte le esperienze di monachesimo: dal monachesimo ebraico degli Esseni, a quello cristiano dei Padri del deserto, a quello islamico dei Sufi.
Lo zen invita alla ricerca di se stessi attraverso la meditazione e la contemplazione in modo da avvicinare il più possibile il proprio stile di vita alle regole della Natura. L’esperienza zen deve insegnare alla persona a coltivare la pace e la comprensione, a praticare l’arte e ad esercitare il lavoro, anche il più umile, come se fosse un’arte: vale di più l’appagamento spirituale che il tornaconto materiale. L’esperienza zen si propone - con uno studio adatto ad affinare i sensi - di insegnare alla persona a fruire del piacere che deriva dalla bellezza [gratuita] dei fenomeni della Natura, questa fruizione sviluppa il ragionamento intuitivo che per la persona è il principale strumento di conoscenza dell’Universo. L’intuito porta la persona a cogliere il fascino inafferrabile della “incompletezza”, perché la realtà del mondo è indefinita e il confine tra dati di fatto e sogni è labile. L’intuito porta la persona a capire che la realtà del mondo ha molti significati e il senso della vita sta nell’essere sempre in ricerca senza nessun fine: anche lo zen [dicono i maestri zen] non è definibile, e se lo fosse non sarebbe lo zen.
La consapevolezza della incompletezza della realtà e il prendere coscienza del fatto che Tutto è indefinito deve portare l’essere umano ad avere meno paura e più fiducia nell’essenza della vita, ad avere meno desideri superflui, a coltivare la semplicità in modo da gustare pienamente le cose essenziali e necessarie. Lo zen deve portare la persona ad essere meno condizionata dai formalismi in modo da coltivare l’autodisciplina per vivere con meno turbamenti dando un senso alle emozioni senza esserne travolta. «Il monaco Zen [si legge in una delle brevi e penetranti parabole dell’antologia “101 Storie Zen”] serve l’umanità umilmente, attuando con misericordia la propria presenza in questo mondo e imparando ad osservare la propria fine come un petalo che cada da un fiore; così, sereno, si gode la vita in beata tranquillità».
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
“Intuire” significa “comprendere” nel senso di afferrare, captare, annusare, fiutare, intravedere, avvertire, percepire… Quale di queste azioni mettereste per prima accanto al verbo “intuire” …
Scrivetela …
A volte si dice: «Ma è successo davvero oppure l’ho sognato?»…
Scrivete quattro righe in proposito…
E ora, a proposito di “sogni” - visto che nelle 101 Storie Zen, come in tutte le culture, il “sogno” ha un posto rilevante - leggiamo la storia n. 40 in cui possiamo cogliere un altro fattore che rende appetibile la lettura di questa antologia: l’ironia, l’impertinente ironia.
LEGERE MULTUM….
101 Storie Zen [a cura di Nyogen Senzaki e Paul Reps, 1939]
40. «Dopo pranzo il nostro maestro di scuola faceva sempre un pisolino» raccontava un discepolo di Soyen Shaku. «Noi bambini gli domandammo perché lo facesse e lui ci rispose: “Vado nel mondo dei sogni a trovare i vecchi saggi, come faceva Confucio”. Quando Confucio dormiva, sognava gli antichi saggi e dopo parlava di loro ai suoi seguaci.
... continua la lettura ...
E ora leggiamo la prima delle 101 Storie Zen che funge da introduzione all’antologia.
LEGERE MULTUM….
101 Storie Zen [a cura di Nyogen Senzaki e Paul Reps, 1939]
1. Il maestro Nan-in ricevette la visita di un dotto professore che era andato da lui per interrogarlo sullo zen.
Nan-in servì il tè. Colmò la tazza del suo ospite, e poi continuò a versare.
... continua la lettura ...
Molto interessante e perspicace questa parabola!
Il fatto è che in Giappone, durante l’autunno del Medioevo, nascono due correnti [due Scuole] zen contrapposte e, quindi, questo significa che “le opinioni e le congetture” influenzano pure chi abbraccia la cultura zen, anche perché è difficile per una persona che riflette non avere opinioni e non fare congetture, è difficile per una persona che riflette non fare ipotesi e non dare giudizi. Quali sono queste due Scuole contrapposte e qual è il loro pensiero?
Prima di occuparci di questo tema [dello sviluppo dello zen in Giappone durante l’autunno del Medioevo] dobbiamo prendere in considerazione il fatto che stiamo leggendo un romanzo nel quale in primo piano ci sono i pensieri [tutti i pensieri, a cominciare da quelli più scabrosi] che scaturiscono dalla mente della signorina Else - che è la protagonista ormai a noi ben nota del romanzo omonimo di Arthur Schnitzler, pubblicato a Vienna nel 1924 -, e posiamo dire che tutti i pensieri della signorina Else “traboccano come il tè dalla tazza ormai ricolma” e noi siamo consapevoli del fatto che non ci si può liberare dai nostri pensieri più intimi, affilati come la lama di un rasoio.
