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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ UMANISTICA EMERGE L’IDEA CHE IL SAPERE DEBBA AVERE UNA FINALITÀ PRATICA PER ESSERE IN GRADO DI PRODURRE OPERE TECNICHE ...

Lezione N.: 
5

Prof. Giuseppe Nibbi    La sapienza poetica e filosofica dell’età umanistica    4-5-6  novembre  2015

Manfredi di Svevia e Dante

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ UMANISTICA

EMERGE L’IDEA CHE IL SAPERE DEBBA AVERE UNA FINALITÀ PRATICA

PER ESSERE IN GRADO DI PRODURRE OPERE TECNICHE ...

 

   Questo è il quinto itinerario del nostro viaggio di studio sul “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età umanistica”. La scorsa settimana, nell’ultima parte del Percorso, abbiamo incontrato un personaggio veramente singolare che è stato allievo di Roberto Grossatesta, il fondatore della Scuola sperimentale di Oxford di cui conosciamo l’opera e il pensiero: questo personaggio si chiama Ruggero Bacone e, per prendere il passo, ora dobbiamo rinfrescare la nostra memoria rievocando alcuni punti salienti della sua biografia.

   Sappiamo che Ruggero Bacone è nato, intorno al 1214, ad Ilchester [nell’Inghilterra sud-occidentale, terra di fantasmi secondo la tradizione: avete localizzato questo luogo sulla carta della Gran Bretagna come chiedeva il REPERTORIO ... della scorsa settimana?]; sappiamo che - dopo aver compiuto i suoi studi a Oxford - si è dedicato alle “scienze sperimentali” e alla matematica, ma anche all’alchimia, all’astrologia e alla magia.

   A Parigi Ruggero Bacone frequenta la facoltà delle Arti, il centro più importante della Scolastica alla metà del XIII secolo, acquisisce il titolo di “commentatore di Aristotele” sotto la guida di Alessandro di Halès e di Alberto Magno, dei quali però disapprova la mentalità troppo teorica e contesta, polemizzando piuttosto aspramente con loro, il fatto che si disinteressino completamente dell’attività sperimentale.

   A Parigi Ruggero Bacone conosce il valente giurista e diplomatico Giudo Fùlcodi [Guy Le Gros Foulques] che, rimasto vedovo, entra in un monastero certosino e fa carriera ecclesiastica fino a diventare come sapete papa nel 1265 col nome di Clemente IV. Ruggero Bacone nel 1257, quando ha una quarantina d’anni, entra nell’ordine francescano [nella corrente degli “spirituali”] e va ad insegnare all’Università di Oxford; qui gli viene attribuita la cattedra di Teologia che era stata di Roberto Grossatesta [che era morto nel 1253] e con il suo insegnamento si sviluppa ulteriormente il movimento della “Scolastica empirica”. La “Scuola sperimentale” cresce d’importanza ma i superiori dell’ordine francescano [il capitolo dell’ordine è in mano ai “conventuali”, il generale dell’ordine è Girolamo d’Ascoli] lo scomunicano e gl’impongono di non scrivere e di non comunicare le sue posizioni ma il papa, suo amico e ammiratore, lo assolve e gli chiede di mandare a lui i suoi scritti e Ruggero Bacone invia al papa un volume assai voluminoso: questa richiesta del papa diventa una sorta di lasciapassare per l’opera di Bacone.

   Quando però nel 1268 Clemente IV muore all’improvviso dopo soli tre anni di pontificato, Ruggero Bacone perde il suo protettore ma può contare su una lunga vacanza dell’istituto pontificio [c’è una fase di disorientamento della Santa Sede e ve lo dovreste ricordare perché ne abbiamo già parlato durante il viaggio dello scorso anno scolastico] perché a Viterbo le inconcludenti trattative  per l’elezione del successore di Clemente IV. a causa del disaccordo che c’è tra i cardinali francesi e quelli romani, si protraggono per ben due anni e otto mesi finché Bonaventura da Bagnoregio alla testa del popolo di Viterbo mette i cardinali “sotto chiave, cum clave”, poi fa scoperchiare il tetto del Palazzo apostolico e infine li lascia a digiuno: a quel punto i cardinali, nel giro di poche ore, eleggono papa il vescovo Teobaldo [o Tebaldo] Visconti che si trovava a San Giovanni d’Acri in Palestina e quindi gli ci vogliono sei mesi per arrivare a Viterbo e poi un mese ancora per andare a Roma dove viene consacrato nel marzo del 1272 con il nome di Gregorio X e tra i suoi primi atti c’è quello di rinnovare la scomunica contro Ruggero Bacone sollecitato dal vescovo di Parigi.

   Ruggero Bacone interrompe la sua attività di magister ad Oxford e va a Parigi per difendere le sue posizioni e lì viene arrestato e processato: rimarrà per quattordici anni agli arresti domiciliari fino alla data presunta della morte, il 1292 [secondo la leggenda: il 12 ottobre 1292, a duecento anni esatti dalla scoperta dell’America da parte di quel Cristoforo Colombo che ammirava particolarmente il pensiero di Ruggero Bacone e che molto si immedesimava in lui!].

   Ebbene, la scorsa settimana - al termine dell’itinerario - non abbiamo potuto fare a meno di esclamare: ma quanti temi interessanti ruotano intorno alla figura [o al fantasma? C’è chi ha parlato di sparizione] di Ruggero Bacone! Prima di occuparci del suo pensiero puntiamo l’attenzione - in nome dell’unità del sapere e della didattica della lettura e della scrittura - su un tema legato al fatto che la figura di Bacone tira in ballo il suo amico Guido Fùlcodi, il papa Clemente IV: un classico personaggio contraddittorio, anche suo malgrado.

   Papa Clemente IV, subito dopo la sua elezione nel 1265 chiede a Ruggero Bacone con una Lettera ufficiale di scrivere un’opera per lui, a sua edificazione intellettuale: è una domanda retorica perché si sa che Ruggero Bacone ha già scritto molti trattati. Ruggero Bacone invia al papa un volume, contenente tre trattati, intitolato: Opus maius. Opus minus. Opus tertium [Opera maggiore. Opera minore. Opera terza.], e con quest’opera - richiesta e “protetta” dal pontefice - entrano in circolazione le idee della Scuola sperimentale di Oxford che si diffondono a largo raggio sul territorio della Scolastica. Questo papa - Clemente IV [Guido Fùlcodi] - così aperto sul piano culturale [il pensiero di Ruggero Bacone che lui condivide è considerato poco “ortodosso”] si trova a disagio nell’affrontare gli sviluppi della situazione politica che viene a determinarsi dopo la prematura morte nel 1250 dell’imperatore Federico II di Svevia [un personaggio di nostra conoscenza] e le scelte che Clemente IV è costretto a fare lo hanno penalizzato tanto che subisce il rimprovero di Dante Alighieri: un rimprovero immortalato nel testo del Purgatorio della Divina Commedia e questo fatto - in funzione della didattica della lettura e della scrittura - non ci può sfuggire.

   Dante Alighieri, nella seconda parte del canto III del Purgatorio, immagina di incontrare l’anima di Manfredi, [un personaggio che abbiamo già citato nell’itinerario della scorsa settimana: avete fatto una visita a Manfredonia come chiedeva il REPERTORIO ... della scorsa settimana?]. Manfredi è il figlio di Federico II e di Bianca Lancia che, alla morte del padre, come sappiamo, assume il titolo di re di Sicilia ed diventa il capo del partito ghibellino in tutta Italia, schieramento che appoggia l’Impero, ed interviene nelle lotte contro i Guelfi, che avversano l’Impero e sostengono il Papato: queste lotte stanno insanguinando molte città e Manfredi riesce a controllare anche Roma tanto che la sede del papato viene trasferita a Perugia e papa Clemente IV viene consacrato nel 1265 a Perugia e poi si trasferisce a Viterbo, dove è stato costruito un Palazzo dei papi [che è sempre lì].

