Prof. Giuseppe Nibbi La sapienza poetica e filosofica dell’età umanistica 4-5-6 maggio 2016
SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ UMANISTICA
PRENDE CORPO LA PAROLA-CHIAVE “RELAZIONE” ...
Questo è il ventiseiesimo itinerario del nostro viaggio di studio sul “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età umanistica”. La scorsa settimana Francesco Petrarca [che abbiamo incontrato mentre, allegoricamente, volava in uno stormo di “Gabbiani”] ci ha fatto capire che l’Umanesimo è un movimento in cui prevale “la ricerca filologica” che corrisponde alla volontà di interpretare idee antiche con un linguaggio sempre più esauriente, approfondito e completo perché “in principio è la Parola” [e nella prima metà del Trecento il movimento dell’Umanesimo interpreta con spirito laico l’incipit del Vangelo secondo Giovanni: “In principio è la Parola”] e le idee in questione - idee che hanno un valore durevole e che rappresentano i principi di base di tutti i più importanti apparati della Storia del Pensiero Umano - sono: l’uguaglianza, la giustizia, la pace, la solidarietà, la misericordia, e sono queste le idee che sanciscono l’esistenza della realtà “umana” e sono queste le parole-chiave fondamentali dell’Umanesimo-
Con quali caratteri si presenta “l’Umanesimo filologico” del quale Francesco Petrarca è il primo importante esponente? Per lungo tempo è durata una disputa, tra le studiose e gli studiosi di diverse correnti di pensiero, tra chi voleva affermare che l’Umanesimo filologico era l’ultimo paesaggio intellettuale del Medioevo e chi voleva invece ribadire che era il primo scenario culturale dell’Età moderna. Ma la disputa sui confini delle varie epoche finisce per essere improduttiva se non si lascia spazio all’Alfabetizzazione in modo che questo territorio - il “territorio della sapienza poetica, filosofica e [soprattutto a questo punto] filologica dell’Età umanistica” possa essere arato e seminato piuttosto che semplicemente perimetrato.
Sappiamo che la parola-chiave “humanitas” [noi la citiamo nella sua versione latina], e il conseguente termine “umanesimo”, ha già compiuto un lungo percorso, dalle origini dell’Età assiale della Storia a partire da 2500 anni fa, e il concetto dell’umanesimo, come tema dalla forte connotazione esistenziale, lo troviamo espresso in tutti gli apparati più antichi della Storia del Pensiero Umano [che noi abbiamo avuto il piacere di studiare in questi anni]: nell’Epopea sumera di Gilgamesh [dove il concetto di umanità si misura con il tema del “destino, me”], nell’egizio Papiro Smith [dove il concetto di umanità è in rapporto con il tema dell’ “ordine, maat”], nell’ebraico Libro della Genesi [dove il concetto di umanità si lega con il tema del “sogno, khalom”], nel greco poema dell’Iliade [dove il concetto di umanità fa i conti con il tema dell’ “ira, menis”], solo per citare alcuni esempi.
Il termine “umanesimo” definisce un movimento culturale che vuole dare valore alla persona in quanto depositaria, in primo luogo, di due caratteristiche fondamentali: la soggettività e la volontà. E la singola persona, con l’ausilio della volontà, assurge a “oggetto di valore” quando con l’Intelligenza, e nonostante i condizionamenti che possono limitare l’Intelligenza, è capace di costruire le virtù dette “trascendentali” capaci di elevare “il tasso di umanità” della persona stessa [prima della vacanza pasquale abbiamo detto che ai primi di maggio ci saremmo occupate ed occupati dei “trascendentali”].
L’aggettivo “trascendentale” indica una qualità [incontestabile ed evidente] che, sebbene non sia riconducibile all’esperienza, tuttavia rende possibile l’esperienza soggettiva, e Tommaso d’Aquino aveva già identificato questo attributo, enumerando sei concetti che lui chiama trascendentali: l’ente o l’uno [ens, unum], qualcosa [res], qualcuno [aliquid], il vero [verum], il buono [bonum], il bello [pulchrum]. E queste qualità oggettive [delle quali - secondo Tommaso - conosciamo il valore a priori] sono in grado di dare un senso alle nostre esperienze soggettive.
Durante l’Umanesimo la parola-chiave “trascendentale” [un termine la cui storia ci accompagnerà strada facendo] prende decisamente posto nella Storia del Pensiero Umano e assume un significato alternativo, ma non opposto, nei confronti della parola “trascendente”. La parola “trascendente”, come ben sapete, indica una particolare realtà che sta oltre l’Universo al di là del tempo e dello spazio, indica un modo che supera un determinato ordine legato ai dati dell’esperienza umana [Dio è trascendente perché è al di sopra del mondo che ha creato: «Colui lo cui saver tutto trascende», scrive Dante Alighieri] e, di conseguenza, le “virtù trascendenti” scaturiscono da Dio, e la persona le acquisisce più si avvicina a Dio.
Con l’aiuto di Dante [che è nostro compagno di strada in questo viaggio], leggendo il testo della Divina Commedia, noi capiamo che le virtù della donna che lo accompagna nell’ascesa al Paradiso, Beatrice, sono “trascendenti” e comprendiamo che queste virtù danno forma alla struttura portante del Paradiso stesso, e le virtù trascendenti [partendo dal cielo più basso] sono: la prudenza, la fortezza, la giustizia, la temperanza [e queste quattro sono le virtù cardinali], la fede, la speranza, la carità [e queste tre sono le virtù teologali]. Beatrice è in uno stato di Grazia perché ha ricevuto da Dio le virtù trascendenti che irradia su Dante [ecco perché Beatrice è così bella agli occhi di Dante: perché riflette le virtù trascendenti].