Sappiamo che la viennese signorina Else, che si trova in vacanza a San Martino di Castrozza con la zia e il cugino, riceve una lettera-espresso dalla madre la quale la invita, in modo accorato ma ambiguo, a chiedere un prestito di trentamila fiorini al signor von Dorsday per salvare il padre, celebre avvocato, il quale ha commesso un abuso: ha utilizzato i soldi di un minore di cui è il tutore per pagare i suoi debiti di gioco, e se non restituisce la somma estorta entro tre giorni verrà arrestato. Il signor von Dorsday - amico di famiglia che ha già soccorso il padre di Else in altre occasioni - fa il mercante d’arte ed è molto attratto dalla bellezza della signorina Else, ed è disposto a versare la cifra richiesta a patto che lei si mostri nuda ai suoi occhi per un quarto d’ora o in camera sua o in una radura nel bosco. La signorina Else riflette su questa richiesta “indecente” che lei potrebbe anche soddisfare ma la considera come una sorta di ricatto, di ripicca: più che altro è una sfida che il signor von Dorsday vuol vincere - essendo Else una ragazza “altera e caparbia” - indipendentemente dall’oggetto della richiesta. Else, però, vuole rovinargli la vittoria ingaggiando una sfida “mortale”, e i pensieri che incessantemente scaturiscono nell’interiorità della signorina Else traboccano come il tè dalla tazza ormai ricolma.
LEGERE MULTUM….
Arthur Schnitzler, La signorina Else
Se solo non fossi così stanca, così tremendamente stanca. E in questo stato dovrei stare alzata fino a mezzanotte per poi infilarmi nella stanza del signor von Dorsday? Chissà se incontro Cissy nel corridoio. Come ci andrà da Paul, avrà addosso qualcosa sotto la vestaglia? È difficile cavarsela in queste situazioni senza una certa pratica. È forse il caso che le chieda un consiglio, a Cissy? È chiaro che non direi che si tratta di Dorsday: anzi lei dovrebbe pensare che stanotte ho un rendez-vous con un bel giovanotto dell’albergo. Quel tipo alto e biondo con gli occhi sfavillanti, per esempio. Ma no, quello lì se n’è andato. È sparito dall’oggi al domani. Fino a questo momento non avevo mai pensato a lui. Ma ahimè, non è di lui che si tratta … Come faccio, allora? Che cosa gli dico? Semplicemente di sì? Nella camera del signor von Dorsday non ce la faccio ad andarci. Di sicuro sono messi in bella mostra sulla toilette boccette e flaconi di ogni tipo, e l’aria è impregnata di profumo francese. No, non ci vado per tutto l’oro del mondo. Meglio fuori, piuttosto. All’aria aperta non mi farà nessun effetto. È così alto il cielo, e il prato così vasto. Non ho bisogno di pensare a lui. Non sono neanche obbligata a guardarlo in faccia. E se osasse anche solo sfiorarmi, gli darei un calcio con un piede nudo. …Si pianterà davanti a me col suo monocolo e non mi sfiorerà affatto. Ostenterà un’espressione distaccata. Addirittura distinta. Di uno che è avvezzo a questo genere di spettacoli. Quante ne ha già viste così? Cento? Mille? E tra loro ce n’è mai stata una come me? Mai, di questo sono certa. Io gli dirò che non è il primo a vedermi nuda. Gli dirò che ho un amante. Ma solo quando i trentamila fiorini saranno stati spediti a Fiala. Allora gli dirò che è stato un imbecille, che per la stessa somma avrei potuto concedere di più. - Che di amanti ne ho già avuti dieci, venti, cento. - Ma a tutte queste cose lui non crederà. - E se anche mi credesse, a che mi servirebbe? Devo comunque trovare il modo di guastargli il piacere. E se oltre a lui ci fosse qualcun altro? Perché no? Non ha mica specificato che vuol essere solo con me. Non contravverrei in alcun modo ai nostri patti. E anzi, se la cosa mi andasse a genio, potrei invitare tutto l’albergo a godersi lo spettacolo, e lei, signor von Dorsday, sarebbe ugualmente tenuto a spedire quei trentamila fiorini … Non ci tengo affatto alla discrezione. Quando una è arrivata al punto a cui sono arrivata io, tutto le diventa indifferente. E poi quello di oggi è solo l’inizio. Non crederà mica che da questa avventura io possa far ritorno a casa come una brava ragazza di buona famiglia. No, la brava ragazza e la buona famiglia sono ormai un capitolo chiuso. D’ora innanzi camminerò sulle mie gambe. Sono belle le mie gambe, signor von Dorsday, come lei e gli altri partecipanti alla festa avrete modo di constatare di qui a non molto. La faccenda è sistemata, signor von Dorsday. Intorno alle dieci, mentre tutti quanti saranno ancora seduti nella hall, noi ci incammineremo tra i prati al chiaro di luna, e poi nel bosco, fino a raggiungere la famosa radura da lei scoperta. Ma, ad ogni buon conto, porti con sé il modulo del telegramma. Poiché ammetterà che una qualche garanzia avrò pure il diritto di pretenderla da un furfante della sua specie. Non mi dica, signor von Dorsday, che ha qualcosa in contrario. Non ne ha alcun diritto. E se per caso domattina all’alba io fossi morta, lei non si stupisca. Consegnerà il telegramma alla posta. Darò io disposizioni in tal senso. Ma non si metta in testa, per l’amor del cielo, che un miserabile come lei abbia potuto spingermi al suicidio. Lo so da un pezzo che finirò così. Domandi pure al mio amico Fred, a lui l’ho già detto più di una