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

La città di Viterbo merita una visita utilizzando la guida del Lazio e navigando in rete: tenendo conto che questa città non è molto lontano da qui e conserva oggetti storici di grande valore, buon viaggio

 

   Di fronte a questa situazione papa Clemente IV - che avrebbe anche potuto, e voluto, avviare delle trattative con Manfredi - è costretto a chiedere aiuto [anche se non si fida] al principe francese Carlo d’Angiò, il fratello del re Luigi IX [il Santo]. Carlo d’Angiò scende in Italia e nel 1266 a Benevento sconfigge Manfredi che muore combattendo valorosamente: le cronache ci fanno sapere che il vincitore, per rendere omaggio al valore del vinto, sebbene fosse stato scomunicato dal papa, lo fa comunque seppellire sotto un cumulo di pietre presso il ponte di Benevento ma la leggenda poi ha preso il posto della cronaca e racconta che il vescovo di Potenza, Bartolomeo Pignatelli, per ordine del papa Clemente IV, fa riesumare il cadavere di Manfredi che viene trasportato e abbandonato insepolto lungo il fiume Liri-Garigliano [che allora si chiamava fiume Verde] e lasciato in balia degli elementi, e questo avvenimento leggendario [di forte risonanza] viene ripreso da Dante Alighieri nel Purgatorio della Divina Commedia.

   Dante, in realtà, vuole esaltare il personaggio di Manfredi - Dante è ghibellino, sappiamo che simpatizza per la figura dell’imperatore Federico II di Svevia ed è un convinto sostenitore della divisione del potere religioso da quello civile [il papa ha un primato in campo spirituale mentre l’imperatore deve avere una leadership in campo civile e politico anche se spesso gli imperatori non sono stati all’altezza del compito per cui il papa si è trovato a prevalere anche su questo terreno] -;  Dante utilizza la leggenda del disseppellimento del cadavere di Manfredi - che non meritava la sepoltura perché scomunicato - per criticare l’atteggiamento di sottomissione del papa nei confronti dei francesi Angioini ai quali si affida come se fossero i difensori della Fede, ma che poi, [e lo studieremo strada facendo] tanto nel governare Roma quanto l’Italia meridionale, si sono comportati peggio dei germanici Svevi anche se costoro erano considerati miscredenti [infatti Carlo d’Angiò sconfigge Manfredi e si stabilisce a Roma al posto del papa e Clemente IV viene ignorato e muore senza poter tornare sulla cattedra di Pietro].

   Nel canto III della seconda Cantica della Divina Commedia Dante e Virgilio giungono alla base del monte del Purgatorio e s’incontrano con delle anime a cui chiedono notizie sulla via da percorrere: si tratta delle anime degli scomunicati che non sono ancora entrate nel regno dove ci si purifica [siamo ancora nell’anti-purgatorio] e tra queste anime c’è quella di Manfredi che si rivolge a Dante e gli racconta della sua conversione in punto di morte sul campo di battaglia di Benevento nel 1266 quando è stato sconfitto da Carlo d’Angiò. Manfredi prega Dante di avvertire - quando tornerà nel mondo dei viventi - sua figlia Costanza del fatto che lui non è all’Inferno come tutti credono ma sta per entrare in Purgatorio e ha bisogno, per accorciare i tempi dell’attesa, delle preghiere di intercessione dei viventi. Dante descrive la figura di Manfredi con maestosità e con malinconia: è un canto in cui emerge la meraviglia, lo stupore, la commozione e merita di essere letto.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Leggete il canto III del “Purgatorio” di Dante Alighieri: è un esercizio interessante che potete fare per conto vostro perché non c’è biblioteca domestica che non contenga una “Divina Commedia” con tanto di note esplicative e di commenti e, quindi, utilizzate questo testo in modo da rendere attive le azioni del conoscere, del capire e dell’applicare…

 

   Però il racconto della leggenda legata alla conversone di Manfredi in punto di morte sul capo di battaglia [a Benevento nel 1266] e l’oltraggio subìto dal suo cadavere per responsabilità di papa Clemente IV, dobbiamo rievocarlo adesso leggendo gli ultimi 43 versi del canto III del Purgatorio: è un esercizio che ci permette di esercitarci a fare l’analisi, la sintesi e la valutazione. Leggiamo commentando.

 

LEGERE MULTUM….

Dante Alighieri, Purgatorio  Canto III  103-145

Dante e Virgilio giungono alla base del monte del Purgatorio e s’incontrano con delle anime a cui chiedono notizie

sulla via da percorrere: si tratta delle anime degli scomunicati che non sono ancora entrate nel regno dove ci si purifica

[siamo ancora nell’anti-purgatorio] e una di queste anime è quella di Manfredi che si rivolge a Dante …

Ed un di loro incominciò: «Chiunque

tu se’, così andando, volgi ‘l viso:

pon mente se di là mi vedesti unque».

Manfredi si rivolge a Dante dicendogli di guardarlo e chiedendogli se lo avesse mai visto nel mondo dei vivi …

Io mi volsi vêr lui e guardail fiso:

biondo era e bello e di gentile aspetto,

de’ cigli un colpo avea diviso.

Dante si volta verso di lui e lo fissa e, quindi, lo descrive facendone un ritratto pieno di delicatezza e di simpatia: i

l personaggio è biondo, bello, di gentile aspetto, e un suo sopracciglio è diviso a metà a causa di un colpo di spada …

Quand’io mi fui umilmente disdetto

d’averlo visto mai, el disse: «Or vedi»;

e mostrommi una piaga a sommo ‘l petto.

Dante risponde all’anima di questo personaggio per lui ancora sconosciuto molto umilmente

dicendo di non averlo mai visto [effettivamente Dante non può aver visto quest’uomo che è morto quando lui aveva un anno]

e allora lo spirito ribatte chiedendo al poeta di osservare la ferita nel suo petto …

Poi sorridendo disse: «Io son Manfredi,

nepote di Costanza imperadrice;

ond’io ti priego che, quando tu riedi,

E quindi si presenta: è Manfredi [il figlio di Federico II e di Bianca Lancia] il nipote dell’imperatrice  Costanza d’Altavilla

[la mamma di Federico II] e Manfredi domanda un favore a Dante per quando tornerà [quando tu riedi] nel mondo dei vivi …

vadi a mia bella figlia, genitrice

de l’onor di Cicilia e d’Aragona,

e dichi ‘l vero a lei, s’altro si dice.

Manfredi chiede a Dante di andare da sua figlia Costanza [andata in sposa a Pietro III d’Aragona]

e madre di Federico che è diventato re di Sicilia [l’onor di Cicilia] e di Giacomo che è diventato re d’Aragona;

Dante deve dire a Costanza la verità, che lui non è all’inferno come tutti pensano ma può ancora salvarsi …

Poscia ch’io ebbi rotta la persona

di due punte mortali, io mi rendei,

piangendo, a quei che volontier perdona.

Manfredi prosegue dicendo che quando il suo corpo fu ferito [ebbi la persona rotta]

con due colpi [due punte mortali] che di lì a poco lo avrebbero fatto morire allora si rivolse,

piangendo, a Dio [a quei] che perdona volentieri colui che si pente …

Orribil furon li peccati miei;

ma la bontà infinita ha sì gran braccia,

che prende ciò che si rivolge a lei.

Manfredi riconosce di aver commesso dei peccati orribili ma crede che la bontà infinita di Dio abbia delle grandi braccia

per accogliere i peccatori che si pentono [contrariamente a ciò che fanno gli ecclesiastici che non hanno pietà] …

Se ‘l pastor di Cosenza, che a la caccia

di me fu messo per Clemente allora,

avesse in Dio ben letta questa faccia,

Manfredi accusa gli ecclesiastici dicendo che se il vescovo di Cosenza [Bartolomeo Pignatelli, che però è morto prima di Manfredi

e, quindi, Dante - forse consapevolmente - sta mettendo in poesia una leggenda] che si è messo a dare la caccia al suo cadavere

per ordine di papa Clemente IV [Guido Fùlcodi] avesse letto la pagina [questa faccia] del Vangelo

[il Vangelo secondo Giovanni, capitolo VI 37] in cui c’è scritto: «La bontà infinita ha sì gran braccia che prende ciò che si rivolge a lei» …   

l’ossa del corpo mio sarieno ancora

in co’ del ponte presso a Benevento,

sotto la guardia de la grave mora.

Ebbene, se il vescovo di Cosenza, aizzato dal papa, avesse letto il Vangelo le ossa del corpo di Manfredi

sarebbero ancora sepolte presso [in co’] il ponte di Benevento sotto una montagna [la guardia]

di pesante pietrame [de la grave mora] …  

Or le bagna la pioggia e move il vento

di fuor dal regno, quasi lungo ‘l Verde,

dov’ei le trasmutò a lume spento.

Ora invece le ossa dissepolte di Manfredi sono bagnate dalla pioggia e mosse dal vento fuori dai confini del Regno di Napoli, s

ulla riva del fiume Liri-Garigliano [il Verde] dove il vescovo [dov’ei] le ha fatte trasferire di notte e senza torce

[come s’usava fare per gli scomunicati] …

Per lor maladizion sì non si perde,

che non possa tornar, l’etterno amore,

mentre che la speranza ha fior del verde.

