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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ UMANISTICA LA FILOLOGIA DIVENTA UNA VERA E PROPRIA FILOSOFIA ...

Lezione N.: 
29

Prof. Giuseppe Nibbi       La sapienza poetica e filosofica dell’età umanistica     25-26-27  maggio  2016

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ UMANISTICA

LA FILOLOGIA DIVENTA UNA VERA E PROPRIA FILOSOFIA ...

     Dopo circa otto mesi di cammino il nostro viaggio sta per concludersi e stiamo per incamminarci sul penultimo itinerario, il ventinovesimo, di questo Percorso: il prossimo tragitto [il trentesimo ed ultimo] sarà caratterizzato da una Lezione più breve, compresa nel contesto di un sobrio incontro conviviale.

     Francesco Petrarca ha lasciato agli intellettuali che vengono dopo di lui una Lezione incentrata sul concetto della “laicità” e, difatti, le persone che raccolgono l’eredità culturale di Petrarca e la sviluppano in modo creativo non sono dei chierici o dei monaci ma sono dei laici impegnati nella vita civile e politica sebbene siano anche persone protese a realizzare i valori del Vangelo [l’uguaglianza, la giustizia, la pace, la solidarietà e la misericordia] in modo che sia possibile far conciliare l’umanità insita nel messaggio cristiano con l’umanità che emerge nelle Opere dell’antichità classica perché i principi basilari sono gli stessi [uguaglianza, giustizia, pace, solidarietà e misericordia]: quindi, la categoria degli “umanisti” [così come verranno chiamati i suoi discepoli] coltiva la stessa passione di Petrarca per la ricerca, la rilettura, la traduzione e lo studio dei testi delle Opere dei Classici che sono stati conservati nelle biblioteche delle abbazie [e lì, spesso, abbandonati da qualche secolo]. Di conseguenza “la disciplina filologica” [la Filologia] si specializza [diventa una scienza] e si trasforma in una vera e propria Filosofia [si codifica lo stile di vita del filologo].

     I discepoli di Petrarca - Coluccio Salutati [che già abbiamo incontrato la scorsa settimana], Leonardo Bruni, Poggio Bracciolini, Leon Battista Alberti, Lorenzo Valla e Nicola Cusano - operano in tempi diversi, ciascuno per proprio conto, ma le studiose e gli studiosi di Filologia hanno uniformato il loro operato inserendolo su un cammino comune e li considerano facenti parte di quella che è stata chiamata “la Compagnia degli Umanisti”. Ma procediamo con ordine.

     Un anno dopo la morte di Petrarca, nel 1375, diventa cancelliere del Comune di Firenze Coluccio Salutati [1331-1406]. Coluccio Salutati considera Francesco Petrarca il suo maestro ed è il fondatore del movimento dell’umanesimo filologico fiorentino [dopo aver girato il mondo intero in questi ultimi anni da Occidente ad Oriente e da Oriente ad Occidente, ora cominciamo anche ad avere il privilegio di giocare in casa].

     Come sapete, Coluccio Salutati - appena nominato al governo del Comune fiorentino - il 26 gennaio 1375 [giorno del tradizionale miracolo della fioritura dell’olmo di San Zanobi] come primo provvedimento pubblico, fa innalzare una nuova Colonna di San Zanobi davanti alla porta nord del Battistero, sul cui busto viene posta un’iscrizione che, apparentemente ha un valore religioso [racconta il miracolo], ma in realtà esalta il fatto che a Firenze è in corso “la fioritura di una nuova epoca” [nuova fioritura fiorisce in Fiorenza]. E c’è, in proposito, una corrente di pensiero la quale afferma che il 26 gennaio 1375 ha avuto inizio ufficialmente l’Umanesimo filologico, e c’è chi sostiene che questa sia anche una possibile data che decreta la fine del Medioevo e si ritiene, quindi, che a Firenze il Medioevo sia finito prima che da altre parti. Sappiamo che tirare linee di confine tra un’epoca e l’altra è sempre un esercizio relativo ma il fatto che Coluccio Salutati abbia messo in evidenza nel suo programma di governo la parola-chiave “fioritura” è un fatto significativo sul quale, di conseguenza, dobbiamo riflettere.

     Coluccio Salutati, sebbene consideri Francesco Petrarca il suo maestro, tuttavia si distingue da lui per un diverso stile di vita: Petrarca esalta “la vita solitaria” mentre Coluccio Salutati non considera questo elemento un ideale necessario ma semplicemente un mezzo per cui, periodicamente, la persona deve riflettere e meditare in solitudine sul proprio operato ma per Coluccio Salutati l’aspirazione è quella di dedicarsi ad “un’attiva vita di relazione” che comprende soprattutto “l’attività dello studio” che deve essere svolta “in comune”.

     Lo studio delle Opere dei Classici [Studia humanitatis] - in particolare, secondo l’indicazione di Petrarca, le Opere di Sant’Agostino, di Cicerone e dei filosofi Stoici - deve servire all’elevazione della singola persona ma, principalmente, a creare “lo zelo e il desiderio per il Bene della Città” perché la Città, scrive Coluccio Salutati, è il modello della patria e Coluccio Salutati afferma questa idea citando il capitolo 21 del Libro dell’Apocalisse [che abbiamo già letto e commentato strada facendo] dove si legge che anche il Regno di Dio [la Gerusalemme celeste] è una Città.

     Essendo un cultore dell’opera di Sant’Agostino intitolata “La città di Dio”, Coluccio Salutati coltiva un’autentica fede nella Città eterna ma pensa che la fede si debba praticare attivamente nella Città terrena che è il campo in cui si seminano e si applicano i valori del Vangelo [l’uguaglianza, la giustizia, la pace, la solidarietà e la misericordia] e, quindi, l’impegno da dedicare nella vita pubblica non deve essere da meno di quello da dedicare alla vita religiosa con la preoccupazione di favorire non tanto [ed egoisticamente] la propria famiglia [laica o religiosa che sia] ma l’intera cittadinanza secondo i suoi bisogni.

