Prof. Giuseppe Nibbi La sapienza poetica e filosofica dell’età tardo-antica 27-28 febbraio 1 marzo 2013
SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ TARDO-ANTICA
SI FORMA L’IDEA CHE L’ELOQUENZA SIA LO STRUMENTO
PER ACQUISIRE L’ATTITUDINE ALL’ONESTÀ ...
Stiamo viaggiando dall’autunno scorso – questo è il diciassettesimo itinerario – sul “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età tardo-antica” e ci stiamo incamminando verso la fine dell’inverno e marzo fa capolino.
In queste ultime settimane – viaggiando sui sentieri di quest’ampia area di confine tra Antichità e Medioevo che è il “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età tardo-antica” [e conosciamo il significato di questo paradosso] – abbiamo raggiunto il paesaggio intellettuale dell’Età dei Flavi, e sappiamo che gli imperatori della dinastia dei Flavi – Vespasiano, Tito e Domiziano – regnano dal 69 al 96 [per tutta la seconda metà del I secolo]. In questo paesaggio intellettuale [dell’Età dei Flavi] abbiamo individuato e cominciato a studiare un tema importante, il tema della formazione della “dottrina” del cristianesimo, un tema che riguarda il passaggio dall’annuncio della “buona notizia [del vangelo]” alla formulazione di un “regolamento” che disciplini questo annuncio. Il processo culturale che si è sviluppato in proposito ha dato forma all’ortodossia del cristianesimo, alla linea di pensiero [la linea dell’ortodossia è contenuta nel canone dei Libri ispirati, nella professione di fede comune e nell’ubbidienza ai vescovi nominati dalla comunità] a cui è obbligatorio aderire per essere fedeli alla “dottrina” cristiana.
Abbiamo imparato che l’evento evangelico – la propagazione dell’annuncio della “buona notizia della risurrezione di Gesù”, la formulazione della “dottrina” che ne deriva e la conseguente costruzione della linea dell’ortodossia – non emerge dal nulla ma s’inserisce e trae alimento dalla cultura umana, dalla Storia del Pensiero, e il primo passo fondamentale in questo senso è stato fatto da un movimento intellettuale [piuttosto eterogeneo] che prende il nome di “tendenza conciliativa” e la conciliazione fa riferimento al rapporto virtuoso che si crea tra l’annuncio della “buona notizia della risurrezione di Gesù” e la cultura greca, la cultura delle Scuole ellenistiche [epicuree, stoiche, scettiche, eclettiche, gnostiche, neo-pitagoriche, neo-platoniche, neo-aristoteliche].
Coloro i quali hanno dato sviluppo intellettuale alla “tendenza conciliativa [che hanno dimostrato la predisposizione mentale all’accordo, all’intesa, al patto, al compromesso, all’accomodamento]” hanno utilizzato le dinamiche della cultura greca per investire in intelligenza e questo investimento intellettuale favorisce [come sappiamo] la composizione dei testi delle Lettere di Paolo di Tarso [su cui abbiamo maturato molte competenze], del testo del Vangelo secondo Marco [su cui abbiamo recentemente puntato l’attenzione] e poi delle Opere dei Padri Apostolici [Clemente, Ignazio e Policarpo] che dobbiamo incontrare perché gli Scritti che hanno prodotto, la cosiddetta “Letteratura dei Padri Apostolici”, costituiscono una serie di tasselli fondamentali, utili per capire i tratti che va assumendo la cultura tardo-antica nel II e nel III secolo.
Abbiamo ricordato più di una volta che non tutti, nella variegata area della predicazione dell’annuncio della “buona notizia della risurrezione di Gesù”, sono d’accordo a scendere a compromessi con la cultura greca e con la cultura umana in generale [pensano che nella persona e nella parola di Gesù Cristo ci sia tutta la verità] e noi indagheremo in questo campo – il campo di quella che è stata chiamata la tendenza della “polemica intransigente” [l’annuncio evangelico si propaga sulla scia di forti polemiche, che sono state utili per tenerlo vivo] – quando avremo i materiali per poterlo fare e li troveremo in un’Età successiva a questa [nel corso del II secolo], in uno dei prossimi paesaggi intellettuali che incontreremo strada facendo. Per il momento è la corrente “conciliativa” che, nell’ambito della predicazione dell’annuncio della “buona notizia della risurrezione di Gesù”, produce opere, pensiero, idee e dottrina, ed è [come sapete] questa corrente che contribuisce maggiormente a dare la forma all’ortodossia.
Al termine dell’itinerario della scorsa settimana abbiamo detto che nell’Età dei Flavi [69-96], a Roma e nelle più importanti città dell’Impero, c’è [oltre al Cristianesimo nascente] un gran fiorire di culti pagani perché più la crisi [politica, economica, sociale, culturale, morale] si palesa e più le persone sentono il bisogno di cercare una via di salvezza che possa dare “consolazione”, e la via della salvezza la si cerca nell’ambito delle religioni misteriche [che proliferano da tempo - con il loro carattere magico e superstizioso - sul territorio dell’Ecumene ellenistica] che sono eredi della grande tradizione orfico-dionisiaca [ben radicata sul territorio dell’Ellenismo] e anche il pensiero cristiano in formazione deve [come sappiamo] fare i conti con la figura di Dioniso [più volte abbiamo studiato questo tema fondamentale].
Nel corso dell’itinerario della scorsa settimana – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – abbiamo studiato che nell’Età dei Flavi la tradizione orfico-dionisiaca riemerge nella Letteratura latina in modo “provocatorio” attraverso i Libretti delle pantomime – la pantomima [come sappiamo] è l’unico genere teatrale che viene rappresentato [e che riscuote un certo successo] in Età tardo-antica – e sappiamo che i testi dei Libretti delle pantomime [contenenti le cosiddette “Saturae salticae”] sono scritti con lo stile epigrammatico. Il testo epigrammatico ha la caratteristica di essere formato da un breve brano poetico che presenta una vicenda [quasi sempre un po’ scabrosa] e i protagonisti della vicenda, e termina con una battuta conclusiva ironica, irridente, satirica, con l’uso di un linguaggio colorito che richiama il grottesco e l’osceno. La parola greca “epigramma” [come sappiamo] letteralmente significa “sopra [epì] la riga scritta [gramma]” come dire che si fa un commento “sopra le righe” – con acutezza, con acume, con vivacità, con prontezza, con brio, con sagacia – sui comportamenti umani che spesso sono grotteschi e indecenti. Il più significativo compositore di Epigrammi [come sappiamo] è Marco Valerio Marziale della cui opera, otto giorni fa, abbiamo studiato i concetti fondamentali.
