ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34 - «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»
PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE
DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA
Prof. Giuseppe Nibbi
La sapienza poetica e filosofica agli albori dell’età moderna 25 - 26 - 27 gennaio 2017
SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA RINASCIMENTALE ALL’ALBA DELL’ETÀ MODERNA
SI RAFFORZA L’IDEA CHE SENZA STUDIO NON SI PUÒ CREARE ARTE …
Questo è il dodicesimo itinerario del nostro viaggio di studio sul “territorio della sapienza poetica e filosofica rinascimentale agli albori dell’età moderna” e siamo sempre in attesa di poter entrare dentro la Cappella Sistina per osservare le immagini affrescate da Michelangelo sul soffitto di questo famoso edificio e, come ben sappiamo, l’attesa è dovuta al fatto che stiamo studiando l’itinerario [le forme e i contenuti] della formazione intellettuale di Michelangelo in modo da acquisire i necessari elementi utili per capire il significato dei suoi affreschi e delle sue opere principali. Inoltre, seguendo il percorso formativo di Michelangelo, abbiamo iniziato a studiare nelle sue linee generali la Storia del Pensiero rinascimentale che ha le sue radici nelle Opere di Marsilio Ficino e, soprattutto, di Pico della Mirandola che è considerato il precursore del cosiddetto “libero pensiero”, un atteggiamento intellettuale che ha caratterizzato lo sviluppo della cultura in Età moderna e che rimanda alla parola-chiave “autonomia” [una parola che dobbiamo tenere d’occhio].
Come ben sappiamo, Michelangelo attraverso i suoi maestri, in particolare Pico della Mirandola, acquisisce una competenza nei confronti della cultura ebraica del Midrash, del Talmud e della Cabala: tre filoni letterari che, soprattutto a Firenze come sappiamo, interessano particolarmente gli intellettuali del Rinascimento. Di questi tre apparti [Midrash, Talmud e Cabala] abbiamo studiato le caratteristiche principali e Michelangelo è convinto di poter utilizzare le idee in essi contenute per dare dignità al suo lavoro di artista e ritiene che una riflessione sui concetti che emergono dalle antologie del Midrash, dal libro del Talmud e dal metodo esegetico della Cabala sia utile per creare una mentalità che possa portare a una necessaria riforma strutturale e culturale della Chiesa [secondo la proposta dei suoi maestri, primo fra tutti Pico della Mirandola].
Ma Michelangelo deve anche dissimulare, deve tenere nascosto il suo interesse per la cultura ebraica per non incorrere nella censura dell’istituzione ecclesiastica che controlla l’ortodossia, e per questo sfrutta abilmente, con la dovuta circospezione, le opportunità che gli si presentano cercando di non perdere la propria autonomia di pensiero lasciando un segno nelle Opere che produce [e sappiamo che la parola “autonomia” va tenuta d’occhio].
Dai racconti mitici contenuti nei libri del Midrash Michelangelo ha imparato che Dio non sottopone mai alle creature un problema senza che Egli stesso non abbia già creato la sua soluzione dentro il problema stesso ed è per questo motivo che Dio è clemente e misericordioso e che la Persona, a questo proposito, deve saper utilizzare bene il proprio Intelletto.
Dal Talmud, che è un ampio compendio di commenti ai testi biblici spesso contrastanti tra loro [ci sono due versioni del Talmud, quella di Babilonia e quella di Gerusalemme], Michelangelo impara quella che viene chiamata “la logica talmudica” cioè un’impostazione che ci permette di vedere l’Universo e di organizzare un pensiero con una modalità multiforme, un pensiero nel quale il tratto predominante è quello di non cessare mai di farsi delle domande, un pensiero che non contrappone la fede alla ragione e che concede grande valore alla logica e che ammette la legittimità e l’utilità del conflitto di opinioni; un pensiero, quindi, che conferisce grande importanza alla capacità di fondere insieme elementi in apparenza opposti [e questa è una visione antitetica rispetto al modo lineare, non critico e non analitico con cui vede il mondo il Sant’Uffizio] e “la logica talmudica” prevede che la Persona sappia ben utilizzare il proprio Intelletto per interpretare autonomamente il disegna divino [una logica invisa e condannata dal Sant’Uffizio, l’istituzione che fornisce la vera interpretazione alla quale l’intelletto del credente si deve adeguare].