volta. Fred, e cioè il signor Friedrich Wenkheim, è l’unica persona veramente per bene che io abbia mai conosciuto. L’unico uomo che avrei amato se, appunto, non fosse stato così per bene. Eh già, sono fatta così, sono un essere abietto io. Da una parte non sono adatta a una tranquilla esistenza borghese, dall’altra non possiedo alcun talento artistico. Se la nostra famiglia si estinguesse sarebbe una vera fortuna. In un modo o nell’altro anche mio fratello Rudi si comporterà da sciagurato. Farà un mucchio di debiti per una qualche sciantosa olandese e sottrarrà del denaro dalla cassa della Banca per cui lavora. È così che vanno le cose nella nostra famiglia. E il fratello minore di mio padre? Quello si è sparato un colpo quando aveva quindici anni. Nessuno sa perché. Io non l’ho mai conosciuto. Si faccia mostrare la sua fotografia, signor von Dorsday. L’abbiamo in un album … Dicono che io gli somigli. Nessuno sa perché quel ragazzo si sia ucciso. E neanche di me nessuno lo saprà mai. In ogni caso non per causa sua, signor von Dorsday. È un onore che non le faccio. A diciannove anni o a ventuno, non cambia niente. O forse dovrei fare la governante, o la telefonista, o la moglie di un qualsiasi direttor W., oppure, signor von Dorsday, la sua mantenuta? Tutto questo mi fa schifo nello stesso modo, e io nel prato con lei non ci vengo, non ci vengo per nessun motivo. È troppo faticoso, e troppo stupido, e troppo ripugnante. E quando io sarò morta, sia così cortese, signor von Dorsday, da spedire al papà quelle poche migliaia di fiorini, perché sarebbe davvero troppo triste se lui venisse tratto in arresto proprio nel giorno in cui la mia salma verrà portata a Vienna. Comunque lascerò una lettera con le mie disposizioni testamentarie: il signor von Dorsday ha diritto di vedere il mio bel cadavere di ragazza nuda. Così, signor von Dorsday, non avrà niente di cui lamentarsi e non potrà dire che l’ho menato per il naso. Non avrà speso il suo denaro senza ottenere nulla in cambio. Non è scritto nel nostro contratto che io debba essere viva. Oh no. Non è scritto da nessuna parte. Dunque, nel mio testamento lascio lo spettacolo del mio cadavere al mercante d’arte Dorsday, e a Fred il diario di quando avevo sedici anni - poi ho smesso di scriverlo -, e alla bambinaia di Cissy le cinque monete da venti franchi che ho portato dalla Svizzera parecchi anni fa. Sono nel cassetto della mia scrivania accanto alle lettere. A Bertha lascio il mio vestito da sera nero. Ad Agathe i libri. A mio cugino Paul il permesso di deporre un bacio sulle mie bianche labbra. E a Cissy la mia racchetta da tennis, perché io sono di animo nobile. E voglio essere sepolta subito, qui, nel piccolo, grazioso camposanto di San Martino di Castrozza. Non voglio tornare a casa. Neanche da morta ci voglio ritornare. E che il papà e la mamma non si affliggano troppo, sto meglio io di loro. E li perdono entrambi. Non devono rimpiangermi. - Che buffo testamento è il mio. Sono proprio commossa. Se penso che domani all’ora di cena, quando tutti saranno a tavola, io sarò già morta … Zia Emma, com’è ovvio, non scenderà, e Paul neppure. Si faranno portare qualcosa in camera. Sarei curiosa di sapere cosa farà Cissy. Ma purtroppo non lo saprò mai. Non saprò più niente di niente. O chissà, forse fino a quando non si viene sepolti si continua a sapere ogni cosa. E la mia sarà soltanto una morte apparente. E quando il signor von Dorsday si avvicina al mio cadavere, io mi risveglio e sgrano gli occhi, e lui allora fa cadere il monocolo per lo spavento. Ma tutto questo purtroppo non è vero. La mia morte non sarà né apparente né vera. Non mi ucciderò affatto, sono troppo vile per farlo. È vero che in montagna sono una scalatrice coraggiosa, però sono vile lo stesso. E forse non ho neanche abbastanza veronal. Quante bustine ne occorrono? Sei, se non sbaglio. Ma dieci è più sicuro. Credo che ce ne siano ancora dieci. Sì, saranno abbastanza. Quanti giri ho già fatto intorno all’albergo? E adesso? Eccomi arrivata davanti alla porta. Nella hall non c’è nessuno. Naturale, sono tutti a cena. La hall così deserta ha un aspetto curioso. Mi piace il cappello da cacciatore posato su quella sedia, ha una bella guarnizione di barba di camoscio. Nella poltrona laggiù è seduto un vecchio signore, pacifico. Forse non ha più fame. Sta leggendo il giornale. Beato lui che non ha pensieri, mentre io sono qui che non so come fare a procurare a papà trentamila fiorini. Ma no, lo so benissimo invece. È di una semplicità spaventosa. Che cosa voglio in fondo? Che ci sto a fare nella hall? Fra non molto la cena sarà finita e tutti verranno qui. E io, allora, che faccio? Il signor von Dorsday sarà sulle spine. Dov’è finita? penserà. Che si sia ammazzata? Che stia dando a qualcuno l’incarico di ammazzarmi? Non abbia paura, signor von Dorsday, non sono pericolosa fino a questo punto. Sono una sgualdrinella, niente di più. Avrà la sua ricompensa anche per questa paura. Mezzanotte, camera numero sessantacinque. All’aperto, tutto sommato, avrei troppo freddo. E appena esco dalla sua camera, signor von Dorsday, vado dritta filata da mio cugino Paul. Ha qualcosa in contrario?