Per la scomunica dei pastori della Chiesa [per lor maladizion] non ci si perde completamente [sì non si perde] p

erché può rifiorire la grazia divina [che non possa tornar, l'etterno amore] perché la speranza,

finché la persona vive, è sempre verde ...

Vero è che quale in contumacia more

di Santa Chiesa, ancor ch’al fin si penta,

star li convien da questa ripa in fore,

Però chiunque [quale] muore fuori della comunione [in contumacia] della Santa Chiesa, sebbene alla fine si penta [ancor ch’al fin si penta]

deve stare fuori della porta del Purgatorio [star li convien da questa ripa in fore] …

per ognun tempo ch’elli è stato, trenta,

in sua presunzion, se tal decreto

più corto per buon prieghi non diventa.

Se anche la persona si è pentita deve stare fuori dal Purgatorio trenta volte tanto tempo quanto ne ha passato

[per ognun tempo ch’elli è stato, trenta] non riconciliato [in sua presunzion] con Dio, e tale punizione [tal decreto]

può diventare più breve per le preghiere dei buoni [più corto per buon prieghi non diventa] …

Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,

rivelando a la mia buona Costanza

come m’hai visto, e anco esto divieto;

ché qui per quei di là molto s’avanza».

Manfredi chiede a Dante se lo può far felice [vedi oggimai se tu mi puoi far lieto] andando a rassicurar sua figlia [la mia buona Costanza] della sua sorte, avvertendola del suo dover indugiare fuori del regno dell'espiazione [e anco esto divieto],un indugio che diventerà più breve per le preghiere dei viventi; nel Purgatorio molto si progredisce per le preghiere dei viventi [ché qui per quei di là molto s'avanza] ...

 

   Con la sua solita “sapienza poetica” Dante riprende il racconto leggendario nel quale papa Clemente IV tiene un atteggiamento poco misericordioso mentre sul piano culturale [e qui non siamo sul terreno della leggenda ma degli avvenimenti reali] dimostra di avere una mentalità piuttosto aperta verso le innovazioni.

   Quindi come sappiamo, Ruggero Bacone invia al papa, su sua richiesta, un volume contenente tre trattati intitolato: Opus maius. Opus minus. Opus tertium [Opera maggiore. Opera minore. Opera terza.], e con quest’opera - “protetta” dal pontefice, per lo meno finché il papa è in vita - entrano in circolazione le idee della Scuola sperimentale di Oxford che si diffondono a largo raggio sul territorio della Scolastica.

   Come si configura, nel quadro della Scolastica, il pensiero di Ruggero Bacone? Tutte le studiose e gli studiosi sono d’accordo nel dire che bisogna sforzarsi un po’ per collocare Ruggero Bacone nella Scuola francescana perché è un personaggio piuttosto spregiudicato a cominciare dall’ammirazione che lui coltiva per il potere che può avere la scienza e, in questa sua intuizione [il confidare nella potenza della scienza e della tecnica], c’è già in incubazione un aspetto significativo del pensiero moderno; il fatto è che, in questo momento [nel corso dell’autunno del Medioevo] non si è creata ancora una precisa distinzione tra la scienza e la magia e su questo fatto, insieme a Ruggero Bacone, dobbiamo riflettere.

   Nel genio irregolare di Ruggero Bacone [sono i vertici dell’ordine francescano ad apostrofarlo con l’epiteto di “irregolare”] convivono una serie di aspetti particolari che noi dobbiamo conoscere: il primo aspetto che contrassegna il suo pensiero è di carattere “teocratico” perché Ruggero Bacone crede che la Chiesa debba imporre il suo potere [la Teocrazia] facendo crescere la sua potenza sul piano del “sapere” per poter svolgere meglio la sua missione salvifica. Il “sapere” per Ruggero Bacone deve avere una finalità “pratica” e deve essere in grado di produrre “opere tecniche” da utilizzare per conquistare e migliorare il mondo non con la forza bruta ma con «l’eccellenza inconfutabile della conoscenza data dall’esperienza, scrive Bacone nell’Opus maius». Di conseguenza, Ruggero Bacone pensa che la Chiesa debba prepararsi ad amministrare il potere che la scienza avrà nell’immediato futuro, un potere che dovrà essere gestito “a fin di bene ” [francescanamente] ed è in questa prospettiva che lui rigetta totalmente le forme tradizionali della Scolastica, quelle che stavano trionfando a Parigi [dove si discuteva animatamente sul tema del rapporto tra la Fede e la Ragione, sul tema degli universali, sulla mortalità e l’immortalità dell’anima, insomma su tutti gli argomenti che abbiamo studiato nel viaggio dello scorso anno, durante la primavera e l’estate del Medioevo] e che a lui sembrano solo chiacchiere perché è convinto che “la ragione dipenda dall’esperienza” e “l’esperienza venga prima della ragione”. A questo proposito, bisogna dire che Ruggero Bacone anticipa il suo omonimo del Seicento, Francesco Bacone, che incontreremo a suo tempo, che viene considerato il fondatore della scienza moderna [ma questa è un’altra storia della quale ci occuperemo quando attraverseremo i territori dell’Età moderna].

   Ora dobbiamo subito fare una distinzione perché quando Ruggero Bacone nomina la “scienza” parla di un tema ancora fortemente influenzato da una mentalità pre-moderna, si occupa di un argomento nel quale rientrano “le arti della magia” e “i calcoli dell’astrologia” utilizzati come strumenti di stupefazione [per creare meraviglia] non dovuti a interventi divini ma programmati esclusivamente dall’azione umana nell’ambito di una sorta di sfida tra il Creatore e la sua Creatura. Non ci dobbiamo meravigliare del fatto che Ruggero Bacone sia un cultore delle “arti magiche” perché, nel XIII secolo, la figura del “mago” e quella dello “scienziato” sono strettamente legate [per Bacone la figura del “mago” corrisponde ai “magi” descritti nel testo del capitolo secondo del Vangelo secondo Matteo: sapienti che seguono la stella e sono “in ricerca”, il mago è un sapiente in ricerca] e il “pensiero magico” è una componente di base del programma della Scolastica “empirico-sperimentale”.

   Di che cosa parliamo quando parliamo di “magia”? Ruggero Bacone ci spiega che il “pensiero magico” si basa su due nozioni fondamentali, su due idee che avranno molto successo tra gli intellettuali del Rinascimento [ci viaggeremo il prossimo anno su questo territorio] e, inoltre, queste due nozioni hanno attirato, e continuano ad attirare, in funzione letteraria, l’interesse di molte scrittrici e di molti scrittori e, a questo proposito stiamo per fare degli incontri   significativi.

   Quali sono le due nozioni fondamentali su cui si basa il “pensiero magico” secondo il programma della Scolastica “empirico-sperimentale”?

   La prima di queste nozioni, ci spiega Ruggero Bacone, è stata chiamata: “simpatia cosmica” ed è il fenomeno per cui in ogni parte della Natura, anche nel mondo minerale, esistono attrazioni e repulsioni, esistono affinità, “affinità elettive”, fra i vari elementi naturali che si cercano ma anche si oppongono e si respingono.

   La seconda nozione è direttamente collegata alla prima e, ci spiega Ruggero Bacone, riguarda le “qualità occulte” presenti nella materia, presenti in natura. La materia possiede delle qualità nascoste che è necessario conoscere e catalogare perché da queste proprietà dipende la simpatia e l’antipatia tra i vari elementi. Ruggero Bacone ci spiega che le “proprietà nascoste” della materia, con le loro caratteristiche, sono un patrimonio della disciplina “magica”: per esempio [Bacone fa molti esempi in proposito], la calamita [la magnetite, afferma Ruggero Bacone] è vista come un oggetto magico, ma siamo ormai nell’anticamera della scienza perché s’intuisce che una qualche spiegazione razionale ci deve essere dietro a questo fenomeno per cui il filosofo scolastico, per conoscere e per capire, deve “sperimentare”.

   Nel corso dell’autunno del Medioevo [la stagione nella quale ci troviamo in compagnia di Ruggero Bacone, o del suo fantasma] dietro la magia spunta la scienza, e questa situazione si manifesta con la comparsa di un catalogo di “parole-chiave” molto evocative: l’affinità, la simpatia, l’attrazione, l’intesa, la reciprocità: questi termini sono capaci, con la loro suggestione, di avvolgere [di far avvolgere] l’esperienza umana in “un alone di magia”.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quali sono le persone con le quali avete maggiore affinità  , per le quali coltivate simpatia e sentite attrazione per cui nasce un’intesa e uno scambio reciproco?