In molte altre parti della Divina Commedia però [si veda il Canto IV dell’Inferno dove il poeta descrive il Limbo] Dante esalta i Classici greci e latini [che considera i suoi maestri: Omero, Orazio, Ovidio, Lucano, e naturalmente Virgilio] perché hanno additato, partorendole con il loro Intelletto, le stesse virtù che costituiscono la struttura portante del Paradiso, e questo in modo “trascendentale” cioè senza far appello all’esperienza [l’Intelletto lo sa da sé che cos’è il Bene] e senza andare oltre la dimensione dell’Universo, rimanendo nell’ambito dell’Intelligenza umana.
Fondamentalmente - nella cantica del Paradiso - Dante considera le virtù di Beatrice come “trascendenti” e a lei concesse per Grazia divina, mentre Francesco Petrarca [con il quale abbiamo a che fare questa sera] considera virtuosa una fanciulla di nome Laura proprio perché le virtù che a lei attribuisce sono “trascendentali” in quanto, per Petrarca, scaturiscono direttamente dall’Intelletto dei Classici [dai testi delle Opere dei Classici greci e latini]. Quindi le virtù di Beatrice sono, secondo la mentalità di Dante, “trascendenti” e discendono in lei per Grazia di Dio [Beatrice è un personaggio che, prima di tutto, riflette i caratteri della Scolastica tradizionale] mentre Francesco Petrarca considera le virtù di Laura di carattere “trascendentale” perché prodotte dalla cultura laica dei Classici [e Laura è un personaggio che riflette i caratteri dell’Età umanistica]. Il fatto che le virtù “trascendentali” diventino i valori umani per eccellenza conferma la convinzione - che si sviluppa in Età umanistica - che sia l’Intelligenza di ogni singola persona il vero “organo della conoscenza” e la conoscenza è, quindi, soggettiva: la conoscenza è “un’esperienza personale”, e la realtà [come a suo tempo, prima di Pasqua, ci ha insegnato Guglielmo di Ockham] “non è quello che è” ma è “quello che ogni singola persona pensa che sia” e, di conseguenza, per poter conoscere la realtà nel modo “più valido possibile” è necessario [per non subire una sindrome autistica] “entrare in relazione”, è indispensabile “imparare ad entrare in relazione”.
E allora - [a cominciare da Petrarca, ma con una ricaduta che arriva fino a noi] secondo il programma del movimento dell’Umanesimo filologico - la persona ha valore quando è capace di “entrare in relazione, di relazionarsi” perché questo risulta essere l’esercizio indispensabile per l’acquisizione della conoscenza [di sé, degli altri, del mondo creato] e, naturalmente, la persona deve, prima di tutto, “essere esperta nell’entrare in relazione con se stessa” ed “essere competente nel prendersi cura di se stessa”. Siccome la filologia insegna che, in latino, il “prendersi cura” equivale alla parola-chiave “studium”, ecco che il primo punto dello statuto dell’Umanesimo filologico [che fiorisce alla fine dell’autunno del Medioevo] dichiara che: “la persona ha valore se studia” e, quindi, la Scuola [visto che il termine Scuola e il termine Universo coincidono perché ogni singola persona è un universo e la Scuola è il terreno delle relazioni] deve essere aperta per ciascuna persona per tutto l’arco della sua vita [e noi siamo ancora qui a rivendicare questo diritto-dovere che le deputate (21) e i deputati (535) all’Assemblea costituente - rifacendosi all’Umanesimo - hanno scritto nella Costituzione all’articolo 34, un articolo che, dopo settant’anni, risulta ancora non applicato].
Il termine che sta alla base dell’Umanesimo filologico è la parola-chiave “relazione” che ingloba in se stessa i due caratteri principali dell’Umanesimo: la soggettività e la volontà. Il termine “relazione”, durante l’Umanesimo [un’epoca in cui s’intensificano i rapporti umani nel bene e nel male], si manifesta in tutta la sua complessità e, per le sue molteplici implicazioni, assume i connotati di un concetto già moderno e possiamo dire contemporaneo: se assistiamo ad un avvenimento, ciascuna e ciascuno di noi fornisce “una relazione” diversa [se per relazione s’intende un racconto, un resoconto], mentre ciascuna e ciascuno di noi intrattiene “una relazione” diversa con tutte le persone che conosce [se per relazione s’intende un rapporto tra persone].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quale relazione, tra le tante che avete con le persone che conoscete, scegliereste per descriverne le caratteristiche?…
Sono sufficienti quattro righe in proposito…
La parola-chiave “relazione” ci porta ad imbastire una [inevitabile] riflessione utilizzando ancora le due figure emblematiche [di carattere poetico-sapienziale] di Beatrice [la Beatrice di Dante] e di Laura [la Laura di Petrarca]: due personaggi universali nella prassi della didattica della lettura e della scrittura. Beatrice e Laura non sono le donne di Dante e di Petrarca [in questo frangente Dante ha una moglie con dei figli che risultano all’anagrafe, Petrarca ha due figli - fuori dal matrimonio - da due compagne diverse delle quali non conosciamo il nome]. Beatrice e Laura sono per Dante e per Petrarca due “opportunità relazionali” che danno loro modo di esercitarsi sul terreno della conoscenza perché si conosce entrando in relazione con sé stessi e mettendo la propria mente [così pensano Dante e Petrarca] in sintonia con il pensiero dei Classici.