Inoltre la scorsa settimana abbiamo incontrato lo scrittore William Somerset Maugham il quale introduce spesso nella prosa dei suoi romanzi gli elementi fondamentali dello stile epigrammatico e sono molte le scrittrici e gli scrittori che compiono questa operazione: inseriscono nel contesto della narrazione brevi racconti [spesso scabrosi] in cui i protagonisti si esprimono in modo ironico per mettere in imbarazzo una persona la quale con arguzia o con ipocrisia controbatte con sarcasmo, e noi abbiamo osservato questo espediente narrativo leggendo un certo numero di pagine tratte dal romanzo di Maugham intitolato La diva Julia. Ora leggiamo ancora tre pagine di questo romanzo, successive a quelle del brano attraverso il quale la scorsa settimana abbiamo fatto conoscenza con [un personaggio che resta impresso e con il quale, forse, l’autore prende in giro se stesso] il ricco e colto gentiluomo Charles, il figlio del marchese di Dennorant, marito di un’ereditiera, Lady Clara, dalla quale si sta separando perché, essendo lui perdutamente innamorato di Julia, tutti pensano che abbia effettivamente una relazione con lei ma non è così perché la diva Julia non è disposta a concedersi a Charles che è sì “uno stinco di gentiluomo [come lei lo definisce]” – che la ricopre di regali, di attenzioni e le insegna ad amare la cultura – ma che lei considera un simpatico vecchietto poco attraente. Tuttavia, quando Charles, consapevole di questo fatto, ritiene giusto che loro due non si debbano più incontrare, lei usa tutte le sue naturali doti di attrice per non perdere questo “[comodo e impareggiabile] cavalier servente” e il povero Charles è costretto a subire il “fascino” – ma forse dovremmo tradurla con il latino di Marziale questa parola-chiave – a subire il “fascinum [un po’ perverso]” di Julia Lambert [la più grande attrice d’Inghilterra] che sa perfettamente come “sembrare naturale”, sa perfettamente come costruire la finzione [ride, piange. si atteggia ad innamorata a comando] ma questa capacità di controllarsi, questa consapevolezza recitativa, la fa soffrire perché si rende conto di non provare autentiche emozioni, vere sensazioni: una “diva” finisce per essere una donna “sconfitta”.
Ricordate che due settimane fa, quando abbiamo letto l’incipit di questo romanzo, abbiamo visto comparire un giovane ragioniere, assunto dal marito di Julia, Michael, per controllare se i conti del teatro Siddons, che lui dirige, sono in ordine: questo giovane, infatuato della grande attrice, viene invitato a pranzo da Michael e riceve da Julia [che lì per lì è piuttosto seccata di dover sopportare questo giovanotto all’ora di pranzo e di doversi comportare da “diva” anche durante il pasto] una foto con dedica. Quando viene congedato Julia pensa che non lo avrebbe più rivisto e non sa neppure come si chiama, ma noi sappiamo già che – dopo un’ottantina di pagine [nelle quali Julia, riguardando le sue fotografie, rievoca gli episodi della sua vita e ce li racconta] – questo ragazzo, coetaneo del figlio di Julia e di Michael, ricompare per interpretare [in fabula] la sua parte.
Ma ora leggiamo:
LEGERE MULTUM….
Somerset Maugham, La diva Julia
Julia stette un po’ in ansia quando Lady Clara lasciò il marito.
La signora minacciava una causa di divorzio, e a Julia non piaceva affatto l’idea di essere tirata in ballo. Per due o tre settimane fu sulle spine. Decise di non dir niente a Michael finché non fosse necessario, e fece bene, perché poi risultò che le minacce miravano soltanto a strappare all’innocente marito un assegno più sostanzioso.
Con Charles, Julia si destreggiò a meraviglia. Era inteso fra loro che dato il suo grande amore per Michael una relazione intima era fuori questione, ma quanto al resto, Charles per lei era tutto, il suo amico, il suo consigliere, il suo confidente, l’uomo su cui contare nel momento del bisogno e in cui trovare conforto dopo una delusione. Le cose divennero un poco più difficili quando Charles, con la sua acuta sensibilità, si accorse che lei non amava più Michael.
... continua la lettura ...
Ci fermiamo proprio ora che sta per entrare in gioco un espediente narrativo tipico dello stile epigrammatico? Ci fermiamo perché sono molte le soste da fare in questo itinerario e, quindi, andate avanti voi nella lettura! Questo romanzo merita di essere letto, possiede un testo dotato di un’ironia e di una leggerezza che invitano a riflettere soprattutto sul complesso tema, sempre attuale, della “disposizione alla finzione”, e poi, dopo aver letto questo testo, potete anche – collegandovi alla rete – informarvi sugli sviluppi cinematografici di questo romanzo e vedere i film, intitolati La diva Julia, che sono stati tratti da quest’opera: l’ultimo nel 2004.
Ma adesso torniamo sul nostro sentiero specifico. Abbiamo ribadito che nell’Età dei Flavi la tradizione orfico-dionisiaca – che ha investito tutto il bacino del Mediterraneo nel corso dell’Età antica dal VI secolo a.C. – riemerge nella Letteratura latina in modo “provocatorio” attraverso i testi dei Libretti delle pantomime [delle “Saturae salticae”] che sono scritti con lo stile epigrammatico, e nel glossario dello stile epigrammatico ha un ruolo fondamentale il termine “fascino” tanto sotto l’aspetto grottesco e osceno [quando il termine “fascinum” rappresenta il fallo di Priàpo e Priàpo è una delle maschere con cui si ripropone la figura di Dioniso] quanto secondo la feconda riflessione di Saffo [quando il termine “fascinum” richiama il concetto dell’abrosyné: la manifestazione della delicatezza, dello splendore, della grazia, del gusto].
Credo sia necessario ripetere, brevemente, quali sono i caratteri della cultura orfico-dionisiaca perché condizionano il pensiero dell’Età tardo-antica. La cultura orfico-dionisiaca si basa su tre elementi fondamentali che tuttora fanno parte della nostra cultura perché l’ortodossia cristiana li ha portati con sé.