Scrivete quattro righe in proposito pensando che la scrittura è uno strumento fondamentale per creare relazioni, riferimenti, analogie e corrispondenze…

 

   Questo catalogo di parole, capace di avvolgere l’esperienza umana in “un alone di magia”, ci fa entrare in sintonia con la didattica della lettura e della scrittura. Io penso che non vi siate di certo dimenticate e dimenticati che stiamo leggendo un romanzo pubblicato nel 1845 intitolato Il sentiero nel bosco scritto da Adalbert Stifter, un autore che come sappiamo è in linea con il “naturalismo magico” di Ruggero Bacone. Il protagonista di questo racconto, il signor Tiburius [con il quale siamo entrate ed entrati in relazione in queste ultime settimane], comincia a guarire dalle sue malattie immaginarie - l’unica malattia grave e reale di cui soffre è quella di pensare che con il denaro si possa comprare tutto -, non tanto inserendosi nel contesto artificiale dello stabilimento termale montano dove si è recato per curarsi, bensì è perdendosi nella foresta, è rimanendo in balìa e a diretto contatto con la Natura selvaggia che entra finalmente in autentica relazione con il proprio corpo e con la propria anima; poi nel bosco incontra Maria, una giovane contadina, ricca di grazia, di saggezza e anche, soprattutto, di spirito d’iniziativa, e questi due personaggi scoprono gradualmente - nell’ambito di un equilibrato rapporto tra natura e cultura - di avere delle “affinità elettive” dalle quali nasce la simpatia e l’attrazione per cui tra queste due persone [con la complicità delle fragole e del disegno] non può che nascere un’intesa [sono entrambi strani] e una reciprocità [sono buoni].

   Leggiamo l’ultima parte di questo romanzo che abbiamo letto quasi interamente nel quale Adalbert Stifter mette in evidenza, sotto forma di apologo dai contorni fiabeschi [lo stile ricorda anche quello delle Odi e delle Satire di Orazio e lo stesso nome “Tuburius” fa pensare a questi generi letterari]: in questo romanzo-breve Adalbert Stifter vuole mettere in evidenza il concetto - caro a Ruggero Bacone - che “al centro del sapere c’è l’esperienza [e questo concetto lo approfondiremo strada facendo]”.

 

LEGERE MULTUM….

Adalbert Stifter, Il sentiero nel bosco

Quando [Maria e Tiburius] giunsero nel bosco di alti abeti Maria si allontanò da lì e prese per la pietraia, fra i cespugli di felci. Tiburius le teneva dietro. La fanciulla lo guidava finché raggiunsero un terreno solido. A volte pareva che procedessero lungo un tracciato appena riconoscibile, a volte che avanzassero in un intrico di arbusti fruscianti, tra i massi e il pietrisco di un’abetaia rada. Dopo aver camminato per più di un’ora raggiunsero un pendio, disboscato in larga parte, dove gli innumerevoli ceppi ancora ben visibili lasciavano intendere che gli alberi erano stati abbattuti da pochi anni. Il pendio guardava a mezzogiorno, era esposto al caldo sole d’autunno e circondato da monti e rocce. Vi crescevano gli arbusti e i fiori più vari, e, tutt’intorno ai ceppi, si scorgevano molte pianticelle di fragole.  «È qui, nel bosco di Sant’Orsola, che andremo in cerca di fragole» disse Maria, «e tra un po’ vedremo chi ne avrà raccolte di più». Ciò detto, si staccò rapida dal fianco di Tiburius, avanzando fra i ceppi e gli arbusti assolati, e, poco dopo, Tiburius già la vide chinarsi qui e là a raccogliere qualcosa. A sua volta Tiburius decise di mettersi all’opera, ma di fragole non ne vedeva l’ombra. Là dove si trovava, tutto era verde, o bruno, o di altro colore: non si distingueva, però, neppure un puntolino rosso a tradire la presenza di una fragola. Avanzò ancora un po’ nel bosco ceduo. Ma anche lì vide soltanto verdi pianticelle e foglie giallastre: ma non una fragola. Si ripromise quindi di camminare ancora, e di guardare con maggior attenzione. Era uno spettacolo singolare la vista di quei due tra gli arbusti del bosco ceduo! La fanciulla svelta e agile, che si destreggiava flessuosa tra i rami, lui nel suo giubbone grigio, dal cui aspetto facilmente si arguiva che era capitato lì dalla città. Dopo un certo tempo, Maria vide il suo compagno fermarsi e tenere sul palmo della mano le poche fragole raccolte, gli andò vicino e disse: «Ecco, non avete portato un cestino o un altro recipiente per raccogliere le fragole aspettate, ora ci penso io» e si inerpicò su una piccola altura dove cresceva una giovane, candida betulla e, con il suo coltello, con abili incisioni, staccò dal tronco un riquadro di corteccia, bianco, resistente e liscio come una pergamena. Con quel riquadro tornò da Tiburius, recise da un arbusto lì accanto dei ramoscelli sottili, ne asportò la scorza per renderli ben lisci, e li infilò nel lembo di morbida corteccia, dove aveva praticato delle incisioni, ricavandone così un grazioso cestello che, non solo poteva benissimo contenere delle fragole, ma aveva altresì il vantaggio di rimanere diritto sulle estremità dei ramoscelli, quasi fossero piedini. «Ecco,» disse Maria «ora avete un panierino, riempitelo per bene». Quindi si allontanò, tornando sui suoi passi, e si rimise all’opera. E così fece Tiburius. Quando Maria ebbe raccolto tante fragole quante soleva abitualmente, raggiunse di nuovo Tiburius e vide che, a sua volta, questi aveva riempito quasi per intero il suo minuscolo cestino. «Bene,» disse Maria «ora tutti e due abbiamo i cestini pieni e possiamo andare».  Tornarono indietro nello stesso modo un po’ bizzarro in cui erano venuti, ossia senza seguire alcun sentiero, in mezzo agli arbusti, alle felci e alle pietre. Quando arrivarono al punto in cui le loro strade divergevano, Maria disse: «Da qui potete adesso raggiungere la parete di Sant’Andrea, è la via più breve per le terme, io invece torno a sinistra, nel bosco, verso casa. Gustatevi le vostre fragole. Potete aggiungere anche dello zucchero o magari del vino. La prossima volta, portate un coltello, per fare un cestino più grande di quello di oggi. Se vorrete raccogliere ancora fragole con me, venite dopodomani: io vado nel bosco ogni due giorni, finché dura il bel tempo. In questa stagione, appena comincia a piovere, le fragole si guastano, e io non le raccolgo più. E ora vi saluto». «Vi saluto anch’io, e vi ringrazio» rispose Tiburius. Maria si avviò per la sua strada, a sinistra, nella penombra del bosco; Tiburius piegò a destra, e raggiunse poi in carrozza le terme, tenendo sulle ginocchia il panierino pieno di fragole. Il suo ritorno non passò inosservato, e la storia del signor Tiburius che va a raccoglier fragole con un cestino di corteccia di betulla e se ne torna indietro in quella maniera fece il giro delle case intorno, dando nuovamente adito ad allegre risate. Lui, però, non ne venne a sapere niente: verso sera mangiò le fragole che aveva raccolto. Senza aggiunta di vino.