La figura di Beatrice [per Dante Alighieri] e quella di Laura [per Francesco Petrarca] rappresentano due allegorie nelle quali si manifesta il programma poetico-sapienziale dell’Umanesimo, queste due figure [figure femminili emergenti nella Storia del Pensiero Umano] sono come un dispositivo metaforico che invita la persona [Dante e Petrarca in questo caso] “a prendersi cura di sé”, “a studiare” [a far studio di sé] e lo “studio” [tradotto in Opere] porta Dante e soprattutto Petrarca ad affrontare tre temi esistenziali che hanno influenzato il concetto di “relazione” tanto che, dall’Età umanistica, qualunque corrente letteraria ne ha dovuto tenere conto [soprattutto il cosiddetto “petrarchismo” ha continuato e continua a fare da modello a tutte le più significative avanguardie culturali, anche a quelle che volevano rinnegarlo]. Dante e Petrarca affrontano tre temi esistenziali che hanno, sotto il profilo letterario, caratterizzato il concetto di “relazione”, in particolare di “relazione amorosa”, quella che, da sempre, concentra su di sé il più alto tasso di interesse, e questo tipo di relazione ha una struttura di base che prevede un incontro che ne determina uno sviluppo e una fine perché la vita è fatta di distacchi: il primo tema è quello dell’incontro che fatalmente sta “in principio” ad una relazione tra due persone che [sebbene comincino a coltivare un interesse reciproco] non sempre si traduce necessariamente in una reale concreta “storia d’amore” ma si trasforma sempre [ed è raro che questo non avvenga] in un legame ideale che innesca il meccanismo del racconto [quindi abbiamo una relazione che “si fa relazione”] e la narrazione che ne nasce viene, quindi, trasfigurata in termini che solitamente assumono una forma poetica [solitamente in forma orale, raramente in forma scritta e non obbligatoriamente di grande qualità]; il secondo tema è quello che mette in relazione come legittima aspirazione al piacere terreno nel corso dello sviluppo di una relazione amorosa, quindi mette in relazione il desiderio di amore carnale con la ricerca dell’amore spirituale in vista del fine della salvezza eterna [come beatitudine a cui l’anima aspira nell’entrare in relazione con Dio]; il terzo tema consiste nel fatto che l’Intelletto dell’essere umano, dopo la perdita della persona amata [dopo la morte di Beatrice e di Laura nel caso di Dante e di Petrarca, ma anche perché capita che le persone si lascino], instaura una relazione particolare con il Mondo per cui coglie spesso la somiglianza della persona amata in altre figure umane o in simboli che ne richiamano la presenza, e questo stato emotivo [tra la rabbia e la consolazione] determina una particolare e nuova relazione con i problemi dell’esistenza dato che, inevitabilmente, per chi resta [e per chi si lascia], la vita continua.
Anche i grandi del passato, i Classici, hanno affrontato questi temi [nell’ottica dell’Età antica e tardo-antica: platonica, aristotelica, stoica, epicurea, scettica, eclettica], e le loro trattazioni - sebbene siano al di fuori della mentalità cristiana - hanno tuttavia assunto per Dante ma soprattutto per Petrarca uno specifico ruolo di indicatori culturali; Petrarca, in particolare, vuole affrontare i tre temi descritti con un linguaggio nuovo e, possibilmente, con una maggiore spregiudicatezza [senza tacere, per vergogna, né i moti più intimi del suo animo né l’impulso dei suoi desideri], per cui i tre temi “relazionali” che abbiamo elencato [lo stupore dell’incontro, il rapporto tra il piacere fisico e quello metafisico, il fenomeno della somiglianza della persona amata con altri esseri umani o con simboli che ne richiamano il ricordo per cui si prolunga la dimensione della fine e il senso del distacco] sono proprio gli argomenti portanti della più celebre opera di Petrarca che chiamiamo Canzoniere [prossimamente ne parliamo, anche se le linee generali di quest’opera le abbiamo appena enunciate]. La relazione [l’opportunità relazionale] di Petrarca con Laura gli fornisce l’occasione per seguire la strada dello “studio di sé”, della propria dimensione interiore, alla ricerca di un auspicabile pieno sviluppo della sua umanità: Laura [la relazione con Laura] è per Petrarca maestra di Umanesimo.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quale di queste parole - rapporto, resoconto, collegamento, connessione, contatto, legame, o quale altra … - mettereste per prima accanto al termine “relazione”?…
Scrivetela…
Ma [abbiamo detto] dobbiamo procedere con ordine e, quindi, dobbiamo domandarci: come mai il bambino Francesco Petrarca - che è nato ad Arezzo ed è stato svezzato all’Incisa - viene a trovarsi dalla Toscana in Provenza sulle rive del Rodano? E se non fosse capitato da quelle parti non avrebbe mai visto Laura e non sarebbe stato concepito il Canzoniere, almeno così come è stato redatto.
Ma prima di occuparci di questi argomenti, proprio per avvalorare quello che abbiamo detto finora a proposito dei temi che scaturiscono, in Età umanistica, dalla parola-chiave “relazione”, dobbiamo continuare a leggere un romanzo che - per un certo numero di significativi intrecci filologici - si coniuga con il paesaggio intellettuale che stiamo osservando: questo romanzo come sapete s’intitola Il gabbiano ed è stato composto dallo scrittore ungherese Sándor Márai [1900-1989], un autore considerato un classico della Letteratura internazionale del secolo scorso.
Sappiamo che Sándor Márai è stato uno dei fondatori del movimento letterario chiamato “romanticismo ungherese” che s’ispira all’Umanesimo e, in particolare, alla poetica di Francesco Petrarca del quale Márai ha tradotto in ungherese le Opere [conosce bene l’italiano antico e moderno, ha vissuto in Italia per un decennio e naturalmente conosce bene il latino] e ha sempre dichiarato di essere stato influenzato dalle tematiche petrarchesche “carezzevoli e crudeli” [così le definisce, e questi due attributi valgono anche per la prosa poetica di Sándor Márai]. Naturalmente uno dei temi-chiave che affronta nelle sue numerose opere è quello legato al concetto di “relazione” [declinato in tutte le sue forme più importanti], e Sándor Márai tratta questo tema proprio in linea con il pensiero dell’Umanesimo filologico [come lo abbiamo descritto poco fa].
