ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34 - «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»
PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE
DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA
Prof. Giuseppe Nibbi
La sapienza poetica e filosofica agli albori dell’età moderna 18 - 19 - 20 gennaio 2017
SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA RINASCIMENTALE ALL’ALBA DELL’ETÀ MODERNA
IL METODO ESEGETICO DELLA CABALA FORNISCE AGLI ARTISTI UN GLOSSARIO DI PAROLE-CHIAVE A CUI ISPIRARSI …
Questo è l’undicesimo itinerario del nostro viaggio di studio sul “territorio della sapienza poetica e filosofica rinascimentale agli albori dell’età moderna” e siamo sempre in attesa di poter entrare dentro la Cappella Sistina per osservare le immagini affrescate da Michelangelo sul soffitto di questo famoso edificio, e l’attesa non è stata infruttuosa perché, come ben sapete, abbiamo iniziato a studiare l’itinerario [le forme e i contenuti] della formazione intellettuale di Michelangelo in modo da acquisire i necessari elementi utili per capire il significato dei suoi affreschi [che osserveremo quando papa Giulio II ci farà entrare gratis]. Inoltre, seguendo il percorso formativo di Michelangelo, abbiamo iniziato a studiare nelle sue linee generali la Storia del Pensiero Umano agli albori dell’età moderna: un’epoca nella quale stiamo viaggiando virtualmente.
Sappiamo che l’iter della formazione di Michelangelo è stato positivamente contrassegnato da una serie di circostanze [facciamo l’inventario come promemoria]: dal fatto di essere stato a bottega dal Ghirlandaio, di essere stato “adottato” da Lorenzo il Magnifico, di avere studiato a Palazzo Medici con i più validi maestri del momento [Marsilio Ficino, Cristoforo Landino, Angelo Poliziano, Pico della Mirandola, dei quali conosciamo le Opere e il pensiero, e noi ci troviamo ancora davanti al paesaggio intellettuale dove abitano questi personaggi che, sul piano ideologico, sono i primi fautori dell’epoca che, secoli dopo, verrà chiamata “rinascimentale”]; poi Michelangelo nella sua formazione ha potuto usufruire delle idee prodotte nell’ambito della “Accademia platonica fiorentina” e delle Opere scritte in funzione della “polemica tra neoplatonici e aristotelici”, in particolare quelle composte dai suoi maestri che appartengono alla “corrente pedagogico-filologica del neoplatonismo”, e infine, come abbiamo studiato nell’itinerario della scorsa settimana, Michelangelo è stato ispirato culturalmente nel suo lavoro di artista da un tema che ha avuto una grande incidenza in Età rinascimentale: quello della Cabala ebraica.
Come sappiamo, è stato Giovanni Pico della Mirandola [che ancora ci accompagna nel nostro viaggio] in quanto profondo conoscitore della lingua e della cultura ebraica a scrivere un trattato fondamentale per la divulgazione dei principi e dei simboli su cui si fonda il metodo della Cabala: come sappiamo quest’opera s’intitola Heptaplus [Eptaplo] e, come sappiamo, questo vocabolo significa “sette volte sette” e quest’opera tratta dell’interpretazione in chiave allegorica del racconto biblico della Creazione. Sappiamo che nella “introduzione generale” Pico della Mirandola illustra qual è l’intento del suo lavoro filologico [quello di praticare un’esegesi che faccia incontrare persone di culture e religioni diverse] e poi spiega gli esiti dottrinali che pensa di aver raggiunto [si propone di formulare una dottrina universale che unisca nel Bene tutte le persone di buona volontà]. Queste idee vengono condannate dal Sant’Uffizio che proclama il cristianesimo essere “l’unica religione vera” e Pico della Mirandola viene dichiarato “eretico”.
Heptaplus è un trattato con il quale l’autore vuole fornire alla persona le competenze necessarie perché possa interpretare e costruire quell’accessorio fondamentale della comunicazione umana e divina [aggiunge Pico della Mirandola] che è “il simbolo”, e in questo senso quest’opera è più che mai illuminante perché nel corso dell’Età moderna il valore evocativo dei “simboli” è andato aumentando in campo artistico, sul piano araldico e poi anche, in funzione non sempre virtuosa, in campo commerciale.
La parte più interessante dell’Heptaplus, come abbiamo già detto la scorsa settimana, è quella in cui nella prima parte della Introduzione generale del Libro primo Pico della Mirandola riflette sul valore e sull’importanza dei “simboli”. Pico della Mirandola nell’Heptaplus descrive e utilizza il simbolismo della Cabala ebraica con l’intento di dimostrare in maniera oculata e approfondita che esiste un pieno accordo tra l’Antica filosofia [caldaica, egizia, ermetica, pitagorica, orfico-dionisiaca, platonica] e il Libro biblico della Genesi. Scrive Pico: «I simboli ricorrono a partire dalla creazione per cui si può dire che “in principio era il simbolo di cui la parola [il Verbo, il Logos] è espressione”», e con questa affermazione vuole mettere in evidenza che sul piano esegetico prima della suggestione mistica conta “l’intuizione” che permette all’Intelletto di decodificare il significato dei simboli. Secondo il pensiero della Cabala [e tutti i personaggi che finora abbiamo incontrato in questo viaggio sono interessati a questo pensiero] Dio [l’Aleph supremo, l’Uno], in principio, ha creato i simboli, e solo quando la persona è in grado di interpretarli con il proprio Intelletto la creazione si realizza, il mistero della creazione si rivela. E qual è, si domanda Pico della Mirandola nell’Heptaplus, la sequenza simbolica mediante la quale - secondo la Cabala ebraica - si rivela il mistero della creazione?