     L’umanesimo filologico [e ce ne siamo già rese e resi conto viaggiando in Oriente] nasce e si sviluppa con una connotazione eminentemente politica e le idee politiche di Coluccio Salutati sono contenute nella raccolta delle sue Lettere da Cancelliere. Il genere letterario della “lettera” - pensate agli Epistolari di Petrarca, e a quante informazioni ci hanno lasciato - diventa un efficace strumento politico. Scrive Coluccio Salutati: «La lettera è uno strumento temibile come un esercito schierato in battaglia. Se fra le Città e gli Stati le relazioni e le controversie si risolvessero diplomaticamente per lettera, secondo ragionamenti scritti, si risparmierebbe sangue e sofferenze».

     Nelle sue Lettere Coluccio Salutati respinge l’idea che la guerra e le ritorsioni possano essere considerate attività ascrivibili alla politica, e ribadisce che lo strumento necessario per realizzare l’attività politica è dato “dagli studi” [termine declinato al plurale: “studia humanitatis”]  effettuati sulle Opere dei Classici e sulla Letteratura dei Vangeli, e seguendo questa linea costruisce il catalogo delle mansioni politiche e definisce la politica come “l’arte per far fiorire la città” mentre il suo contrario è “l’affarismo personale” che fa inaridire lo spirito e porta, scrive Coluccio Salutati, al decadimento morale, economico e culturale della Città. L’attività politica è “l’arte che fa fiorire la città” quando “produce buone leggi di interesse generale”, “amministra la giustizia in modo imparziale”, “promuove l’onestà pubblica con un equo sistema fiscale”, “favorisce con lo studio in comune la crescita delle virtù evangeliche per il maggior sviluppo dei valori umani [l’uguaglianza, la giustizia, la pace, la solidarietà e la misericordia]”.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Scrivete il catalogo delle azioni politiche enumerate da Coluccio Salutati - “produrre buone leggi di interesse generale”, “amministrare la giustizia in modo imparziale”, “promuovere l’onestà pubblica con un equo sistema fiscale”, “favorire con lo studio in comune la crescita delle virtù evangeliche per il maggior sviluppo dei valori umani [l’uguaglianza, la giustizia, la pace, la solidarietà e la misericordia]” - disponendole, secondo voi,  in ordine d’importanza…   Esercitatevi a governare investendo in intelligenza secondo il pensiero dell’Umanesimo filologico...

     Si ha l’impressione - da come riflette sul tema della guerra [la seconda guerra mondiale che è in corso] e da come ragiona sulla complessità dei rapporti umani - che anche il consigliere di Stato ungherese, il protagonista del romanzo Il gabbiano, scritto nel 1943 da Sándor Márai [del quale abbiamo già letto un certo numero di pagine], sia d’accordo con il pensiero politico di Coluccio Salutati e questo dipende dal fatto che anche lo scrittore Sándor Márai è un cultore dell’Umanesimo filologico e un traduttore di Petrarca.

     Sappiamo che una giovane donna finlandese, di nome Unica Onda [Aino Laine, la coprotagonista del romanzo], è entrata - dopo aver chiesto udienza per ottenere un permesso di soggiorno - nell’ufficio del consigliere di Stato ungherese, e lui rimane sconvolto dal fatto che questa bella ragazza è la copia di colei, Ili [Ilona], che lui ha amato anni prima e che si è uccisa [come sappiamo] incomprensibilmente per amore del suo trasandato e vecchio professore di chimica. Il consigliere di Stato è attratto e non vuole staccarsi da questa persona, da Unica Onda, nonostante sia molto sospettoso e si domanda da che cosa dipenda la comparsa del “duplicato di Ili” a scombussolare ulteriormente la sua vita.

     L’autore, attraverso il personaggio dell’alto dignitario ministeriale, utilizza questa domanda per riflettere sul tema della guerra, della vecchiaia, sul significato delle relazioni umane, sull’idea [spaventosa] di somiglianza e sul valore delle sfumature perché ogni persona è una sfumatura, una tonalità, un’intonazione diversa dell’unico modello umano, e perché - si domanda amaramente lo scrittore [e questa domanda è già implicitamente presente nel Canzoniere di Petrarca] -, perché questa radice comune non facilita ma complica la convivenza tra le persone e, di conseguenza, tra gli Stati? Si può [secondo quello che possiamo chiamare “l’esistenzialismo petrarchesco” di Sándor Márai] giustificare la guerra quando esiste il concetto di somiglianza e la somiglianza rimanda al tema delle relazioni umane, e al fatto che la relazione umana più rilevante sia quella amorosa? Come mai è così difficile realizzare la pacifica convivenza all’interno della comunità umana: qual è il senso e quali sono le regole che governano gli incontri, siano essi casuali che necessari?

     Continuiamo a leggere Il gabbiano, ancora una pagina.

LEGERE MULTUM….

Sándor Márai, Il gabbiano

Ci sono molte altre Ili, tranquillizzati. Anche al Sud vivono delle Ili, e magari ce n’è una perfino a Veracruz. «Signorina, lei assomiglia in modo impressionante a…» è l’abusato pretesto per fare conoscenza; un sistema «per attaccare discorso», antichissimo, non solo tra esseri umani, ma anche tra Dio e gli umani. Dio deve aver «attaccato discorso» in maniera simile con la materia quando ha creato la persona a sua immagine e somiglianza Ma è quasi inverosimile, tuttavia, che il duplicato, unica onda, mi abbia trovato in questa città, dove vivono un milione di persone: è entrata nella stanza, in una città straniera, e si è recata proprio da chi ha avuto già a che fare con un’altra donna simile a lei per destino fisico. In quella città straniera in cui vivono un milione di persone, è venuta a cercarlo con la stessa sicurezza con la quale gli uccelli selvaggi cercano il loro nutrimento nello spazio infinito

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     Il consigliere di Stato ha invitato Aino Laine [Unica Onda] ad andare con lui all’Opera, e lei ha accettato volentieri. In programma c’è “Un ballo in maschera” e l’allegoria è esemplare: avete mai ascoltato quest’opera verdiana? Questa può essere l’occasione per conoscere questa composizione.