Nel 1943 - l’anno dopo la pubblicazione de Le braci, un’opera tradotta in venticinque lingue - Sándor Márai scrive un romanzo intitolato Il gabbiano, e come sapete tra i Gabbiani cioè gli epigrammi del Petrarca [un argomento che abbiamo studiato la scorsa settimana] e Il gabbiano di Sándor Márai ci sono delle affinità [oltre al titolo che rimanda esplicitamente agli epigrammi del Petrarca, difatti, un verso dell’epigramma intitolato “Le scarpe della ninfa” - come sappiamo - diventa il motivo conduttore di una vasta riflessione sulla complessità delle relazioni umane a cominciare dalla sempre ambigua relazione con se stesse e con se stessi].
Nel testo di questo romanzo, Il gabbiano - così come nel testo de Le braci -, l’autore [nel corso del dialogo tra due personaggi emblematici, un dialogo che ha la forma del monologo perché il personaggio-chiave è come se si sdoppiasse] sviluppa puntigliosamente il fenomeno per cui l’Intelletto dell’essere umano, dopo la perdita della persona amata [la relazione amorosa prevede sempre un incontro, uno sviluppo e una fine], instaura una relazione particolare con il Mondo per cui coglie spesso la somiglianza dell’oggetto del desiderio [o crede di coglierne la somiglianza per opera della memoria che dissimula spesso le cose] in altre figure, e questo stato emotivo determina una particolare e nuova relazione [una riflessione, una verifica] con i problemi dell’esistenza [in particolare sul tema del rapporto tra la vita e la morte] dato che, inevitabilmente, la vita [sebbene sia fatta di distacchi] continua [e il tema del rapporto tra la vita e la morte non può che porselo una persona che vive].
Nell’incipit del romanzo Il gabbiano [che abbiamo letto la scorsa settimana] assistiamo all’incontro di due personaggi emblematici: lui è il consigliere di Stato che ha appena preparato per il ministro il documento con cui la Nazione [l’Ungheria] entra in guerra [sullo sfondo c’è il secondo conflitto mondiale] e sappiamo che lui teme la brutalità della guerra così come teme la vecchiaia [ha già quarantacinque anni e sa che la guerra porta via la giovinezza], mentre lei è una giovane donna, straniera [finlandese, ma noi non lo sappiamo ancora], che ha chiesto udienza per ottenere [e anche questo particolare non lo conosciamo ancora] un permesso di soggiorno [il suo paese è già in guerra].
Il fatto è che quando questa bella ragazza appare di fronte al consigliere di Stato lui entra in crisi - ha un attacco di nevrotica ilarità che potrebbe sfociare in una risata interminabile e scandalosa - perché questa splendida creatura [direbbe Petrarca, che vede Laura, L’Aurea, dappertutto] è il doppio perfetto [il duplicato, anche se, ironicamente, questa persona si chiama Unica, come fra poco verremo a sapere], il duplicato di colei che, anni prima, nella penombra di una stanza, aveva, con voce roca, citato, rivolta a lui, un verso tratto dagli epigrammi [dai Gabbiani] di Petrarca [un particolare che lei non conosceva]: «Dimmi, Cuore mio, è questo l’Amore? » [e questa è la domanda che l’essere umano si pone di più nel corso di tutta la vita di fronte al più terribile dei sentimenti: l’Amore]. Lui è molto turbato, e pensa che colei che amava sia davvero tornata, ma lui sa che costei si è uccisa per amore di un altro, e non può essere risorta, e allora la ragazza che ha di fronte diventa, inevitabilmente, un oggetto di studio: chi è questa persona? È lì per caso, oppure è venuta a cercarlo perché, in realtà, sia lui a studiare se stesso? Continuiamo a leggere il testo di quest’opera che contiene l’ammonimento petrarchesco a “far studio di sé”. Il fenomeno della somiglianza nella dialettica relazionale [c’è compenetrazione tra somiglianza e relazione] genera miraggi, rinfocola rancori, fa scatenare lo spirito inquisitorio, e ravviva in modo lacerante i ricordi.
Prima di leggere è necessario fare una precisazione di carattere letterario che è anche un invito, per chi vuole, ed allargare l’orizzonte delle proprie conoscenze facendo una ricerca sull’enciclopedia e in biblioteca e navigando in rete: Sándor Márai cita, nelle pagine che stiamo per leggere, il Kalevala. Il Kalevala è il poema epico per eccellenza della letteratura finlandese in 50 canti, o runi [runot], composto nel 1849 da Elias Lönnrot sulla base degli antichi poemi e dei tradizionali canti popolari della Finlandia. Il termine “Kalevala” significa letteralmente “Terra di Kaleva” [ossia la Finlandia], e Kaleva è il nome del mitico progenitore e patriarca della stirpe finnica [e anche di quella estone] ed è attorniato da molti personaggi, figure mitiche femminili e maschili, quindi, il Kalevala è l’epopea nazionale finlandese.
I due protagonisti dialogano tenendo conto del fatto che - in relazione al fenomeno migratorio - c’è una sorta di parentela [e usano il termine “parente” come attributo] tra la cultura ugro-finnica [della Finlandia] e quella magiara [dell’Ungheria].
LEGERE MULTUM….
Sándor Márai, Il gabbiano
Quando quella voce risuona nella sua anima, di colpo si sente esausto. Una stanchezza mai provata. La donna aspetta sulla soglia, forse è trascorso già un minuto. Sarebbe ormai opportuno rivolgerle la parola. E lui è ancora immobile, con il biglietto da visita in mano. Lo avvicina lentamente agli occhi e lo guarda. Non ha fretta, ha tutto il tempo che gli serve. Si sente pervaso da uno strano senso di sicurezza, come se finalmente tutto gli fosse concesso: non c’è bisogno di essere cortesi, di rispettare regole e formalità, non c’è alcuna fretta, alcuna necessità di fare complimenti, di recitare la parte del gentiluomo incivilito. È uno di quei momenti in cui la vita dà un calcio alle convenzioni, in cui le regole del gioco non valgono più. E in tale consapevolezza c’è un che di disonorevole, ma anche una sorta di sollievo.
