Prof. Giuseppe Nibbi La sapienza poetica e filosofica dell’età umanistica 27-28-29 aprile 2016
SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ UMANISTICA
SI RIFLETTE SU QUESTA AFFERMAZIONE: «… E DI SE STESSA LA PERSONA
NON PRENDE CURA, DI SE STESSA LA PERSONA NON FA STUDIO» ...
Questo è il venticinquesimo itinerario del nostro viaggio di studio sul “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età umanistica” e [come sapete, perché lo abbiamo anticipato la scorsa settimana] siamo tornate e tornati dall’Oriente e, in questo momento, siamo in Provenza in un posto particolarmente atipico di questa regione: difatti abbiamo raggiunto la vetta del Mont Ventoux [non è stata una scalata difficile, e lassù ci aveva già precedute e preceduti la signorina Else perché lei vola come un gabbiano]; insieme a noi sono saliti in vetta anche Francesco Petrarca, che non è ancora un personaggio famoso, e suo fratello Gherardo, che famoso come Francesco non diventerà mai: è il 26 aprile 1336 [680 anni fa esatti, e l’Alfabetizzazione funzionale e culturale questa sera ci allarga la vita di 680 anni! Lo studio è, per ora, l’unica macchina del tempo funzionante].
Che cosa siamo venute e venuti a fare in cima ai 1912 metri del Mont Ventoux? Prima di tutto per gustare il grandioso panorama: dalle Alpi, alle Cevenne, ai Pirenei, alla valle del Rodano punteggiata di città turrite, con il delta di questo grande fiume circondato dai vasti stagni della Camargue, fino al Mar Mediterraneo, al golfo del Leone dal quale volano in cima a questo monte, sfidando la forza del vento, anche i gabbiani.
Poi siamo qui perché Francesco Petrarca, dopo aver tirato fuori dal suo zainetto il libro delle Confessioni di Sant’Agostino e averlo aperto a caso [ma io ho visto che c’era un segnalibro], ci deve leggere un brano, ebbene, viene fatta l’ipotesi che in questo momento [il 26 aprile 1336] abbia avuto inizio l’Umanesimo filologico [quello propriamente detto]. Che cosa c’è scritto in questo brano? Ad una lettura superficiale non sembra ci sia nulla di eclatante in questo brano, e noi lo leggiamo attraverso una Lettera scritta, qualche tempo dopo, da Francesco Petrarca ad un suo amico, in cui rievoca questo episodio per fare, avvalendosi di una citazione agostiniana, un’importante considerazione.
LEGERE MULTUM….
Francesco Petrarca, Epistolario
Durante l’escursione al Mont Ventoux che ho compiuto il 26 aprile scorso insieme a mio fratello Gherardo mi venne in mente di consultare il libro di Sant’Agostino, le Confessioni … Lo apro, per leggere quel che mi capitava, e dove prima affissai il mio sguardo era scritto: «E le persone vanno ad ammirare le alte cime dei monti e i flutti ingenti del mare e i vastissimi corsi dei fiumi e l’immensa distesa dell’oceano e il regale volo dei gabbiani e il corso delle stelle, e di se stessa la persona non prende cura, di se stessa la persona non fa studio». …
Pensiamo che questa sia una considerazione interessante anche perché queste parole [scritte 680 anni fa da Petrarca che rimandano alle parole di Agostino scritte 935 anni prima del Petrarca, 1615 anni fa. Agostino ha terminato di scrivere le Confessioni nell’anno 401] non sono invecchiate e ci sono familiari e, quindi, essendo noi già convinte e convinti che “studium” e “cura” siano sinonimi [siamo però un’esigua minoranza ad essere consapevoli di questo fatto], probabilmente, non vi troviamo nulla di sensazionale nella citazione agostiniana del Petrarca e, invece, dobbiamo capire che c’è qualcosa di nuovo nell’affermazione che fa: qualcosa che rompe definitivamente con gli schemi del passato per cui ci troviamo di fronte all’inizio della fine dell’Età medioevale. E allora iniziamo a riflettere su questa affermazione del Petrarca in cui cita Agostino scrivendo: «…e di se stessa la persona non prende cura, di se stessa la persona non fa studio».
Secondo lo schema medioevale il fatto che la persona decida “di prendersi cura di sé, di fare studio di se stessa” voleva dire volgere le spalle al mondo ed entrare nella solitudine monacale, voleva dire vivere la propria vita nell’ambito di un monastero [anche perché molto spesso la vita in un monastero era più comoda rispetto a quella vissuta nella società secolare].
Il fratello del Petrarca, Gherardo [che è con lui nell’ascensione al Mont Ventoux], sta cominciando a pensarla esattamente così [secondo lo schema medioevale] e, dopo una vita mondana piuttosto frivola e dissipata alla corte avignonese, si farà monaco nell’aprile del 1343 nella certosa di Montrieux per “annullare se stesso” in modo da far posto nella sua anima alla divinità.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Con la guida della Francia e navigando in rete [dove trovate molti siti in proposito su questo argomento] fate una visita alla certosa di Montrieux che si trova tra Marsiglia e Tolone ed è la prima costruzione certosina ad essere stata edificata in Provenza nel 1137, buon viaggio …
Francesco Petrarca invece, senza perdere di vista il supremo fine della salvezza eterna, segue un’altra strada, e imbocca la strada dello studio delle dimensioni della propria interiorità in cerca del pieno sviluppo - e non della riduzione - della propria umanità. Anche questa scelta, naturalmente, non esclude che si debba far ricorso alla solitudine e La vita solitaria è il titolo di un opuscolo in circolazione dal 1346 nel quale Petrarca si occupata della meditazione religiosa che per lui significa confrontarsi con il pensiero dei grandi spiriti del passato, con lo spirito dei Classici-
Petrarca codifica nel suo opuscolo “la solitudine del letterato” non quella del monaco e, quindi, mette in evidenza che cosa significa per lui decidere “di prendersi cura di sé e di fare studio di se stesso” e aggiunge che il momento-culmine di questa “cura” e di questo “studio” è «dedicarsi alla scrittura e alla lettura, e, stanco dell’una ricercare nell’altra ristoro; leggere ciò che scrissero gli antichi e scriver ciò che leggeranno i posteri».