Il primo elemento mette in evidenza che ogni Essere umano possiede un’anima e quindi in lui c’è un principio eterno, esistente prima della nascita e che sopravvive alla morte e il cristianesimo ha fatto proprio questo concetto e lo ha inserito nella sua dottrina [e studieremo come ciò è avvenuto nei viaggi futuri]. A sua volta la tradizione orfico-dionisiaca ha fatto propria [circa 2500 anni fa, al tempo dell’Età assiale della Storia] la teoria indiana dei Libri dei Veda [i Libri della Sapienza, generatori dell’Induismo e del Buddismo] dove l’anima, in sanscrito “atman”, è una scintilla, una goccia dell’Essere, del “Brahman”, presente in ogni persona. Compito di ogni persona è quello di favorire il ritorno dell’atman, dell’anima, nella sua sede, nella sua casa: in seno al Brahman, attraverso la teoria della reincarnazione o metempsicosi – teoria sviluppata, in termini occidentali [Erodoto ci ha insegnato che l’Asia e l’Europa sono unite], dalla Scuola pitagorica, e nel I secolo si assiste alla rifioritura del pensiero pitagorico sul territorio dell’Ecumene [e ce ne occuperemo] –, secondo cui l’anima lascia un corpo, alla morte dell’individuo, ed entra, dopo breve tempo, in un altro corpo, cercando di migliorare via via la sua posizione in funzione dell’ascesa per il suo ricongiungimento con l’Essere [in greco emerge la parola “Logos Logos”, un concetto che penetra nella Letteratura dei Vangeli].
Il secondo elemento su cui si basa la cultura orfico-dionisiaca è rappresentato dal dualismo tra anima e corpo: due principi diversi in contrasto tra loro, in cui il corpo viene considerato la prigione dell’anima e l’anima deve tendere a liberarsi da questo vincolo materiale [con questo dualismo l’ortodossia cristiana dovrà fare i conti].
Il terzo elemento su cui si basa la cultura orfico-dionisiaca prevede che, dopo la morte del corpo, l’anima sia sottoposta a un giudizio e ci possa essere il castigo con una nuova vita da vivere, una nuova reincarnazione, oppure il premio che consiste nella liberazione dal ciclo delle incarnazioni, nella liberazione dalla materia con il ritorno alla dimensione originaria dello spirito. Per arrivare al premio è necessaria una forte tensione etica [voler fare il bene], coltivando ideali di vita basati sull’armonia, sulla concordia e sulla euritmia [sul senso delle proporzioni], e questi termini indicano le componenti costitutive della figura del dio Apollo che rappresenta l’elemento “luminoso” della tradizione orfica ellenica.
Ma nella cultura orfico-dionisiaca c’è qualcosa di più complesso perché la realtà non è prevalentemente “luminosa [apollinea]” e in essa non si manifestano soltanto le buone qualità di Apollo: nel crogiuolo dell’esistenza emergono soprattutto le qualità di Dioniso e di Orfeo che sono due figure che si identificano, due facce [una più arcaica e una più recente] della stessa medaglia. Dioniso e Orfeo sono figure mitiche – i protagonisti di un vastissimo repertorio di racconti [che, in questi anni, abbiamo studiato con sistematicità dedicando a questo tema molti itinerari] – i quali esprimono l’inquietudine, il turbamento, il tormento esistenziale.
Al centro della tradizione orfico-dionisiaca [che si connota come una vera e propria religione] c’è un mistero: c’è l’enigma della morte [del trionfo della morte] e della resurrezione [della speranza della risurrezione]. La cultura orfico-dionisiaca elabora una dottrina [che ha una forte valenza consolatoria] per cui invita a credere che qualcosa dell’Essere umano non muore e si trasforma, come avviene nei cicli della Natura [il cristianesimo trova un punto d’appoggio in questa idea].
Tutti conosciamo [e lo abbiamo studiato e ristudiato nei nostri Percorsi] il famosissimo mito di Orfeo, che è un racconto simbolico usato da molte e molti intellettuali per costruire soprattutto oggetti letterari. La versione più accreditata del mito di Orfeo e di Euridice, tradotta in versi latini, è quella data da Ovidio nel Libro X de Le metamorfosi [un’opera della quale, insieme a pochissime altre Istituzioni, abbiamo anche celebrato i 2000 anni]. Adesso non rileggiamo questi versi ma ripetiamo brevemente [se qualcuno non le ricordasse ma, quando si studia, il “ripasso” è sempre un momento necessario] le linee generali della narrazione del mito di Orfeo.
Orfeo sposa Euridice la quale, poco tempo dopo le nozze, muore: Orfeo è disperato e decide di tentare la discesa negli Inferi per riportarla alla vita. Orfeo, figlio di Apollo e di Calliope – Calliope in greco significa “dalla bella [kallas kallas] voce [ope opè]” – è un cantautore dal talento straordinario e, con la musica della sua lira, riesce a placare i guardiani infernali: Caronte e Cerbero e, di conseguenza, la regina dell’Oltretomba Persefone, affascinata anch’essa dalla musica di Orfeo, permette che Euridice ritorni alla vita, seguendo il marito sulla via che porta fuori dall’Ade. Ma la regina infernale pone un divieto: lungo il cammino di ritorno Orfeo non deve girarsi a guardare la sposa. Ma, lungo la strada, Orfeo non resiste alla tentazione di dare un’occhiata a Euridice [è anche il racconto di un peccato originale]: si volta per un attimo e la perde per sempre. Euridice viene trascinata indietro nell’Ade e da quel momento Orfeo, disperato, rifiuta l’amore che tutte le donne gli offrono. La sua musica diventa sempre più suadente e distrae anche tutti gli uomini che lo ascoltano incantati e dimenticano i loro doveri coniugali, e allora le donne di Tracia si vendicano: lo catturano, lo fanno a pezzi e lo gettano in mare. Nonostante la fine orribile Orfeo non muore del tutto: solo il suo corpo muore mentre la sua anima – la sua voce, la sua poesia, la sua musica – avrebbe continuato a cantare per sempre. Questo mito contiene in embrione un inquietante messaggio basato sulla speranza [o sull’illusione] che possa esistere una possibilità di salvezza eterna.
Le figure di Dioniso e di Orfeo in Età antica, dal VI al IV secolo a.C., hanno favorito la nascita di straordinari apparati letterari: dai poemi epici [di Omero ed Esiodo] alle tragedie [di Eschilo, di Sofocle, di Euripide] in cui emerge il tema esistenziale dell’inquietudine, un sentimento che vive sull’incontro [o sullo scontro] tra speranza e disperazione: l’inquietudine favorisce la “vigilanza”.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
La vostra inquietudine – sentimento assai diffuso – da che cosa è determinata oggi, e qual è un fattore di quiete che vi gratifica?…
Scrivete quattro righe in proposito…
Il risveglio e la riproposizione della cultura orfico-dionisiaca in Età tardo-antica – in cui l’inquietudine, il turbamento, il tormento esistenziale sono fattori all’ordine del giorno – favorisce [come sappiamo] la nascita di una forma di Letteratura chiamata “priapèa” e questo termine deriva dal personaggio di Priàpo che costituisce una maschera con cui si ripropone la figura di Dioniso: il personaggio di Priàpo rappresenta l’aspetto più “scurrile” della cultura orfico-dionisiaca.