Nel capitolo secondo del Libro primo dell’Heptaplus, utilizzando la logica di Aristotele in chiave neoplatonica Pico della Mirandola scrive: «L’illustre scrivano [e fa riferimento a Mosè che si pensava fosse il mitico scrittore del primo Libro dell’Antico Testamento, e l’autore del Pentateuco] in principio pone due cause, la causa agente [dipendente dall’Intelletto attivo universale] cioè la potenza e la causa materiale [dipendente dall’Intelletto passivo personalizzato] cioè l’atto. E [nel testo del primo capitolo del Libro della Genesi] l’illustre scrivano chiama quella Cielo e questa Terra, per cui [afferma Pico] ogni atto materiale deve avere radici intellettuali in Cielo e una chioma intellettuale nel Mondo delle forme e, di conseguenza, qualsiasi creatività [artistica, scientifica, magica] nasce e si realizza nel regno intelligibile, e al centro di questo regno è la Persona [Michelangelo si sente al centro di questo regno, e fa proprio questo ragionamento che dà un senso alla sua vocazione artistica]».
Pico della Mirandola distingue nel Cosmo tre mondi: il mondo spirituale [Dio e gli angeli], il mondo celeste [i tradizionali dieci cieli dei quali il primo è l’Empireo che è causa e principio del movimento] e il mondo sublunare o elementare [con gli esseri terrestri]. La Persona, afferma Pico, costituisce un quarto mondo che racchiude in sé la possibilità di tutti gli altri, e il racconto biblico della creazione narra - in modo simbolico - la nascita di questi quattro mondi.
L’elemento più significativo [l’elemento moderno] che emerge dalla descrizione di Pico della Mirandola, così come emerge in tutte le sue Opere, è la peculiare collocazione della Persona al centro del Cosmo, padrona, quando sa contare e sillabare, della propria “autonomia” [teniamo sott’occhio questo termine] per cui, in ragione della sua attività intellettuale e della sua volontà, alla Persona sono dischiuse tutte le possibilità fino a quella più alta di potersi misurare con l’immagine di Dio in modo da rappresentarlo degnamente nel mondo sublunare, nel mondo delle forme simboliche [e Michelangelo - che è chiamato a rappresentare la figura di Dio sul piano artistico - si misura con questa idea e compie l’impresa senza remore ma con cognizione di causa cosciente del fatto che sono i simboli a richiamare l’immagine di Dio e lo vedremo all’opera in proposito].
Secondo il metodo della Cabala, afferma Pico, la relazione tra il mondo celeste [le radici divine] e il mondo terrestre [il terreno delle forme] si realizza nei simboli che nascono dall’incontro tra i primi dieci numeri [Pico pensa anche alla figura del triangolo di Pitagora, la Tetraktys divina] e le lettere dell’alfabeto ebraico abbinate a questi numeri [in ebraico i numeri si esprimono attraverso le lettere dell’alfabeto]. E qual è la sequenza simbolica mediante la quale si rivela il mistero della creazione? È una sequenza simbolica piuttosto complessa e ricca di termini, e, per quanto è possibile, bisogna procedere con ordine sapendo che “il terreno esegetico” [della lettura e dell’interpretazione] è sempre accidentato e “la via esegetica” non conduce mai a conclusioni definitive: lo spazio esegetico è “un labirinto che ha la forma del deserto” [un territorio nel quale ci si perde con grande facilità pur non essendoci barriere].
Il racconto della creazione nel Libro della Genesi [i primi tre capitoli, spiega Pico della Mirandola nell’Heptaplus] è scritto [in lingua originale ebraica secondo il genere letterario del midrash, del racconto cerimoniale] secondo una sequenza di dieci numeri. Il pensiero della Cabala afferma che Dio, in principio, pronuncia il numero [il simbolo numerico] contenente le parole-creatrici che, a loro volta, sono simboli e, quindi, Dio non crea le cose [non è un “Dio faber”] ma dà origine “ai simboli delle cose” [è un “Dio docente” che, per questa sua natura, piace particolarmente agli studiosi della “corrente pedagogica neoplatonica” che nasce nell’ambito dell’Accademia fiorentina]. Quindi, Dio [secondo il pensiero cabalistico], in principio, pronuncia una sequenza di dieci numeri.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Da uno a dieci: qual è il vostro numero preferito?… Perché?...
Scrivete quattro righe in proposito…
E adesso leggiamo una pagina esemplare dell’Heptaplus di Pico della Mirandola: è un brano tratto dall’Introduzione generale del Libro primo ridotto per motivi didattici all’essenziale e che contiene “il catalogo degli argomenti” che l’autore sviluppa poi nei Libri successivi. Questo “catalogo” ha assunto un ruolo molto importante perché non è soltanto l’indice della terminologia cabalistica redatto agli albori dell’Età moderna ma è anche un esauriente “glossario” cioè si presenta come il dizionario delle più significative parole-chiave utili per dare un significato ai vari aspetti del Rinascimento.