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Aino Laine [Unica Onda] ha spiegato al consigliere di Stato i motivi per cui si è trasferita dalla Finlandia in Ungheria e perché vuol rimanere a Budapest, ma: saranno davvero queste le vere ragioni [di parentela culturale] della sua comparsa - pensa l’uomo - dato che vede in lei la copia esatta di colei che aveva amato anni prima e che si è uccisa per amore di un altro?
Con l’invito all’Opera del consigliere alla ragazza, che lei subito accetta [in programma c’è “Un ballo in maschera”], e con il «Se permette, l’accompagno…», l’autore, con un elementare stratagemma narrativo, mette in comunicazione i due personaggi e fa affiorare nella mente dell’uomo [del quale non conosciamo il nome] l’idea che l’immagine di colei che lui ha amato sia ritornata a farlo intristire ed irritare ma anche a consolarlo; e - a questo proposito - inizia nell’animo del protagonista un conflitto che si trasforma in una riflessione sul senso che hanno le “relazioni umane”, e quelle “amorose” in particolare, e questo si traduce in un ulteriore intreccio filologico [da dipanare] che rimanda al testo di uno dei sonetti, il [CCXXXIX] 239°, di cui si compone il Canzoniere di Petrarca intitolato Alma felice che sovente torni, e che possiamo leggere subito, ancor prima di occuparci più da vicino a grandi linee del Canzoniere.
Questo intreccio filologico si spiega nel momento in cui abbiamo a che fare con un umanista ungherese [Sándor Márai] che ha tradotto [più che altro per il suo piacere personale] le Opere di Petrarca nella sua lingua e che si è ispirato [come esponente del movimento del Romanticismo ungherese] al cosiddetto “petrarchismo”. Il “petrarchismo” è, a tutt’oggi, una potente forma di ideologia letteraria che consiste nel maturare la consapevolezza che la vita è un racconto e che questo racconto va tradotto in versi poetici per dare all’esistenza il maggior significato possibile: la poesia dà alla vita il marchio dell’esistenza.
E ora leggiamo e commentiamo il testo del sonetto Alma felice che sovente torni che pensiamo sia comparso nella mente del consigliere di Stato, in quanto uomo colto, appena si è trovato di fronte una giovane donna che a lui sembra il duplicato della persona amata e che la morte non ha reso meno bella.
LEGERE MULTUM….
Francesco Petrarca, Canzoniere
Alma felice che sovente torni
a consolar le mie notti dolenti
con gli occhi tuoi che Morte non à spenti,
ma sovra ’l mortal modo fatti adorni:
Anima ormai beata che spesso torni a consolare le mie dolorose notti con i tuoi occhi che la morte non ha reso meno belli, anzi li ha fatti più belli di quando eri viva,
quanto gradisco che’ miei tristi giorni
a rallegrar de tua vista consenti!
Così comincio a ritrovar presenti
le tue bellezze a’ usati suoi soggiorni,
gradisco molto che tu consenta che io rallegri i miei tristi giorni parlando della tua vita. In questo modo inizio a sentire presenti le tue bellezze nei luoghi che lei (la tua bellezza) era solita frequentare.
là ’ve cantando andai di te molt’anni,
or, come vedi, vo di te piangendo:
di te piangendo no, ma de’ miei danni.
In quei luoghi in cui andai cantando di te per molti anni, come vedi, ora vado piangendo per la tua perdita, anzi non piango di te, ma dei miei dolori.
Sol un riposo trovo in molti affanni,
che, quando torni, te conosco e ’ntendo
a l’andar, a la voce, al volto, a’ panni.
Solo un ristoro trovo in mezzo a tanti affanni, che quando tu ritorni - quando la tua immagine ritorna nella mia mente - ti riconosco e ti individuo dalla tua andatura, dalla voce, dal viso, dagli abiti.
Queste sono le possibili emozioni - tradotte nella forma della poetica petrarchesca – che, dopo aver superato la crisi di ilarità, ha provato il consigliere di Stato.
Se Francesco Petrarca non si fosse trasferito da bambino in terra provenzale non avrebbe incontrato Laura e, forse, non avremmo neppure il Canzoniere e neppure molti epigrammi [molti Gabbiani], ma queste sono solo supposizioni. Iniziamo a riflettere facendo una premessa di carattere generale sul personaggio di Francesco Petrarca che risulta essere “l’umanista più conosciuto al mondo”.
Francesco Petrarca inizia la sua autobiografia, che s’intitola Lettera ai posteri [Posteritati], con queste parole velate di malinconia e di modestia: «Ti sarà forse capitato di sentire parlare di me; sebbene abbia qualche dubbio che il mio povero, oscuro nome possa arrivare lontano nello spazio e nel tempo». Con questa Lettera Petrarca consegna alle generazioni future il suo profilo di umanista e di letterato e costruisce, con sapienza, un autoritratto ideale di se stesso, fermando la narrazione al 1351, quando aveva 47 anni [e Petrarca è morto nel 1374, ventitré anni dopo]. Quindi è un’autobiografia incompleta e non solo perché il racconto si ferma a quell’anno ma anche perché sono taciuti fatti importanti della sua vita [per esempio le sue numerose storie d’amore] perché pensava che avrebbero suscitato giudizi severi nei suoi confronti.