Nell’itinerario di una settimana fa abbiamo imparato che il genere letterario priapèo diventa “classico” attraverso l’opera di uno scrittore, vissuto nell’Epoca dei Flavi e nei primi anni dell’Epoca successiva ai Flavi, che si chiama Marco Valerio Marziale la cui opera più importante s’intitola Epigrammi. Sappiamo che, in questa sua opera poetica, Marziale non si limita a giocare con le scandalose allegorie legate alla parola “fascinum” intesa come termine per designare il “fallo di Priapo” ma utilizza lo strumento dell’oscenità [l’attrattiva verso il linguaggio scurrile] come un richiamo [come uno specchietto per le allodole] in modo da indurre le lettrici e i lettori a riflettere; infatti Marziale nel testo degli Epigrammi vuole esaltare soprattutto le virtù “estetiche” alle quali lui aspira, che sono: la delicatezza, lo splendore, la grazia, il gusto, la cortesia, l’eleganza, la finezza, la distinzione e, in questo caso, quando usa il termine “fascinum”, fa riferimento [come sappiamo] alla “ghirlanda floreale, all’immagine dell’abrosyné”, il concetto elaborato [nel VI secolo a.C.] dalla poetessa Saffo e, quindi, invita chi legge a fare una riflessione di carattere estetico, a domandarsi: “che cos’è l’armonia?”.
Nella poesia di Marziale troviamo tanto un linguaggio ricco di termini scurrili usati fuor di metafora per nominare oggetti e atti relativi alla sessualità quanto un linguaggio allegorico che traduce gli stessi oggetti e gli stessi atti in termini poetici e come esempio, otto giorni fa, abbiamo letto il testo dell’Epigramma dove la parola “fallo” viene sostituita dalla dicitura allegorica “il rialzo del tempio di Afrodite” che ha una notevole rilevanza estetica ma, a questo proposito, viene spontaneo domandarsi che differenza ci sia: non è, forse, una forma di ipocrisia velare con una metafora, per quanto poetica possa essere, un termine che nomina esplicitamente l’oggetto in questione senza vergogna e senza falsi pudori? Marziale non condivide questo pensiero perché per lui la costruzione della “metafora poetica” [la sapiente tessitura di un linguaggio allegorico] fa parte di una ben precisa presa di posizione ideologica; in Epoca tardo-antica chi coltiva la “sapienza poetica e filosofica” ritiene che il parlare bene [scegliere le parole nell’ambito della poesia, secondo le forme e i contenuti della “sapienza poetica”] faccia nascere buoni pensieri [avvicini al Logos, al Sonno Bene] e faccia crescere la qualità del linguaggio [il gusto estetico]: chi parla bene pensa bene e questo processo [questo investimento in intelligenza] favorisce il miglioramento della qualità della vita [il senso etico].
Non si può fare a meno di ricordare che questo concetto – il creare immagini poetiche [metafore] che possano abbellire e arricchire il pensiero in modo da favorire azioni orientate al Bene – è stato, in molte occasioni, sviluppato nella Letteratura contemporanea e a questo proposito possiamo citare e proporre la lettura o la rilettura di un romanzo che molte e molti di voi conoscono e che s’intitola Il postino di Neruda, pubblicato nel 1985 e scritto da Antonio Skármeta, un autore dalla vena filosofica nato nel 1940 ad Antofagasta in Cile. Da questo romanzo è stato tratto il film Il postino, l’ultima interpretazione del compianto Massimo Troisi, un film che avrete visto senz’altro. Si consiglia la lettura o la rilettura del testo di questo romanzo perché sviluppa, con un linguaggio contemporaneo [con una certa vena sentimentale], un’idea-cardine della “sapienza poetica e filosofica dell’Età tardo-antica”. Il protagonista di questo romanzo è un giovane ex pescatore di San Antonio, in Cile, che si chiama Mario Jiménez il quale viene nominato postino dello sperduto villaggio di Isla Negra con l’incarico di recapitare la posta al solo individuo che riceva corrispondenza in quel luogo: il grande poeta Pablo Neruda. Tra queste due persone, diversissime per cultura e per educazione, ma attratti da una reciproca simpatia, nasce una complicità che dura solo una breve ma intensa stagione e tra i due si sviluppa una profonda amicizia [quella che Epicuro chiama la “filìa”].
Il testo di questo romanzo [che sarebbe piaciuto a Marziale] è insieme allegro e malinconico, comico e austero ma la tristezza non prende mai il sopravvento e il vero protagonista del racconto è la poesia, è la “sapienza poetica” con la sua capacità di produrre “metafore” utili per dare un gusto estetico e un senso etico all’esistenza. Mario e Pablo [c’è anche un personaggio femminile che si chiama Beatrice] sono due personaggi da romanzo che incarnano i caratteri della “sapienza poetica orfica”: Pablo, il poeta famoso, dovrebbe rappresentare Apollo, e Mario, che si rivela il vero talento poetico, dovrebbe rappresentare Orfeo e Dioniso, ma lo scrittore è molto abile a far emergere in entrambi i personaggi, di volta in volta, la figura di Apollo con la sua razionalità, l’armonia, l’euritmia, e quella di Dioniso e di Orfeo con l’istinto, la passionalità, il desiderio, l’esaltazione, la sofferenza.
Leggiamo due pagine da Il postino di Neruda per mettere in evidenza – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – come l’idea, perfezionatasi in Età tardo-antica, che la “metafora poetica” è utile per favorire lo sviluppo di una testa ben fatta, sia entrata negli ingranaggi della narrativa contemporanea perché il tema che “chi parla male pensa male e agisce peggio” continua ad essere di attualità, purtroppo.
LEGERE MULTUM….