«Else!». Questa è la voce di Paul. La cena è dunque finita? - «Else!». - «Eccomi, Paul, cosa c’è?». - Faccio l’ingenua, deve credermi perfettamente innocente. - «Insomma, Else, dove ti eri cacciata?». - «Dove vuoi che mi sia cacciata? Sono andata a fare due passi». - «Adesso, all’ora di cena?». - «Perché, cosa c’è di strano? Lo sanno tutti che è l’ora migliore». Che idiozie sto dicendo. - «La mamma si è messa in mente le cose più incredibili. E io sono salito da te e ho bussato alla porta della tua camera». - «Non ho sentito nulla». - «Ma Else, insomma, avresti almeno potuto avvertire la mamma che non scendevi a cena». - «Hai ragione, Paul, ma sapessi che tremendo mal di testa ho avuto…». Sono tutta un miele. Una vera sgualdrina. - «Ma adesso, almeno, ti senti meglio?». - «Veramente non direi». - «Vado subito ad avvertire la mamma…». - «Aspetta, Paul, un attimo solo. Di’ alla zia che mi scuso, ma ho davvero bisogno di salire in camera per rimettermi in sesto. Fra qualche minuto scendo da basso e mi faccio scaldare qualcosina». - «Come mai sei così pallida, Else? Vuoi che dica alla mamma di salire in camera tua?». - «Smettila, Paul, di farla tanto lunga, non hai mai visto una donna con un forte mal di testa? Sta’ tranquillo che fra dieci minuti sarò giù. Ti saluto, Paul». - «Va bene, Else, a tra poco». - Per fortuna se ne va. Stupido ma gentile, il ragazzo. Che vorrà il portiere da me? Cosa? Un telegramma? - «La ringrazio. Ma mi dica, quando è arrivato?». - «Un quarto d’ora fa, signorina». - Chissà perché mi guarda così … con quell’aria di compatimento. Che cosa può esserci scritto in questo telegramma? Aspetto di essere in camera e poi lo apro, perché altrimenti potrei anche cadere a terra svenuta. Papà alla fin fine si è … Se papà è morto, la faccenda è sistemata e io non ho più l’obbligo di andare nel prato con il signor von Dorsday … Oh, sono un essere infame. Mio Dio, fa’ che papà sia vivo. Magari in prigione, ma non morto. Se il telegramma non dice niente di brutto, io faccio un voto. Mi impiego come governante, o accetto un lavoro in un ufficio qualsiasi. Non essere morto, papà. Sono pronta, credimi. Farò tutto quello che vuoi …
Che cosa ci sarà scritto in questo telegramma? Lo sapremo tra un po’ [ma niente di buono!].
Sappiamo che in Giappone, durante l’autunno del Medioevo, nascono due correnti [due Scuole] zen contrapposte e, quindi, questo significa [abbiamo detto] che “le opinioni e le congetture” influenzano pure chi abbraccia la cultura zen: per la persona che riflette è difficile non fare ipotesi e non dare giudizi. Che cosa propongono queste due Scuole [rinzai e soto] e chi le guida?
In Giappone lo zen ha avuto grande espansione per opera di un monaco che si chiama Eisai [1141-1215] che ha fondato la Scuola detta “rinzai” che significa “rinnovamento”: un rinnovamento secondo la mentalità giapponese, secondo l’indole pratica nipponica. L’obiettivo della Scuola “zen rinzai” è quello di condurre la persona, senza nessuna preoccupazione dottrinale, alla vera padronanza di sé con il metodo della meditazione in modo che la coscienza della persona arrivi ad identificarsi con l’Universo intero perché possa diventare indifferente ad ogni timore e ad ogni speranza. Questa solidità interiore non deve essere fine a se stessa perché il suo scopo è di far fronte, in maniera attiva, ai tumulti della vita con azioni audaci, intrepide e calme. Il programma della Scuola “zen rinzai”, per la cura che mette nell’insegnare la concentrazione, la ferrea disciplina e l’atteggiamento energico nei confronti della vita mondana, riscuote particolare successo negli ambienti dei samurai, che hanno preso spunto da questo indirizzo per elaborare una propria etica cavalleresca [il bushido]. La Scuola “zen rinzai” insegna anche le arti marziali come via [do] per aumentare la concentrazione e l’illuminazione della mente. La pratica della Scuola “zen rinzai” consiste principalmente nella seduta meditativa [zazen] in cui, mediante la coltivazione del raccoglimento interiore, la mente, liberandosi dall’invadenza dei pensieri [dall’essere ben piena di trame concettuali], entra in uno stato di vacuità, di leggerezza [acume, acutezza, finezza, perspicacia], e giunge a vedere le cose “così come sono” dando spazio alla “percezione intuitiva”. La Scuola “zen rinzai” insegna a cogliere la realtà per intuizione, ed è con l’intuito che la mente entra nel campo dell’illuminazione [satori], e un aiuto in questo senso viene anche dalla pratica del “koan” che è la seduta meditativa insieme ad un maestro con cui la persona imbastisce un dialogo volutamente paradossale per sviluppare la facoltà intuitiva [chiara, immediata, pronta].