Michelangelo poi è affascinato [come lo è papa Giulio II e tutti gli artisti del Rinascimento] dal pensiero della Cabala secondo cui in ogni oggetto si nascondono “emanazioni [le comunicazioni] divine [qualità particolarmente significative]” per cui le cose, che contengono tutte una forte valenza simbolica, hanno significati ben più complessi di quanto possa apparire in superficie e questa è, senza dubbio, un’idea stimolante per ogni Persona e per ogni artista, e in particolare per Michelangelo che è convinto di avere, soprattutto come scultore [ma poi anche come pittore per volontà papale], le stesse qualità che corrispondono alle emanazioni divine, alle “dieci Sefìrot” che rappresentano, secondo il pensiero della Cabala, gli stadi intermedi [le qualità particolarmente significative] che rendono possibile la creazione del mondo finito, e che sono come i passi necessari all’artista per dare vita alle sue idee. Le “dieci Sefìrot” [le comunicazioni divine al corpo della persona] sono: l’Intelletto [e non è casuale il fatto che l’Intelletto sia in primo piano], la Comprensione, la Sapienza, l’Energia, la Bontà, la Bellezza, lo Splendore, la Vittoria, il Fondamento, la Generosità, e corrispondono alle aspirazioni di Michelangelo e sono conformi ai suoi ideali di vita, che Michelangelo ha maturato nel percorso della sua formazione e che riporta nelle Opere che produce e che diventano gli ideali stessi del Rinascimento. Michelangelo, studiando il pensiero della Cabala sotto la guida di Pico della Mirandola, interiorizza l’idea che Dio [l’Aleph supremo, l’Uno], in principio, ha creato i simboli e solamente quando la persona è in grado di interpretarli con il proprio Intelletto, secondo gli stadi rappresentati dalle dieci Sefirot, la creazione si realizza, il mistero della creazione si rivela.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Scrivete accanto ad ognuna delle dieci Sefirot - l’Intelletto, la Comprensione, la Sapienza, l’Energia, la Bontà, la Bellezza, lo Splendore, la Vittoria, il Fondamento, la Generosità - il nome di un oggetto che sia, secondo voi, rappresentativo di ciascuna di queste qualità ... e così potete comporre un glossario che dia, in modo personalizzato, concretezza alle dieci Sefirot pensando che Michelangelo questo esercizio lo ha fatto scolpendo e dipingendo, ma lo potete fare anche voi scrivendo dieci parole...
E quali sono le prime opportunità che si presentano a Michelangelo per mettersi in evidenza come artista, soprattutto come scultore? E che cosa impara nella Scuola di scultura nel Giardino di San Marco diretta dal maestro Bertoldo di Giovanni, allievo del grande Donatello che è morto da più di vent’anni?
Paradossalmente dell’apprendistato tecnico e artistico di Michelangelo legato al maestro Bertoldo di Giovanni - che lavora alle dipendenze di Lorenzo il Magnifico - non si sa molto e di quel periodo si conosce soprattutto l’episodio in cui Michelangelo ci rimette il naso. Che cosa è successo al naso di Michelangelo? A Michelangelo succede un incidente le cui conseguenze lo hanno condizionato psicologicamente per tutto il resto della vita.
Michelangelo, quando nel 1489 inizia a frequentare la Scuola del Giardino di San Marco diretta dal maestro Bertoldo di Giovanni, incontra un altro giovane come lui intenzionato a diventare scultore, Pietro Torrigiano, appartenente a una nobile famiglia: Pietro è un ragazzo benestante, è bello e possiede tutte le qualità di cui Michelangelo è privo tranne il talento perché Michelangelo ha un ingegno superiore a tutti gli allievi di Bertoldo. Tanto Michelangelo quanto Pietro sono dotati di un temperamento impulsivo e hanno entrambi una gran voglia di emergere e, quindi, litigano spesso e Bertoldo deve reprimere con energia la loro irruenza. La lite fatale avviene quando i due studenti sono nella cappella di Santa Maria del Carmine a disegnare bozzetti di opere d’arte: Michelangelo [molto più bravo] comincia a ironizzare sulla fattura dei disegni che sta eseguendo il suo compagno, e Pietro Torrigiano s’infuria, trascina fuori Michelangelo e lo colpisce al viso così violentemente da rompergli l’osso e la cartilagine del setto nasale. Da quel giorno Michelangelo, come possiamo constatare nelle molte opere che lo ritraggono, si ritrova ad avere un viso da pugile a riposo con il naso schiacciato [camuso]. Lorenzo il Magnifico viene subito informato della rissa ed è così dispiaciuto del danno arrecato al volto del suo giovane prediletto che espelle Torrigiano dalla città.
Michelangelo, che non era particolarmente attraente già prima, si convince da quel momento di essere terribilmente brutto e cerca di compensare questa frustrazione legata all’aspetto fisico impegnandosi completamente nel lavoro e dedicandosi esclusivamente alla propria carriera di artista, evitando ogni possibile altra distrazione, e questo atteggiamento accentua ancor più il suo perfezionismo che nasconde in realtà un profondo senso di inadeguatezza. Il carattere burbero, inquieto, solitario di Michelangelo ha sempre nascosto, come fosse una maschera, la sua vera natura, quella di una persona sognatrice, malinconica, sensibile e bisognosa di affetto.