Questa pagina presenta non poche difficoltà di lettura proprio per la densità del suo contenuto che rappresenta il quadro più esaustivo del rapporto tra “i simboli numerici” [la sequenza dei numeri pronunciati da Dio in principio da Uno a Dieci] e “i simboli lessicali” [le parole-chiave] perché la creazione, secondo il pensiero cabalistico, è frutto di questo connubio emblematico [tra simboli numerici e simboli lessicali], e per capire il significato di questa corrispondenza allegorica, afferma Pico della Mirandola, è necessario penetrare, attraverso l’azione intellettuale [attraverso lo studio], in quel “labirinto” che è “il simbolo”.
Con grande oculatezza Pico della Mirandola, da esperto filologo qual è, accosta al termine “simbolo” l’altrettanto evocativo termine “labirinto” in modo da creare, intorno al tema delle Origini, una virtuosa comunanza tra la tradizione ebraica e la cultura orfico-dionisiaca a sostegno della sua visione universalistica della dottrina. «Il simbolo [scrive Pico della Mirandola] è il più complicato dei labirinti …» e, ora [con la necessaria circospezione], leggiamo questa densa pagina di Letteratura rinascimentale che, come vedremo tra poco, lascia il segno anche nella Letteratura contemporanea.
LEGERE MULTUM….
Giovanni Pico della Mirandola, Heptaplus
Il simbolo è il più complicato dei labirinti ma il metodo della Cabala indica la via per non perdersi in questo dedalo insidioso come il deserto e, di conseguenza, per non smarrirsi sulla via dell’interpretazione la Persona deve essere consapevole della necessità di nutrire e di curare il proprio Intelletto con lo studio della disciplina filologica, perché è il Creatore stesso, il Dio-docente, ad aver suggerito all’Intelletto dell’illustre scrivano [Mosè] la trama per raccontare la creazione simbolo per simbolo.
In principio Dio disse «Uno » [Aleph] come di se stesso, il Creatore.
E Dio disse «Due» come le componenti Maschile e Femminile.
E Dio disse «Tre» come le emanazioni del Pensiero, dell’Intelletto e dell’Anima.
E Dio disse «Quattro» come i mondi: lo Spirituale, il Celeste, il Sublunare e della Persona.
E Dio disse «Cinque» come gli stadi dell’Anima: quello dell’energia vitale del corpo [nefesh], quello dell’anima emotiva [mach], quello dell’anima intellettuale [neshamà], quello dell’anima spirituale che tende a Dio [chayà] e quello dell’anima trascendente che è in armonia con il Divino e con l’Universo nel suo insieme [yechidà].
E Dio disse «Sei» come i giorni della creazione: quello della Luce, quello del Cielo, quello della Terra, quello degli Astri, quello del Mare, quello dell’Uomo.
E Dio disse «Sette» come la contemplazione dell’opera portata a termine: la Sosta, il Respiro, la Posa, la Tregua, la Vacanza, la Festa, la Ricreazione.
E Dio disse «Otto» come l’insidia alla concordia: la Tentazione, la Lusinga, la Seduzione, la Bramosia, il Capriccio, la Corruzione, la Cupidigia, l’Avidità.
E Dio disse «Nove» come coronamento al modo sublunare: il Lavoro, l’Attività, il Compito, l’Impegno, l’Impresa, l’Opera, la Responsabilità, l’Incarico, la Funzione.
E Dio disse «Dieci» come le sue comunicazioni divine al corpo umano [le dieci Sefirot]: Intelletto [Keter, corona], Comprensione [Binà], Sapienza [Chochmà], Energia [G’vurà], Bontà [Chessed], Bellezza [Tiferet], Splendore [Hod], Vittoria [Netzagh], Fondamento [Yesod], Generosità [Malchut, regalità].
Nel disegno della creazione oltre la superficie di ogni oggetto si nascondono emanazioni divine e, di conseguenza, le cose hanno significati ben più complessi di quanto possa apparire a occhio nudo e la visione del mondo creato richiama la disciplina filologica perché Dio, l’Aleph supremo [l’Uno], in principio, ha creato i simboli e solamente se la Persona è in grado di interpretarli con il proprio Intelletto la creazione si realizza, il mistero della creazione si rivela. …
Se ci soffermassimo a fare l’analisi di questa pagina noi non ci muoveremmo da qui per tutto il tempo del viaggio ma dobbiamo proseguire il nostro cammino e, quindi, utilizzeremo strada facendo questo “glossario rinascimentale” per eccellenza prendendo atto di ciò che succede: succede che sul territorio della “sapienza poetica e filosofica rinascimentale all’alba dell’età moderna” il metodo esegetico della Cabala fornisce alle studiose, agli studiosi, alle artiste e agli artisti “un glossario di parole-chiave” a cui ispirarsi per dare ad esse concretezza, e la produzione di oggetti e monumenti dotati di grande bellezza nel corso del Rinascimento dipende prima di tutto dalla conoscenza di questo glossario.