Il termine “koan” significa “problema, nel senso di sfida interiore” che il maestro propone al discepolo per metterlo alla prova, e uno dei testi classici dello zen, che codifica questa pratica, s’intitola La porta senza porta [Mu-mon-ka], attribuito al maestro cinese Ekai [vissuto tra il 1183 e il 1260], chiamato Mu-mon in Giappone dove è emigrato intorno al 1240.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quale di queste parole - acume, acutezza, finezza, perspicacia - mettereste per prima accanto al termine “leggerezza”?…
Scrivetela …
Che cosa vi fa venire in mente la parola “leggerezza”?…
Scrivete quattro righe in proposito…
Una delle fonti dell’antologia 101 Storie Zen è il testo classico intitolato La porta senza porta [Mu-mon-ka], attribuito al maestro cinese Ekai, chiamato Mu-mon in Giappone dove è emigrato intorno al 1240.
Sulla scia della cultura zen, in Giappone, fiorisce una vasta Letteratura fatta di “storie” che possiamo chiamare “parabole” nelle quali risalta il fatto che lo zen non è [o, per lo meno, non dovrebbe essere] una filosofia, una dottrina, un’ideologia ma è “un particolare atteggiamento nei confronti della vita”, un atteggiamento di carattere universale che ogni persona può avere.
Prima di incontrare la seconda importante Scuola dello zen giapponese leggiamo alcune “parabole” orientate al concetto de “la porta senza porta”.
LEGERE MULTUM….
101 Storie Zen [a cura di Nyogen Senzaki e Paul Reps, 1939]
3. Il maestro di Zen Hakuin era decantato dai vicini per la purezza della sua vita. Accanto a lui abitava una bella ragazza giapponese, i cui genitori avevano un negozio di alimentari. Un giorno, come un fulmine a ciel sereno, i genitori scoprirono che era incinta. La cosa mandò i genitori su tutte le furie. La ragazza non voleva confessare chi fosse l’uomo, ma quando non ne poté più di tutte quelle insistenze, finì col dire che era stato Hakuin. I genitori furibondi andarono dal maestro. «Ah sì?» disse lui come tutta risposta.
... continua la lettura ...
La seconda Scuola zen - che costituisce l’altra grande corrente dello zen giapponese - prende il nome di “soto” che significa “lampo”.
Mentre l’indirizzo della Scuola “zen rinzai” insiste molto sullo sforzo per raggiungere determinati risultati meditativi [kensho, satori], la Scuola “soto” - che costituisce la seconda grande corrente dello zen giapponese - insiste invece sulla “pura e semplice pratica del sedere in meditazione [shikantaza] in completa sintonia con il presente” [il kairòs diremmo in greco, l’hic et nunc diremmo in latino], senza pensare ad alcun risultato futuro: infatti l’illuminazione è già presente in ciascuna persona, basta solo che la persona la sappia scorgere, la sappia intuire.
Il fondatore della Scuola “soto” si chiama Dogen [1200-1253], ed è uno dei più grandi pensatori giapponesi, che è vissuto a lungo in Cina. Dogen insiste sul fatto che ogni persona già possiede in sé l’illuminata natura del Buddha, ma la mente, che di solito è offuscata da pensieri banali o prettamente utilitaristici ed affaristici, non riesce a rendersene conto. La pratica della Scuola “soto” consiste, quindi, nell’abbandono di ogni pragmatismo, del consumismo e dell’arrivismo sociale, tutte malformazioni della mente che creano disattenzione per l’acquisizione dell’illuminazione che, senza rendersene conto, la persona ha da sempre posseduto come sua intrinseca natura originaria.
Per questo la Scuola “soto” di Dogen dà valore ad ogni più piccola azione quotidiana, e ad alcune azioni quotidiane particolari come: disporre i fiori, servire il tè, fare giardinaggio, perché ogni piccola azione, compiuta con gratuità, con cura e con attenzione, diventa l’occasione per mettere in pratica e dare espressione alla propria saggezza ed è questa la strada attraverso la quale all’improvviso possiamo cogliere il lampo dell’illuminazione [soto satori]. Scrive Dogen: «Il lampo [soto] dell’illuminazione [satori] sopraggiunge improvviso e inaspettato durante le più umili attività quotidiane. L’illuminazione non va “raggiunta o costruita” - che, anzi, ogni sforzo per afferrarla si trasforma automaticamente in un ostacolo - ma va scoperta di momento in momento nel presente, perché è sempre a portata di mano se la mente cessa di alimentarsi con pensieri superflui che fanno da schermo alla realtà così com’è».
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quale piccola attività quotidiana vi dà maggiore soddisfazione?…
Scrivete quattro righe in proposito…
E ora leggiamo ancora alcune Storie Zen.
LEGERE MULTUM….