Antonio Skármeta, Il postino di Neruda
Cresciuto tra pescatori, il giovane Mario Jiménez non sospettava che nella posta di quel giorno ci sarebbe stato un amo con cui avrebbe catturato il poeta. Appena gli ebbe consegnato il pacco, il poeta individuò con meridiana precisione una lettera che si diede a lacerare sotto i suoi occhi. Quella condotta inedita, incompatibile con la serenità e la discrezione del vate, incoraggiò il postino ad avviare un interrogatorio e, perché non dirlo, un’amicizia. «Perché apre quella lettera prima delle altre?». … «Perché viene dalla Svezia». … «E cos’ha di speciale la Svezia, a parte le svedesi?». Anche se possedeva un paio di palpebre inamovibili, Pablo Neruda non riuscì a tenerle ferme. «Il Premio Nobel per la Letteratura, figliolo». … «Glielo daranno». … «Se me lo danno, non lo rifiuto». … «E quanti soldi sono?».
... continua la lettura ...
Dite anche voi un “arrivederci” a questo testo: leggetelo o a rileggetelo, è un libro che potete richiedere facilmente in biblioteca. C’è un motivo per cui abbiamo letto queste due pagine: c’è un intreccio filologico che dobbiamo dipanare tra un po’.
L’investimento in intelligenza che fa Marziale per promuovere la “sapienza poetica e filosofica” consiste in un esercizio che comporta non solo il rinnovamento di un linguaggio di “bassa qualità” ma prevede un cambiamento di mentalità orientato verso una diversa visione del mondo: dalla limitata e arcaica ottica priapèa all’ampia ed evoluta visione abrosynèa, dove porta questa affermazione? Ogni persona – scrive sconsolato Marziale [Marziale coltiva il pensiero del “pessimismo riflessivo” tipico dell’Età tardo-antica] – aspira senz’altro al “fascinum-abrosinèo” dato dalle virtù estetiche che rendono più bella e qualitativamente migliore la vita, ma poi, soprattutto per responsabilità personale [e lui se ne assume la responsabilità e invita chi legge a prendere coscienza di questo fatto], il destino della persona finisce per essere condizionato soprattutto dal “fascinum-priapèo” frutto del degrado morale generalizzato per cui diventa normale la corruzione, la truffa, l’imbroglio, la predisposizione alle ruberie, la corsa all’arricchimento illecito e alla becera ostentazione delle proprie furbizie. Questa situazione schizofrenica dal punto di vista morale genera un’infima qualità della vita e «costringe i più sprovveduti e coloro che non vorrebbero compromettersi con questo sistema – scrive Marziale – ad una grama esistenza, a fare una vita agra e a vedere ogni buona intenzione andare in malora». La “vita agra” e la “malora” [questi termini non li aveva ancora usati nessuno nella Letteratura latina con questo realismo e con questa incisività] – secondo il pensiero di Marziale – sono due situazioni determinate da un fenomeno di alienazione prodotto dall’ingiustizia sociale che le persone sono costrette a subire senza essere capaci di reagire per viltà, per ignavia, per paura, per disattenzione, per pigrizia, per indolenza, per poltroneria, per noncuranza, per negligenza, per ignoranza.
Che uso fa Marziale, negli Epigrammi, di questi termini significativi: la “vita agra”, la “malora”? Facciamo un esempio leggendo tre componimenti epigrammatici in cui Marziale invita i suoi interlocutori a reagire [a prendere coscienza] nei confronti di una crisi che spinge le persone verso la “pigrizia mentale”, una situazione che molti secoli dopo verrà chiamata “alienazione”: uno strumento che, ancora oggi, serve per distrarre le cittadine e i cittadini dalle malefatte di tutti i poteri.
LEGERE MULTUM….
Marco Valerio Marziale, Epigrammi Libro V
Domani, mi dici sempre che vivrai domani, Postumo.
Ma dimmi, Postumo, questo «domani», quando arriva?
Dov’è questo «domani»? È lontano? Dove si trova?
Si nasconde forse tra i Parti, tra gli Armeni?
Ormai questo «domani» ha gli anni di Nestore o di Priamo.
Quanto costa, dimmelo, questo «domani»?
Vivrai domani? Vivere oggi, Postumo, è già tardi:
il vero saggio, Postumo, è vissuto ieri.
Vuoi dirmi, Postumo, che oggi è vita agra per tutti?
Ma oggi non è altro che il domani di ieri:
è questo, Postumo, il «domani» che aspetti?
Marco Valerio Marziale, Epigrammi Libro IX
Aveva detto un tempo Marco Tullio [Cicerone]: «O tempora! o mores! [Che brutti tempi, che brutti comportamenti”]»,
quando Catilina preparava l’empia sua congiura,
quando il genero e il suocero correvano alle armi crudeli,
quando la terra triste era bagnata dal sangue dei concittadini.
E perché tu dici adesso: «O tempora! o mores!», Ceciliano?
Forse che non ti piace la situazione attuale?
I capi sono tranquilli, han la pancia piena, nessuno va pazzo per le spade,
e tu non appartieni forse alla categoria dei capi, Ceciliano?
Non sono i nostri mores [costumi] a rendere cupi i tuoi tempora,
Ceciliano, la colpa è dei tuoi mores se va tutto come allora alla malora,
quando Marco Tullio ha perso la testa a pancia vuota ancora.
Marco Valerio Marziale, Epigrammi Libro I
Giulio, tu sei il più caro di tutti i miei amici,
se la parola data, se i vecchi giuramenti hanno un valore,
guarda che i sessant’anni ti sono ormai vicini,
e i giorni che ti restano da vivere non sono molti e fai male a rimandare
ciò che, forse, un giorno ti vedrai negare: solo il tuo passato ti appartiene.
In avvenire ti aspetta una catena di dolori e di fatiche.
Credimi, il saggio non dice: «Vivrò!». Vivere domani è tardi:
devi vivere ora anche se la vita è agra e se ti sembra che tutto vada alla malora. …
Con l’uso di questi termini – la “vita agra” e la “malora” – Marziale allude al fatto che servirebbe un “sistema educativo” capace di formare una classe dirigente non corrotta e capace di curare le piaghe e di sanare i guasti che rendono “difficile” la vita di molte persone. La “vita agra” crea una situazione sociale [dà origine ad un vero e proprio concetto antropologico] che ha preso il nome di “malora”: un concetto che rafforza e favorisce lo sviluppo di una tendenza filosofica di stampo pessimistico. Sui temi [altamente evocativi] della “vita agra” e della “malora” ritorneremo, strada facendo, in funzione della didattica della lettura e della scrittura.