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Per fare ricorso alla solitudine: in che cosa e dove vi rifugiavate e in che cosa e dove vi rifugiate oggi?…
Scrivete quattro righe in proposito …
Petrarca a chi gli chiede perché i suoi scritti siano «pieni di esempi antichi» spiega questo fatto con due ragioni [l’aspirazione a vivere con gli antichi e il fastidio a vivere con i suoi contemporanei], due ragioni che, messe insieme, descrivono uno stile destinato a diventare un modello di vita nel corso dell’Età umanistica propriamente detta. Leggiamo che cosa scrive, in proposito, Petrarca nel secondo Libro del trattato intitolato La vita solitaria.
LEGERE MULTUM….
Francesco Petrarca, La vita solitaria
Per due motivi i miei scritti sono pieni di citazioni provenienti dai testi antichi, il primo è che nulla, in verità, ha tanta presa sul mio animo quanto gli esempi dei classici [greci e latini]. Mi piace, infatti, meditandoli, sentirmi più maturo, ed esperimentare se il mio animo abbia in sé qualcosa di pregevole, di nobile, tale da renderlo indomito e invitto contro i colpi della fortuna, o se in malafede il mio animo si sia illuso di essere tale.
Il secondo motivo è che io scrivo anche per me, e mentre scrivo avidamente vivo coi nostri antenati nel solo modo che posso; e costoro ai quali un’iniqua stella ha voluto ch’io fossi contemporaneo, dimentico, con grandissima gioia; e in questo adopero tutte le forze del mio animo: nel fuggire questi, nell’imitare quelli. Come infatti gravemente m’infastidisce la vista dei contemporanei, così il ricordo degli antichi, le loro magnifiche gesta e gli illustri nomi mi riempiono di una gioia incredibile e immensa che, se fosse nota a tutti, susciterebbe in molti stupore del fatto che io mi diletti a stare coi morti piuttosto che coi vivi. …
Il fastidio di Petrarca per i suoi contemporanei [per i crudeli uomini di potere civile ed ecclesiastico e per i tiepidi intellettuali] non è il generico fastidio del monaco per il mondo, ma è una ripugnanza specifica contro ciò che è diventata la cultura del suo tempo: il pensiero della Scolastica [vessato dai tribunali dell’Inquisizione] si occupa sempre di più di temi naturalistici [dell’osservazione superficiale della Natura] e intorno a questi temi - nei grandi centri universitari di Padova, di Bologna, di Parigi [e Petrarca li frequenta questi centri] - si imbastiscono dispute puramente formali che non investono argomenti riguardanti né la dottrina né gli aspetti esistenziali della singola persona, e la quasi totalità dei maestri, scrive Petrarca, pensano che sia meglio essere “conformisti” [per poter fare carriera] e pensano che sia meglio avere opinioni “convergenti” con i poteri forti [il papato, l’impero, le monarchie, le signorie] per poterne trarre vantaggi economici. Anche Petrarca deve fare i conti con questa situazione, e per vivere dignitosamente dovrà mettersi al servizio dei potenti, ma cercherà sempre, per tutta la vita, di essere il più coerente possibile con le proprie idee [rifiuta molte cariche redditizie, compreso il cardinalato e le segreterie di Stato], e il suo operare, per essere fedele al proprio modo di pensare, trae linfa dalle Opere del Classici [greci e latini] delle quali si mette caparbiamente alla ricerca da una biblioteca all’altra, viaggiando instancabilmente.
Il maestro riconosciuto in tutti gli ambienti universitari [per il lavorìo intellettuale svolto dalla Scolastica nei secoli precedenti, come abbiamo studiato] è ancora Aristotele, “miseramente ridotto” però, scrive Petrarca, agli insegnamenti della Logica e della Fisica. La Logica finisce per dare alimento alla moda dei dibattiti accademici che porta al degrado della Scolastica, e la Fisica dà legittimazione alle ricerche sperimentali soprattutto in campo medico e questo è, forse, l’unico aspetto positivo.
Petrarca in questa situazione, della quale tuttavia partecipa, si sente “un segregato” perché possiede una singolare capacità di anticipazione, capisce che è necessario un mutamento dello spirito e, quindi, con i suoi Scritti [in particolare gli Epistolari: Petrarca ha scritto 493 Lettere importanti] cerca di fare in modo che questo cambiamento possa cominciare a covare sotto la cenere, a ribollire attorno a lui.
La novità che Francesco Petrarca [con prudenza e con determinazione] sta cercando di far emergere è quella del ritorno della persona [della singola persona] a se stessa e, secondo lui, chi studia non deve perdere tempo con le deviazioni di una dialettica astratta [accademica, inutile, oziosa], una dialettica priva di contenuti reali [di natura esistenziale], e neppure deve perdere tempo nel dedicarsi al naturalismo perché è utile che l’essere umano si integri nell’universo fisico ma l’inserimento nella Natura finisce per mettere la persona unicamente di fronte alla propria esteriorità e lo studio della Natura esteriore, afferma Petrarca, diventa un alibi per non fare i conti con la propria Natura interiore.
Petrarca pensa che la via da cercare, per dare un senso alla vita umana, sia quella dell’interiorità, una via che non può essere confusa con quella tradizionale dell’esperienza mistica, e la sua convivenza con gli antenati [con i Classici] diventa una via possibile per recuperare i modi e le misure dell’essere umano saldamente radicato dentro il tempo, operosamente integrato nella città terrena. In una Lettera a Giovanni Boccaccio [un giovane che considera Petrarca un maestro] Petrarca scrive alla vigilia della propria morte: «se frattanto verrà la fine della mia vita, vorrei, lo confesso, che mi trovasse, come si suol dire, a vivere una vita già armonicamente compiuta».
L’idea che la vita possa essere «armonicamente compiuta», non nell’aldilà ma già prima della morte, è un’idea nuova [l’Umanesimo è ormai iniziato], un’idea che non troviamo nel pensiero di sant’Agostino, di cui Petrarca si professa discepolo, ed è bene sapere che, in proposito, Petrarca [tra l’autunno del 1342 e l’inverno del 1343] compone un’opera che intitola Secretum [Il mio segreto] divisa in tre Libri che contiene tre dialoghi tra Francesco e Agostino alla presenza della Verità, e si tratta di una sorta di confessione dell’autore destinata a non essere divulgata, ed è un’opera considerata l’equivalente delle Confessioni di Agostino. Petrarca ribadisce che anche Agostino ha avuto [noi potremmo dire] il suo momento umanistico, quando legge con passione l’Hortensius di Cicerone, ma si tratta di un momento di passaggio, dopo il quale Agostino dichiara «di non avere altro maestro che Gesù Cristo e altra meta se non la vita eterna», mentre per Francesco Petrarca il momento ciceroniano, per quanto lui coltivi una fede profonda in Gesù Cristo, rimane un momento autonomo [Agostino rimuove Cicerone mentre Petrarca ne mutua il pensiero eclettico].