Lui pensa che il suo nome non sarebbe arrivato lontano nello spazio e nel tempo ma questa idea si è rivelata del tutto infondata perché la fortuna di Petrarca ha superato ben presto tutti i confini dando luogo a quel complesso fenomeno che è stato chiamato “petrarchismo”. Nessun poeta è mai stato tanto imitato, e la sua fama è durata nel tempo ed è andata ben oltre quegli orizzonti temporali che lui non avrebbe mai potuto immaginare. Petrarca non rappresenta solo, assieme a Dante e a Boccaccio, uno dei grandi pilastri della nostra Letteratura ma la sua sensibilità inquieta ed esistenziale che si traduce in una poesia di grande raffinatezza formale, il suo amore per i Classici che ha dato luogo al movimento dell’Umanesimo filologico, la sua sofferta e problematica adesione ai valori del Vangelo che ha tentato di conciliare con i valori della cultura classica, le sue inquietudini e le sue ansie mai risolte che nascono dall’amore tutto terreno per Laura, fanno di Francesco Petrarca un nostro contemporaneo. Quanto poi alle sue vicende biografiche, al di là del profilo ideale tracciato nella Lettera ai posteri, esse attraversano buona parte del Trecento e scorrono sullo sfondo di un secolo inquieto, collocandosi in un quadro dai colori foschi e violenti.
Le vicende biografiche del Petrarca s’incrociano con guerre sanguinose e con paurose epidemie [come la peste nera del 1348] in un contesto politico perennemente in fermento, segnato dalla crisi profonda del potere papale e del potere imperiale. Inizia nella seconda metà 1300 anche la decadenza del potere comunale a vantaggio delle cosiddette “signorie” che prendono campo tra violenti contrasti e spietate lotte di parte. Petrarca partecipa in prima persona a questa crisi generale, tentando di trovare la via della pace e della concordia tanto in Italia quanto in Europa, prima nella speranza che fosse l’imperatore a portare ordine “nel mondo”, poi appoggiando anche il tentativo di Cola di Rienzo di far rinascere l’antica grandezza di Roma, un tentativo che finisce male e infine spera che i grandi “signori” del Nord: i Correggio, i Visconti, i Carrara possano ben governare ma si accorge ben presto che sono dei “tiranni” che lui deve, suo malgrado, sopportare. Nella sua Lettera autobiografica scrive: «I più grandi re del mio tempo mi vollero bene e mi onorarono». Roberto d’Angiò, re di Napoli, ne apprezza il talento e lo ritiene degno l’8 aprile 1341 dell’incoronazione poetica, mentre l’imperatore Carlo IV lo invita a Praga, il re di Francia lo vuole a Parigi. I papi gli offrono più volte onori e benefici, gli offrono cariche prestigiose [anche il cardinalato] e lo avrebbero voluto segretario di Stato vaticano, ma Petrarca se ne guarda bene e non ha mai voluto accettare incarichi, che lo avrebbero reso più ricco e potente ma servo di personaggi di cui non si fida, e lui preferisce percepire modesti salari svolgendo il lavoro del diplomatico mettendo in comunicazione “i grandi del momento”: si accontenta di poco più del necessario in modo da poter condurre una vita tranquilla, dedito ai suoi libri [gli oggetti a cui tiene di più] e ai suoi studi [l’attività che preferisce svolgere].
Petrarca non ama “il chiassoso frastuono della corrotta corte papale” e “i fastosi passatempi dei grandi palazzi”, ma predilige la vita appartata che gli offre la Valchiusa, o la quiete di Selvapiana non lontano da Parma, o la sua casa di due stanze a Milano accanto alla basilica di Sant’Ambrogio, o la pace della mansarda di Palazzo Molin a Venezia dove può vedere le galee veneziane che salpavano verso l’Oriente. E infine ama stare ad Arquà [in provincia di Padova], dove compra una casa nella verde pace dei colli Euganei.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Con la guida del Veneto e navigando in rete fate una visita alla Casa del Petrarca [ampliata nel 1500 e nel 1600] che si trova nella piazzetta di San Marco ad Arquà in provincia di Padova…
Petrarca è morto in questa pittoresca località il 19 luglio 1374 e nella piazza al centro del paese c’è la sua tomba formata da un grande sarcofago appoggiato su quattro basse colonne eretto nel 1380… Nella “Casa museo del Petrarca” ci sono una serie di cimeli, alcuni originali, tra i quali, conservata in una teca, la mummia della sua gatta alla quale era molto affezionato perché proteggeva dai topi la sua biblioteca domestica… Petrarca ha dedicato alla sua gatta, custode fedele dei suoi libri, una serie di versi che potete leggere in rete e trascriverli…
Il percorso biografico di Petrarca si svolge in un quadro assai movimentato contrassegnato da naufragi, da incidenti, dagli agguati dei banditi, dai rigidi inverni. Petrarca è sempre in viaggio movendosi in nave, a piedi e a cavallo, dalla Toscana alla Provenza, da Avignone a Roma e a Napoli, da Parigi a Praga. La sua è una vita movimentata e inquieta che non ha sosta e non riesce a placarsi in una stabile residenza: né a Parma, né a Milano, né a Padova, né a Venezia. Solo a Valchiusa Petrarca ha sempre trovato la pace e il silenzio: su “un fondale di rupi selvagge”, scrive, alle sorgenti del fiume Sorga, dove il dolce e struggente fantasma di Laura [“Alma felice che sovente torni”] gli appariva in modo luminoso. Come avviene il trasferimento di Francesco Petrarca dalla Toscana alla Provenza? Dobbiamo indagare in proposito perché possiamo così percepire [dalla viva voce di Petrarca] anche il clima del Trecento: un secolo emblematico della nostra storia.