In seguito incontrò ancora due volte Maria. La prima volta, con il coltello che si era portato appresso si fece davvero un cestino, piuttosto capiente, di corteccia di betulla, e lo riempì a metà di fragole. La seconda volta invece - mentre Maria era intenta a raccogliere le sue fragole - si sedette su un ceppo a leggere un libro. In questa occasione andò poi nuovamente dal padre di Maria, e si trattenne per un certo tempo a parlare con l’uomo, seduto sulla panca davanti a casa. La giornata era bellissima, e i raggi del sole autunnale battevano talmente caldi sul lato a mezzogiorno della casa che persino le mosche, intorno ai due uomini, parevano scherzare allegre, come se si fosse nel pieno dell’estate. Poi Tiburius, conoscendo ormai il viottolino che scendeva per il colle, raggiunse da solo la strada e i cavalli. Quel giorno caldo e sereno fu veramente l’ultimo di bel tempo: in montagna succede molto spesso che un clima mite e piacevole nel tardo autunno sia poi foriero di tempeste e di piogge. Tiburius aspettò un giorno, e altri ancora; poi - siccome lo stesso medico termale sosteneva che ormai restavano ben poche speranze in giorni miti e propizi alla salute - fece caricare i bagagli sulla carrozza, e tornò a casa. Qualche giorno prima, intento ai preparativi della partenza, aveva ricevuto la visita di quel taglialegna che di notte gli aveva indicato la via per tornare a casa dal Bosco Nero. Rendendogli il bastone a lui affidato, questi disse che non avrebbe tardato a presentarsi se avesse saputo che il pomo era d’oro, ma se ne era reso conto soltanto il giorno prima. Tiburius rispose che la cosa non aveva importanza alcuna. Intendeva ricompensarlo per il servizio resogli con una somma superiore a quanto valessero e pomo e bastone. Gli aveva quindi messo in mano il suo compenso, e l’uomo si era congedato tra mille ringraziamenti. Nella regione in cui si trovava la casa di campagna di Tiburius vi furono ancora bellissime giornate, pur se velate, in genere, di nuvole leggere. Il signor Tiburius si recò dal piccolo dottore che lo accolse al modo abituale, si intrattenne con lui, senza però dirgli se lo trovasse migliorato o peggiorato nell’aspetto. Il signor Tiburius lo informò che era stato alle terme, ricavandone un notevole beneficio, ma di quanto era accaduto non gli raccontò nulla. Prima che cadesse la neve, Tiburius si recò più volte a far visita al dottore. Durante l’inverno, un giorno Tiburius si infilò gli stivaloni, una calda giacca di lana grezza e si azzardò a passeggiare nella neve. La cosa gli riuscì gradita, e fu più volte ripetuta. In primavera, però, quando il sole lasciò di nuovo piovere i suoi raggi caldi e festanti, Tiburius, convinto dalle sue letture sulla cittadina termale che anche là fosse oramai iniziata la bella stagione, fece nuovamente approntare la carrozza, e partì alla volta delle terme. In autunno, prima di tornare a casa, si era fatto riservare dal padrone della locanda, per tutta l’estate a venire, l’appartamentino dove già aveva soggiornato. Una volta giunto a destinazione, disfatti i bagagli, si diede a preparare l’occorrente per quell’estate. Dispose i pregiati album da disegno, portati per l’occasione, sul tavolino, dirimpetto al quale la montagna azzurra ora occhieggiava assai benevola, vi mise accanto le matite legate a piccoli fasci, già preparati in precedenza, e le graziose scatoline dove erano assicurate le lime finissime, con cui appuntiva i carboncini da disegno. Ultimate queste faccende, mandò a chiamare il medico, per discutere con lui della condotta da tenersi nei giorni a venire. Quando tutto fu sistemato, uscì in carrozza, diretto alla parete di Sant’Andrea. La parete sfolgorava, addobbata a festa dalla primavera. I cespugli, le foglie e le piante di ogni genere mostravano ora, in luogo del bruno e del giallo autunnali, un magnifico verde ridente, frammezzo a cui squillavano le note accese del blu, del rosso, del bianco di qualche fiore già sbocciato. La foresta era ammantata di un tenero verde novello. Soltanto le fragole, aveva pensato Tiburius, non crescono di certo in questa stagione.

Si trattenne piuttosto a lungo, girovagando e osservando intorno. Alla seconda uscita, prese a disegnare, e si inoltrò poi per un buon tratto lungo il suo sentiero. Anche qui tutto era mutato: il tracciato pareva più stretto, a causa dell’erba alta ovunque, e gli alberi e gli arbusti avevano sospinto in ogni direzione lunghi rami e ramoscelli. Persino i massi, che Tiburius conosceva così bene, avevano un tocco di verde luminoso, e negli anfratti della pietra, dove appena era possibile ritagliarsi un angolino, cresceva addirittura qualche fiore minuto. Tiburius si spinse nuovamente, attraverso il Bosco Nero, fino al punto in cui si godeva la vista sui nevai, per poi da lì fare ritorno, e avvenne che, andando a zonzo un giorno per il sentiero con i suoi album da disegno e il suo giubbone grigio, gli si fece incontro Maria, Maria in carne e ossa. Quando si fu ben avvicinata, Tiburius si fermò e la guardò. Anche Maria si fermò dinanzi a lui, lo fissò in volto e disse: «Ebbene, siete già di ritorno?».

«Sì,» disse lui «già da un po’ sono alle terme, e sono anche venuto fin qui svariate volte, ma non vi ho mai vista, di certo perché ancora non ci sono le fragole».

«Questo non ha importanza, io vengo lo stesso nel bosco di frequente,» rispose Maria «perché in primavera crescono diverse erbe, buone di sapore e salutari». Pronunciate queste parole, Maria fissò i suoi occhi chiari, ancora senza ombre, in quelli di lui e disse: «Perché mi avete mentito allora?».    

«Io non vi ho affatto mentito» rispose Tiburius.

«Sì, mi avete mentito» disse lei. «Il nome ricevuto alla nascita è Dio ad avercelo dato, e bisogna tenerselo, come i genitori, poveri o ricchi che siano. Voi non vi chiamate Theodor, voi vi chiamate Tiburius». … «No, no,» rispose lui «io mi chiamo Theodor, mi chiamo veramente Theodor. È la gente che mi ha affibbiato il nome di Tiburius se non credete alle mie parole posso produrre delle prove aspettate, ho qui con me svariate lettere, con l’indirizzo a nome mio». Ciò detto, Tiburius fece l’atto di frugare nella tasca interna del giubbone, in cui teneva delle carte. Maria, posatagli una mano sul braccio, lo trattenne e disse: «Lasciate perdere, non ce n’è bisogno. Poiché siete voi a dirmelo, vi credo».  Tiburius, con qualche tentennamento, lasciò le carte nella tasca, e Maria abbandonò la presa del suo braccio. Dopo un po’ il signor Tiburius domandò: «Avete chiesto dunque di me, alle terme?».  Maria rispose dapprima con il silenzio, poi riprese: «Certo, ho chiesto di voi. La gente ne dice parecchie sul vostro conto dice che siete un tipo originale ma non fa niente». Dopo queste parole si incamminò. Il signor Tiburius si mosse con lei.  Parlarono della primavera, del bel tempo e, giunti alla biforcazione del sentiero, si separarono: lei prese a sinistra, nel fitto del bosco, lui a destra, verso la parete rocciosa. Il signor Tiburius cominciò a frequentare puntualmente la casetta di Maria nella conca alpina e sedeva accanto a suo padre sulla panca all’aperto chiacchierando con lui di svariati argomenti. Tiburius e Maria passeggiavano regolarmente insieme nel bosco, lei raccoglieva le erbe e a volte le indicava a Tiburius nel loro ambiente naturale, chiamandole con i nomi in uso nel suo vernacolo. Finalmente Tiburius le mostrò i suoi album da disegno. Per arrivare a farlo gli era occorso molto tempo. Sfogliava una pagina dopo l’altra, spiegando a Maria come copiasse, con dei lapis a punta fine, particolari del bosco e della parete rocciosa. Maria mostrò vivissimo interesse, e come si lasciò incantare dal fatto che, con semplici tratti di matita nera, si potessero riprodurre le cose del bosco in modo così fedele, leggiadro e veritiero, da sembrare reali! Da allora, quando Tiburius disegnava, rimaneva seduta accanto a lui, e osservava con estrema attenzione, spostando senza sosta gli occhi dal modello alle linee sul foglio. Dopo qualche tempo prese anche a fare dei commenti, dicendo spesso all’improvviso: «Qui è troppo scorciato non è così in natura». Ogni volta Tiburius riconosceva che lei era nel giusto, prendeva la gomma, cancellava i tratti di matita e li rifaceva in maniera corretta. In questo modo trascorse larga parte dell’estate. Già da tempo era tornata la stagione delle fragole, quando un pomeriggio - mentre sedeva a disegnare presso la parete rocciosa, e Maria alle sue spalle, con il cestello ricolmo di fragole posato accanto a sé, lo osservava, seduta fra le pietre, vicino a uno sfolgorante giglio rosso dal lungo stelo - Tiburius disse: «Com’è possibile, Maria, che tra noi ci sia stata un’affinità fin dalla prima volta che ci siamo incontrati?». … «Per me c’è stata» rispose Maria «perché ho sentito che voi siete buono, e diverso dagli altri».