Pico della Mirandola con il testo dell’Heptaplus riesce a trasmettere il fascino della Cabala a Michelangelo, a Giulio II e a tutti gli artisti del Rinascimento, un fascino misterioso che risiede nella principale premessa del pensiero della Cabala secondo cui [e usiamo le parole di Pico della Mirandola] «oltre la superficie di ogni oggetto si nascondono “emanazioni divine” [qualità particolarmente significative] per cui le cose [che contengono tutte, dalle Origini, una forte componente simbolica, da quando vengono “nominate”] hanno significati ben più complessi di quanto possa apparire a occhio nudo» e questa è, senza dubbio, un’idea stimolante per ogni artista, e in particolare per un artista geniale come Michelangelo [e per capire le sue dichiarazioni bisogna seguire i vari passaggi della sua formazione intellettuale], un artista convinto che «ogni blocco di pietra ha una statua dentro di sé ed è compito dello scultore scoprirla [per cui anche quando dipinge è come se scolpisse perché pensa che su ogni muro ci sia un’immagine da tirare fuori dalla materia]».
Le “emanazioni divine” [come abbiamo appena letto allorché, in principio, Dio disse «Dieci»] sono note con il nome di “dieci Sefìrot” [comunicazioni] e rappresentano gli stadi intermedi [le qualità particolarmente significative] che rendono possibile la creazione del mondo finito, e sono come i passi necessari all’artista per dare vita alle sue idee, e le dieci Sefìrot - Intelletto, Comprensione, Sapienza, Energia, Bontà, Bellezza, Splendore, Vittoria, Fondamento, Generosità - corrispondono alle aspirazioni di Michelangelo, si connettono con i suoi ideali di vita che lui traduce in forma simbolica nelle Opere che crea [Michelangelo non nasconde la sua aspirazione a “fare come Dio”], e gli ideali rappresentati simbolicamente da Michelangelo nelle Opere che ha prodotto diventano gli ideali stessi del Rinascimento.
Michelangelo, studiando l’Heptaplus di Pico della Mirandola, interiorizza l’idea che Dio [l’Aleph supremo, l’Uno], in principio, ha creato i simboli e solamente quando la persona è in grado di interpretarli con il proprio Intelletto, secondo gli stadi rappresentati dalle dieci Sefirot, la creazione si realizza, il mistero della creazione si rivela.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quale di queste parole-chiave del glossario rinascimentale - Intelletto, Comprensione, Sapienza, Energia, Bontà, Bellezza, Splendore, Vittoria, Fondamento, Generosità - mettereste per prima ?…
Scrivetela ...
Secondo il vostro pensiero come disporreste nel catalogo delle Sefirot le dieci parole-chiave che ne fanno parte in ordine d’importanza ?... Componete il vostro catalogo personalizzato e mettetelo per iscritto...
Adesso, come abbiamo anticipato, non possiamo fare a meno di dipanare un intreccio filologico che ci fa tornare su un testo che più volte abbiamo incontrato nei nostri viaggi e che si contraddistingue per le difficoltà di lettura che presenta, difficoltà che si possono cominciare a superare con l’ausilio della didattica della lettura e della scrittura nell’ambito dell’Alfabetizzazione funzionale e culturale.
Secondo il pensiero della Cabala «Dio [l’Aleph supremo, l’Uno], in principio, ha creato i simboli» e questa affermazione dà il senso alla raccolta [formata da diciassette racconti più un epilogo] di Jorge Luis Borges intitolata sulla scia del pensiero di Pico della Mirandola L’Aleph. La difficoltà di lettura di quest’opera si stempera almeno un po’ se conosciamo questa idea: l’idea che Dio [l’Aleph supremo, l’Uno], in principio, ha creato i simboli e solamente quando la persona è in grado di interpretarli con il proprio Intelletto la creazione si realizza, il mistero della creazione si rivela. Pico della Mirandola nell’Heptaplus scrive: «Il simbolo è il più complicato dei labirinti, il metodo della Cabala indica la via per non perdersi».
Jorge Luis Borges è certamente uno degli scrittori contemporanei che ha riflettuto maggiormente [lo ha fatto in tutte le sue Opere] sulla relazione tra il concetto di “simbolo” e quello di “labirinto” e nel racconto emblematico che stiamo per leggere [il più corto della raccolta] lo scrittore vuole rendere omaggio allo studioso che, in Età rinascimentale, ha dato l’avvio a questa riflessione tutt’ora di grande attualità: Giovanni Pico della Mirandola.
L’antefatto che giustifica il brano che stiamo per leggere sta nel racconto precedente a questo dove Borges scrive che un prete cristiano durante una predica utilizza un racconto di un rabbino ebreo che narra un apologo di tradizione islamica: Borges vuole che emerga la visione universalistica di Pico della Mirandola intorno al tema delle Origini per dare un senso al metodo della Cabala e soprattutto un significato al fatto che il concetto di “simbolo” e quello di “labirinto” sono in relazione tra loro in tutti gli apparati culturali, e la riflessione intellettuale sulla relazione tra “simbolo” e “labirinto” deve servire perché la Persona acquisisca le competenze necessarie per interpretare la realtà con un fine rivolto al Bene in modo che dalla Ragione scaturiscano l’onestà e la misericordia piuttosto che l’astuzia e il cinismo. Leggiamo.