Si è pensato in proposito - e noi di questo pensiero ce ne serviamo per dipanare un intreccio filologico sul quale inevitabilmente, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, puntiamo l’attenzione - che Michelangelo coltivi in senso contrario quello che è stato chiamato “il complesso di Cyrano de Bergerac” [complesso che non ha Lorenzo il Magnifico il quale è orgoglioso del suo bel nasone, del suo bel pennacchio]. Chi non conosce il singolare capolavoro drammatico intitolato Cyrano de Bergerac che continua ad essere sempre presente sulle scene teatrali e dal quale sono state tratte innumerevoli versioni e citazioni cinematografiche? Quest’opera [una delle più popolari di tutti i tempi] è incentrata sulla singolare figura, realmente esistita, di un poeta-soldato del Seicento, Savinien de Cyrano,] ed è stata composta da uno scrittore marsigliese che non ha ancora trent’anni [è nato nel 1868]: Edmond Rostand. Questa “commedia eroica in versi in cinque atti”, portata in scena dalla compagnia del celebre attore Benoit Constant Coquelin, ottiene subito un grande successo dalla prima rappresentazione [la sera del 28 dicembre 1897 al Théâtre de la Porte-Saint-Martin di Parigi]. Il successo è dovuto soprattutto al carattere del personaggio di Cyrano: spadaccino terribile e tenerissimo amante dotato di una straordinaria vena poetica, pronto a compiere grandi imprese e altrettanto grandi gesti di generosità che suscitano un senso di intensa commozione a causa dell’appassionato e infelice amore che nutre per la cugina Rossana innamorata di Cristiano, bello, buono, ma assolutamente privo di spirito sentimentale e incapace di proferire anche il più semplice discorso amoroso senza l’aiuto di Cyrano che diventa suggeritore. Cyrano [e tutte e tutti voi conoscete la trama di questa “commedia in versi”] è un romantico personaggio che possiede tre caratteristiche: un naso grottesco, un’eccezionale predisposizione per la poesia e un cuore puro. Michelangelo assomiglia a questo personaggio - anche se per quanto riguarda il naso la situazione è al contrario, ma il significato non cambia - perché si sente brutto ma sa di essere dotato di un talento fuori dal comune che lo mette in condizione di compiere grandi imprese artistiche e anche di essere generoso.
Ma noi, adesso, mettiamo in relazione il personaggio di Cirano con Michelangelo per una ragione di carattere filologico dal risvolto politico e sociale che lega lo scrittore Edmond Rostand al poeta Michelangelo Buonarroti e sulla quale bisogna riflettere.
Come sapete, Michelangelo è anche un poeta - uno dei più accreditati poeti del Cinquecento - e quotidianamente non può fare a meno di comporre qualche verso per raccontare fatti, per descrivere la natura, per esprimere i suoi sentimenti e il suo disappunto e per argomentare su temi sociali, politici e teologici, e la raccolta delle sue Rime costituisce un documento importante nel quale l’artista denuncia i compromessi [non gli accordi ma i sordidi espedienti] e i pregiudizi del suo tempo e ribadisce la sua volontà di non cedere alla menzogna, alla viltà e alla stoltezza: difetti che caratterizzano il modo di governare dei potenti di questo periodo storico, l’Età rinascimentale. Anche Edmond Rostand mediante il personaggio di Cyrano - utilizzando gli stessi termini di una composizione di Michelangelo che s’intitola Dio allumina de la sua luce peculiare - vuole denunciare l’ipocrisia che domina il linguaggio dei governanti europei alla fine del XIX secolo, i quali non fanno altro che parlare [nell’attesa del taumaturgico XX secolo] di “progresso” che avrebbe portato la pace e il benessere universale mentre in realtà, denuncia Rostand per bocca di Cyrano, il mondo continua a essere dominato dai più squallidi compromessi, dai peggiori pregiudizi, dalla menzogna, dalla viltà, dalla stoltezza [difatti stiamo celebrando La giornata della memoria per “esaltare i risultati dei progressi” del XX secolo].
La “commedia eroica in versi in cinque atti” intitolata Cyrano de Bergerac [come sappiamo] termina con la morte del protagonista che [e, forse, a questo fatto non abbiamo fatto caso] denuncia nella scena finale i suoi veri nemici [i nemici della convivenza umana] di fronte ai quali non cederà mai e con i quali non verrà mai a patti: i Compromessi [i sordidi espedienti], i Pregiudizi, la Menzogna, la Viltà, la Stoltezza.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Richiedete in biblioteca il Cirano di Bergerac di Edmond Rostand e leggete il testo dell’Atto quinto [una ventina di pagine] che s’intitola La gazzetta di Cirano, e poi utilizzando la rete potete accedere alle versioni teatrali e cinematografiche della commedia...
Che rapporto avete con il vostro naso? ...
Scrivete quattro righe in proposito...
E adesso leggiamo insieme l’ultima pagina [l’ultima scena] della “commedia” per puntualizzare quello che abbiamo detto in modo da giustificare la riflessione filologica che abbiamo fatto.
LEGERE MULTUM….
Edmond Rostand, Cyrano de Bergerac ATTO QUINTO Scena V, finale
CIRANO [è Cirano che parla a Rossana, vestita a lutto, e ai suoi amici...]
Astronomo, filosofo eccellente, musico, rimatore, del cielo viaggiatore,
gran maestro di tic-tac, amante - non per sé - molto eloquente.
Qui riposa Cirano Ercole Saviniano, Signor di Bergerac,
che in vita sua fu tutto e non fu niente!
Io me ne vado … Scusate: non può essa [la Morte] aspettarmi.
Il raggio della luna, ecco, viene a chiamarmi.
(Guarda Rossana che piange, e carezzandole i veli) Io non voglio che tu pianga meno
il tuo seducente, il buono, il bel Cristiano. Io voglio solamente che,
quando le mie vertebre avrà domato il grande gelo, tu dia un duplice senso
al tuo velo nero, e che il suo lutto sia anche un poco il mio.