«Davvero? E come sono gli altri?» domandò il signor Tiburius. «Sono diversi» rispose Maria. «Una volta andavo ogni tanto giù alle terme a vendere qualcosa, come fanno quasi tutti qui, ma poi non ci sono più andata fino a che non sono partiti i forestieri; molti, infatti erano uomini che tenevano un contegno davvero indecoroso».

Il signor Tiburius, a queste parole, riposta la matita in mezzo all’album, lo chiuse, si girò sulla sua pietra e osservò Maria. Provò allora uno spavento smisurato; perché Maria era davvero di una bellezza straordinaria.   Il signor Tiburius, dopo averla guardata a quel modo, si girò nuovamente, riaprì il suo album, e riprese a disegnare.

Ma non disegnò a lungo; disse invece, rivolto a metà verso Maria: «Oggi preferisco smettere». Infilò la matita nel piccolo occhiello a lato dell’album, richiuse l’album, ne legò i lacci, raccolse le cose sparse intorno e si alzò. Anche Maria si levò dalle pietre in mezzo a cui stava seduta, e riordinò il suo cestino. Poi si avviarono insieme, Tiburius con l’album sotto braccio, Maria reggendo in mano il cestello colmo. Trascorse così l’ultima parte dell’estate, e l’autunno fece la sua comparsa: era passato un anno esatto da quando Tiburius aveva conosciuto Maria. Ora, accadde che una sera, tra i molti pensieri che turbinavano nella testa del signor Tiburius, prendesse forma anche il seguente: «E se tu chiedessi in moglie Maria?». Una volta concepito questo pensiero che nasceva più dall’esperienza che dalla ragione, diventò quasi frenetico per l’impazienza, per questo il giorno dopo, di buon mattino, si presentò a casa di Maria sul colle. Di fronte allo stupore di padre e figlia per quella sua apparizione tanto mattiniera, non seppe addurre argomento alcuno. Maria, proprio a causa della sua presenza, rimase sempre nella stanza da pranzo. Ma appena fu costretta a uscire, per sbrigare qualche faccenda domestica, Tiburius dichiarò al padre i suoi intenti. E quando la giovane rientrò, questi le disse: «Maria, il nostro amico qui presente, che questa estate è venuto così spesso a farci visita come un buon vicino, ti chiede in moglie, ma solo a condizione che tu, come ha detto lui stesso, accetti di cuore, altrimenti non se ne fa niente». A queste parole Maria avvampò come una rosa fiammante. Si era fatta di porpora, e non riusciva ad articolare parola.

«Non devi dare subito una risposta» riprese a dire il padre. Il giorno seguente Tiburius tornò, e, quando era ancora sulla soglia, il padre gli disse che Maria aveva dato il suo assenso. Tiburius fu invaso dalla gioia, ma non sapeva che cosa bisognasse fare o dire in simili frangenti. Solo una settimana più tardi, dopo che Maria in persona, mentre sedevano sulla panca in giardino, gli disse come per lei sposarlo fosse una grande, grande felicità, Tiburius prima di accomiatarsi lasciò sul tavolo, con mossa furtiva, un regalo che teneva in tasca già da diversi giorni. Era una collana di perle sceltissime, a sei fili, un gioiello appartenuto già da molte generazioni alle donne della sua famiglia. Maria ignorava il grande valore di quelle perle, ma con intuito femminile capiva che dovevano essere molto preziose. Con il senno e la limpidezza a lei peculiari, la fanciulla delle fragole si è trovata subito a suo agio nel nuovo stato, tanto da lasciar credere che le appartenesse per nascita, e grazie alla sua forza ingenua e pura - retaggio del bosco - la sua casa brilla, ridente e allegra, come metallo uscito di getto, senza pecche né difetti, dal crogiolo.  Tiburius non è il primo ad aver preso in moglie una donna di campagna, ma non tutti sono stati fortunati come lui. Il padre di Maria ha lasciato la casetta solitaria della conca alpina e vive ora insieme ai figli, e tiene nella sua piccola camera la pendola che un tempo era appesa nella stanza da pranzo di casa sua. E con ciò la storia del sentiero nel bosco sarebbe terminata. Qui di seguito, per finire, una preghiera: il signor Theodor mi perdoni se anch’io l’ho chiamato sempre Tiburius; il nome Theodor, infatti, non mi suona così familiare e immediato come quello, assai caro, di Tiburius, il quale Tiburius un giorno era andato su tutte le furie, avendomi sentito dire: «Tiburius, sei proprio l’essere più ghiribizzoso, il tipo più strambo che mai si sia visto sulla faccia della terra». Non avevo forse ragione?

 

Post scriptum. Mentre ero intento a scrivere queste righe mi è giunta notizia che Maria ha partorito un bambino, il quale - e non potrebbe essere diversamente - strilla pieno di allegria.

 

   Abbiamo letto una fiaba - nella quale c’è anche la rievocazione autobiografica dello sfortunato amore tra Adalbert e Fanny, segregata da un padre autoritario - e non c’è fiaba senza magia. Per Ruggero Bacone la “scienza” è una disciplina nella quale rientrano anche “le arti della magia” e “i calcoli dell’astrologia” utilizzati come strumenti nell’ambito di una sorta di sfida tra il Creatore e la sua Creatura, e qui emerge un altro aspetto della trasgressiva personalità di Ruggero Bacone.

   Le studiose e gli studiosi di filologia hanno visto in Ruggero Bacone il precursore del cosiddetto “ardimento faustiano dello scienziato”. La leggenda di Faust, del mago che vende l’anima al demonio in cambio della giovinezza e della bellezza, prende forma nel corso del XIII secolo proprio sulla scia del fenomeno affascinante e pericoloso della “magia” [si rischia il rogo solo a parlarne e Ruggero Bacone ha rischiato] che con i suoi caratteri [lo studio della “simpatia cosmica” e la ricerca delle “qualità occulte” presenti nella materia] costituisce la componente “scientifica” di base del programma della Scolastica empirico-sperimentale.

   Diciamo subito, per inciso, che se ci dovessimo occupare, anche solo in parte, di tutte le opere che il personaggio di Faust ha ispirato non basterebbe un viaggio intero e noi ci dobbiamo limitare adesso, in modo mirato, a rispondere alla domanda: che cos’è “l’ardimento faustiano dello scienziato” di cui Ruggero Bacone è stato considerato il precursore? L’ardimento “faustiano” è, prima di tutto, un altro aspetto della personalità di questo spregiudicato personaggio: il carattere “faustiano” di Ruggero Bacone va inteso come un rapporto di sfida tra Dio, il Creatore delle Leggi della Natura, e l’Essere umano, la creatura capace di utilizzare le leggi della Natura per modificare la creazione perché nel funzionamento del Mondo creato si riscontrano dei difetti di fabbricazione. L’elemento “faustiano” della personalità di Ruggero Bacone va anche ad intrecciarsi con la storia della sua presunta sparizione: c’è chi ha messo in giro la voce che non sarebbe morto ma si sarebbe volatilizzato e, sebbene questo racconto sia solo il frutto di una suggestione di carattere leggendario, tant’è [“Non è vero…ma ci credo”: è il titolo di una commedia di Peppino De Filippo del 1942 e “Questi fantasmi!”: è il titolo di una commedia di Eduardo De Filippo del 1945], ogni tanto, il fantasma di Ruggero Bacone, specialmente ad Ilchester, il villaggio dove è nato, qualcuno dice di “sentirlo” o di “incontrarlo ripersonificato in marinaio o in avvocato” [e in proposito c’è un significativo - e anche un po’ ambiguo - intreccio filologico che prossimamente andremo a dipanare].

   Per conoscere e per capire che cos’è “l’ardimento faustiano dello scienziato” dobbiamo aprire una parentesi in campo letterario facendo riferimento ad un’opera che abbiamo già incontrato a suo tempo [una decina d’anni fa ma sappiamo che su certi oggetti letterari ci si deve sempre tornare]: quest’opera - la più completa sull’argomento - s’intitola Faust. Una tragedia ed stata scritta da Johann Wolfgang Goethe: tutte e tutti voi avete sentito nominare quest’opera, il Faust, ed il suo autore, Goethe. Non ci possiamo occupare ora della biografia di Goethe [che abbiamo seguito passo per passo un decennio fa durante un viaggio “nel sorriso della Gioconda” e penso che molte e molti di voi se ne ricordino di quel Percorso], diciamo solo l’essenziale. Johann Wolfgang Goethe è nato a Francoforte sul Meno il 28 agosto 1749 ed è morto a Weimar il 22 marzo 1832, ed è stato uno scrittore, un poeta, un drammaturgo, ed è considerato uno dei letterati più rappresentativi nel panorama culturale europeo. La sua attività non è rivolta soltanto alla poetica, al dramma, alla letteratura, ma anche alla teologia, alla filosofia, all’umanismo [non è quindi casuale incontrarlo su questo percorso], alle scienze, e anche alla pittura, alla musica e alle arti in generale. Goethe persegue l’idea della “Letteratura mondiale [Weltliteratur]”, un’idea che deriva dalla sua approfondita conoscenza ed ammirazione per le diverse realtà culturali nazionali [inglese, francese, italiana, greca, persiana, araba] e il suo pensiero ha avuto una grande influenza nella formazione di personaggi come Hegel, Schelling e, successivamente, Nietzsche.