Questa tendenza filosofica di stampo pessimista fa riflettere Marziale [così come tutti gli autori classici] sul fatto che la formazione della persona debba privilegiare l’educazione morale prima che la “competenza politica”: non ci può essere competenza politica [necessaria competenza di governo] senza “pertinenza morale”. Marziale pensa che sul piano della formazione della persona sarebbe necessario un sistema pedagogico che insegnasse a “parlare bene” in modo da “educare a pensare bene” per poter fare ciò che è giusto per il buon andamento della società. Questa riflessione, che Marziale fa in modo implicito, è opportuna e, difatti, a Roma c’è chi il tema pedagogico cerca di svilupparlo in modo esplicito.
E, a questo proposito, nel paesaggio intellettuale dell’Età dei Flavi [al quale siamo di fronte] abita un personaggio che ci ha provato a sviluppare il tema pedagogico e che si chiama Marco Fabio Quintiliano. Chi è Quintiliano, e perché l’incontro con questo personaggio è significativo?
Marco Fabio Quintiliano è un maestro e un teorico dell’eloquenza quindi il suo impegno intellettuale è rivolto a far sì che la persona impari a parlare bene: acquisisca una competenza in modo da esprimersi in modo chiaro secondo l’eredità lasciata da Marco Tullio Cicerone. Cicerone [lo abbiamo incontrato nel viaggio dello scorso anno], in quanto oratore, è artefice di uno stile che è stato chiamato della “rotunditas [la rotondità]” che consiste nell’enunciare [e nello scrivere] i propri pensieri con frasi ampie e ben costruite in modo che i periodi assumano, metaforicamente, la regolarità, la “rotunditas” della più calibrata delle figure solide, la sfera. Quintiliano vuole costruire un metodo [un metodo eloquente] per insegnare a parlare e a scrivere con “meravigliosa piacevolezza [mirae iucunditatis]”, con “luminosissima eleganza [clarissimi candoris]” e con uno stile “ampio e pastoso [actea ubertas]”.
Ciò che sappiamo della vita di Quintiliano lo conosciamo tanto dagli accenni che lui fa su di sé contenuti nel testo della sua opera quanto dalle testimonianze di Marziale e poi dalle notizie che ci ha fornito Gerolamo nella sua Cronaca scritta nel IV secolo. Anche Quintiliano [come Seneca, come Lucano, come Marziale e come molti altri personaggi significativi] è nato nella penisola Iberica, e in Età tardo-antica la penisola Iberica è stata una fucina di teste pensanti [è per questo motivo che Paolo di Tarso vorrebbe fare un viaggio da quelle parti?]. Quintiliano è nato a Calagurris, l’odierna Calahorra, intorno all’anno 35.
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Fate una visita a Calahorra che si trova nel nord-est della penisola Iberica ed è situata sul fiume Ebro e possiede antichi monumenti tra cui la vasta Cattedrale rinascimentale con parti gotiche e facciata barocca… Nel Museo Municipale è conservata la cosiddetta “Dama Calagurritana”: andate a scoprire di che cosa si tratta… Con la guida della Spagna e collegandovi alla rete fate un’escursione a Calahorra dove ci si ricorda anche del personaggio più illustre al quale questa cittadina ha dato i natali: Marco Fabio Quintiliano… Buon viaggio…
Marco Fabio Quintiliano è figlio di un maestro di oratoria che lo porta con sé a Roma in modo che possa completare la sua educazione con il grammatico Remmio Palèmone e con il rètore Domizio Afro. Quintiliano, terminati gli studi, torna a Calagurris [a Calahorra] dove esercita l’attività forense e, dopo la morte di Nerone durante il periodo dell’anarchia militare [68-69], il generale Galba, che è stato acclamato imperatore, lo assume tra i suoi consiglieri e lo conduce con sé a Roma. Nel 69 termina l’anarchia militare, Galba viene ucciso, e comincia a regnare Tito Flavio Vespasiano che ha prevalso su tutti i contendenti. Quintiliano, a Roma, si dedica con successo alla professione di avvocato e di maestro di retorica e anche Vespasiano lo chiama a collaborare con lui e gli dà un finanziamento [a fondo perduto] di centomila sesterzi perché istituisca la prima cattedra di eloquenza a Roma, e Quintiliano siede su questa cattedra per oltre un ventennio con grande successo, avendo tra i suoi discepoli Plinio il Giovane e, probabilmente, anche Tacito. Dopo il ritiro dall’insegnamento pubblico, l’imperatore Domiziano gli chiede di curare l’educazione dei suoi nipoti, figli della sorella Flavia Domitilla, e poi Quintiliano dedica gli ultimi anni della sua vita alla composizione di una importante opera teorica. Quintiliano ha avuto molte soddisfazioni e molti riconoscimenti pubblici ma è vissuto nell’amarezza [nel lutto] perché ha avuto la sfortuna di perdere la moglie, morta in giovane età, e i suoi figli, morti che erano ancora bambini. Quintiliano è morto a Roma nel 96 e in breve tempo è stato dimenticato: la sua opera viene riscoperta nel Medioevo e il suo trattato su come debba essere insegnata la retorica e l’eloquenza viene preso a modello per lo studio di queste discipline fino a tutto il Rinascimento.
Perché Quintiliano viene dimenticato dopo la sua morte? Probabilmente ha giocato in suo sfavore il fatto che lui abbia criticato aspramente Lucio Anneo Seneca e questo fatto ha dato adito ad un’idea sbagliata: come se Quintiliano avesse sostenuto che la filosofia – il linguaggio con cui vengono presentati e sostenuti i concetti filosofici – possa nuocere alle discipline della retorica e dell’eloquenza.
La prima opera di Quintiliano è andata perduta, tuttavia, per una serie di testimonianze che troviamo nel testo più famoso di questo scrittore, conosciamo le linee portanti del suo contenuto, quest’opera s’intitolava De causis corruptae eloquentiae [Le cause della corruzione dell’eloquenza], in cui l’autore, dopo aver analizzato i motivi della decadenza dell’eloquenza [le ragioni per cui si parla male, per cui non si è capaci di esprimere bene i propri pensieri] e, più in generale, dopo aver riflettuto sul declino dell’arte del parlare e dello scrivere, ne individuava le cause nell’incompetenza [nella non preparazione] dei maestri dediti [scrive Quintiliano] “alle artificiose e grottesche declamazioni” di moda già alla fine dell’Età di Augusto, e poi Quintiliano indicava nello stile di Seneca, che lui definisce “corrotto”, la crisi dell’eloquenza. Perché Quintiliano definisce “corrotto” lo stile di Lucio Anneo Seneca? Per rispondere a questo interrogativo dobbiamo, a nostra volta, domandarci: qual è l’opera per cui Quintiliano è passato alla storia della cultura e che, nei secoli futuri, è diventata il più importante libro di testo su cui studiare l’eloquenza?