Altro pilastro della formazione di Francesco Petrarca è il pensiero di Platone - sebbene lui non abbia un contatto diretto con i Dialoghi platonici perché conosce pochissimo il greco - ma trova e studia, in primo luogo, il Timeo [sulla Natura], il Fedone [sull’Anima] e il Menone [sulla Virtù] che sono stati [da tempo] ben tradotti in latino, e poi Petrarca conosce il pensiero di Platone attraverso le Opere di Cicerone e di Agostino. Fare riferimento alle Opere di Platone invece che a quelle di Aristotele - che erano diventate il vessillo del conformismo - è per Petrarca un modo di distinguersi dai suoi contemporanei per affermare che non c’è la Natura al centro dell’Universo ma c’è ogni singola persona perché ogni singola persona è da considerarsi “un universo”. Francesco Petrarca si muove all’interno di un triangolo [che determina anche il primo perimetro del territorio dell’Umanesimo filologico] i cui vertici sono dati dal pensiero di Platone [le Idee sono la realtà e al vertice c’è l’Idea del Bene verso la quale tutte le Idee tendono], dal pensiero di Agostino [al vertice c’è la Letteratura dei Vangeli con la quale si può costruire in terra la Città di Dio] e dal pensiero di Cicerone [al vertice c’è l’Intelletto con il quale è possibile stabilire le regole perché la giustizia sua uguale per tutti]. Studiando i principali Dialoghi di Platone, le Confessioni di Agostino e i Trattati eclettico-filosofici di Cicerone Petrarca mette a fuoco un’esigenza che diventa uno dei caratteri del movimento dell’Umanesimo filologico: l’esigenza di ricomporre in una conciliazione armoniosa i valori dell’esperienza amorosa [di cui la persona è vogliosa] con i valori della partecipazione alla vita civile [perché la persona vuole fare politica] e con i valori della spiritualità che creano una sincera tensione verso la trascendenza [una speranza nella salvezza eterna]. Il concetto di “humanitas” prende forma intorno a questa esigenza, l’esigenza di armonizzare il fine ultraterreno con il fine mondano, e Francesco Petrarca dà inizio ad un processo di conciliazione tra il concetto di “humanitas” contenuto nel pensiero dei Classici e quello che emerge nei testi della Letteratura dei Vangeli e ha inizio, di conseguenza, il grande lavoro “filologico” [sulla natura, la struttura e i significati delle parole] per cui la Filologia diventa una vera e propria filosofia che s’incarica di smontare le ideologie delle varie “auctoritates” che, afferma Petrarca, calpestano i Valori umanistici predicati tanto dalle Opere dei Classici quanto dalla Letteratura dei Vangeli: l’uguaglianza, la giustizia, la pace, la solidarietà e la misericordia.
Petrarca si ribella e guarda con disprezzo quello che lui chiama «il rumoroso gregge degli accademici che stanno portando la Scolastica al degrado con le loro dispute puramente formali» e guarda con altrettanto disprezzo i membri dei circoli naturalistici che cercano la verità solo attraverso l’analisi del mondo fisico per cui scrive: «vedono la felicità come un pipistrello vede il sole mentre la felicità alberga nel gran cielo dell’interiorità dove i gabbiani volano inebriati dal sole».
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I pipistrelli “che fuggono il sole [allegoria dell’esteriorità]” e i gabbiani “inebriati dal sole [metafora dell’interiorità]”: di quali ambienti e di quali situazioni stimolano il vostro ricordo?…
Scrivete quattro righe in proposito …
Abbiamo, in pratica, già descritto, a questo punto, le idee di fondo del pensiero [poetico e filosofico] di Petrarca che viene considerato il capostipite del movimento dell’Umanesimo filologico: ma chi è Francesco Petrarca? Se dovessimo rispondere a questa domanda per filo e per segno noi avremmo dovuto cominciare ad ottobre a parlare di lui e questa sera non saremmo ancora arrivati alla fine perché possediamo moltissime notizie su questo personaggio, ed è stato proprio lui a fornircele insieme ad un gran numero di testimoni che, avendolo conosciuto, arricchiscono la sua biografia nel bene e nel male. Chi desidera conoscere intimamente Francesco Petrarca non trova difficoltà perché in biblioteca ci sono molte biografie che raccontano, con dovizia di particolari, la sua vita, e naturalmente in biblioteca si trova anche il testo dell’autobiografia di Francesco Petrarca intitolata Posteritati [Lettera ai posteri], un testo che però è rimasto incompiuto perché il racconto giunge fino all’anno 1351 e Petrarca vive ancora ventitré anni oltre questa data, e allora noi come ci comportiamo di fronte alla domanda: chi è Francesco Patrarca? Noi ci comportiamo secondo la natura del nostro Percorso, prendendo in considerazione alcuni segmenti, che procedono sulla scia della didattica della lettura e della scrittura, nell’ottica [molto gradita a Petrarca] del “dipanare gli intrecci filologici” che è una pratica a noi nota; per fare questo esercizio dobbiamo necessariamente partire dalla fine: dalla fine della vita di Petrarca? No, partire dalla fine significa, in questo caso [di ordine didattico], prendere le mosse dai Gabbiani. Visto che li abbiamo citati più volte insieme al poeta, e voi direte: Petrarca ha fatto anche l’ornitologo, si è occupato di uccelli? Certamente nelle Opere di Petrarca - quelle poetiche in particolare, ma non solo - le metafore di carattere ornitologico sono molte [sul piumaggio, sul volo e sul canto dei vari tipi di uccelli], ma “il partire dalla fine” [come vogliamo fare noi] riguarda il tema degli Studi sul Petrarca perché, dall’inizio del secolo scorso, le studiose e gli studiosi di filologia si sono dedicati a curare una particolare forma di composizione petrarchesca [fino a quel momento sottovalutata] alla quale è stato dato il nome di Gabbiani.