     E ora da Budapest [poi andremo all’Opera anche noi] torniamo subito a Firenze dove dobbiamo incontrare il discepolo più vicino a Coluccio Salutati: Leonardo Bruni.

     Leonardo Bruni [1370-1444] - ambasciatore del Comune di Firenze in Vaticano - sviluppa le idee di Coluccio Salutati e codifica quella che è stata chiamata “la dottrina sul primato delle virtù pratiche rivolte a edificare il Bene comune”.

     Il “Bene pubblico” [ed è questo un termine che si consolida con l’Umanesimo filologico] diventa, attraverso l’opera di Leonardo Bruni, un concetto che viene ad assumere una forte legittimazione culturale. Leonardo Bruni dà al catalogo delle azioni politiche virtuose stilato da Coluccio Salutati un involucro intellettuale: correda il catalogo pratico dell’azione politica di fonti provenienti dalla cultura classica che ne arricchiscono il valore teoretico [dottrinale, sta nascendo “la dottrina politica” dell’Età moderna] e, a questo proposito, Leonardo Bruni traduce il dialogo Fedone di Platone e l’Etica Nicomachea e la Politica di Aristotele e, quindi, il concetto di “Bene pubblico” poggia su quattro colonne portanti formate dal pensiero di Platone, di Aristotele, di Cicerone e di Sant’Agostino.

     Leonardo Bruni comincia a teorizzare l’ideologia della borghesia liberale [un sistema che raccoglie l’eredità provenzale dei Catari] per cui “è morale produrre ricchezza con il lavoro”, è un bene “intraprendere per creare e dare lavoro secondo leggi appositamente predisposte”e, di conseguenza, ha inizio la polemica, che diventerà sempre più animata nel tempo, nei confronti dell’aristocrazia che incamera rendite parassitarie con il feudale sistema della servitù della gleba [e, coltivando queste idee, la borghesia liberale sarà l’animatrice delle rivoluzioni sociali dei secoli a venire] e, naturalmente, la controversia si estende anche contro le rendite parassitarie della Chiesa.

     A dar manforte alle idee di Leonardo Bruni partecipa Poggio Bracciolini [1380-1459] che potenzia l’idea della “fioritura” [la parola-chiave fatta scrivere da Coluccio Salutati sulla colonna di San Zanobi: un termine che equivale al primo passo verso quella stagione che prenderà il nome di Rinascimento]: ebbene, la “fioritura” corrisponde, ribadisce Poggio Bracciolini, ad un ideale di perfezione [di completezza] da raggiungere nella dedizione al bene della città operando con sempre maggiore determinazione intellettuale per mettere in armonia il pensiero di Platone [perché ci vogliono le idee], di Aristotele [perché i concetti devono passare continuamente dalla potenza all’atto], di Cicerone [perché ciò che è utile deriva dall’onestà] e di Sant’Agostino [perché la fede nella città eterna si esercita nella città terrena]; e queste sono le chiavi culturali che portano Firenze - e la borghesia artigianale e commerciale della città - verso un grande sviluppo.

     L’opera più significativa e provocatoria di Poggio Bracciolini [anche lui ambasciatore a Roma] è il trattato intitolato De avaritia [L’avarizia] che prende di mira con violenza l’inoperosità e l’inerzia dei monaci e dei frati, i quali - dimenticando lo spirito originario delle loro Regole - predicano la povertà agli altri e vivono nell’ozio: «Noi, scrive Poggio Bracciolini, non costruiremo le città con codeste larve d’uomini, indegni dei santi fondatori dei loro Ordini, che nell’ozio più completo si mantengono col nostro lavoro». Nelle affermazioni di Poggio Bracciolini c’è un umore che è già esploso nella cristianità europea con i movimenti di Riforma [paralleli allo scisma d’Occidente] dei Lollardi in Inghilterra e degli Hussiti in Boemia, due fenomeni dei quali ci occuperemo nel prossimo viaggio [del prossimo anno scolastico].

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Il termine “avarizia” rimanda alle parole: “cupidigia, avidità, esosità, grettezza, meschinità”...   Quale di queste parole mettereste per prima accanto alla parola “avarizia”?...

Avere a che fare con l’avarizia è spesso umiliante: scrivete quattro righe in proposito...

     Il protagonista del romanzo Il gabbiano di Sándor Márai ha riflettuto spesso sul tema dell’avarizia dei sentimenti [la sua] e abbiamo già letto le sue riflessioni in proposito, e ora lo accompagniamo all’Opera ma, prima che arrivi a teatro, dobbiamo ascoltare una serie di sue considerazioni sul tema del rapporto tra la natura e la cultura, del rapporto tra la vanità e la modestia e del rapporto tra il lutto e la memoria [tre temi petrarcheschi]: lei - il duplicato di Ili - lo sta aspettando e non ha niente da rimproverargli quando lui arriva con un minuto di ritardo.

LEGERE MULTUM….

Sándor Márai, Il gabbiano

Arriva all’Opera con un minuto di ritardo. La grande scalinata è ormai vuota, immersa nella penombra. Lei, sola sul gradino più basso, lo aspetta avvolta in una strana pelliccia color crema: tra le pellicce alla moda, di volpe e roditori vari, esposte nelle vetrine non ne ha mai vista una di quel genere. Ferma ai piedi della scalinata, gli ricorda un cacciatore nordico che si è buttato sulle spalle la pelle di una belva abbattuta, il mantello di un orso polare o di un altro mammifero errante sopravvissuto all’ultima glaciazione. Se ne sta lì in piedi, snella, con aria da adolescente, scruta con occhi miopi e tranquilli l’atrio sfarzoso e deserto. La folta pelliccia le scivola leggera dalle spalle; la scalinata e le colonne sullo sfondo mettono in risalto la figura alta e slanciata - guarda dinanzi a sé solitaria e orgogliosa.

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     Il tema della città e del suo sviluppo - uno sviluppo che sappia dare all’arredo urbano [un altro termine che nasce in quest’epoca] una forma che porti in sé l’idea dell’armonia classica secondo i canoni dell’Umanesimo filologico - si lega alla figura di un personaggio che viene ricordato per essere stato soprattutto un grande architetto: Leon Battista Alberti nato a Genova da famiglia fiorentina in esilio.