101 Storie Zen [a cura di Nyogen Senzaki e Paul Reps, 1939]
21. Il piccolo Toyo si presentò dal maestro Mokurai per la meditazione e andò a sedersi in riguardoso silenzio davanti a lui in attesa che gli proponesse un koan [un problema da risolvere] per fermare le divagazioni della mente. «Tu puoi sentire il suono di due mani quando battono l’una contro l’altra» disse Mokurai. «Ora mostrami il suono di una sola mano». Toyo fece un inchino e se ne andò nella sua stanza per riflettere su questo problema. Dalla sua finestra poteva sentire la musica delle geishe. «Ah, ho capito!» proruppe. La sera dopo, quando l’insegnante gli chiese di illustrargli il suono di una sola mano, Toyo cominciò a suonare la musica delle geishe. «No, no» disse Mokurai. «Questo non serve. Questo non è il suono di una sola mano. Non hai capito». Toyo riprese a meditare, e per caso sentì gocciolare dell’acqua. «Stavolta ci sono» si figurò Toyo. Quando tornò davanti al maestro, Toyo imitò il gocciolare dell’acqua.
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Grande è stato - e continua ad essere tuttora - l’influsso dello zen nella vita e nella cultura giapponese: lo è nel genere letterario del romanzo, nel gusto del diario intimo, nel teatro No e, più in generale, in molti aspetti del comportamento quotidiano improntato alla concentrazione.
E ora ricapitoliamo per fare il punto della situazione. In Giappone, durante il periodo che corrisponde all’autunno del Medioevo, le idee buddiste originarie [che abbiamo ripassato nel corso dell’itinerario della scorsa settimana] vengono sottoposte ad un processo di trasformazione e si formano tre correnti di pensiero: la corrente amidista [con i maestri Honen Shonin e Shinran, che abbiamo incontrato la scorsa settimana e dei quali abbiamo studiato il pensiero], quella zen [con le Scuole rinzai e soto che abbiamo appena inquadrato] e la corrente legata alla dottrina di un maestro che si chiama Nichiren che adesso dobbiamo incontrare, il cui pensiero si avvicina allo spirito dell’ultima Storia Zen che abbiamo letto perché improntata allo spirito originario, assolutamente laico, del buddismo.
Il maestro Nichiren Daishonin [1222-1282] è un monaco molto combattivo e fonda una Scuola il cui pensiero costituisce una creazione originale del buddismo giapponese [senza influenze precedenti provenienti dalla Cina]- Nichiren è un pensatore particolarmente intransigente e per questo motivo ha passato molti anni in prigione [come prigioniero politico] perché è fortemente critico nei confronti della religione buddista ufficiale: fideista, superstiziosa, adoratrice di immagini, consumatrice di riti, e funzionale al potere perché, afferma Nichiren, “acquieta le coscienze”, ed è critico anche nei confronti dello zen che, secondo lui, propone di rimuovere la presa di coscienza sociale per invitare le persone a rifugiarsi nell’individualismo. A questa specie di idolatria politeistica Nichiren contrappone e predica la figura originaria e le “quattro verità” dell’Illuminato di Benares, di Shakyamuni, del Buddha storico, Gotamo Siddharta.
L’unico veicolo di salvezza - secondo la dottrina di Nichiren - è la ripetizione, mediante la concentrazione, di una formula sacra [energetica] che rigenera e predispone la persona all’azione sociale e politica volta alla lotta contro il dolore. La persona deve - secondo gli otto sentieri dettati dall’Illuminato di Benares - rigenerarsi nel modo di pensare, di decidere, di parlare, di studiare, di lavorare, di impegnarsi [per il prossimo], di ricordare e di concentrarsi in maniera da contrastare il dolore che nasce, in massima parte, afferma Nichiren, dagli squilibri sociali e dall’ignoranza perché c’è una relazione causale, afferma Nichiren, tra l’ignoranza e la sofferenza.
Con la Scuola di Nichiren - più che con gli altri movimenti buddisti giapponesi - si attua uno stretto legame fra il fervore religioso e l’azione socio-politica che è diventato uno dei tratti salienti della cultura giapponese. Il buddismo che si è diffuso in Occidente attraverso l’Associazione Internazionale Soka Gakkai si richiama all’insegnamento del maestro Nichiren Daishonin.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Le conferenze dello studioso Daisaku Ikeda, tenute negli atenei di tutto il mondo, sono state pubblicate in un’antologia che [non a caso] s’intitola: “Un nuovo umanesimo”…
Questa antologia la trovate in biblioteca e ne potete leggere qualche pagina…
Anche per la signorina Else c’è un nesso causale tra l’ignoranza e la sofferenza: che cosa c’è scritto nel telegramma che ha appena ricevuto?
LEGERE MULTUM….