I Gabbiani del Petrarca sono degli epigrammi e gli epigrammi sono versi satirici presenti nella Letteratura greca [“epigramma” significa “scritto (graphein) sopra (epì)” perché compare sopra una lapide, alla base di una statua, sul frontone di un tempio] ma soprattutto gli epigrammi hanno arricchito la Letteratura latina, e io credo che molte e molti di voi, in questo momento, starete pensando al più famoso scrittore di epigrammi della Storia della Letteratura universale [che noi abbiamo incontrato più di una volta a cominciare dal viaggio dell’anno 2004]: Marco Valerio Marziale.
Marziale [rinfreschiamoci la memoria] - emigrato a Roma dalla provincia Tarragonense della penisola Iberica - è vissuto nel I secolo tra l’anno 38 e l’anno 104 [non si sa di preciso né quando sia nato né quando sia morto]. Gli Epigrammi di Marziale sono un’opera complessa in 1561 versi [soprattutto distici elegiaci] divisi in 15 Libri e non è un’opera di facile lettura se non si conoscono le parole-chiave e le idee significative che questo testo contiene [e che abbiamo studiato a suo tempo], e la sua importanza consiste nel fatto che è servita, soprattutto agli storici, per completare il quadro di un’epoca, quella degli imperatori Tito, Domiziano e Nerva: un’epoca in cui la decadenza della romanità è già ad uno stadio avanzato, e questi tre imperatori tentano invano di opporsi ad una crisi ormai irreversibile.
Marziale, negli Epigrammi, parla di sé e dei suoi ideali, dei suoi gusti letterari, delle sue aspirazioni, e il primo protagonista è lui stesso che si sottopone ad un’autoanalisi molto interessante. Negli Epigrammi Marziale satireggia, senza fare del moralismo, sul mondo in cui vive, in cui sbarca il lunario, e critica con feroce ironia e con sottile comicità la società del suo tempo, nelle cui contraddizioni, però, lui riconosce di essere completamente coinvolto, e ammette senza ipocrisie che da questa situazione [di degrado ambientale, civile e morale] lui non sa proprio come venirne fuori, ed è lucidamente assuefatto da questa esistenza alienante che è diventata una caratteristica sostanziale della Roma imperiale del I secolo, con i suoi vizi, le sue incoerenze, la sua violenza. Marziale si pone il problema di come evadere da una situazione del genere ma le vie d’uscita presuppongono coraggio e scelte troppo drastiche: il sistema d’evasione che Marziale sceglie - anche come mezzo di sussistenza [scrive su commissione] - è la poesia, sono gli Epigrammi che, per la bravura di Marziale, sono diventati un efficace e straordinario strumento di analisi culturale e intellettuale.
Nello stato d’animo di “lucida assuefazione” sta la grande modernità di Marziale, e le cittadine e i cittadini contemporanei appartenenti al “ceto riflessivo” si trovano spesso a condividere la condizione psicologica di Marziale, il quale è fortemente critico perché riconosce che la società in cui vive, in molti dei suoi aspetti, è “oscena]” [obscenus, di cattivo augurio ma, contemporaneamente, si rende anche conto di esserne parte integrante, di parteciparne tragicamente all’oscenità senza poter trovare un ambito dignitoso, decoroso, meritevole per potersi “esiliare” scrive Marziale ed è per questo motivo che la maggior parte dei versi di Marziale - si chiama Letteratura priapèa [nella quale l’oggetto più in vista è il fallo di Priapo] - sono “osceni” perché si maledice il prossimo attraverso un linguaggio scurrile, indecente, scostumato, sboccato, triviale, ma questo modo di scrivere è un metodo [il cosiddetto “criterio del contrasto”] che serve per far risaltare le virtù alle quali il poeta vorrebbe aspirare e che la società in cui vive dovrebbe far sue: la delicatezza, lo splendore, la grazia, il gusto, la cortesia, l’eleganza, la finezza, la distinzione, e queste sono parole che, durante l’autunno del Medioevo, entrano a far parte del glossario dell’Umanesimo.
Perché abbiamo fatto questa digressione? Perché Francesco Petrarca conosce bene gli Epigrammi di Marziale, un’opera che, nonostante sia stata messa all’indice per la sua presunta indecenza, è comunque presente [in diverse copie] in tutte le biblioteche dei conventi cristiani perché gli amanuensi di ogni tempo si sono divertiti moltissimo a ricopiare gli Epigrammi di Marziale.
E, a questo proposito, dobbiamo ricordare un episodio perché è propedeutico per capire il rapporto che c’è tra Petrarca e il genere letterario degli epigrammi. In questo episodio è coinvolto il signor Vivant Denon, il fondatore del museo del Louvre, il quale scrive nel suo diario, pubblicato nel 1788 con il titolo di “Viaggio in Sicilia”, che nel corso del suo avventuroso e straordinario viaggio in Sicilia [lo abbiamo fatto con lui questo viaggio nell’anno 2004] ha incontrato la Letteratura priapèa dove non avrebbe mai pensato di trovarla: nel cuore di una Sicilia settecentesca, apparentemente deserta e selvaggia, a Carlentini, vicino a Lentini [a metà strada tra Catania e Siracusa] in un convento di monaci Bernardini, dove viene ospitato per la notte. Il padre guardiano , scrive Vivant Denon, un monaco austero e affabile che non aveva l’aria di essere granché colto, dopo una frugale cena, fa visitare all’ospite [«Non creda di essere capitato in mezzo ai selvaggi», gli dice] la biblioteca del convento: una biblioteca straordinaria per la ricchezza di opere greche e latine contenute in essa. E Vivant Denon, stupefatto, si sente chiedere se, prima di dormire, vuole leggere un libro, ma in quella grande varietà non sa che cosa scegliere, e allora il padre guardiano, scrive Vivant Denon nel suo diario: «Considerandomi francese, uomo di mondo e studioso, mi propose un testo di letteratura priapèa, un libro osceno, messo all’Indice dalla Chiesa ma ben conservato nelle sue biblioteche a disposizione di chi avesse le competenze per leggerlo. Il padre tolse e aprì il volume scritto in versi latini, in Epigrammi, e da autentico magister, me ne lesse un certo numero di pagine, me le tradusse e me le commentò sostenendo che anche mostrando l’oscenità, uno scrittore, se è vero poeta, può additare la via della morale».