     Leon Battista Alberti [1404-1472] è il grande architetto che con le sue armoniose costruzioni ha offerto il modello all’imminente stagione rinascimentale ma più che il suo lavoro da architetto [arriva all’architettura dopo i quarant’anni] ci interessa valutare più che altro, in questo contesto, la sua attività letteraria nell’ambito del territorio dell’Umanesimo filologico.

     Il pensiero di Leon Battista Alberti accentua il carattere laico dell’Umanesimo e afferma che «l’uomo nacque per essere utile all’uomo» e la sua visione del mondo è incentrata sull’idea dei “limiti” che caratterizzano l’esistenza umana perché la persona vive in una condizione dove dominano “il caso” e “la fortuna” e «nulla si sottrae, scrive Leon Battista Alberti, al loro gioco » [sarà poi Niccolò Machiavelli a mettere queste due parole-chiave al centro della sua dottrina che studieremo nel prossimo viaggio] per cui è necessario, scrive Leon Battista Alberti, che la persona reagisca in modo che la vita umana non sia condannata alla “vanità”. Per opporsi alla “vanità delle cose” [come si legge nel Libro del Qoelet], e per reagire al fatto che nessuno è padrone del proprio destino, è necessario che la persona, scrive Leon Battista Alberti, reagisca in modo razionale perché possa diventare il più possibile “titolare” del proprio destino acquisendo una serie di virtù fondamentali costruite dalla ragione e governate dall’intelligenza.

     Sul tema etico Leon Battista Alberti guarda al pensiero di Aristotele il quale sostiene che ogni persona vuole interpretare nel miglior modo possibile l’attività che gli è propria, e siccome l’attività propria dell’essere umano è quella razionale, questo significa che “il bene” per l’essere umano consiste nel raggiungere il più alto grado possibile di competenza nell’attività razionale e, quindi, “la virtù, scrive Leon Battista Alberti parafrasando Aristotele, l’Etica Nicomachea, sta nell’agire secondo ragione”, e dall’attività razionale deve nascere la ricerca dell’equilibrio e la felicità consiste nel trovare il giusto mezzo [l’armonico equilibrio].

     Le virtù con le quali la persona può aspirare a diventare “titolare” del proprio destino comprendono: la scienza [la capacità di interpretare i fenomeni naturali e i comportamenti umani], l’arte [la capacità di produrre oggetti utili e belli], la saggezza [il saper discernere ciò che è bene e ciò che è male per la singola persona e per città], l’intelligenza [la capacità di intuire i primi principi di tutte le scienze] e la sapienza [la facoltà di dimostrare e di intuire i principi delle dimostrazioni]. A sua volta, scrive Leon Battista Alberti, “la sapienza” comprende in sé la scienza. l’arte, l’intelligenza e la saggezza per cui “la sapienza” è la più importante fra le virtù e, attraverso “la sapienza”, la persona deve provare a governare e a trasformare la materia con il sussidio [teorico] della matematica e l’uso [pratico] di tecniche appropriate con l’obiettivo di creare situazioni di equilibrio e di armonia.

     Le opere letterarie di Leon Battista Alberti sono dei “trattati” su temi pratici: l’architettura, il lavoro, la famiglia, la legislazione. Per capire che cosa intenda Leon Battista Alberti per “equilibrio, armonia, proporzione” [che risultano essere parole qualificanti dell’Umanesimo filologico] si può osservare come lui dia un senso pratico a questi termini nelle sue opere architettoniche.

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Utilizzando un catalogo di Storia dell’Arte che trovate in biblioteca e navigando in rete andate a far visita al Tempio Malatestiano di Rimini [1450] e alle Chiese di San Sebastiano [1460] e di Sant’Andrea [1470] a Mantova… Buon viaggio...    

     La dottrina sul primato delle virtù pratiche rivolte a edificare il bene comune - dottrina che nasce e si sviluppa nel corso dell’Umanesimo filologico attraverso il pensiero di Coluccio Salutati, Leonardo Bruni, Poggio Bracciolini, Leon Battista Alberti - mette più che mai in evidenza il fatto che in principio non ci sono le cose [come potrebbe sembrare] ma bensì “in principio c’è la parola” perché solo la parola è in grado di dare [il o un] significato alle cose. E l’affermazione “in principio c’è la parola” preannuncia l’incontro con un altro importante personaggio: si chiama Laurentius Vallensis, e lo conosciamo con il nome di Lorenzo Valla, nato a Roma da famiglia piacentina: suo padre Luca è avvocato concistoriale, e sua madre Caterina Scribani è la figlia dell’importante giureconsulto Giovanni Scribani impiegato alla Curia pontificia.

     Lorenzo Valla [1407-1457] è il pensatore umanista che utilizza in modo eversivo la Filologia, e per dare un carattere eversivo alla Filologia bisogna essere ben preparati, e Lorenzo Valla - sebbene a detta dei suoi insegnanti fosse un ragazzo vivacissimo - si è preparato studiando diligentemente e, soprattutto, studia le lingue a cominciare dal greco [è il nonno Giovanni Scribani che lo indirizza agli Studia humanitatis] e Lorenzo frequenta la Scuola dei due più quotati grecisti del momento: Giovanni Aurispa e Rinuccio da Castiglion Fiorentino [il segretario di Martino V il papa che riporta la sede pontificia a Roma ].

     Dal punto di vista filologico [per questa sua accurata formazione] in nessun altro umanista come in Lorenzo Valla è stata così lucida la consapevolezza degli effetti di liberazione che produce il recupero della parola nella sua autenticità contestuale, “una parola” [come quella della Sacra Scrittura e dei Documenti conciliari] che, spesso, nei secoli, è stata manomessa dalla tradizione [e noi conosciamo questo tema].