LEGERE MULTUM….
Jorge Luis Borges, L’Aleph
I due re e i due labirinti
«Il simbolo è il più complicato dei labirinti,
il metodo della Cabala indica la via per non perdersi»
Giovanni Pico della Mirandola, Hectaplus
Narrano le persone sapienti degne di fede (ma Allah sa di più) che nei tempi antichi ci fu un re delle isole di Babilonia che riunì i suoi architetti e i suoi maghi e comandò loro di costruire un labirinto tanto involuto e arduo che le persone prudenti non si avventuravano a entrarvi, e chi vi entrava si perdeva. Quella costruzione era uno scandalo, perché la confusione e la meraviglia sono operazioni proprie di Dio e non degli umani. Passando il tempo, venne alla sua corte un re degli arabi, e il re di Babilonia (per burlarsi della semplicità del suo ospite) lo fece penetrare nel labirinto, dove vagò offeso e confuso fino al crepuscolo. Allora implorò il soccorso divino e trovò la porta. Le sue labbra non proferirono alcun lamento, ma disse al re di Babilonia ch’egli in Arabia aveva un labirinto migliore e che, a Dio piacendo, gliel’avrebbe fatto conoscere un giorno.
... continua la lettura ...
Ebbene, un altro tema che gli studiosi della Cabala hanno affrontato - e che Pico della Mirandola riprende e sviluppa nel Libro settimo nell’Heptaplus - è quello che riguarda i due principali attributi divini: la clemenza e la misericordia, i due attributi che danno la gloria e l’immortalità [Borges sintetizza bene il tema scrivendo: «La gloria sia con Colui che non muore perché clemente e misericordioso»]. E sono proprio gli attributi divini della clemenza e della misericordia a spiegare l’atto ad alto rischio della Creazione. Come sarebbe a dire. che significato ha questa affermazione?
Gli autori dei racconti mitici contenuti nelle antologie del Midrash, i sapienti che hanno scritto il Libro del Talmud e gli esperti di Cabala, tra i quali va annoverato Pico della Mirandola, si sono posti una domanda piuttosto imbarazzante: perché Dio, visto e considerato che il Mondo creato è fragile, si espone al fallimento con la Creazione? Questo è un tema che abbiamo già affrontato studiando tre anni fa il pensiero della “Scolastica ebraico-talmudica”. I maestri del Bereshit rabbà - che è il trattato del Talmud che commenta il Libro della Genesi e che Pico della Mirandola traduce in latino e dal quale prende spunto per scrivere l’Heptaplus - si pongono una domanda provocatoria: «Cosa faceva Dio prima di creare questo mondo?». La risposta che si danno è paradossale, ma fino a un certo punto: «Dio [che si sentiva solo] creava mondi e li distruggeva perché era alla ricerca di un mondo che fosse buono in tutti i suoi aspetti». E non è facile creare un mondo che sia buono in tutti i suoi aspetti [«A volte rimane perplesso anche Dio» si legge nel Talmud] e Dio stesso, secondo i maestri talmudici, allude alle difficoltà della Creazione quando risponde a Giobbe [e abbiamo studiato il Libro di Giobbe a suo tempo] che si lamenta per l’imperfezione del mondo creato. Secondo i maestri talmudici, sembra che il nostro mondo sia il risultato del ventottesimo tentativo e che, contemplandolo, il Creatore, sospirando, abbia pronunciato le seguenti parole ebraiche: «Halevay sheyaamod!» che vogliono dire: «Speriamo che tenga!». Con queste parole [che alle orecchie dei membri del Sant’Uffizio suonano come blasfeme] il Talmud traduce, con umorismo [dando un senso alla perplessità], la fatica di vivere e invita a non perdersi d’animo e «a studiare per poter essere in grado di fare quel che dobbiamo fare nel miglior modo possibile».
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
In quale occasione avete dovuto dire: «Speriamo che tenga!»?…
Scrivete quattro righe in proposito [Michelangelo deve aver detto spesso questa frase]...
L’idea che l’Essere supremo si sia esposto ad un rischio con la Creazione, tentandola più volte, è grandiosa, come è grandiosa [affermano i maestri ebrei, e Pico della Mirandola aderisce a questa idea che trasmette a Michelangelo] la decisione di creare l’Essere umano con tutte le sue debolezze ma libero; e gli anonimi scrivani che hanno tentato [già in esilio a Babilonia] l’impresa, ancora più rischiosa, di raccontare la Creazione hanno scoperto con stupore che tra le righe scritte che andavano componendo si andava formando una sorta di testo parallelo [il testo cabalistico] nel quale si manifestava la potenza dei due attributi principali di Dio: la clemenza e la misericordia, che non sono sinonimi di debolezza.