(Rossana giura, lui si rialza subito e vogliono sorreggerlo)
Nessun mi regga! … (addossandosi all’albero)
L’albero basterà. Ella [la Morte] viene. I miei piedi già son di marmo. Già ho di piombo le mani.
Ma siccome è [la Morte] per la strada, voglio aspettarla in piedi (impugnando la spada)
e con in man la spada! (tutti indietreggiano spaventati). Ella [la Morte] guarda …
Mi pare …che la Camusa [senza naso] ardisca il mio naso guardare! (levando la spada)
So che la resistenza è vana …adesso, ma non si pugna nella speranza del successo!
No, è più bello battersi quando è invano.
- Qual fosco drappello è lì? - Sono mille … Ah, sì, vi riconosco, vecchi nemici miei, siete tutti qui! …
La Menzogna? (tirando colpi nel vuoto) Ecco, prendi! …
Ecco la Viltà ed ecco i Compromessi, i Pregiudizi! (tirando puntate)
Che io venga a patti? Mai! - Ed eccoti anche te, Stoltezza! - …
Io so che alfine sarò da voi disfatto; ma non cedo, e io mi batto e io mi batto e io mi batto.
(fa gran molinelli con la spada. Poi si ferma in affanno) Voi mi strappate tutto: l’alloro e la rosa!
Strappate pure! Malgrado vostro, c’è qualche cosa ch’io mi porto
(e stasera, quando in cielo entrerò, fiero l’azzurra soglia salutarne io potrò);
(si slancia con la spada levata poi la spada gli cade di mano, barcolla e cade nelle braccia degli amici e
Rossana piegandosi sopra di lui gli bacia la fronte, lui riapre gli occhi, la riconosce e sorride guardandosi il naso)
ch’io con me porto, senza piega né macchia, a Dio, vostro malgrado …
Il pennacchio mio! …
E ora leggiamo i quattro versi di Michelangelo tratti dalla composizione Dio allumina de la sua luce peculiare per dipanare l’intreccio filologico su cui abbiamo puntato l’attenzione, dove Michelangelo mette in guardia dai veri nemici, gli stessi che, da un’epoca all’altra, bisogna contrastare.
LEGERE MULTUM….
Michelangelo Buonarroti, Rime
Dio allumina de la sua luce peculiare
li cuori tristi e troppo fatti bui
di chi truovasi disfatto da Menzogna
e da Viltà e da Stoltezza altrui. …
Michelangelo comincia a produrre le sue Opere perché in esse si manifesta, sebbene in modo dissimulato, “l’autonomia di pensiero” [e la parola “autonomia” è da tener d’occhio] che i suoi maestri hanno saputo trasmettergli. Il concetto di “autonomia di pensiero”, agli albori dell’Età moderna secondo la riflessione di Marsilio Ficino e di Pico della Mirandola, consiste nell’elaborare “un compromesso virtuoso” tra le diverse culture umane per costruire “senza pregiudizi” una dottrina universale fondata sui principi che tutti i grandi apparati intellettuali [da Oriente ad Occidente] hanno [dalle origini della Storia del Pensiero] posto alla base dell’Umanesimo: l’uguaglianza, la giustizia, la pace, la solidarietà, la misericordia. Il rifiuto e l’incapacità, da parte dei responsabili ai vertici di ogni singolo potere, di giungere a un compromesso virtuoso che determini il superamento dei reciproci pregiudizi porta inevitabilmente [sostengono e insegnano Marsilio e Pico] al proliferare della menzogna, della viltà e della stoltezza, e Michelangelo fa sua questa Lezione. Come abbiamo potuto constatare strada facendo, sono molte le informazioni che possediamo sul tema della crescita intellettuale di Michelangelo nel periodo in cui Marsilio Ficino e soprattutto Pico della Mirandola si occupano della sua formazione mentre invece poco si sa [come abbiamo detto, e questo è un po’ un paradosso] dell’apprendistato tecnico e artistico legato a Bertoldo di Giovanni e, come scrivono tutti i biografi di Michelangelo, ancora non sappiamo come lui abbia imparato a scolpire il marmo [e questo elemento misterioso contribuisce a far crescere l’alone mitico che è andato formandosi attorno alla sua persona].
I primi esempi che possediamo dell’arte di Michelangelo sono una Madonna che tiene in braccio un Gesù bambino molto muscoloso e una battaglia dei centauri, entrambi realizzati quando l’artista ha dai quindici ai diciassette anni, e queste due opere dimostrano come il giovane scultore, fin dall’inizio della sua lunga carriera, ha dovuto cercare un compromesso tra un mercato dell’arte monopolizzato dal cristianesimo e lo stile che, grazie alla sua formazione intellettuale [non c’è Arte senza Studio], ha maturato sotto il profilo formale e contenutistico.
Ci occupiamo ora di queste due “opere prime” di Michelangelo [la Madonna della scala e la Battaglia dei centauri] senza avere di fronte le loro immagini che però voi trovate con grande facilità [in biblioteca, sulla rete, nei fascicoli conservati nella vostra libreria domestica] e sulle quali potete esercitarvi ad osservare le idee, i simboli, le metafore che le figure scolpite esprimono, e noi dobbiamo - in funzione della didattica della lettura e della scrittura secondo la natura del nostro Percorso - dare, in primo luogo, rilevanza all’aspetto filologico in modo che la parola possa svolgere la sua funzione di produrre delle rappresentazioni [delle icone] nella nostra mente che poi, seguendo la trafila del testo, metteremo a confronto con le immagini che l’artista ha voluto rappresentare.