     Lorenzo Valla, nella sua prima opera intitolata Disputazioni dialettiche, propone un metodo per “il ristabilimento del nesso tra la parola e la cosa” e illustra un criterio logico che consiste nella “dilucidazione storica e razionale del linguaggio”, perché la Scolastica tradizionale con le sue dispute teologiche ha complicato il procedimento logico riducendo, e non allargando, la possibilità di comprensione dei testi. Scrive Lorenzo Valla [accusato di laicismo]: «È soprattutto la Fede a trarre vantaggio dal recupero delle parole autentiche, e mettere la Parola sacra al posto che le è dovuto è compito morale del filologo, immorale sarebbe la copertura di manomissioni [e si riferisce soprattutto alle interpolazioni nei testi dei Vangeli canonici dopo il concilio di Nicea per affermare il primato di Pietro] operate, scrive Lorenzo Valla, a fini di potere contro lo spirito dell’evangelo».

     Poi Lorenzo Valla, nell’opera intitolata Eleganze, propone una revisione del latino in uso perché è diventato “un gergo corrotto infettato di contaminazioni” e, quindi, ritiene si debbano studiare e introdurre i modelli classici della lingua latina [la “rotunditas” di Cicerone] perché il ristabilimento della “latinitas” [stile e musicalità] procura un vantaggio alla chiarezza del pensiero stesso [e pensa bene chi parla bene].

     L’esito più clamoroso del metodo filologico di Lorenzo Valla è stata la dimostrazione, nel suo scritto Sulla falsa donazione di Costantino del 1440, del falso storico a cui si era soliti far risalire il potere temporale della chiesa. Nell’VIII secolo era stato costruito un documento apocrifo [con firma falsa di Costantino] che, dopo il concilio di Nicea del 325, avrebbe concesso a papa Silvestro il dominio su Roma e sull’Italia, e questo falso documento è stato utilizzato dai papi teocratici [in primo luogo da Bonifacio VIII] per tutto il Medioevo per rivendicare il loro potere politico: per Lorenzo Valla [che ha studiato la Storia dell’evoluzione della lingua latina] è stato facile dimostrare come il latino dell’VIII secolo, utilizzato per scrivere il falso documento, sia diverso dal latino del IV secolo con il quale sono stati scritti [nel 325] i documenti del concilio di Nicea a cominciare dal Simbolo niceno, il Credo.

     Con l’uso del suo metodo filologico Lorenzo Valla indaga anche sui testi della Sacra Scrittura: le sue Note sul Nuovo Testamento del 1449 vanno considerate come una premessa della grandiosa revisione a cui Erasmo da Rotterdam [come studieremo a suo tempo] sottoporrà i testi sacri, aprendo la strada alla Riforma luterana.

     Dal punto di vista filosofico e teologico Lorenzo Valla tenta la più incredibile delle conciliazioni [e si capisce che siamo ormai in una nuova epoca]: quella tra l’insegnamento di Gesù Cristo e l’insegnamento di Epicuro. Se l’essere umano, scrive Lorenzo Valla, è stato creato da Dio con anima e corpo, significa che anche la tendenza fisica al piacere va considerata in sé buona, ed è anacronistico l’atteggiamento di certi asceti  che sono dominati da un ideale di perfezione che non ha niente né di umano né di evangelico. Tra il piacere terreno dei sensi, scrive Lorenzo Valla, e il piacere celeste che il cristiano persegue non c’è contraddizione ma c’è continuità e queste idee le scrive in un’opera intitolata Del Piacere [De voluptate] che diventa uno dei manifesti dell’Umanesimo. La persona, scrive Lorenzo Valla, deve pensare umilmente di essere chiusa nell’ambito dei sensi che vanno utilizzati per il meglio, in chiave epicurea, non in senso smodato ma per soddisfare i bisogni naturali necessari scansando quelli inutili [come la gloria, gli onori, le ricchezze] e, quindi, per distinguere e scegliere i piaceri da soddisfare, scrive Lorenzo Valla, è necessaria “la prudenza” [la virtù più utile] perché il piacere deve essere controllato dalla ragione. La persona deve coltivare, scrive Lorenzo Valla, “l’umiltà di pensiero” perché, chiusa com’è nel tempo, non conosce nulla di ciò che si intende per eternità, prescienza, onnipotenza. La persona conosce solo, in Cristo, quale sia la volontà di Dio - “ama Lui e il prossimo come te stesso” - che non esclude di usufruire, con la necessaria prudenza, dei piaceri del Creato a meno che questa fruizione non crei un danno per il prossimo [Lutero e Calvino riprendono questo concetto]. Ma non c’è da stupirsi se Lorenzo Valla è rimasto nella memoria della cristianità come un pensatore dissacrante, e il Concilio di Trento [che inizia nel 1545] ha messo all’Indice tutte le sue Opere, e Lorenzo Valla viene considerato come una specie di Voltaire del Quattrocento.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

In quale circostanza avete agito e in quali circostanze, di solito, agite con prudenza?...

Scrivete quattro righe in proposito...

     E ora incontriamo colui che ha prodotto una sintesi delle idee dell’Umanesimo filologico introducendo i temi del Rinascimento e della Filosofia moderna: si chiama Nikolaus Kriftz o Krebs von Cues che conosciamo con il nome di Nicola Cusano in relazione al suo luogo di nascita. Nicola [Nikolaus Kriftz o Krebs] è detto Cusano dal nome della cittadina tedesca di Cues nella quale è nato nel 1401.

     Oggi la cittadina di Bernkastel-Kues [che ha circa 7500 abitanti] conserva tutto il suo fascino medioevale e naturalmente mantiene viva la memoria del suo celebre concittadino Nicola Cusano che qui, in veste di cardinale, ha fondato nel 1447 l’ospedale che oggi è diventato un museo: c’è un bel chiostro gotico, la biblioteca con preziosi manoscritti e strumenti astronomici, la cappella con il coro nel quale si trova la pietra tombale dentro la quale è conservato il cuore di Nicola Cusano [il suo corpo è sepolto a Roma in San Pietro in Vincoli con un bel monumento funerario]. La cittadina di Bernkastel-Kues si trova sulla riva e nella valle della Mosella lungo un itinerario [di circa 200 Km.] molto pittoresco tra Trèviri [Trier] e Coblenza [Koblenz].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con la guida della Germania e navigando in rete fate visita alla cittadina di Bernkastel-Kues e percorrete il tragitto della valle della Mosella, buon viaggio...