Francesco Petrarca nasce ad Arezzo in una casa di Vico dell’Orto all’alba di lunedì 20 luglio 1304 con un parto difficile durante il quale la madre, che è al primo parto, ha rischiato di morire. La casa dove è nato Francesco [scrive lui nella sua Lettera biografica]: «non era né grande né ricca, ma quale si conveniva ad un esule» perché suo padre, Pietro, è un esule fiorentino, che si è rifugiato ad Arezzo con la moglie Eletta Canigiani per sottrarsi a una dura e ingiusta condanna. Pietro è originario di Incisa in Valdarno dove i suoi avi esercitavano la professione notarile: notaio era suo nonno ser Garzo [bisnonno di Francesco], notaio il padre Parenzo [nonno di Francesco] e notaio è anche Pietro [il padre di Francesco] che veniva chiamato più comunemente ser Petracco [o Petraccolo]. Ser Petracco è un uomo colto e ambizioso e dal Valdarno si trasferisce a Firenze, città prospera e ricca, ma in preda a feroci lotte politiche accompagnate da spietate vendette di parte. Ser Petracco svolge la sua professione con notevole successo ed è stato anche notaio del Collegio dei priori tra il dicembre del 1300 e il febbraio del 1301. Ma anche lui, come Dante, finisce nella inesorabile trappola delle lotte politiche, e come Dante, di cui ser Petracco è amico, viene condannato nell’ottobre del 1302 senza processo.
Ser Petracco, per quanto abile, non è riuscito ad evitare di scontrarsi con un uomo potente e senza scrupoli, il banchiere Riccio Franzesi Guido, detto Biche, e la condanna è ingiusta e pesante: mille fiorini di multa, il taglio di una mano e la confisca dei beni, quindi, a ser Petracco non resta che fuggire rifugiandosi ad Arezzo, dove un paio di anni dopo nascerà Francesco il quale scrive nella sua biografia: «Fui generato in esilio e in esilio sono nato e con un parto così rischioso che sono apparso sulle soglie della vita con auspici di morte». Arezzo [come Siena, come Lucca e come tante altre città in Italia] è, in quegli anni, una vera e propria città-stato racchiusa dentro le proprie mura ma attiva e gelosa della propria autonomia politica ed economica, e ser Petracco si trova bene ad Arezzo tanto che rifiuta di tornare a Firenze, quando, nel 1309, viene riconosciuta la sua innocenza.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Tra i tanti e bei monumenti di Arezzo, la Casa natale di Francesco Petrarca in via dell’Orto - ricostruita nel 1948 per farne la sede della “Accademia di Lettere, Arti e Scienze” - risulta essere quello meno appariscente, ma merita di essere visitato utilizzando la guida della Toscana e navigando in rete, buon viaggio…
Il piccolo Francesco non rischia di morire solo alla nascita ma anche subito dopo: agli inizi del 1305, quando ha appena sette mesi, la madre Eletta decide di trasferirsi all’Incisa nella casa del nonno paterno ser Parenzo, e questo è il primo dei moltissimi viaggi di Francesco Petrarca, e poco ci è mancato che fosse anche l’ultimo perché durante il guado dell’Arno, il cavallo del servitore che portava con sé il bambino, è scivolato ed è caduto nel fiume, e il garzone, sbalzato di sella, ha faticato non poco a tirarsi fuori dall’impetuosa corrente del fiume, e il piccolo Francesco [come Mosè] fu salvato dalle acque. A Incisa Francesco rimane sei anni, e sono anni felici perché qui vivono gli zii, i cugini, il nonno, tutti i parenti del padre ed è anche viva la memoria del bisnonno ser Garzo che, scrive Petrarca: «Era un uomo senza lettere ma di ingegno eccellente». Il padre, ser Petracco, rimane ad Arezzo perché l’Incisa è una località che fa parte della repubblica fiorentina e su di lui grava quella pesante condanna [e va a trovare la famiglia clandestinamente ogni tanto] ma quando viene assolto ser Petracco non torna a Firenze ma nel 1311 si trasferisce a Pisa, acerrima rivale di Firenze, insieme alla moglie a Francesco e al nuovo nato Gherardo.
Pisa pullula di fuorusciti fiorentini, e probabilmente c’è anche Dante, e quindi c’è poco lavoro per cui ser Petracco decide di emigrare dove c’è più commercio e si trasferisce con la famiglia ad Avignone che come sappiamo è diventata la città dei papi e lì ci sono molte opportunità da sfruttare. La famiglia Petrarca s’imbarca a Pisa agli inizi del 1312 diretta verso la Provenza e non è un viaggio tranquillo: dopo aver sostato a Genova, la nave prosegue verso Marsiglia, dove, travolta dal mare in burrasca, rischia di affondare.
Ad Avignone ser Petracco giunge nei primi mesi del 1312 e non gli è possibile sistemarvi la famiglia perché la città è sovrappopolata. Da borgo che contava meno di diecimila abitanti Avignone è diventata una città di quarantamila residenti e solo “la famiglia del papa” [tutta la complessa macchina amministrativa della corte papale] è composta da circa cinquecento persone, e alla “famiglia del papa” si aggiungono quelle dei cardinali, ciascuno con la sua piccola corte di domestici ecclesiastici e laici [ci sono ambasciatori, notai, medici, barbieri, cuochi, palafrenieri, e poi mercanti, banchieri, artigiani, orefici, ricamatori, pellicciai, e un consistente numero di manovali attratti da un’occupazione qualsiasi]. Non mancano, naturalmente, avventurieri di ogni specie, usurai, ladri e prostitute, e centinaia di soldati agli ordini del maresciallo della corte papale incaricato di garantire l’ordine pubblico. La città di Avignone, inizialmente, non è attrezzata per accogliere tanta gente e la situazione si complica ancor di più quando viene eretto il grandioso palazzo dei papi e la città diventa un affollato centro cosmopolita, dove, arrivano anche molti artisti e poeti, e intellettuali e pittori, e giungono - con i loro seguiti - i principi, i re e gli imperatori per trattare direttamente con il papa sui grandi temi del momento.