La prima opera di rilievo attribuita a Michelangelo è chiamata Madonna della Scala, ed è un’opera liberamente, ma chiaramente, ispirata a un capolavoro di Donatello che Michelangelo ha avuto modo di studiare a Firenze sotto la guida di Bertoldo. Già in questo primo lavoro datato 1490, ci sono una serie di elementi significativi che noi, avendo studiato l’itinerario della formazione di Michelangelo, siamo in grado di interpretare. Maria è raffigurata nell’atto di cullare e allattare Gesù vicino a una scala di cinque gradini su cui giocano dei bambini che possiamo considerare angeli. La Madonna è in primo piano ed è raffigurata di profilo e fissa negli occhi uno degli angeli appoggiato al parapetto che sta in secondo piano. Sullo sfondo, in cima alla scala, ci sono altre due figure infantili che appaiono quasi sfocate e sembrano abbracciarsi o azzuffarsi, mentre un’altra figura, nascosta quasi completamente dalla Madonna, tende un lembo di stoffa. Un aspetto sorprendente di quest’opera è che il giovane Michelangelo sembra anticipare la profondità di campo della moderna fotografia, nel senso che le figure in primo piano sono messe a fuoco mentre quelle sullo sfondo appaiono completamente sfocate.
Se i domenicani inquisitori del convento confinante con il Giardino di San Marco avessero chiesto [svolgendo la loro opera di controllo sul rispetto dell’ortodossia] a Michelangelo perché ha raffigurato una scala con cinque gradini [quando in questo spazio, forse, ci sarebbe stata più armonia con quattro] lui prontamente avrebbe risposto che il numero dei gradini era legato alle cinque lettere del nome di Maria e al fatto che i teologi medievali erano soliti riferirsi alla Vergine-Madre con il termine “la Scala” in quanto “collegamento tra il cielo e la terra”. Naturalmente Michelangelo, come sappiamo, ha ben altro in mente e vuole evidenziare, dissimulando, il pensiero dei suoi maestri perché “una scala di cinque gradini” [e questo tema lo abbiamo studiato] corrisponde al modello di Universo disegnato da Marsilio Ficino e Pico della Mirandola. Su questa “universale scala di valori”, secondo Marsilio e Pico, ci sono: [sul primo gradino] i Corpi delle persone, [sul secondo] le qualità dei Corpi, [sul terzo in posizione mediana] l’Anima con le caratteristiche che abbiamo studiato a suo tempo, [sul quarto] le Intelligenze metafisiche [gli angeli ovvero le persone che studiano] e [sul quinto gradino] Dio.
L’immagine della “scala universale” [secondo Marsilio e Pico, come ben sappiamo] è la metafora di “un piano di studi” perché la forma dell’Universo equivale “alla conoscenza che si ha dell’Universo stesso”, quindi, secondo Marsilio Ficino e Pico della Mirandola, se la persona vuole conoscere l’Universo deve seguire “un itinerario di apprendimento” che prevede lo studio del testo della Fisica di Aristotele [il primo gradino], del testo della Metafisica di Aristotele [il secondo gradino], del testo dei Dialoghi di Platone [il terzo gradino] in modo che l’Anima della “persona che studia” possa salire [al quarto gradino, quello dell’Intelligenza metafisica] per disporre della capacità di avvicinarsi a Dio [al quinto gradino], perché più la persona si avvicina a Dio, affermano Marsilio e Pico, più è in grado di conoscere l’Universo di cui Dio è il creatore. La figura allegorica della “scala universale” disegnata da Marsilio e Pico corrisponde ad una “apologia dello studio” e questo concetto entra nella mente di Michelangelo e lo raffigura con l’intero corpo della Madonna della Scala mettendo ben in evidenza [e andate a constatarlo] che il terzo gradino [quello dell’Anima e dei Dialoghi di Platone] si trova all’altezza dell’Utero [del Ventre] della Madonna, sul quarto gradino è ben appoggiato il piede dell’angelo [dell’Intelligenza metafisica, della persona che studia] che guarda negli occhi la Madonna, mentre all’altezza del quinto gradino [quello di Dio] c’è la testa di Gesù.
Il quindicenne Michelangelo sa di avere talento ed è consapevole del fatto - per l’educazione che sta ricevendo dai suoi maestri - che una persona può avere delle doti innate ma “senza Studio non può creare Arte” e questa è una delle più importanti affermazioni della filosofia rinascimentale che noi leggiamo raffigurata nell’opera intitolata la Madonna della Scala.
Ma non abbiamo ancora detto tutto perché, come sappiamo, grazie alle Lezioni tenute da Pico della Mirandola [grazie al testo dell’Heptaplus], Michelangelo conosce il significato simbolico del numero cinque secondo il metodo della Cabala che influenza il pensiero neoplatonico agli albori dell’Età moderna. E tanto Marsilio Ficino quanto Pico della Mirandola parlano spesso dei “cinque stadi dell’Anima umana”, ovvero: quello dell’energia vitale del corpo [nefesh], quello dell’anima emotiva [mach], quello dell’anima intellettuale [neshamà], quello dell’anima spirituale che tende a Dio [chayà] e quello dell’anima trascendente che è in armonia con il Divino e con l’Universo nel suo insieme [yechidà].