     Nicola Cusano si è formato culturalmente in Italia, soprattutto a Padova, dove domina, sotto l’influenza del pensiero di Guglielmo di Ockham, l’interesse per “la logica dei termini” e per i problemi naturalistici e matematici. Quando torna in Germania, all’Università di Colonia, è già entrato nella vita ecclesiastica e partecipa, nel 1430, al concilio di Basilea [come segretario del cardinale Giuliano Cesarini che presiede il concilio in rappresentanza di papa Eugenio IV] e da questo momento Nicola Cusano assume un ruolo di protagonista nelle vicende agitate della Chiesa, divisa tra sostenitori dell’autorità monarchica del papa e sostenitori del primato del concilio quale organo di governo della Chiesa [si forma il partito dei conciliaristi].

     Cusano diventa l’esponente più autorevole del “partito dei conciliaristi” poi, però, si rende dolorosamente conto [lo scisma d’Occidente è ancora in corso e lui ha imparato a riflettere] di come un concilio, fatto riunire da un monarca o da un gruppo di cardinali in lite con altri cardinali, possa determinare gravi divisioni nella Chiesa [a cominciare dall’elezione di papi contrapposti] ed è, quindi, perfettamente consapevole che sia necessario sostenere “il primato del papa” che, però, non deve avere la prerogativa di un monarca bensì quella di un pastore universale. Purtroppo Cusano si rende conto di quanto sia difficile realizzare questa aspirazione [già coltivata a suo tempo dai Francescani spirituali e dai Domenicani predicatori] e vede anche tutti i mali della Chiesa - dai culti superstiziosi in atto con la vendita delle indulgenze alla diffusa corruzione e ignoranza del clero - e delle sue idee moralizzatrici faranno tesoro, di lì a qualche decennio, i riformatori protestanti.

     Nicola Cusano nel 1437, per la sua competenza, riceve l’incarico di recarsi in delegazione a Costantinopoli per predisporre un concilio con all’ordine del giorno la ricomposizione tra la Chiesa di Roma e la Chiesa orientale e, durante questo breve soggiorno, fa conoscenza con gli esponenti della cultura greca perché a Costantinopoli è in atto un animato dibattito tra gli aristotelici e i platonici e lui si lascia volentieri coinvolgere da quest’onda intellettuale e organizza la partecipazione dei Padri greci al concilio di Firenze che sancisce, nel 1439, l’unità tra le due Chiese [l’Occidentale di Roma e l’Orientale di Costantinopoli] ma questo rimane solo un atto formale mentre l’elemento sostanziale è che i Padri greci - a cominciare dal filosofo e teologo bizantino Giorgio Gemisto Pletone - tengono [alla Certosa del Galluzzo] un ciclo di conferenze sui Dialoghi di Platone e sul pensiero di Suhrawardi: queste Lezioni hanno una ricaduta intellettuale tale da determinare la nascita dell’Accademia fiorentina [diretta da Marsilio Ficino e Pico della Mirandola e sovvenzionata dalla famiglia Medici]. Nel 1447 Nicola Cusano viene nominato cardinale da papa Niccolò V che lo invia come vescovo a Bressanone ma lì lui entra in urto con il conte del Tirolo e si schiera dalla parte dei contadini vessati da questo prepotente che lo minaccia apertamente, e poi a Roma viene eletto papa Callisto III che si chiama Alonso Borgia [un cognome poco raccomandabile], segretario del re Alfonso d’Aragona, il quale comincia a fare una politica nepotista, che consiste nel far cardinali i propri nipoti e figli. Callisto III fa entrare in curia tutti i suoi parenti [e tra loro si distingue il nipote Rodrigo che diventerà papa Alessandro VI] e, naturalmente, Nicola Cusano denuncia il nepotismo e anche il papa Borgia lo censura e lo minaccia. Nel 1458, alla morte di Callisto III, viene eletto papa Enea Silvio Piccolomini [il papa umanista per eccellenza] che prede il nome di Pio II [il fondatore di Pienza, come sapete] il quale è amico fraterno di Nicola Cusano per cui lo richiama a Roma e lo nomina vicario generale dello Stato Pontificio e lo incoraggia a portare a termine le sue numerose opere. Nicola Cusano muore a Todi, mentre si trova in viaggio, nel 1464.

     Questo è un periodo di grandi contrasti [ci troviamo nel bel mezzo del 1400] e la cristianità medioevale sta vivendo il suo disfacimento [antipapi, scismi, scontri sanguinosi al suo interno] ma, nonostante la vita piuttosto movimentata, le responsabilità istituzionali e politiche, i pericoli che ha corso, Nicola Cusano trova il tempo per studiare, per riflettere e per mettere per iscritto il suo pensiero.

     Anche il periodo storico in cui Sándor Márai scrive Il gabbiano è drammatico - è in corso la seconda guerra mondiale - e l’Europa sta vivendo il suo disfacimento [e oggi ci domandiamo perché l’ideale dell’Europa unita - del Manifesto di Ventotene - si sia così appannato]. Dobbiamo constatare che i romanzi come Il gabbiano, basati sulla riflessione intorno ai temi esistenziali, finiscono per essere drammaticamente attuali: Aino Laine è un personaggio letterario paradossalmente contemporaneo: è “una profuga benestante” che ironicamente [secondo un’ironia involontaria], al contrario dei profughi attuali, viene dal nord e porta una drammatica testimonianza ad un funzionario psicologicamente disorientato e istituzionalmente impotente, e non sono necessarie spiegazioni per capire questa pagina che, ancora, adesso leggiamo.

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Sándor Márai, Il gabbiano

«E stata una splendida serata, la ringrazio» dice lei e si siede, dando la schiena alla scrivania, sulla bassa poltroncina di pelle. Lui la guarda e pensa che non è povera come ci si aspetterebbe da una borsista scandinava.

«Ho ancora del caffè…» dice un po’ imbarazzato. «Ma credo sia da macinare, e la governante è già a letto».