Ad Avignone ser Petracco non riesce a trovare casa per la sua famiglia ed è costretto ad alloggiare con la moglie e i due figli nella vicina cittadina di Carpentras, dove Francesco trascorre gli anni della sua adolescenza. Ser Petracco trova lavoro ad Avignone perché può contare sulla protezione del cardinale Niccolò da Prato, toscano anche lui e vicino al partito dei Bianchi e, quindi, al padre di Francesco non vengono a mancare vantaggiose opportunità a stretto contatto con i mercanti e i prelati di curia: può, quindi, svolgere una lucrosa attività professionale come aveva sperato lasciando l’Italia.
A Carpentras [una cittadina che abbiamo frequentato più volte in questo viaggio] Francesco segue i corsi di grammatica e di retorica di un noto maestro [del quale dobbiamo fare conoscenza] che aveva aperto una Scuola proprio lì: Convenevole da Prato. Convenevole a Prato faceva il notaio ma, emigrato a Carpentras, si dedica all’insegnamento. Ha una quarantina d’anni e gode di stima e di reputazione negli ambienti intellettuali di Avignone e raccoglie intorno a sé numerosi discepoli, ed anche il cardinale Niccolò da Prato si avvale di lui come consigliere letterario. Convenevole ha buoni rapporti anche con il cardinale Giovanni Colonna ma, nonostante la stima di cui gode, il maestro di Prato non ha avuto una vita facile, e lo sappiamo proprio dalla Lettera biografica di Petrarca che ce ne tramanda un ricordo affettuoso e malinconico: Convenevole deve sempre combattere con persistenti difficoltà economiche perché gestire una Scuola era piuttosto costoso [i libri costavano molto] e gli introiti erano modesti e, sebbene ser Petracco [il padre di Francesco] abbia fatto una serie di elargizioni alla Scuola, Francesco ci racconta, con grande tristezza, che il maestro Convenevole ha dovuto cominciare a vendere i preziosi Libri delle Opere classiche che possedeva, e, in particolare, con immenso dolore, ha dovuto vendere un pregiato manoscritto che conteneva un’opera di Cicerone, il De Gloria, che poi è andata poi perduta, e Francesco l’avrebbe fatta comprare a suo padre se, prima di lui, non fosse arrivata l’offerta di un ricco mercante. Convenevole nel 1336 è tornato a Prato dove i suoi concittadini hanno istituito per lui una cattedra di Letteratura latina, però è morto due anni dopo nel 1338 e Petrarca lo ha pianto con grande commozione, scrivendo: «Così ho perso il mio primo e più importante maestro e anche un Libro importante».
L’esperienza di Carpentras rappresenta per Francesco un periodo di studi e di apprendimento assai positivo, lì approfondisce, tra l’altro, la conoscenza di Cicerone, e scrive in una delle sue Lettere: «Fin dalla prima infanzia ho letto tutte le Opere di Cicerone, e mi ci sono riconosciuto». Negli anni di Carpentras fa anche un’esperienza che si rivela fondamentale nella sua vita: la scoperta di Valchiusa e delle sorgenti del Sorga. Francesco rimane affascinato dalla bellezza di questi posti e scrive: «Ecco un luogo che si addice alla mia natura, e se un giorno mi si offrirà l’occasione, preferirò vivere qui che in una grande città».
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Con la guida della Francia e navigando in rete andate a fare un’escursione in Valchiusa [a Fontaine de Vaucluse]… Lì aleggia lo spirito di Francesco Petrarca…
A Valchiusa Francesco Petrarca ci soggiorna e arrivavano lì già molte comitive di gitanti che andavano attratte dalle pittoresche sorgenti del fiume Sorga, e una volta tra questi gitanti c’è anche Laura che a Francesco appare con tutta l’eleganza che ha un gabbiano in volo. E, a proposito, di gabbiani concludiamo il nostro itinerario leggendo ancora una pagina da Il gabbiano.
LEGERE MULTUM….
Sándor Márai, Il gabbiano
Il portiere li saluta con deferenza, i battenti del grande edificio si chiudono alle loro spalle. Scendono insieme lungo la stretta passeggiata che costeggia la collina, la neve fresca scricchiola sotto i loro passi. Camminano in silenzio. Attraversano il ponte a piedi. Al centro del ponte c’è un vecchio che offre da mangiare ai gabbiani. Si fermano, si affacciano al parapetto, osservano gli uccelli che levano strida acute. «Hanno una gran fame» dice lei. … Durante la notte il grande fiume si è ghiacciato, e ora somiglia a una passione tumultuosa il cui flusso è stato bloccato da una forza gelida e indifferente. Forse da un nobile intelletto. … I gabbiani spiccano il volo mossi da incomprensibili idee o informazioni, come se fosse venuto loro in mente qualcosa, o qualcuno avesse sussurrato loro qualche notizia su opportunità di vita e nutrimento. Spiccano il volo e sfiorano il ponte all’altezza del parapetto, e volteggiano anche più in alto, aleggiando in modo teatrale nell’aria. …
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Ma Laura [L’Aurea del Petrarca] è esistita davvero? Il Canzoniere [la raccolta di poesie d’amore più importante della Storia della Letteratura universale..] la fa esistere e, quindi, è un po’ come chiedersi [paradossalmente]: ma le lupe e i lupi per addormentarsi contano le pecorelle? Se lo fanno sicuramente dormono poco e anche Francesco Petrarca come potrebbe rimuovere Laura dai suoi pensieri?
Queste domande metaforicamente imbarazzanti presuppongono che non bisogna mai perdere la volontà d’imparare, e per questo la Scuola è qui e il viaggio continua [buona notte a voi che non avete bisogno di contare le pecorelle]…