Michelangelo manifesta l’idea [ed è un probabile un suggerimento dei suoi maestri] che la Madonna della Scala, la quale sta allattando, preveda che il destino di suo Figlio sia quello di trascendere tutti e cinque gli stadi dell’Anima umana per affermare che il Salvatore [il Logos, la Parola, il Pensiero di Dio] si propone di realizzare l’ideale neoplatonico dell’armonia universale. E Michelangelo [con scalpello e mazzuolo] ci mette il suo talento per concretizzare questa idea fondendo insieme l’arte cristiana con il metodo esegetico della Cabala e con l’eleganza formale dell’arte classica e, quindi, questo geniale artista adolescente, già nella sua prima opera ufficiale, utilizza tecniche scultoree all’avanguardia per veicolare contenuti complessi, ambigui e dal respiro ecumenico secondo il pensiero della filosofia rinascimentale di Marsilio Ficino e Pico della Mirandola.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Potete osservare un’immagine della Madonna della Scala in un fascicolo che trovate in biblioteca o navigando in rete, oppure facendo una visita a “Casa Buonarroti” per studiare [e ammirare] l’opera dal vero... Portare il significato dalle parole sulla superficie dell’immagine per darle forma è un utile esercizio che promuove l’attività delle azioni dell’apprendimento favorendo la buona pratica dell’ investimento in intelligenza...
I termini “compromesso [nel senso di “sordido espediente”], pregiudizio, menzogna, viltà, stoltezza” riecheggiano nella nostra mente se pensiamo al romanzo di Somerset Maugham che s’intitola In villa, e pensiamo a queste parole sulla scia degli ultimi avvenimenti raccontati nelle pagine che abbiamo letto la scorsa settimana. Conosciamo già le linee portanti della trama di questo romanzo ma, tuttavia, dobbiamo con pazienza rinfrescarci la memoria per proseguire nella lettura.
La protagonista del romanzo In villa, l’affascinante signora Mary Panton, è come sappiamo ospite di amici inglesi, momentaneamente assenti da Firenze, che le hanno messo a disposizione una cinquecentesca villa rinascimentale per rimettersi in sesto dopo la morte del marito in un tragico incidente stradale mentre era in preda all’alcol e in rovina per i debiti di gioco e quindi lei è rimasta vedova con poche risorse a disposizione. Mary, come sappiamo, ha appena ricevuto una proposta di matrimonio da Edgar, un signore che ha ventiquattro anni più di lei ma è ancora un bell’uomo, elegante, sportivo, rassicurante, in carriera perché sta per diventare governatore del Bengala in India: Edgar è un buon amico di famiglia che ha visto crescere Mary e lei, benché non sia innamorata [potrebbe essere un padre piuttosto che un marito], è propensa ad accettare l’offerta. Il secondo uomo che la corteggia, completamente diverso da Sir Edgar, è Rowley, un trentenne non particolarmente di bell’aspetto ed elegante ma dotato di un fascino particolare che gli assicura un grande successo con le donne con le quali ama divertirsi, la sua famiglia [della quale lui si vanta di essere la pecora nera] è facoltosa per cui non gli manca il denaro per vivere di rendita. Mentre Sir Edgar è temporaneamente assente per ricevere il prestigioso incarico di governatore, Mary partecipa ad una cena su invito dell’impertinente principessa San Ferdinando in una pittoresca trattoria lungo l’Arno dove si esibisce un’orchestrina con un pessimo giovane violinista al quale Mary, quando lui passa col piattino, fa un’offerta molto generosa. Alla cena è presente anche Rowley che ne approfitta per corteggiare Mary ma senza successo, tuttavia, dopo cena lei è costretta, per non essere scortese, a riaccompagnarlo in albergo con la sua auto. Durante il tragitto i due imbastiscono un’appassionata conversazione: lui le consiglia di non sposare Edgar perché un’unione senza amore porta verso l’infelicità ma lei dichiara di essere stufa dell’amore e racconta la sua drammatica esperienza vissuta con un marito alcolizzato e giocatore del quale era molto innamorata ma che lei non è riuscita a salvare con l’amore e, quindi, ora preferisce il compromesso, anche se potrebbe, se si presentasse un’occasione particolare, donare generosamente qualcosa di sé, della sua bellezza [della quale è consapevole], a qualcuno che avesse davvero bisogno di affetto. Rowley - che è bisognoso d’affetto anche se non lo vuole ammettere - ironizza sul suo presunto spirito filantropico anche se è sempre più attratto e intenerito da Mary che si è confidata apertamente e, con tono scherzoso e un po’ sarcastico, le fa anche lui una proposta di matrimonio che lei però considera poco seria e lui, senza darlo a vedere, rimane assai deluso dal deciso rifiuto di Mary perché la sua dichiarazione d’amore, in realtà, non è frivola. Poi lei, mentre sta guidando, chiede a Rowley di prenderle il fazzoletto nella borsetta e lui scopre la pistola che le ha procurato Edgar per sicurezza e critica il carattere autoritario di questo “pilastro