«La prego, stia tranquillo» dice lei. «Mi trattengo per dieci minuti, come si conviene, almeno a quanto prescrivono i romanzi nel caso in cui una signora salga per la prima volta di notte nell’appartamento di un gentiluomo sconosciuto. Non mi interrompa,» dice in francese «adesso tocca a me spiegare la situazione. È stato l’orario di chiusura dei locali che ci ha costretto a salire qui da lei, vero? Questa visita notturna non ha particolare importanza; dunque sono salita. Per favore, mi versi un bicchiere da quella bottiglia con il collo lungo. GrazieE tra dieci minuti mi chiami un taxi».

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     La prima opera significativa di Nicola Cusano s’intitola De concordantia [La ricerca di una conciliazione tra gli opposti] e in essa emerge l’esigenza che lui sente di avvicinare - di ricomporre in una sintesi - diversi ambiti culturali: l’esperienza filologica dell’umanesimo italiano [con riferimento a Petrarca], quella del misticismo tedesco [con riferimento a Meister Eckhart], quella del platonismo greco [con riferimento a Giorgio Gemisto Pletone]. Nicola Cusano scrive che se tutte le creature hanno trovato salvezza in Gesù Cristo [che è il Logos, la parola incarnata di Dio, come sostiene Paolo di Tarso e poi Agostino] e se la Chiesa è “la sposa di Cristo” [la custode dell’amore di Gesù verso tutte le creature] non può avere le dimensioni di uno Stato temporale in competizione con altri Stati, non può essere un centro di potere in lotta con altri centri di potere, ma la Chiesa deve manifestarsi direttamente come “corpo di Cristo”, quindi, come “una comunità di corpi che sappia essere il luogo storico e materiale della salvezza” in modo che l’unità che c’è tra il Logos [la parola e il pensiero di Dio] e il Corpo [la Chiesa] porti ogni singola persona a riflettere sul fatto che lei stessa, in quanto salvata [perché Gesù è risorto e ha creato le condizioni per la salvezza di tutti], è “la depositaria dell’unità tra il Cielo e la Terra, è il frutto dell’incontro di ciò che è invisibile [come l’anima] e visibile [come la materia]”. L’Universo - creato da Dio - è il risultato, scrive Nicola Cusano, della coincidenza tra “il finito” e “l’infinito” e le cose finite sono una irradiazione dell’infinito e, di conseguenza, c’è una concordanza tra la karis [la grazia divina] e la natura umana, e “le cose finite” [i frutti della creazione] sono un segno, un simbolo dell’unità dell’Universo [dell’Uno] che, però, risulta essere per la persona un dato inesprimibile [la mente non è in grado di cogliere l’unità dell’Universo] e «il mondo creato, scrive Nicola Cusano, è la metafora dell’Uno inesprimibile»; l’unità assoluta, inesprimibile, non può che essere Dio, e questo è l’unico modo, scrive Nicola Cusano, che la persona ha per definire l’Essere divino: Dio è unità assoluta inesprimibile con un solo attributo pronunciabile, l’infinito. Dio è Dio, scrive Nicola Cusano, perché non può [e qui si sente l’eco della teologia negativa del Dionigi Areopagita] che essere “infinito”, ed è nell’infinità di Dio, scrive Nicola Cusano, che si annullano le varie differenze che troviamo nella realtà. Scrive Nicola Cusano [con spirito pitagorico]: «Come la circonferenza e il poligono inscritto in essa finiscono per identificarsi se i lati del poligono vengono moltiplicati all’infinito, così i contrari elevati all’infinito si conciliano e coincidono in Dio». Questa riflessione teoretica [questa meditazione teologica] che Nicola Cusano definisce come “coincidentia oppositorum” [la coincidenza degli opposti] lo porta a fare una significativa considerazione: la persona non riuscirà mai a controllare questa operazione [la coincidenza degli opposti] per cui “la conoscenza di Dio è un puro ideale teoretico” [“teorema” significa meditazione sull’idea di Dio], quindi, la conoscenza di Dio, afferma Nicola Cusano, può essere definita come una forma di “ignoranza saggia, sapiente, esperta, dotta”: la conoscenza di Dio è una “dotta ignoranza” e la “dotta ignoranza” è l’unica forma valida di conoscenza.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quale di questi termini - inconsapevolezza, innocenza, incompetenza, incapacità, inesperienza, o quale altro – mettereste per primo accanto alla parola “ignoranza”?...

Scrivetelo...

     Non ci si deve meravigliare quindi se l’opera più importante di Nicola Cusano - una delle opere più significative della Storia del Pensiero Umano - s’intitola La dotta ignoranza [De docta ignorantia]. L’opera più importante di Nicola Cusano s’intitola La dotta ignoranza [De docta ignorantia]  pubblicata nel 1440. In questo trattato Cusano parte dal presupposto che la conoscenza di Dio è un ideale puramente teoretico: per la persona, afferma Nicola Cusano, la conoscenza di Dio è “una dotta ignoranza”. E “la dotta ignoranza” è, a sua volta, la forma più idonea di conoscenza perché, afferma Nicola Cusano, costituisce il presupposto su cui si basa la nostra possibilità di imparare. “La dotta ignoranza” [l’ignoranza consapevole] è la nozione socratica per cui “la persona si predispone all’apprendimento quando sa di non sapere” e, quindi, il termine “ignoranza” bisogna intenderlo, afferma Nicola Cusano, non come un deprezzamento del conoscere ma come una garanzia per apprendere. Ed è mediante “la dotta ignoranza” che la persona prende coscienza dei due caratteri della conoscenza: il primo carattere della conoscenza è quello che Cusano chiama “congetturale”, affermando che la conoscenza è autentica solo se è “una congettura” [un’opinione], se è “una supposizione” [un’interpretazione soggettiva] che può essere raggiunta e superata ipotesi dopo ipotesi, per cui una nuova conoscenza ci obbliga a rivedere l’intero sistema di relazioni acquisito.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Avete fatto una supposizione che sembrava verosimile ma che poi si è rivelata falsa per cui avete dovuto cambiare opinione?... 

Scrivete quattro righe in proposito...