Anche Petrarca [quattro secoli e mezzo prima] deve avere pensato la stessa cosa ma lui non è una persona che ama scrivere utilizzando un linguaggio “osceno”, però, gli epigrammi sono un genere a lui congeniale perché sa esprimersi in latino [la lingua che usa abitualmente per scrivere] in modo giocoso [secondo il modello degli Epigrammi di Marziale] ed è successo che, nel suo laboratorio letterario, Petrarca, mentre scrive una lettera, un trattato, un poemetto, ha inserito spesso, in margine a quel testo, un epigramma per esprimere un sentimento, o anche per elaborare un gioco di parole, attraverso il carattere occasionale e leggero del genere epigrammatico che, in effetti, contrasta con lo stile profondo e serioso delle sue Opere.
Petrarca interrompe il suo lavoro e scrive un epigramma quasi come se si volesse rilassare visto che, nel comporre i suoi Scritti, dicono le studiose e gli studiosi di filologia, si comporta come lo scultore greco Fidia il quale continuava a ritoccare le sue opere anche se erano già state scolpite alla perfezione, e le studiose e gli studiosi di psicologia, Freud compreso, hanno diagnosticato questo perfezionismo di Petrarca [che nasconde la paura di non essere all’altezza degli obiettivi e una grande insicurezza di fondo] come ulteriore sintomo della “nevrosi dell’introverso”, insieme ad altri tratti patologici manifesti come l’ansietà, il senso di colpa, la tendenza all’accidia [ora si chiama depressione] e, quindi, il lasciarsi andare a scrivere un epigramma è quasi come se prendesse un farmaco [un psicofarmaco] con il quale rallentare la tensione emotiva, e anche in questo Francesco Petrarca si dimostra un soggetto piuttosto “moderno”.
Petrarca non ha mai radunato i suoi epigrammi, non ha mai messo insieme questi versi improvvisati, segreti e sorprendenti per farne un Libro perché non li riteneva degni di pubblicazione tanto per la forma quanto per il contenuto: indegni per la forma perché in molti dei suoi epigrammi aveva dato le rime ai versi latini come se fossero scritti in volgare mentre la poesia latina si legge in metrica [come solfeggiando] e, quindi, si vergognava di aver usato questo espediente goliardico, e poi i contenuti degli epigrammi sono gli stessi che Petrarca tratta nelle sue Opere canoniche [che, in particolare, risentono del contrasto tra desideri terreni ed aspirazioni metafisiche, tra esigenze materiali e tensioni spirituali]; negli epigrammi Petrarca tratta questi temi con leggerezza, in modo arguto ed ermetico e, quindi, proprio per la loro concisione, la loro sottigliezza, il loro carattere non ansiogeno e per la loro raffinata rispondenza tra il testo e il contesto gli epigrammi di Petrarca risultano, oggi, un’opera di grande valore.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Spesso ci prende l’ansia: che cosa fate per attenuarla e per sfuggire da questa sgradevole situazione?…
Scrivete quattro righe in proposito [potrebbero essere gli epigrammi a sostituire i psicofarmaci]…
Un anonimo filologo della prima metà del 1400 ha individuato decine di epigrammi in margine alle Opere di Petrarca e le ha raccolte in un quaderno, e le pagine di questo album [perché i testi sono stati poi abbelliti da anonimi miniaturisti] sono state conservate in due Codici [uno è a Perugia e uno è nella Biblioteca vaticana].
L’anonimo filologo ha fatto in modo di raccogliere gli epigrammi di Petrarca in modo cronologico dal 1337 al 1353: a che cosa corrispondono queste due date? Nel 1337 Petrarca è segretario del cardinale Giovanni Colonna e abita in una casetta di campagna a Valchiusa vicino ad Avignone in Provenza; nel 1353 giunge a Milano, invitato dai Visconti, e prende in affitto un bilocale vicino alla Basilica di Sant’Ambrogio. Quindi, gli epigrammi sono stati raccolti come se fossero un stormo di gabbiani che, da Avignone a Milano, volano sulla vita, spesso tempestosa, di Francesco Petrarca e, in particolare, gli epigrammi hanno preso [e hanno conservato] il nome di Gabbiani perché l’ignoto filologo quattrocentesco, quando li ha radunati, ha messo per primo, a mo’ di prefazione, un epigramma che rimanda proprio al volo dei gabbiani e che contiene anche un’immagine di Laura che risulta più leggera - trasformata in volatile, sullo stile de Le metamorfosi di Ovidio - rispetto quella figura meravigliosa ma “sempre un po’ funerea” che Petrarca disegna nelle sue liriche.
E adesso [per capire di che cosa stiamo parlando e per entrare nella dinamica della didattica della lettura e della scrittura] leggiamo, traduciamo e commentiamo l’epigramma che ha dato il titolo alla raccolta [i Gabbiani]. Questo epigramma e questa raccolta intitolata Gabbiani ha permesso ad uno scrittore, a noi noto, - che tra poco incontreremo perché [per più di un motivo] è l’indiscusso protagonista dell’intreccio filologico che ci accingiamo a dipanare - di confezionare [una confezione d’alta classe] la sua prosa poetica, [che è stata definita] carezzevole e crudele, orientata [per ammissione dello stesso autore] in stile petrarchesco. Ma procediamo con ordine e leggiamo, traduciamo e commentiamo l’epigramma intitolato Gabbiani e datato 1341 [e usiamo un po’ il latino per la gioia di Petrarca].
LEGERE MULTUM….
Francesco Petrarca, Gabbiani
GABBIANI
Candida si niveis se nunc tua Laurea pennis
induat et pelago pulcra feratur avis,
nonne voles simili te transformasse figura,
mente manente quidem, sed variante coma?
Se ora la tua fulgida Laura vestisse penne candide come la neve bella e alata sul mare, non vorresti anche tu similmente mutarti, mantenendo la stessa mente ma cambiato in figura?
Nonne libens quocumque gradum feret illa sequeris,
hoc illac secum per freta cuncta vagus,
dilectaeque comes nanti simul atque volanti,
ut similis semper vita duobus eat?
Non saresti contento di seguirla sui flutti qua e là, dovunque felice con lei, compagno all’amata nel nuoto e nel volo, e che sempre così vi scorresse la vita?