imperiale” che le impone di portare un’arma anche se lei non vorrebbe, ma Mary lo difende con fermezza e pensa di non avere più dubbi: sposerà Edgar. Giunti davanti all’albergo i due si salutano con freddezza, lui scende e lei si dirige verso casa. A metà strada, sulla via di campagna che porta alla villa, c’è una terrazza semicircolare da cui si vede la bellezza di Firenze; Mary si ferma per affacciarsi e lì c’è, in contemplazione, anche il giovane [improbabile] violinista che abita in una casa di contadini non lontano dalla villa. Lui si avvicina, si riconoscono, lui la ringrazia calorosamente per la sua generosa offerta e si giustifica dicendo che non sa suonare ma non ha trovato nulla di meglio da fare, e l’obolo ricevuto gli permette di pagare l’affitto arretrato ai poveri contadini che lo ospitano. Mary sente - come aveva detto a Rowley poco prima - di dover offrire qualcosa della sua bellezza a questo giovane povero, dal tratto garbato, piuttosto timido che si chiama Karl, ha ventitré anni, è uno studente d’Arte austriaco oppositore dei nazisti che è stato imprigionato ma è riuscito a fuggire in Italia dove cerca di sopravvivere clandestinamente [il romanzo è stato pubblicato nel 1941]. Mary lo invita a visitare la villa, gli mostra gli affreschi della sala, gli prepara la cena ed è piena di tenerezza per questo giovane che le fa ballare un valzer viennese e cita Goethe, e i due finiscono per amarsi. Prima dell’alba Mary sollecita il giovane ad andarsene: devono dirsi addio, ma Karl non accetta questa decisione e la accusa di averlo illuso in modo crudele e di essersi approfittata di lui. Lei dichiara di aver avuto compassione e di non essere libera e lui diventa aggressivo, lei prende la pistola e lo minaccia ma, quando lui le chiede di sparare tanto non ha nulla da perdere, lei scoppia a piangere e posa l’arma, lui si calma e l’abbraccia dicendole che lei non lo dimenticherà mai, poi prende la pistola e si uccide. Mary è sconvolta, cerca di mantenere la calma, riesce a far allontanare la cameriera che, avendo sentito il colpo, ha bussato alla porta della sua camera e, infine, decide che l’unica cosa da fare è chiedere aiuto a Rowley: gli telefona in albergo, lui risponde assonnato e sorpreso, ma quando capisce che è successo qualcosa di grave accorre in suo aiuto usando la bicicletta del portiere di notte. Rowley non pensava proprio di trovarsi di fronte a una situazione così ambigua. Mary è disperata e non vuole chiamare la polizia perché potrebbe essere facilmente accusata di omicidio, e allora lui le propone - prima che faccia giorno - di caricare il corpo dello sventurato giovane in macchina e di abbandonarlo in una zona boschiva ad una certa distanza dalla villa. Durante la pericolosa operazione i due, fermi in macchina al bordo della stretta strada di campagna che hanno imboccato, hanno anche dovuto, al passaggio di un’auto di gente allegra di ritorno da una festa, simulare di essere una coppia di amanti [e a lei non è dispiaciuto il forzato momento di intimità]. L’operazione avventurosa, soprattutto per la freddezza e l’autocontrollo di Rowley, va a buon fine [il cadavere viene abbandonato nel folto del bosco] anche se entrambi non sono certo convinti di aver compiuto una buona azione: i termini “compromesso, pregiudizio, menzogna, viltà, stoltezza” riecheggiano nella loro mente. Comunque prima dell’alba sono di ritorno alla villa: Rowley torna al suo albergo in bicicletta e lei - come lui le ha consigliato di fare - dopo essere rientrata in camera silenziosamente, prende un sonnifero e si addormenta. Il giorno dopo tanto Mary che Rowley sono invitati a pranzo dai signori Atkinson, lei vorrebbe darsi ammalata ma Rowley la rimprovera e la sollecita a partecipare e a dissimulare come se niente fosse successo.
LEGERE MULTUM….
W. Somerset Maugham, In villa
Quando Mary aprì gli occhi vide Nina accanto al letto. «Cosa c’è?» domandò assonnata. «È molto tardi, signora. La signora deve essere alla Villa Bolognese all’una e sono già le dodici». D’improvviso ricordò, con una dolorosa stretta al cuore. Ormai ben desta guardò la cameriera; era sorridente e cordiale come sempre. Cercò di raccogliere le idee.
«Stanotte dopo che mi hai svegliato non riuscivo a riaddormentarmi. Non volevo passare il resto della notte sveglia, così ho preso un paio di pasticche».
«Mi scusi tanto, signora. Avevo sentito un rumore e ho pensato di venire a vedere se era successo qualcosa». … «Che genere di rumore?».
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A volte di fronte a certe risposte affermative si rimane sgomenti, e poi: bisogna sempre dire la verità? O, a volte, è meglio dissimulare? Michelangelo nelle sue Opere utilizza la dissimulazione [“Il poeta è un fingitore” direbbe Fernando Pessoa] nel senso culturale del termine: creando motivi simbolici contenenti temi non svelabili in modo palese ma fruibili se tradotti per mezzo dell’attività intellettuale.