L’opera più importante – giunta completa fino a noi – di Quintiliano s’intitola Institutio oratoria [La formazione dell’oratore], ed è un trattato in dodici Libri, dedicato all’amico Vittorio Marcello, nel quale l’autore espone i risultati della propria riflessione teorica e della sua lunga esperienza di insegnante. In questo trattato Quintiliano vuole definire la figura dell’oratore ideale e, in proposito, confeziona una formula: l’oratore deve essere un “vir bonus dicendi peritus” cioè un “uomo onesto abile nel parlare”, questa formula era già stata usata da Catone il Censore [234-149 a.C., ve lo ricordate?] per sottolineare la preminenza delle doti morali sugli aspetti più specialistici della disciplina sostenendo che “se una persona non è onesta, anche se è in possesso di molte competenze, non potrà essere eloquente [non saprà trasformare la parola in buone pratiche]”. E Quintiliano inizia a dissertare di eloquenza riprendendo proprio la massima con cui Catone il Censore sintetizza le sue idee in fatto di retorica: «rem tene, verba sequentur [abbi ben chiaro il concetto, e le parole verranno da sé]».
Oltre a Catone il Censore [che è vissuto circa due secoli prima] Quintiliano si richiama soprattutto a Cicerone [che è vissuto circa un secolo prima], si rifà alla sua sistematica capacità di organizzare ed esporre i propri pensieri nell’ambito dell’eloquenza e da lui mutua l’idea della formazione culturale dell’oratore, che deve essere più vasta e completa possibile anche in campo filosofico. Tuttavia Quintiliano [come abbiamo detto] è molto polemico verso Seneca il filosofo al quale imputa la responsabilità della degenerazione del linguaggio perché lo stile di Seneca, spezzato e nervoso, gli appare l’espressione, sul piano formale, di un’inquietudine della coscienza e di una fragilità del sentire dannosi soprattutto per i giovani. Noi lo stile di Seneca lo conosciamo [Seneca lo abbiamo incontrato all’inizio di questo viaggio] e sappiamo che il suo linguaggio – quello delle Tragedie, quello di Lettere a Lucilio – è veramente innovativo, lo stile di Seneca è già “moderno” e, probabilmente, Quintiliano non ha capito che non c’è uno stile univoco con cui si parla e si scrive: lui aspira ad uno stile oggettivo e immutabile e, se la sua pretesa è comprensibile, tuttavia non è realistica e neppure auspicabile perché il linguaggio è sempre in trasformazione e dobbiamo pensare che sia un bene la pluralità degli stili purché [e, in proposito, dobbiamo ascoltare Quintiliano] lo “stile” sia davvero “espressivo”, sia davvero “eloquente”, purché le parole diventino buone pratiche.
La Institutio oratoria [La formazione dell’oratore] di Quintiliano risulta un’opera importante perché in essa l’autore spiega il danno che procura all’attività politica l’aver trascurato l’esercizio dell’eloquenza che serve per mantenere alto il tasso di onestà nell’animo di chi svolge il ruolo di amministratore e, quindi, anche in questo testo noi troviamo un concetto a noi noto: Quintiliano insegna quanto sia importante apprendere la costruzione di “metafore eloquenti”, quanto sia importante esercitarsi – con buoni maestri – nella sapiente tessitura del linguaggio allegorico perché il parlare bene [la sapiente scelta delle parole e delle frasi] fa nascere buoni pensieri [avvicina al Logos, al Sommo Bene, al Supremo Pensiero, alla Parola veritiera] e fa crescere la qualità del linguaggio [il gusto estetico]: chi parla bene pensa bene e questo processo [questo investimento in intelligenza] favorisce il senso etico e fa crescere il tasso di onestà, l’honestum. L’eloquenza non è semplicemente una disciplina ma è “una dote che consiste, prima di tutto [afferma Quintiliano], nel saper parlare alla nostra coscienza perché essa si faccia consapevole di quali sono le virtù a cui fare ricorso per comportarsi correttamente nella vita pubblica e le virtù, che l’eloquenza insegna [di cui l’eloquenza è fatta], sono: la sapienza [sapientia], la giustizia [ratio societatis et humanitatis], la fortezza [magnitudo animi], la temperanza [decorum]”. Quindi l’eloquenza [afferma Quintiliano, parafrasando Catone e Cicerone] è lo strumento di controllo della ragione sugli istinti fondamentali che abitano nella natura umana e che spingono l’individuo a battere la strada della disonestà: l’eloquenza è lo strumento per acquisire l’attitudine all’onestà.
Ne la Institutio oratoria [La formazione dell’oratore] Quintiliano affronta il tema dell’educazione a partire dall’infanzia: le persone vanno educate all’eloquenza fin da piccole, prima nell’ambito familiare e poi in quello della Scuola pubblica – Quintiliano è un accanito sostenitore della Scuola pubblica [ha convinto Vespasiano ad istituire il sistema della pubblica istruzione] –, le persone vanno educate all’eloquenza con una pedagogia corretta e rispettosa della natura e delle esigenze delle varie età, e a questo tema Quintiliano dedica pagine significative sotto il profilo psicologico. Di grande interesse è l’excursus letterario contenuto nel Libro X de la Institutio oratoria, in cui Quintiliano elenca, dividendoli per generi, gli autori greci e latini la cui lettura è utile alla formazione dell’oratore; in questo excursus si nota la sua predilezione per le Opere più recenti, le opere della prima generazione dei Classici [Cicerone, Lucrezio, Virgilio, Orazio, Ovidio ricevono l’imprimatur da Quintiliano], poi sottolinea l’originalità del genere letterario della satira e formula giudizi critici molto interessanti in campo letterario, giudizi spesso condivisi dalla sensibilità moderna.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quale di queste parole – chiarezza, efficacia, espressività, incisività – mettereste per prima accanto alla parola “eloquenza”?…
Scrivetela…
E ora leggiamo una pagina da Institutio oratoria di Quintiliano: questa pagina ci basta per fare un esercizio significativo che consiste [come abbiamo già anticipato] nel dipanare un interessante intreccio filologico che coinvolge l’opera di Quintiliano e il romanzo Il postino di Neruda del quale questa sera, strada facendo, abbiamo letto due pagine, non casualmente: non sarà difficile individuare l’intreccio lessicale che dobbiamo dipanare: procediamo.
LEGERE MULTUM….