Sic fateor, sed plura petam: mihi dulcis amicus
haereat et latori dulcis amica suo.
Gratior haec avibus contingat vita quaternis,
nil animos usquam quod nimis angat erit.
Certo, lo ammetto, questo vorrei. Ma chiederei anche che con me vi fosse il mio dolce amico e con lui vi fosse l’amica sua dolce. Abbiano i quattro gabbiani questa più amabile vita in modo che non vi sia niente che a loro dia troppo dolore. …
Qual è il significato di questo epigramma? Ci sono più cose da capire.
Dal testo e dall’anno di composizione [1341] dell’epigramma intitolato Gabbiani si capisce che Petrarca sta navigando verso l’Italia [verso Roma] e, di fronte alle coste laziali, all’improvviso gli vengono in mente molti versi de Le metamorfosi di Ovidio dove l’amata e l’amante conversano insieme, e se l’amata si trasforma in un certo essere della natura, l’amato adotta a sua volta una forma o una personalità che gli permettano di stare accanto a lei. Con questa idea in mente Petrarca improvvisa un dialogo immaginario con uno dei suoi migliori amici, anche lui al servizio della famiglia dei Colonna, il musicista fiammingo Ludovico di Beringen, al quale il Petrarca dà il soprannome di Socrate.
Per il poeta, che solca il Mediterraneo, Laura non può che trasformarsi in un «pulcra avis», un uccello che vola in stormo e si sposta sull’acqua: un gabbiano. In questa visione, descritta in versi epigrammatici, troviamo due motivi di ampio respiro intellettuale che diventano patrimonio del pensiero dell’Umanesimo: il primo motivo ha una radice che risale a Platone [Platone sta tornando in auge] e che è stata elaborata dalla spiritualità della Scolastica medioevale [a cominciare da Abelardo] e predica che l’amore trasforma l’amante nell’amato o «in amatos mores » [secondo il modello dell’amato] e Petrarca sviluppa questo concetto nella sua opera di commento alle Confessioni di Agostino intitolata Secretum, e ne consegue che se Laura diventa gabbiano, gabbiano diventa anche Petrarca.
Il secondo motivo che emerge da questo epigramma è di carattere aristotelico e ciceroniano: due personaggi [Aristotele e Cicerone] che tengono in gran conto il sentimento dell’amicizia e Petrarca condivide questo pensiero perché l’amico è un «alter idem» con il quale c’è un accordo totale e da questa idea nasce la speranza che l’amico Ludovico e la sua dama vivano la stessa metamorfosi perché i gabbiani mediterranei [e ci sono anche quelli oceanici, del Mar del Nord particolarmente voraci] rappresentano l’immagine dell’amore e dell’amicizia [sono voraci di amore e di amicizia]. La Laura del Canzoniere di Petrarca [ne parleremo prossimamente] è una bellissima fanciulla ma inaccessibile e schiva che non corrisponde all’amore di Francesco.
Negli epigrammi, nei Gabbiani, i versi dicono che Laura corrisponderebbe invece all’amore del poeta perché non si differenzia dalla «dulcis amica » [dalla dolce amica] di Ludovico e, quindi, Francesco e Laura sono simmetrici al musicista Ludovico e alla sua amata, e c’è un’armonia che lega queste quattro persone [questi “avibus quaternis”, questi “quattro gabbiani”] e negli epigrammi non siamo di fronte allo stesso mondo né allo stesso personaggio di Laura esaltato nel Canzoniere.
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In quale animale pensate di potervi trasformare?…
Basta una riga [basta un verso] per rispondere, scrivetela …
La raccolta degli epigrammi di Petrarca, i Gabbiani, ha coinvolto uno scrittore che abbiamo incontrato più di una volta nei nostri viaggi perché l’opera di certe autrici e di certi autori è più che mai congeniale ai temi, di carattere esistenziale, che la Storia del Pensiero Umano affronta.
Lo scrittore Sándor Márai questa sera è qui con noi [e ci accompagnerà per un tratto di strada] perché, prima di tutto, è uno studioso di Francesco Petrarca e ha tradotto in ungherese - nella sua lingua madre - i Gabbiani [gli epigrammi] di Petrarca. Sándor Márai è un intellettuale contemporaneo che conosce sei lingue moderne, compreso l’italiano, ed è un raffinato classicista che se la cava bene con il latino e il greco [è un tipico umanista di stampo antico] e questi dati basterebbero a giustificare la sua presenza sul nostro Percorso, ma Sándor Márai è qui in relazione ad una serie di intrecci filologici che vogliamo dipanare insieme a lui perché riguardano la poetica petrarchesca. Per rinfrescarci la memoria dobbiamo domandarci: chi è Sándor Márai?
Sándor Márai [1900-1989] è stato uno scrittore dimenticato per decenni dall’editoria internazionale nonostante vada annoverato tra i grandi maestri della narrativa mitteleuropea del secolo scorso [insieme a Kafka, a Musil, a Roth, a Proust, a Canetti e via dicendo]. Sándor Márai è nato a Budapest proprio all’inizio del secolo scorso, ed è stato, per un certo periodo della sua vita, un famoso scrittore ungherese, e avrebbe potuto continuare a esserlo se - a causa degli avvenimenti storici che hanno condizionato nel secolo scorso la vita del suo paese e dell’intera Europa - non avesse scelto l’esilio tutte le volte che in Ungheria è stata abolita la democrazia parlamentare e lui è diventato un emigrante, prima in Germania, poi in Francia, dopo in Italia - ha abitato a Napoli e a Salerno [dal 1968 al 1979], e nel 1979 è stato invitato ad insegnare negli Stati Uniti dove è morto nel 1989.
Màrai ha scritto in lingua ungherese [sebbene sarebbe stato in grado di utilizzare altre lingue europee più gradite all’editoria] proprio perché ha voluto valorizzare la sua lingua madre anche se in Ungheria le sue opere sono state al bando per molti anni, e l’odierno regime ungherese [autoritario e xenofobo] non può vedere di buon occhio un personaggio come Sándor Márai che, oggi, sarebbe tornato a vivere in esilio.