Circa un anno dopo aver prodotto la Madonna della Scala Michelangelo realizza un’opera non ispirandosi alla dottrina del cristianesimo ma alla mitologia greca.
Tra il 1491 e il 1492 Michelangelo realizza un’opera basandosi sull’osservazione di un sarcofago dell’antica Roma e, quindi, ricalcando un tema di carattere mitologico, e quest’opera s’intitola la Battaglia dei centauri. I centauri come ben sapete sono quelle creature mitologiche con il corpo inferiore a forma di cavallo e la parte superiore in forma umana. Michelangelo, sebbene abbia a disposizione un blocco di marmo piuttosto piccolo e sottile, riesce tuttavia a creare un intreccio straordinariamente complesso di corpi in lotta tra loro che sembra perdersi nell’infinito. In questo lavoro si trovano molti indizi di quello che Michelangelo avrebbe realizzato nelle sue Opere successive, compreso il soffitto della Cappella Sistina. Nella Battaglia dei centauri è evidente l’interesse di Michelangelo per il corpo maschile, molto muscoloso e sempre nudo, raffigurato nelle più varie posizioni, alcune inverosimili. Michelangelo è così interessato a studiare il nudo maschile che il concetto del “centauro” rimane nel titolo dell’opera perché all’interno della composizione inserisce solo, come richiamo, un particolare di un cavallo [una zampa] nella parte inferiore della scultura, e si riconosce, [ma con molta difficoltà, una sola figura femminile in questo groviglio di carne: si tratta di Ippodamia [che significa “Domatrice di cavalli”], il cui tentato rapimento è, secondo il mito, la causa della sanguinosa e celebre battaglia dei Làpiti contro i Centauri. Questa Ippodamia è la figlia del re Atrace che sposa Piritòo, appartenente al leggendario popolo dei Làpiti, abitatori della Tessaglia, e non va confusa con Ippodamia figlia di Enomao e moglie di Pelope [che abbiamo incontrato qualche anno fa sul territorio della Tragedia]. Alle nozze di Piritòo e Ippodamia vengono invitati tutti gli Eroi greci e anche i Centauri; uno di loro, Euritione, durante il banchetto, tenta di rapire la sposa [“Domatrice di cavalli”] e scoppia la battaglia tra i Làpiti e i Centauri che hanno la peggio.
Si capisce che Michelangelo nutre poco interesse per il corpo femminile difatti raffigura Ippodamia di spalle e il risultato è che è difficile localizzarla anche cercandola attentamente all’interno della scena e, difatti, si può pensare che l’opera sia composta esclusivamente da figure maschili e questo straordinario artista non è mai riuscito a raffigurare il corpo femminile se non con delle spiccate caratteristiche mascoline. Ma l’elemento più importante nella Battaglia dei centauri è un tema legato al pensiero della Cabala di cui come ben sappiamo Michelangelo è fresco di studi. Il tema in questione [che emerge anche tra le righe del romanzo che stiamo leggendo] riguarda il conflitto tra “l’anima istintiva” vicina al mondo animale e quella “spirituale” propriamente umana. Di questo tema se ne occupa anche Pico della Mirandola nell’Heptaplus quando descrive la prova che deve sostenere la Persona nella “battaglia delle due inclinazioni”: tra “yetzer hatov” [la buona inclinazione] e “yetzer harà” [la cattiva inclinazione]. Anche Michelangelo, nella sua opera epistolare e poetica [e basta il frammento che abbiamo letto per capire], scrive spesso di questo conflitto che sente nel suo animo [e che tutte e tutti noi sentiamo] tra l’inclinazione a realizzare il Bene e l’impulso a fare il Male: una questione sulla quale, dalle origini dell’Umanità, la Persona è chiamata a riflettere.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Potete osservare un’immagine delle Battaglia dei centauri in un fascicolo che trovate in biblioteca o navigando in rete, oppure facendo una visita a “Casa Buonarroti” per studiare [e ammirare] l’opera dal vero... Esercitatevi ad investire in intelligenza...
Nel 1491 Pico della Mirandola - che sta nascosto a Palazzo Medici dopo che Lorenzo il Magnifico lo ha salvato perché avrebbe potuto essere giustiziato a causa dei suoi Scritti considerati eretici dal Sant’Uffizio - insiste perché Lorenzo si adoperi per far tornare a Firenze [era stato allontanato l’anno prima] un frate predicatore domenicano di cui Pico ammira il carattere e la cultura. Lorenzo, con il suo potere di mediazione, riesce nell’intento e questo domenicano torna a Firenze e viene anche eletto priore di San Marco: è un ferrarese è si chiama Girolamo Savonarola. Chi è Girolamo Savonarola? Un eroe, un martire, un profeta democratico, un ciarlatano, un terrorista, un santo? Perché ci si dimentica sempre che fra Girolamo è stato soprattutto un intellettuale impegnato a produrre cultura? E che tipo di cultura?
Per rispondere a queste domande bisogna procedere con lo spirito utopico che lo “studio” porta con sé, consapevoli [anche se si sente odore di bruciato, e abbiamo iniziato con il naso e con il naso concludiamo] che non bisogna mai perdere la volontà d’imparare.
Per questo la Scuola è qui: il viaggio continua…