     Il secondo carattere della conoscenza è quello che Cusano chiama “progressivo” perché la persona [come si legge nell’incipit della Metafisica di Aristotele] è animata da una tensione infinita verso la conoscenza, ma l’elemento virtuoso di questa tensione, [afferma Cusano, è il momento in cui la persona avverte “il limite” e prende coscienza del valore dei limiti [intuisce il principio della “dotta ignoranza”] perché ogni nuova conoscenza acquisita deve essere percepita come “un limite” altrimenti la tensione infinita verso il sapere diventa solo una fuga illimitata senza fine mentre il “limite” determina l’individuazione di un confine, di un margine, di una soglia, di un bordo, di un vertice, di una vetta, di un tetto, di un campo, di un ambito, di una zona, di un settore, e questi elementi circoscritti forniscono [mettono in atto], di termine in termine, il carattere “progressivo” della conoscenza.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

 Quale di queste parole - confine, margine, soglia, bordo, vertice, vetta, tetto, campo, ambito, zona, settore - mettereste per prima accanto al termine “limite”?...   

Scrivetela...

     Poi Nicola Cusano si pone il problema di come si possa realizzare tecnicamente il processo della conoscenza.

     Nicola Cusano afferma che la conoscenza umana presenta tre gradi: il primo grado, afferma Nicola Cusano, è “la fantasia”, la facoltà che riunisce in un’immagine riassuntiva le varie sensazioni. Il secondo grado è “la ragione”, la facoltà che unifica le varie immagini riassumendole in un concetto [in un’idea]. Il terzo grado è “l’intelletto”, la facoltà che si sforza di dare ai concetti una unità che possa essere “assoluta”, ma questo, afferma Cusano, è solo un ideale perché il Pensiero cesserebbe di sussistere se tutti i concetti fossero ridotti all’unità, perché se non ci fossero più le differenze tra un concetto e l’altro il meccanismo della conoscenza cesserebbe di funzionare e, quindi, si capisce, afferma Cusano, che la conoscenza non è né assoluta né illimitata ma ha un carattere “congetturale” e “progressivo” governato dal principio della “dotta ignoranza”.

     Certo, afferma Cusano, Dio, l’Universo e anche ogni singolo essere “appaiono infiniti” ma l’infinità di Dio è in atto mentre quella dell’Universo e degli Esseri è in potenza. In un semino in atto, afferma Cusano parafrasando Aristotele, c’è in potenza non solo l’albero ma anche una foresta che non ha limiti, e in Dio in atto c’è in potenza il Mondo [l’Universo] nella sua infinità potenziale.

     E quali sono, afferma Cusano, le conseguenze [epocali] di questa constatazione? Se in Dio si contrae l’Universo nella sua infinita potenzialità [come nel seme si contrae una foresta illimitata] questo significa, afferma Cusano, che nell’Universo non c’è né un centro né una periferia, e allora non possiamo più affermare, scrive Cusano, che la Terra è al centro dell’Universo perché ogni punto dell’Universo può essere preso come centro, e la Terra si muove di moto circolare attorno al Sole che è una stella come altre infinite stelle. E allora Nicola Cusano prende il suo cannocchiale [che si trova esposto nel museo dell’ospedale di Bernkastel-Kues] e lo punta verso il cielo anticipando Copernico e Galileo: lui non fa scoperte astronomiche ma comincia a pensare [mentre la cristianità entra sempre più in crisi] che la persona ha un carattere “cosmico” e, quindi, è necessario rivolgere la mente verso il “cosmo”. E la mente, che cerca di spaziare verso orizzonti sconosciuti, è lo strumento, afferma Cusano, che unisce tutte le persone e che sancisce l’unità del genere umano. Dalla parola “mente” [in latino “mens”] deriva la qualità che Nicola Cusano attribuisce al principio della “dotta ignoranza”: la “mensura”, “il senso della misura”, con il quale l’essere umano può pensare, poco per volta e con un lungo cammino, di ridurre ad unità tutta la molteplicità dell’Universo.

     E, al termine della sua riflessione, Nicola Cusano si domanda che cosa sia “la cultura” [che cosa ci faccia diventare persone sagge e sapienti] e la sua risposta non può che derivare dal “senso della misura”: la cultura, afferma Nicola Cusano, è un viaggio senza fine alla scoperta della propria ignoranza.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Nei confronti di che cosa usate “il senso della misura”?...

Scrivete quattro righe in proposito...

     Molte sono ancora le riflessioni che emergono dal dialogo serrato tra i due protagonisti del romanzo Il gabbiano e che potete leggere per conto vostro. Nessuno dei misteri verrà svelato e anche questo elemento s’intreccia con la logica dell’itinerario di questa sera: non tutto si può sapere, non tutto si può rivelare e la natura della conoscenza ha un carattere “congetturale” e “progressivo” governato dal principio della “dotta ignoranza” [la virtù per eccellenza].

     Dopo una notte passata ad investire in intelligenza sul misterioso senso dell’esistenza umana i due protagonisti si dicono addio: la vita è fatta di distacchi perché, contrariamente, le relazioni umane non sarebbero straordinarie.

LEGERE MULTUM….

Sándor Márai, Il gabbiano

Lei gli dice: «Forse un giorno nel mondo si spegnerà ogni fiamma e collera malvagia, forse un giorno, nel mondo, che adesso è buio e irto di pericoli, gli esseri umani non vorranno soltanto distruggere e dividere, ma anche unire e dare…».

«Pensi che allora ci incontreremo un’altra volta?» domanda lui.

«Non lo posso sapere» dice lei, seria. «Ci siamo incontrati e ci siamo detti addio e ora devo andare per la mia strada, per te e per me stessa». Ed esce dalla porta.

Lui spegne la luce e apre la finestra. La strada è buia. Sta nevicando. Nella neve, la bianca e snella figura di lei procede spedita. La vede ancora per un attimo, prima che svolti a un angolo di strada e scompaia.

... continua la lettura ...

     La cultura è un tragitto senza fine alla scoperta della propria ignoranza e voi sapete che, di conseguenza, non bisogna perdere mai la volontà d’imparare.

     La Scuola è qui: non perdete l’ultimo itinerario di questo lungo viaggio che abbiamo percorso “con la bussola dell’istinto nel cuore” e “con il senso della misura nella mente”…

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Maggio 27, 2016