Arthur Schnitzler, La signorina Else
Meno male che sono arrivata in camera. Accendo la luce, l’accendo subito. Fa fresco adesso. La finestra è stata aperta troppo a lungo. Coraggio, devo farmi coraggio. Può darsi che ci sia scritto che la faccenda è risolta. Che lo zio Bernhard ha sborsato i quattrini. Può darsi che loro mi dicano: Non parlare con Dorsday. Be’, se è così lo vedo subito. Devo leggerlo per forza. “Nuovamente scongiuroti parlare con Dorsday. Somma non trenta, bensì cinquanta. Altrimenti tutto inutile. Indirizzo rimane Fiala”. Bensì cinquanta. Altrimenti tutto inutile. Ma certo, trenta o cinquanta, non fa nessuna differenza. Neanche per Dorsday. Il veronal, ad ogni buon conto, è sotto la biancheria. Perché non ho detto subito che erano cinquanta? Eppure ci avevo pensato! Altrimenti tutto inutile. Dunque devo scendere subito, e non stare qui seduta sul letto. Mi scusi, signor von Dorsday, c’è stato un piccolo errore. Non trenta, bensì cinquanta, altrimenti tutto inutile. Indirizzo rimane Fiala. - “Ma signorina Else, mi prende forse per un imbecille?”. Non ci penso neppure, signor visconte, come potrei? “Per cinquanta però dovrei accrescere proporzionalmente le mie pretese, signorina”. Altrimenti tutto inutile, indirizzo rimane Fiala. Come vuole, signor von Dorsday. Comandi pure, io sono ai suoi ordini. Ma prima di tutto scriva il telegramma per la sua banca, è più che naturale, che garanzia avrei altrimenti?
Ecco, farò proprio così. Vado in camera sua e non mi spoglio se non dopo aver visto con i miei occhi il testo del telegramma. Che poi mi faccio consegnare e tengo ben stretto in mano. Ah, che disgusto. E i miei vestiti dove li poso? No, no, mi spoglio qui, piuttosto, mi spoglio e poi mi avvolgo tutta nell’ampio mantello nero, quello che mi arriva fino ai piedi. È la cosa più pratica. Per entrambe le parti. Indirizzo rimane Fiala. Mi battono i denti. La finestra è ancora aperta. Ecco, l’ho chiusa. All’aperto? Sarebbe la morte. Farabutto! Cinquantamila. … Un programma piuttosto denso. Poi entra in scena il veronal. Ma no, perché dovrei prendere il veronal? Perché dovrei morire? Non se ne parla neanche. Coraggio, allegria, la vita comincia adesso. Siate contenti, voi, ne vedrete delle belle. Avrete di che essere orgogliosi della vostra figlioletta. Ho in mente di diventare una sgualdrina come al mondo non se ne sono mai viste. Indirizzo rimane Fiala. Avrai i tuoi cinquantamila fiorini, papà. Ma con i prossimi soldi che guadagno mi compro delle camicie da notte trasparenti con guarnizioni di pizzo, e calze di seta, finissime. Si vive una volta sola. Che me ne faccio, altrimenti, della mia bellezza? Ancora un po’ di luce. Accendo la lampada sopra lo specchio. Che belli i miei capelli ramati, e che magnifiche spalle; anche degli occhi non posso lamentarmi. …Sono sempre in tempo a prendere il veronal … Ma ora bisogna che scenda … e molto in basso anche. Il signor Dorsday aspetta e non sa che nel frattempo la somma è salita a cinquantamila. Già, signor von Dorsday, il mio prezzo è aumentato. Sarà meglio che gli mostri il telegramma, perché altrimenti potrebbe anche non credermi e pensare che voglia approfittare dell’occasione per arricchirmi. Farò mandare il telegramma in camera sua accompagnato da un mio biglietto. Con mio vivo rammarico i fiorini son diventati cinquantamila, signor von Dorsday, ma non penso che la cosa possa minimamente turbarla. Sono inoltre persuasa che lei non abbia parlato sul serio quando ha preteso da me una contropartita. Giacché lei è un visconte oltre che un gentiluomo. Domattina presto, dunque, sia così cortese da far recapitare senza indugio nelle mani di Fiala i cinquantamila fiorini da cui dipende la vita di mio padre. Ci conto. - “Certamente, signorina, anzi per maggior sicurezza e senza chiedere nulla in cambio ne mando subito centomila, e inoltre mi impegno a provvedere d’ora innanzi al sostentamento di tutta la sua famiglia, al pagamento delle somme che suo padre dovesse perdere in Borsa, e alla ricostituzione di qualsiasi patrimonio di minore di cui egli si dovesse indebitamente appropriare”. Indirizzo rimane Fiala. Ah, finalmente riconosco il visconte … Macché, tutto questo è assurdo. Ma allora, qual è l’alternativa? Devo farlo, non posso assolutamente esimermi, devo fare tutto quello che il signor von Dorsday pretende da me se voglio che domattina papà riceva il denaro…se non voglio che vada in prigione…se non voglio che si ammazzi. E infatti è quello che farò. Sì, lo farò, pur sapendo che non serve a niente. In capo a sei mesi saremo di nuovo esattamente al punto in cui siamo oggi! Anzi, basterà un mese! … Ma io allora non c’entrerò più niente. Questa è la prima e unica volta che mi sacrifico. Mai più lo farò, mai più in tutta la mia vita. È quello che dirò a papà appena sarò arrivata a Vienna. E poi me ne andrò via, lontano da casa, non importa dove. Chiederò consiglio a Fred, Fred è l’unica