Sándor Márai è stato uno dei fondatori del movimento letterario chiamato “romanticismo ungherese” che s’ispira all’Umanesimo e alla poetica di Francesco Petrarca del quale Márai ha tradotto in ungherese le Opere [conoscendo bene l’italiano antico e moderno e il latino] e ha sempre dichiarato di essere stato influenzato dalle tematiche petrarchesche, carezzevoli e crudeli, a cominciare dal tema del tentativo [un tentativo che difficilmente va a buon fine] di dare un senso all’esperienza amorosa [nella quale tutte le persone sono coinvolte], di dare un significato alla partecipazione alla vita civile [perché ogni gesto che la persona compie ha una valenza politica, ha una ricaduta sulla società in cui vive] e di coltivare i valori dello spirito indicati dalle Opere dei Classici.
Dal 1998 un certo numero di romanzi di Sándor Márai [circa una quindicina] sono stati tradotti in italiano e noi abbiamo già letto Le braci [del 1942, che è diventato un classico della Letteratura mondiale, tradotto in venticinque lingue], poi abbiamo letto varie pagine de L’eredità di Eszter [del 1939], di Truciolo [del 1932] e de La recita di Bolzano [del 1940, lo stesso anno in cui Sándor Márai traduce in ungherese i Gabbiani del Petrarca].
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In biblioteca trovate i romanzi di Sándor Márai, consultateli e leggetene qualche pagina…
L’anno dopo la pubblicazione de Le braci, nel 1943, Sándor Márai scrive un romanzo intitolato Il gabbiano: tra i Gabbiani di Petrarca e Il gabbiano di Sándor Márai [a detta dell’autore stesso] ci sono delle affinità [oltre al titolo che rimanda agli epigrammi del Petrarca], c’è una precisa coincidenza a cominciare da un verso che sintetizza la poetica di Petrarca e che fa da filo conduttore in questo romanzo dalla prosa carezzevole e crudele di Sándor Márai, e le parole di questo verso sono: «Dimmi, mio cuore, è questo l’Amore?». Per spiegare ciò che ora abbiamo detto dobbiamo procedere con ordine: un ordine di carattere filologico, secondo la natura dell’Umanesimo propriamente detto.
Torniamo quindi a puntare la nostra attenzione sui Gabbiani di Petrarca per osservare il testo di un epigramma intitolato Le scarpe della ninfa che nelle pubblicazioni recenti [quelle avvenute dall’inizio del secolo scorso, compresa quella curata in ungherese da Sándor Márai nel 1940] è stato collocato al primo posto della raccolta in relazione alla presenza di quel particolare verso che abbiamo appena citato e che riassume il senso della poetica di Petrarca, una poetica orientata, senza inibizioni, su un’importante questione: quella della natura dell’Amore [uno dei temi-chiave che la sapienza poetica e filosofica dell’Umanesimo affronta]. Entriamo nel vivo di questa riflessione commentando l’epigramma in questione per poterne leggere e tradurre il testo.
Un giorno di primavera Petrarca si vede recapitare nella sua casa di Valchiusa un melone e un paio di scarpe da donna [di scarpette colorate]. A inviargli questi doni da Avignone è il suo amico Guglielmo da Pastrengo, giurista e letterato, ambasciatore degli Scaligeri presso la corte pontificia. «Quello squisito melone [racconta Petrarca nella seconda Lettera - scritta a Guglielmo - dell’Epistolario chiamato “Epistulae Dispersae”] non l’ho mangiato, ma divorato, senza farne parte con altri che con la ninfa, ed ella, con i piedi già ornati di colori, fantasticava il convito degli dèi, le nozze con Nettuno e l’ossequio di Nereo, dei Tritoni e di quanti numi marini o fluviali vi siano» e questo pensiero diventa il pretesto per scrivere un epigramma intitolato Le scarpe della ninfa che nelle pubblicazioni recenti [quelle dell’inizio del secolo scorso, compresa quella curata in ungherese da Sándor Márai nel 1940] è stato collocato [come abbiamo detto poco fa] al primo posto della raccolta per un particolare verso che in questa composizione riassume il senso della poetica petrarchesca: «e [la ninfa] domanda al suo cuore se sia questo l’Amore [et quaesivit ab corde suo si Amor sit is]» e Petrarca mette in chiaro - e questo è anche uno dei temi portanti del pensiero dell’Umanesimo - senza finzioni [magari in modo un po’ retorico e con una certa vergogna - dice lui - perché l’argomento è delicato] il fatto che la persona vorrebbe sapere quando c’è l’Amore e che cos’è l’Amore [quel coacervo di sentimenti in una mescolanza di gioie e di dolori, di entusiasmi e di frustrazioni], e Petrarca mette in evidenza che la descrizione dell’Amore [il domandare al cuore] avviene sempre soprattutto dopo: dopo l’euforia del prima e dopo la passione del durante. È sempre “dopo” [quando la persona è in grado di domandare al suo cuore] che la riflessione sull’Amore si fa poesia.
Nel Canzoniere Laura appare anche come una «pastorella alpestra e cruda», vestita da pellegrina o anche «in forma di nimpha o d’altra diva, che del più chiaro fondo del [fiume] Sorga esca [alla riva]».
Nell’epigramma delle “scarpette colorate” [che stiamo per leggere] la ninfa in questione è la trasposizione di una giovane contadina nel regno della poesia, una contadina che Guglielmo di Pastrengo ha conosciuto tramite Petrarca in uno dei suoi soggiorni a Valchiusa, e probabilmente si proponeva di rivederla presto e, nell’attesa, le manda tramite il suo amico un paio di eleganti scarpe variegate [di pelle vera] che ha comprato per lei sul mercato della città pontificia [di Avignone]: è un regalo costoso ed è un lusso da far invidia a tutte le altre ragazze del paese, che, come lei, non avrebbero mai calzato altro che ciabatte di corda e zoccoli. Dopo aver mangiato il melone con Petrarca, la ninfa, per godersi di più il tesoro che le è appena toccato, allunga la strada del rientro cantando le lodi del suo generoso benefattore fermandosi a cogliere fiori. Senza dubbio immagina che il ritorno di Guglielmo le porterà «il convito degli dèi, e le nozze con Nettuno».