Se Dio è onnisciente [pensano e scrivono i maestri ebrei e con loro Pico della Mirandola nell’Heptaplus] sapeva ancora prima di cominciare come sarebbero andate a finire le cose, sapeva da principio che le creature avrebbero usato la libertà nel peggiore dei modi [lasciandosi tentare dalla cattiva convinzione di prendere il potere, di diventare come Dio e di farlo fuori per sostituirsi a Lui, non per stare accanto a Lui] senza pensare che, per utilizzare in modo corretto la libertà, è necessaria la Legge perché «c’è libertà solo nel rispetto delle regole condivise». Quando le creature hanno capito che la Legge [la Torah, la Legge uguale per tutti] era indispensabile per abitare nel Mondo creato l’hanno chiesta e ottenuta [con Noè prima e con Mosè successivamente] facendo un patto [la berit] con il Creatore, un patto [un’alleanza] autenticato con la Scrittura perché “la scrittura” è il linguaggio simbolico per eccellenza in quanto rispecchia il fatto che Dio ha creato i simboli. Di conseguenza [come spiega il Midrash, il Talmud, la Cabala e l’Heptaplus di Pico della Mirandola], solamente quando la persona è in grado di interpretare i simboli con il proprio Intelletto la Creazione si realizza e, quindi, la debolezza non sta nel Pensiero di Dio ma è insita nei limiti intellettuali dell’Essere umano [che, pur essendo libero di fare il Bene, non usa la Ragione esclusivamente a fin di Bene come dovrebbe]. Cconoscendo questa debolezza, il Creatore, prima della giustizia [sopra la Legge stessa] esercita la clemenza e la misericordia, e questa idea divina si rende comprensibile all’Intelletto umano quando la persona s’impegna nel fare l’esegesi della Scrittura [dei Libri del Pentateuco] per intuire, attraverso la lettura dei simboli, che Dio, clemente e misericordioso, non sottopone mai alle creature un problema senza che Egli stesso non abbia già creato la sua soluzione dentro il problema stesso.
Che significato ha questa affermazione [che Dio pone alle creature problemi “con soluzione incorporata” dimostrandosi clemente e misericordioso] e come incide [con l’oggetto principale del nostro studio] sulla formazione di Michelangelo che avviene in particolare sotto la guida di Pico della Mirandola, studioso di cultura ebraica?
Pico della Mirandola nell’Heptaplus fa spesso riferimento ai testi del Midrash e del Talmud. Il Midrash è il nome [letteralmente significa “testo cerimoniale”] di una serie di volumi che contengono molteplici antologie di storie, leggende e commenti biblici che sono stati scritti da autori anonimi vissuti nell’arco di circa sei secoli, dal III secolo a.C. al III secolo d.C.. Diversamente dal Libro del Talmud l’apparato letterario del Midrash è di natura teologica più che normativa ovvero contiene idee più che precetti, ed è stato detto giustamente che il Talmud si rivolge alla mente della persona mentre il Midrash alla sua anima.
Abbiamo la certezza che Michelangelo - oltre ad aver letto l’Heptaplus per conto proprio - abbia anche studiato il Midrash e il Talmud sotto la guida di Pico della Mirandola proprio perché molti concetti contenuti in questi testi compaiono nelle sue raffigurazioni di scene bibliche. Un esempio [non siamo ancora entrati nella Cappella Sistina, e facciamo questo esempio in funzione dello studio che riguarda la formazione di Michelangelo] ci viene dal pannello del soffitto della Sistina che porta il nome di Il giardino dell’Eden. In questo pannello vediamo Adamo ed Eva davanti all’albero della conoscenza [una scena che tutte e tutti abbiamo in mente]. Nel Medioevo, nelle due traduzioni in latino della Bibbia [la Antica latina e la Vulgata di Gerolamo], il frutto dell’albero della conoscenza è indicato come una mela. Del resto la parola latina che traduce il termine “mela” è “mālum” e sembra cadere a proposito perché “mălum” significa anche “disgrazia”. Dal quarto secolo, quindi, la parola latina “malum” compare con riferimento a “l’albero della conoscenza del bene e del male” canonizzando il collegamento tra la mela e il frutto proibito. Il testo originale ebraico [il capitolo 3 del Libro della Genesi] parla genericamente di “un frutto” e, nel scendere nello specifico, gli scrivani del Midrash, i saggi commentatori del Talmud e gli esperti di Cabala tengono conto del concetto fondamentale legato alla clemenza e alla misericordia di Dio secondo cui il Creatore non sottopone mai un problema alla persona senza che Egli stesso non abbia già creato la sua soluzione dentro il problema stesso. Difatti [spiega Pico della Mirandola parafrasando gli scrivani del Midrash, i saggi del Talmud e gli esperti cabalisti] quando Adamo ed Eva mangiano il frutto proibito provano subito vergogna a causa della presa di coscienza della loro nudità e la soluzione immediata è quella di coprirsi con foglie di fico e, di conseguenza, l’albero della conoscenza è un fico perché nella sua misericordia Dio ha provveduto a rimediare alle conseguenze della disubbidienza unendo il rimedio [le foglie] allo stesso oggetto che l’aveva causato [l’albero].
Solo chi ha studiato il Midrash, il Talmud e la Cabala può essere al corrente di certi concetti e, difatti, nel pannello del peccato originale l’albero del frutto proibito raffigurato da Michelangelo è senza ombra di dubbio un fico.