persona al mondo che mi vuole veramente bene. Ma non sono ancora a quel punto. Non sono a Vienna, sono ancora a San Martino di Castrozza. E ancora non è successo niente. E allora, come posso uscirne? Ecco qui il telegramma. Che me ne faccio di questo telegramma? Ma sì, un momento fa lo sapevo. Devo farglielo recapitare in camera. E poi? Già, devo aggiungere un biglietto. D’accordo, ma cosa scrivo sul biglietto? Mi aspetti verso mezzanotte. No, no e poi no. Questa vittoria non l’avrà mai. Non voglio, non voglio, non voglio. Per fortuna ho le bustine di veronal. Quelle bustine sono la mia unica salvezza. Ma dove le ho messe? Per l’amor di Dio, non me le avranno mica rubate? Ma no, eccole qui. Qui nella scatola. Ci sono ancora tutte? Sì, eccole. Una, due, tre, quattro, cinque, sei. Voglio solo guardarle, le mie amate bustine. Guardarle non mi impegna a nulla. Anche se le versassi nel bicchiere non sarei tenuta a far niente. Una, due…tanto son sicura che non mi ammazzo. Non mi sogno nemmeno di ammazzarmi. Tre, quattro, cinque…ci vuol altro per morire, non sono certo abbastanza. Sarebbe spaventoso se non avessi con me il veronal. Sarei costretta a buttarmi giù dalla finestra e non ne avrei il coraggio. Col veronal, invece… ci si addormenta dolcemente, per non svegliarsi mai più…senza dolore, senza tormento. Ci si sdraia sul letto, si vuota il bicchiere d’un fiato, si sogna, e poi…poi è finita. Anche avantieri ne ho presa una bustina, e l’altro giorno addirittura due. Ssst… non bisogna dirlo a nessuno. Oggi saranno solo un tantino di più. È solo per la mia tranquillità. Nel caso in cui…non si sa mai…la cosa dovesse farmi veramente troppo schifo. Ma perché mai dovrebbe farmi schifo? Se si azzarda anche solo a sfiorarmi, gli sputo in faccia. Semplicissimo. Ma la lettera, come gliela faccio avere? Non posso certo chiedere alla cameriera del piano di portare una lettera al signor von Dorsday. La cosa migliore è che io vada da basso e parli con lui mostrandogli il telegramma. Tanto devo scendere in ogni caso. Non posso più rimanere quassù. Non ci resisto in questa camera ancora per tre ore fino al momento in cui … Devo scendere, anche per riguardo alla zia. Che m’importa della zia? Che m’importa della gente? Guardate, signori miei, questo è il bicchiere col veronal. Ecco, adesso lo prendo in mano. Ecco, lo porto alle labbra. Sicuro, da un momento all’altro potrei essere di là, in un mondo senza zie, senza Dorsday, e senza padri che defraudano i minori del loro patrimonio… Non è necessario che io muoia. E non andrò neppure nella camera del signor von Dorsday. Non ci penso neanche lontanamente. Figurarsi se in cambio di cinquantamila fiorini mi metto nuda davanti a un vecchio viveur per salvare un disgraziato dalla galera. No, no, l’aut aut è chiaro. Proprio a lui dovrei mostrarmi nuda? Se mi vede uno, allora che mi vedano tutti. Sì…è una magnifica idea! Tutti mi devono vedere. Il mondo intero deve vedermi. …
La signorina Else è sì in preda alla disperazione ma sembra anche assaporare l’idea di poter dare una lezione a chi l’ha sfidata, ma, forse, sta conducendo una partita troppo pericolosa, e la trama che sta costruendo nella sua mente è molto rischiosa.
Per mettere in guardia Else [ma dubito che ci ascolti], e per concludere questo itinerario, leggiamo ancora una “parabola” zen. Prima, però, diciamo che la prossima settimana, mentre torneremo verso Occidente, faremo una sosta in Cina dove l’autunno del Medioevo ha prodotto buoni frutti nell’orto di Confucio, e non vorrei che i Cinesi del XII secolo se ne avessero a male se noi questi frutti non li assaggiamo, e poi perché non li dovremmo assaggiare visto che sono maturi e che ci vengono offerti? E adesso, a proposito di frutti, leggiamo la “parabola” con cui si conclude questo itinerario.
LEGERE MULTUM….
101 Storie Zen [a cura di Nyogen Senzaki e Paul Reps, 1939]
18. L’Illuminato di Benares raccontò una parabola: Una persona che camminava per un campo si imbatté in una tigre. Si mise a correre, tallonata dalla tigre. Giunta a un precipizio, si afferrò alla radice di una vite selvatica e si lasciò penzolare oltre l’orlo.
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C’è sempre, nonostante tutto, qualche cosa di buono gustare nella vita e anche la volontà di imparare - che noi dobbiamo coltivare in mezzo a molte difficoltà - è dolce come una fragola [le stesse fragole che, alla fine di ottobre, abbiamo mangiato su “Il sentiero nel bosco” di Adalbert Stifter, insieme al signor Tiburius e alla signorina Maria che non assomiglia alla sua contemporanea signorina Else] e, con in bocca questa dolcezza, dobbiamo seguire la via dell’Alfabetizzazione culturale e funzionale con lo spirito utopico che lo “studio” porta con sé, consapevoli del fatto che la Scuola è qui, e che il viaggio continua: c’è sempre, nonostante tutto, qualche cosa di buono gustare materialmente e intellettualmente nella vita…