   Ebbene, quando, nel 1775, Goethe, ventiseienne, si trasferisce a Weimar aveva già composto il nucleo essenziale di un dramma che doveva costituire la prima parte di un’opera sul personaggio di Faust. Per essere precisi questo primo nucleo è conosciuto nella storia della letteratura col nome di Urfaust, come dire: il “Faust primordiale, originario”. L’Urfaust è un testo di appunti: contiene brevi schizzi drammatici, versi, frammenti di liriche e abbozzi in prosa. Su questo materiale originario Goethe opera, via via, molte aggiunte fino ad arrivare ad ampie stesure: lavora su questo argomento per circa sessant’anni. Nel 1808 il dramma viene pubblicato col titolo di Faust. Una tragedia, ma questa redazione non è definitiva e costituisce solo la prima parte del dramma, il quale, attraverso interruzioni e riprese, è stato condotto a termine [se si può dire che abbia un termine] soltanto nel 1831, pochi mesi prima della morte di Goethe, ed è stato pubblicato postumo col titolo di Faust. Seconda parte della tragedia in cinque atti.

   Quest’opera è molto complessa soprattutto perché presenta varie stratificazioni liriche, concettuali e stilistiche per cui è sempre stata considerata “un capolavoro anomalo” [così l’hanno definita tutte le studiose e gli studiosi di filologia] in quanto eterogenea e disorganica. In verità Goethe non ha avuto, fin dall’inizio, una chiara idea di ciò che questo dramma avrebbe dovuto essere: era attratto da questo tema che, dal XIII secolo, affascinava - a cominciare da Ruggero Bacone - intellettuali, artiste, artisti, scrittrici e scrittori e anche per questa incertezza la gestazione dell’opera è stata lenta e faticosa, e intervallata da pause ed arresti anche lunghissimi, senza però che “il tema faustiano” abbandonasse mai la sua mente.

   Il tema della “leggenda faustiana”, che come ben sapete consiste nella vendita con regolare contratto firmato col sangue dell’anima al demonio [Mefistofele], è una delle tante leggende create, nei secoli, dalla tradizione popolare diffusasi oralmente e, quindi, questa storia [con tutte le sue varianti, e lo spunto iniziale potrebbe essere il “Prometeo incatenato” di Eschilo] esiste da molti secoli prima che il nome di Faust venga legato ad essa. È in Germania, tra il XV e il XVI secolo, che la storia viene rielaborata e messa per iscritto e dà origine ad un vero e proprio genere letterario, e questo avviene  quando il racconto immaginario s’intreccia con la storia di un personaggio realmente esistito: il più celebre di tutti i maghi. E Ruggero Bacone [che sta viaggiando insieme a noi] non si sorprende di questo fatto ma si comporta come se ne fosse al corrente sebbene questo avvenimento sia successo più di due secoli dopo la sua morte “presunta”, ed è l’aggettivo “presunto” che ci obbliga ad usare il condizionale.

   Il più celebre dei maghi moderni [un Ruggero Bacone redivivo?] è un medico tedesco che si chiama Johannes Faust [1480 circa.-1536 o 1540]: subito dopo la sua morte comincia a circolare la notizia che il dottor Faust avrebbe venduto l’anima al diavolo in cambio della giovinezza e della bellezza e questo personaggio diventa il protagonista di moltissimi racconti e nel 1601 viene pubblicato a Londra il dramma La tragica storia del dottor Faust dello scrittore Christopher Marlowe [1564-1593] e la fama del “Faust” si diffonde a largo raggio. Nel 1857, a Francoforte sul Meno, tutti i “racconti di tema faustiano” sono stati raccolti in un volume di autore anonimo intitolato Il libro di Faust ovvero Storia del dottor Johann Faust, e lo straordinario successo popolare riscosso da questo testo ha fatto sì che, sul personaggio di Faust, si sia concentrata l’attenzione di molte scrittrici e scrittori europei,

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Giocando con la fantasia e potendo stipulare un contrattino con il diavolo: che cosa chiedereste in cambio dell’anima?…  

Scrivete  quattro righe in proposito [l’inchiostro va bene lo stesso, il sangue è meglio destinarlo all’AVIS]… 

 

   Dopo il preambolo di carattere letterario nascono gli interrogativi: perché il personaggio di Faust interessa a Goethe e come si configura il concetto de “l’ardimento faustiano dello scienziato”: il tema di cui ci stiamo occupando in relazione a Ruggero Bacone?

   Il “tema faustiano” interessa a Goethe soprattutto perché contiene la volontà di poter trascendere i limiti umani per inserirsi nell’ordine degli spiriti che reggono la vita dell’universo, ed è lo stesso trascendimento al quale ambisce anche Ruggero Bacone che crede nell’esistenza di “un mondo dello Spirito” sul quale indagare. Il giovane Goethe è alla ricerca di una nuova religiosità titanica e demoniaca [il demone di Socrate è lo stimolo alla conoscenza], e vuole uscire dal perimetro dell’ortodossia cristiana per entrare in contatto con le forze insite nella Natura, per intercettare “le corrispondenze magiche” che interagiscono tra l’Essere umano e le qualità occulte della Materia, e questo intento collima con “il pensiero magico” coltivato dalla Scolastica empirico-sperimentale per cui Ruggero Bacone viene considerato il precursore de “l’ardimento faustiano dello scienziato”. Dobbiamo sottolineare [e non è stato casuale il fatto di aver iniziato questo itinerario leggendo un frammento della Divina Commedia] che il Faust è anche un’opera che possiamo avvicinare, con le dovute proporzioni, alla Divina Commedia: anche il Faust come il capolavoro di Dante è, al tempo stesso, una tragedia umana e una sacra rappresentazione.

   I grandi temi che Goethe riversa nel suo dramma erano già in incubazione nel programma della Scuola sperimentale di Oxford e sono anche i temi che troviamo nella Divina Commedia di Dante: il tema del rapporto di sfida [dal momento della cacciata dal giardino dell’Eden] tra la Creatura e il Creatore, il tema della funzione dell’Essere umano nella Natura [colui che la subisce o colui che la doma?], il tema dei rapporti tra la persona e la società civile, il tema della relazione tra l’individuo [medioevale e moderno] con il mondo antico dei Classici [siamo nani sulle spalle di giganti?], il tema dei limiti di ogni potenza umana, il tema di scegliere le giuste attività per dare un senso alla propria esistenza.

   Con questo elenco abbiamo anche catalogato i temi affrontati dalla “Scuola sperimentale di Oxford” sotto la guida di Ruggero Bacone: il primo scienziato dotato di “ardimento faustiano”.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Leggere il “Faust” di Goethe non è un’impresa facile, ma è tuttavia doveroso avvicinarsi a quest’opera cominciando a tenere in mano il volume, sfogliandolo, annusandolo [si può sentire odore di zolfo] e di leggendone qualche pagina…  Richiedete in biblioteca il “Faust” di Goethe e, in primo luogo, fate “un’esperienza tattile”, come sta pensando di fare Ruggero Bacone…    

 

   E ora leggiamo alcune pagine dal Faust di Goethe. Il dramma ha inizio con il celebre “Prologo teologico-metafisico” che si svolge in cielo: è il famoso dialogo [un dialogo sempre di grande attualità] tra Dio [il Creatore] e Mefistofele [il Demonio].

 

LEGERE MULTUM….

Johann Wolfgang Goethe, Faust. Una tragedia

Dio chiede a Mefistofele notizie del mondo e Mefistofele risponde:

«Non so dir nulla, o Signore, di mondi, di soli; osservo solamente come gli uomini si affatichino. Il piccolo Dio del mondo [l’uomo] è sempre tale e quale, e sempre strambo come il primo giorno. Vivrebbe un po’ meglio se tu, o Signore, non gli avessi dato una parvenza di luce del cielo. La chiama ragione e se ne serve unicamente per essere più bestiale di ogni altra bestia».