Quando prossimamente esamineremo gli affreschi del soffitto della Cappella Sistina potremo afferrare una serie di particolari significativi solo avendo una conoscenza di questi filoni del sapere ebraico [il Midrash, il Talmud e la Cabala], una conoscenza che dobbiamo - così come la deve Michelangelo - a Pico della Mirandola. Purtroppo questi riferimenti vengono quasi sempre ignorati per cui ci si ferma alla semplice osservazione delle immagini [alla superficie] piuttosto che esercitarsi nell’interpretazione dei simboli [l’Alfabetofanìa] facendo lavorare l’Intelletto.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Nella scorsa tarda estate i fichi più buoni dove li avete mangiati, e con che cosa ?...
Scrivete quattro righe in proposito...
L’albero del fico ci fa ricordare che stiamo leggendo il romanzo intitolato In villa, scritto da W. Somerset Maugham nel 1941. Lo scrittore - buon conoscitore della cultura ebraica midrashica e talmudica - inserisce, in modo strategico, determinati simboli nei suoi scritti. La protagonista del romanzo In villa, l’affascinante signora Mary Panton, è come sappiamo ospite di amici inglesi, momentaneamente assenti da Firenze, che le hanno messo a disposizione una cinquecentesca villa rinascimentale per rimettersi in sesto: il marito è morto in un incidente stradale in preda all’alcol e in rovina per i debiti di gioco e lei è rimasta vedova con poche risorse a disposizione. Sappiamo che la signora è corteggiata da due uomini molto diversi: Sir Edgar che ha ventiquattro anni più di lei - è un amico di famiglia e l’ha vista crescere - ed è ancora un bell’uomo, elegante, sportivo, rassicurante, che sta per diventare governatore del Bengala in India, il quale le ha appena fatto una proposta di matrimonio che lei, benché non sia innamorata, è propensa ad accettare. Il secondo uomo, Rowley, invece è un trentenne non particolarmente di bell’aspetto ed elegante ma dotato di un fascino particolare che gli assicura un grande successo con le donne con le quali ama divertirsi, la sua famiglia è ricca [lui è la pecora nera] per cui ha un buon patrimonio a disposizione e vive di rendita.
Mentre Sir Edgar è partito per Cannes per ricevere il prestigioso incarico a cui aspira, Mary - che deve dargli una risposta quando tornerà fra tre giorni - partecipa ad una cena su invito dell’impertinente e pettegola principessa San Ferdinando in una pittoresca trattoria lungo l’Arno dove si esibisce un’orchestrina con un pessimo giovane violinista al quale Mary, quando lui passa col piattino, fa un’offerta molto generosa. Alla cena è presente anche Rowley esclusivamente per corteggiare Mary che respinge con decisione le sue avance anche se, alla fine della cena, [siccome l’auto della principessa è al completo] è costretta a riaccompagnarlo in albergo con la sua macchina. Tra Mary e Rowley, durante il tragitto, si sviluppa un’appassionata conversazione: lui le consiglia di non sposare Edgar perché con un’unione senza amore rischia l’infelicità ma lei dichiara di essere stufa dell’amore e racconta con grande emozione la sua drammatica esperienza con un marito, alcolizzato e giocatore, del quale era molto innamorata ma che lei non è riuscita a salvare con l’amore e, quindi, ora preferisce il pragmatismo anche se potrebbe, se si presentasse un’occasione particolare, donare generosamente e con sentimento qualcosa di sé, della sua bellezza [della quale è consapevole], a qualcuno che avesse davvero bisogno di affetto. Rowley ironizza sul suo presunto spirito filantropico ma è sempre più attratto e anche intenerito dal fatto che Mary si sia confidata apertamente e, con tono scherzoso e un po’ sarcastico, le fa anche lui una proposta di matrimonio che lei però considera una burla ma lui, anche se non lo dà a vedere, rimane assai deluso dal deciso rifiuto di Mary. Poi Mary, che ha anche pianto, chiede a Rowley di prenderle il fazzoletto nella borsetta e lui scopre la pistola che le ha procurato Edgar per sicurezza, e Mary si giustifica dicendo che non vorrebbe portare con sé quest’arma, e allora Rowley critica il carattere autoritario di Edgar che glielo impone, ma lei lo difende con fermezza e pensa di non avere più dubbi: lo sposerà anche per far rabbia a Rowley.
Mary, quando giungono davanti all’albergo dove lui alloggia [lo stesso di Edgar], lo sollecita a scendere dall’auto e i due si salutano con freddezza e lei si dirige verso casa. A metà strada, sulla stretta via di campagna che porta alla villa, c’è una piccola terrazza semicircolare da cui si vede la bellezza di Firenze, al bordo della terrazza c’è un cipresso e c’è un fico e, quindi, metaforicamente siamo nel giardino dell’Eden dove il fico è l’albero della conoscenza del bene e del male. Mary è “tentata” [scrive l’autore con ironia], e si ferma per affacciarsi e lì c’è, in contemplazione, anche il giovane mediocre violinista che abita in una casa di contadini non lontano dalla villa. Lui si avvicina, si riconoscono, lui la ringrazia calorosamente per la sua generosa offerta nonostante lui non sappia suonare il violino ma si giustifica dicendo che non ha trovato nulla di meglio da fare e l’offerta ricevuta gli permette di pagare l’affitto arretrato ai poveri contadini che lo ospitano. E Mary sente - come aveva detto a Rowley poco prima - di dover offrire qualcosa della sua bellezza a questo giovane povero, dal tratto garbato, piuttosto timido e lo invita a visitare la villa, lui è sorpreso e accetta con entusiasmo.