Con delicata percezione, Petrarca ci fa vedere i movimenti provocati dalle emozioni della ninfa e ci fa percepire l’allegria che le scuote il corpo, e la sua civetteria e l’innocente presunzione nei confronti delle altre ragazze, e la preoccupazione di conservare il regalo in uno stato impeccabile. La falsariga mitologica ci rivela che le compagne della ninfa, le sue sorelle, sono le acque del fiume, ma la comprensione umana ci dice qualcosa di più: la ragazza cammina con tutta l’attenzione possibile, guadando gli stagni in punta di piedi, per non bagnarsi e per non rovinare le scarpe nuove e questa preoccupazione si riflette sulla domanda fondamentale: «Dimmi, mio cuore, è questo l’Amore?», una domanda che sintetizza un programma poetico.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Le nostre scarpe, attuali e passate, sono testimoni del nostro cammino nella vita [anche di quello cerimoniale]: scrivete quattro righe a proposito di un paio di scarpe particolarmente comode e, se volete, anche a proposito di un paio di scarpe particolarmente scomode…
Scrivere e camminare sono due azioni da svolgere quotidianamente…
E ora, dopo averlo commentato, leggiamo e traduciamo il testo dell’epigramma Le scarpe della ninfa.
LEGERE MULTUM….
Francesco Petrarca, Gabbiani
LE SCARPE DELLA NINFA
Discolor ut nymphae tetigit vestigia pellis,
laetior et cunctis nimis invidiosa puellis,
nescit habere locum, refugit sub claustra reverti;
Quando la scarpetta colorata ebbe toccato i piedi della ninfa, tutta contenta e invidiatissima dalle altre ragazze, non sta ferma un momento, e si rifiuta di tornare a casa.
et tibi purpurei decus addidit innuba serti
teque per arva canens varios legit undique flores
et quaesivit ab corde suo si Amor sit is;
et timet umentes pedibus calcare sorores.
E per merito tuo [di Guglielmo] aggiunse alla sua la bellezza di una corona purpurea e cantando dalla gioia per i campi raccoglie dappertutto fiori variopinti e domanda al suo cuore se sia questo l’Amore. E sta attenta a non bagnarsi i piedi nelle pozzanghere abitate da ninfe come lei …
Nell’incipit del romanzo di Sándor Márai intitolato Il gabbiano assistiamo all’incontro di due figure-chiave: lui è il consigliere di Stato che ha appena preparato per il ministro il documento con cui la Nazione entra in guerra - sullo sfondo c’è il secondo conflitto mondiale - e quest’uomo riflette sulla tragedia della guerra che procura anche un’erosione del tempo [lui ha quarantacinque anni e comincia a sentirsi vecchio]; lei è una giovane donna, straniera, che ha chiesto udienza per [e questo lo sapremo in seguito] ottenere un permesso di soggiorno. Quando questa bella ragazza appare di fronte al consigliere di Stato lui entra in crisi - ha un attacco di nevrotica ilarità che potrebbe sfociare in una risata interminabile - perché questa splendida creatura [direbbe Petrarca, che vede Laura dappertutto] è il doppio perfetto di colei che anni prima, nella penombra di una stanza, gli aveva, con voce roca, citato un verso: «Dimmi, cuore mio, è questo l’Amore?» e adesso è tornata, pensa l’uomo, ma lui sa che costei si è uccisa per amore di un altro e non può essere risorta, e allora chi è la ragazza che ha di fronte?
LEGERE MULTUM….
Sándor Márai, Il gabbiano
Riavvitò con estrema cura il cappuccio di ebanite della stilografica - un gesto lento e cauto da chirurgo che impugna il suo affilato strumento o da chimico che soppesa un’ampolla in cui sono racchiuse vita e morte: medicamento o veleno capace di sterminare interi villaggi. Da qualche tempo ogni sua azione era palesemente guardinga. Le sue dita, esercitate sulla tastiera del pianoforte nello studio delle sonate di Beethoven, nella scrittura, nella scherma e nel colpire la palla, ora giacevano - ossute, lunghe e bianche - quasi spossate sulla scrivania, neanche dovessero riprendersi dopo un duello, una dura e virile competizione. Così riposano le mani degli artisti dopo aver vergato l’ultima parola, steso l’ultima pennellata o percosso la nota finale sul pianoforte, consapevoli che in quell’istante si è compiuto qualcosa che non si ripeterà mai più.
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Chi sono queste due donne che si assomigliano così tanto: la ragazza di ora e quella di prima? C’informeremo continuando a leggere questo romanzo così evocativo e contenente molti dei temi della poetica petrarchesca, naturalmente non potremo leggere tutto intero questo romanzo di 165 pagine ma focalizzeremo la nostra attenzione su un alcuni brani contenenti le tematiche inerenti al nostro Percorso.
Ma che tipo è Francesco Petrarca? Dobbiamo conoscerlo meglio, e la prossima settimana dobbiamo capire come ci arriva a vivere in Provenza dove incontra Laura che diventa per lui “lo strumento poetico” per interrogarsi e per dare un significato al termine Eros - che dal greco traduciamo con l’espressione “Amor platonico” e che rappresenta “la spinta propulsiva verso la conoscenza” -: ebbene, Francesco Petrarca [ormai in pieno Umanesimo] sostiene che per dare un significato all’Amore bisogna coltivare la volontà d’imparare e, itinerario dopo itinerario, siamo a maggio “nella stagion che il mondo foglia e fiora” [non vorrei che giunti alla fine dell’autunno del Medioevo ora incominciasse l’inverno! Possibile che sia solo il Clima ad essere sensibile al tema dell’Alfabetizzazione? Non sarebbe più facile e prevedibile lo fosse il Parlamento?].
Al Congresso internazionale di Parigi del 1889 [nella primavera di 127 anni fa] le rappresentanti e i rappresentanti delle Organizzazioni dei Lavoratori decisero che il 1° maggio sarebbe stata la Giornata internazionale dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori. Sul manifesto, stampato per l’occasione, erano rappresentati alcuni simboli [con un bell’investimento in intelligenza]: sul fondo c’era il sole nascente, “il sol dell’avvenir” secondo il pensiero di Gioacchino da Fiore, poi c’era “una falce” simbolo dei contadini secondo il pensiero dei poemi di Esiodo, poi c’era “un martello” simbolo degli operai secondo la descrizione che Omero fa dell’officina di Vulcano, e infine, in primo piano, c’era “un libro aperto” per dire che la Storia del Pensiero Umano la devono studiare tutti, e per dire che nessuna persona deve mai perdere la volontà di imparare: quindi la Scuola è qui e ancora per tutto maggio il viaggio continua.
Viva il 1° maggio!...