Il Signore risponde a Mefistofele:

«Eppure c’è un uomo, Faust, su cui si può fare affidamento e, anche se ora mi serve in modo un po’ disordinato, lo condurrò presto verso la chiarezza».

Mefistofele allora propone un patto ponendosi in gara temeraria col Signore:

«Che cosa scommettete, o Signore? Scommettiamo che perderete anche quest’essere umano, se mi permettete di condurlo, poco alla volta, sul mio sentiero?».

E il Signore risponde:

«D’accordo! Ti sia concesso! Svia questo spirito dalla sua prima fonte e, se ti riesce di sedurlo, conducilo pure giù con te, sul tuo sentiero. Ma vergogna a te se tu dovrai ammettere che un uomo buono è, sempre, nel suo oscuro istinto, conscio della retta via e, nonostante tutto, sempre pronto a cercarla, la retta via» …

 

   Il Prologo del Faust contiene il celebre patto tra Dio e il Diavolo. E Dio, alla fine, risulterà vincitore: Faust, al termine della vita, si salverà perché, nonostante tutto, sarà sempre “in ricerca della retta via” [e non possiamo non cogliere il sorriso soddisfatto di Ruggero Bacone di fronte a questa notizia]. E anche se Faust la “retta via” non la trova, persevera comunque nella “ricerca”, e, quindi, è “predisposto al Bene” [e ora Ruggero Bacone lo sentiamo proprio ridere, visto che ha subìto la scomunica per aver osato perseverare nella “ricerca” e ora è sicuro di averla subìta ingiustamente]. E [attenzione!] anche il Demonio, senza saperlo e senza volerlo, integra e asseconda i disegni di Dio e diventa anche partecipe della sua opera di salvezza e, quindi: anche il diavolo diventa necessario? Da questo momento l’Essere umano è avvertito: tutto l’Universo è pervaso da una travagliata “volontà di ricerca”, ed è questa “travagliata volontà di ricerca” che regge e vivifica il Mondo e dà un senso all’Esistenza umana. Senza questa “volontà” e senza questo “travaglio” il Mondo non sarebbe più il Mondo e l’Essere umano non sarebbe più l’Essere umano, e Ruggero Bacone sottoscrive questa affermazione “faustiana”, anche se, però, dovremmo dire, per la precisione, che non è tanto Bacone ad avere un “ardimento faustiano” ma è Faust ad avere un “ardimento baconiano”! E, per concludere, leggiamo il celebre “primo monologo di Faust”, il monologo con cui questo personaggio si presenta:  Faust è un dotto, è un sapiente, che, pervenuto all’età matura, rileva il fallimento della propria vita. Ha studiato a fondo la filosofia, la giurisprudenza, la medicina e anche, “purtroppo”, la teologia ma si accorge di “non sapere niente di niente”, perciò si propone di gettare a mare tutte le sue carte e di avviarsi, con l’aiuto della magìa, sul cammino della conoscenza intuitiva, per mezzo della quale gli si sveleranno, lui spera, i misteri della vita e l’essenza della natura per superare le propria astrattezza e poter creare strutture concrete, utili e buone. Ruggero Bacone - che è dotato di “ardimento faustiano” - si riconosce in questo “monologo” perché ha criticato i metodi astratti della Scolastica tradizionale, lui è convinto che il sapere debba avere una finalità pratica per essere in grado di produrre opere tecniche.

   E ora leggiamo il “primo monologo di Faust”.

 

LEGERE MULTUM….

Johann Wolfgang Goethe, Faust. Una tragedia

        NOTTE

Angusta stanza gotica con la vòlta a sesto acuto. Faust, inquieto, siede davanti al leggìo.

 

        FAUST

Ed ho studiato, ahimè, filosofia, giurisprudenza nonché medicina: e anche, purtroppo, teologia. Da cima a fondo, con tenace ardore.  Eccomi adesso qui, povero stolto; e tanto so quanto sapevo prima. Mi chiamano Maestro: anzi, Dottore. Son dieci anni che vado prendendo per il naso i miei scolari, in su e in giù, per dritto e per traverso. Ma solo per accorgermi che non ci è dato di sapere, al mondo, nulla di nulla. E quasi, ardendo, mi si strugge il cuore. In verità, la testa ho assai più fina di tutti i solennissimi baggiani che si chiaman Maestri, o vuoi Dottori, chierici e scribi sia giovani che anziani. Non soffro né di dubbi né di scrupoli. Non mi spaventa il demonio né l’inferno. Ma da ogni gioia ho sradicato il cuore. Più non m’illudo di sapere, ormai, nulla di buono. Più non m’illudo d’insegnarlo agli uomini, per convertirli e renderli migliori. E non basta. Son qui, nudo di beni, senza un quattrino, senza gloria nel mondo e senza onori. Non reggerebbe a una vita così, neppure un cane. Per ciò, mi sono dato alla Magìa, anelo di provare se la forza e la parola degli spiriti qualche segreto, almeno, mi possano svelare così che più non debba balbettare, sudando sangue, quello che non so; e mi sia dato di scoprir che cosa tiene congiunto alle radici, il mondo; scorga operare ogni linfa, ogni seme; e possa alfine smetterla di solo cavillar con le parole. Oh fosse almeno l’ultimo tuo sguardo sulla mia pena, chiaror di luna piena, che io vegliando oltre mezzanotte, già troppe volte attesi, invano, presso il mio leggìo, in fin che sopra i libri e sulle carte non mi apparivi, o mia dogliosa amica.  Ah potessi per cuspidi di monti andar vagando alla tua cara luce, librarmi in antri alpestri con gli spiriti, aggirarmi sui prati al tuo chiarore. Oh potessi, deterso finalmente da tutti i fumi della scienza, immergermi, per risanarmi, nella tua rugiada. E ancóra in questo carcere sto chiuso? O maledetta, soffocante tana di anguste mura, dove, filtrando pei dipinti vetri, anche del cielo la cara luce giunge intorbidita e non perfettamente pura.   Carcere, ingombrato da mucchi di libri coperti di polvere, rosi dai tarli, tappezzato tutto, sino alla vòlta, di vecchie cartacce affumicate; sparso di vasi e ampolle in ogni dove; stipato di strumenti; zeppo di vecchie masserizie avite, cianfrusaglie accatastate. Ecco, il tuo mondo. E puoi chiamarlo un mondo? Lèvati e fuggi negli spazi immensi. Conoscerai, così, il corso ininterrotto delle stelle. E, se sarà la Natura ad ammaestrarti, in cambio dell’anima avrai una forza sovrumana, e ti si schiuderà il linguaggio che parlano gli spiriti fra loro. Non aspettar che l’arida ragione ti spieghi mai questi divini segni. Spiriti, accanto a me, ora, aleggiar vi sento. Rispondete, Spiriti, se mi udite: che cosa devo chiedere a voi, potere, ricchezza, fama? Oppure la giovinezza, oppure la bellezza?  Sì, Spiriti, sì la giovinezza! La giovinezza e la bellezza chiedo, o Spiriti, la giovinezza e la bellezza chiedo.

 

   Abbiamo studiato solo due aspetti della personalità di Ruggero Bacone: quello “teocratico” e quello “faustiano”: ma ce ne sono altri.

   Perché Ruggero Bacone è stato definito anche il Jules Verne del XIII secolo?

 

LEGERE MULTUM….

Maestro [Giulio Verne], quanti sogni avventurosi

sognammo sulle trame dei tuoi libri!

La Terra il Mare il Cielo l’Universo

per te, con te, poeta dei prodigi,

varcammo in sogno oltre la Scienza.

Pace al tuo grande spirito disperso,

tu che illudesti molti giorni grigi

della nostra pensosa adolescenza.

 

   Chi ha scritto questi versi in morte di Jules Verne che valgono anche come omaggio all’ardimento di Ruggero Bacone?

   Con questi interrogativi da svelare ci proponiamo di coltivare lo spirito utopico che lo studio porta con sé consapevoli del fatto che non si deve mai perdere la volontà d’imparare.

   Il viaggio continua: la Scuola è qui “per illudere senza prodigi, della vostra attuale adolescenza, tutti gli eventuali giorni grigi [ma del grigio si può fare senza? Come si potrebbe dire: buona sera!]…

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Novembre 6, 2015