Mary gli mostra gli affreschi della sala, che lui ammira con competenza perché è studente d’Arte, poi gli prepara la cena perché è a digiuno e gli domanda chi sia e lui racconta la sua storia: si chiama Karl, ha ventitré anni, è austriaco, si è ribellato ai nazisti, è stato imprigionato ed è riuscito a fuggire in Italia dove cerca di sopravvivere clandestinamente. Poi, siccome sul grammofono c’è un disco di Strauss, ballano un valzer viennese prima di uscire per mano a visitare il giardino. Mary è piena di tenerezza per questo giovane che cita il celebre verso di Goethe in cui Faust, finalmente appagato, prega che l’attimo fuggente non si dilegui e così rientrano per amarsi.
Prima dell’alba Mary prega il giovane di rivestirsi perché è l’ora che lui se ne vada: devono dirsi addio. Karl è sconcertato e l’accusa di averlo illuso in modo crudele e di essersi approfittata di lui. Lei dichiara di essersi comportata in modo compassionevole e di non essere libera e lui diventa aggressivo, lei prende la pistola e lo minaccia ma, quando lui le chiede di sparare tanto non ha nulla da perdere, lei scoppia a piangere e posa l’arma, lui si calma e l’abbraccia dicendole che lei non lo dimenticherà mai, Mary si siede, lui si allontana prende la pistola e si uccide. Lei è sconvolta, cerca di mantenere la calma, riesce a far allontanare la cameriera che, avendo sentito il colpo, ha bussato alla porta della sua camera e, infine, decide che l’unica cosa da fare è chiedere aiuto a Rowley. Lo chiama al telefono in albergo, lui risponde assonnato e sorpreso, ma quando capisce che è successo qualcosa di grave le dice di non preoccuparsi: andrà da lei.
E ora continuiamo a leggere questo romanzo - che ha assunto i connotati della tragedia - e, in primo piano, c’è sempre il tema della complessa [e pericolosa] relazione tra “la dignità” [il cipresso?] e “l’opportunità” [il fico? E non c’è dubbio che a Maugham piace disseminare di simboli i suoi racconti!].
LEGERE MULTUM….
W. Somerset Maugham, In villa
Mary cercò di calcolare quando Rowley sarebbe arrivato. Dall’albergo alla villa c’erano circa cinque chilometri, per buona parte in salita. A quell’ora era difficile che trovasse un taxi; a piedi ci avrebbe messo quasi un’ora, e tra un’ora era l’alba. Non poteva aspettarlo in quella camera; era orribile. Gettò la vestaglia che indossava e si infilò rapidamente un vestito. Spense la luce, aprì la porta e cautamente uscì. Giunse al cancello. Si fermò. La luna, ora, la terrorizzava. Pensò con un senso di nausea al tempo interminabile che avrebbe dovuto aspettare. Ma a un tratto udì dei passi; si rannicchiò nel buio, sgomenta. Qualcuno veniva su per la ripida rampa di gradini che dal piede della collina portava alla villa. … Con suo indicibile sollievo vide che era Rowley. «Grazie a Dio sei arrivato. Come hai fatto, così presto?».
«Il portiere di notte dormiva, e ho preso in prestito la sua bici. L’ho nascosta giù in basso. Ho pensato che avrei fatto prima a salire per di qua. Ma che succede?» disse lui scrutandola. «Hai una faccia da far paura». Mary scosse la testa, non poteva dirglielo. Lo prese per un braccio e arrivarono in fretta alla casa.
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Lasciamola dormire. La rincontreremo la prossima settimana, e bisogna dire che è difficile giudicare il suo comportamento: Mary è colpevole? È innocente? Questa esperienza ambigua come va ad incidere sulle sue scelte future? Può ancora essere convinta di avere una dignità e di non aver agito solo per opportunità?
Michelangelo attraverso i suoi maestri, in particolare Pico della Mirandola, acquisisce una serie di idee provenienti dalla cultura ebraica del Midrash, del Talmud e della Cabala che è convinto di poter utilizzare per dare dignità al suo lavoro di artista e per sfruttare le opportunità che gli si presentano.
E quali sono le prime opportunità che si presentano a Michelangelo per mettersi in evidenza come artista, come scultore? E che cosa impara nella Scuola di scultura del Giardino di San Marco istituita da Lorenzo de’ Medici e gestita da Bertoldo di Giovanni? Paradossalmente dell’apprendistato tecnico e artistico di Michelangelo legato a Bertoldo non si sa molto e di quel periodo si conosce soprattutto l’episodio in cui Michelangelo ci rimette il naso. Che cosa è successo al naso di Michelangelo?
Per rispondere a queste domande bisogna procedere sul nostro cammino con lo spirito utopico che lo “studio” porta con sé, consapevoli che non bisogna mai perdere la volontà d’imparare, e Michelangelo perde il naso ma la volontà d’imparare non la perderà mai! Michelangelo non ha naso ma ha un gran fiuto.
Ebbene, la Scuola è qui, il viaggio continua, e voi abbiate naso: fiutate l’opportunità per dare dignità alla vostra volontà di imparare …ammirate la verticalità del cipresso e gustate la dolcezza del fico…