Marco Fabio Quintiliano, Institutio oratoria [La formazione dell’oratore]
Alla nascita di un figlio i genitori devono agire in modo da farlo diventare una persona diligente. Molti pensano che la natura abbia accordato a pochissimi individui la facoltà di comprendere i concetti e abbandonano così l’intelletto dei loro bambini alla pigrizia: hanno torto! Le impressioni più profonde sono quelle che la nostra anima ha ricevuto quando era ancora tenera, e le impressioni che persistono con maggiore ostinazione sono quelle più inutili e più cattive: il bene si cambia facilmente in male e non c’è altro rimedio che l’azione educativa. Quando mai il vizio si trasforma in virtù? L’unica possibilità di cambiamento è data dall’istruzione. È dunque bene che i bambini non si abituino, anche quando non sanno ancora parlare, ad un linguaggio che essi poi debbano disimparare per apprenderne uno adeguato al conseguimento del bene.
Accanto ai genitori io vorrei avvenisse la maggior parte possibile dell’istruzione e noi sappiamo, per esempio, che l’eloquenza dei Gracchi è dovuta soprattutto a Cornelia la loro madre. I maestri poi io vorrei che fossero veramente istruiti, oppure che si sapesse che non lo sono affatto: niente è più dannoso di coloro che, avendo qualche rudimento di sapere, sono persuasi, erroneamente, di essere sapienti. Io vorrei che il fanciullo cominciasse a studiare dal greco perché è nella scienza greca che egli deve essere istruito poiché è dalla greca che è derivata la nostra latina.
Alcuni autori hanno ritenuto che non sia opportuno iniziare gli studi prima dei sette anni, pensano che prima di questa età non ci sarebbe il grado di intelligenza necessario per imparare ma, cosa faranno di meglio i bambini, dal momento in cui cominciano a parlare – dovranno fare pur qualche cosa e, difatti, molti ipocriti sfruttatori li fanno lavorare procurando loro, dalla più tenera età, una vita piena di amarezze [una vita agra] –, ma dalla nascita ai sette anni quante cose imparano i bambini! Certo occorre evitare che essi, ancora incapaci di amare lo studio, lo prendano in odio e allora poniamo delle questioni, facciamogli elogi in modo che il bambino si compiaccia dei suoi sforzi e ne chieda di maggiori.
Quando il fanciullo comincerà a conoscere la forma delle lettere, non sarà inutile che egli le tracci con una certa profondità nelle tavolette affinché possa seguirne il solco perché non è cosa indifferente scrivere bene esercitando la ponderazione. Infatti, nei nostri studi, l’esercizio più importante, che assicura dei progressi reali e fondati, è proprio la scrittura: essa favorisce il parlar bene e il parlar bene favorisce la chiarezza del pensiero, e la chiarezza del pensiero favorisce la costruzione delle metafore, ed è con le metafore che diamo significato al mondo, è con le immagini allegoriche che diamo senso al tutto che ci circonda naturalmente, e questo tutto è la metafora di qualcosa: il tutto che ci circonda naturalmente è l’immagine del Logos, è la figura del Sommo Bene che, in quanto depositario della Verità, ci addita la via dell’onestà.
Quando il fanciullo sarà affidato agli insegnanti della Scuola pubblica per studiare la retorica e l’eloquenza deve già aver capito che queste discipline sono gli strumenti di controllo della ragione sugli istinti fondamentali che abitano nella natura umana e che spingono l’individuo a battere la strada della disonestà, deve essere già chiaro nella sua mente di fanciullo che l’eloquenza è lo strumento per acquisire l’attitudine all’onestà. …
In questa bella pagina si concentrano i principali aspetti su cui abbiamo puntato l’attenzione nel corso dell’itinerario di questa sera compreso il tema – decisamente attuale – della denuncia del lavoro minorile come causa di “vita agra” e di “malora”, scrive Quintiliano: «le bambine e i bambini dovranno fare pur qualche cosa e, difatti, molti ipocriti sfruttatori li fanno lavorare procurando loro, dalla più tenera età, una vita piena di amarezze [una vita agra]». La “vita agra” [abbiamo detto] crea una situazione sociale [dà origine ad un vero e proprio concetto antropologico] che ha preso il nome di “malora”, e sui temi [altamente evocativi] della “vita agra” e della “malora” ritorneremo la prossima settimana, strada facendo, in funzione della didattica della lettura e della scrittura.
La pagina che abbiamo letto è veramente istruttiva ma, tuttavia, la lettura di Institutio oratoria di Quintiliano presenta molte difficoltà e risulta non agevole – questo non significa che non dobbiate o non possiate consultare questo testo di cui conoscete i caratteri fondamentali [lo trovate in biblioteca] – mentre la lettura [o la rilettura] del romanzo Il postino di Neruda è un esercizio più semplice e accattivante proprio perché – sulla scia dell’Alfabetizzazione culturale e funzionale – risulta gratificante riconoscere una serie di elementi [parole-chiave, idee-cardine] che hanno come corrispettivo il mondo filosofico del tardo-antico, e anche Quintiliano ci consiglia di fare questo esercizio perché è certamente lusingato di essere stato citato [se non esplicitamente] da un autore, Antonio Skármeta, che questi temi se li è studiati [da buon conoscitore della cultura classica] per utilizzarli in funzione della didattica della lettura e della scrittura. Quintiliano è compiaciuto di essere stato coinvolto letterariamente per poter favorire, nel suo ruolo di maestro, la realizzazione di un investimento in intelligenza.
Sui temi [altamente evocativi] della “vita agra” e della “malora” ritorneremo la prossima settimana in funzione della didattica della lettura e della scrittura, difatti incontreremo un’opera di uno scrittore italiano contemporaneo semisconosciuto che, tuttavia, oggi, viene considerato un “classico” della Letteratura del Novecento. Di che opera si tratta e chi è questo scrittore? È uno che non ama essere evocato prima del tempo e questa volontà va rispettata.
Anche i Padri Apostolici – i rappresentanti più autorevoli della tendenza conciliativa – sono consapevoli che la “vita agra” e la “malora” condizionino l’esistenza degli abitanti dell’Ecumene del I e del II secolo ma sono convinti che a questa situazione si possa dare un’alternativa con un messaggio di speranza che possa “addolcire” la vita agra e possa far dire “alla buonora” piuttosto che “ma va in malora”. Questo messaggio [come sappiamo] è relativo ad una “buona notizia [euanghelon, il vangelo]” di cui conosciamo il contenuto. Però la divulgazione di questa “buona notizia” espone i diffusori [gli evangelizzatori] alla “disubbidienza civile” che, spesso, costa loro la vita [vengono accusati di ateismo, di lesa maestà, di concubinaggio, di obiezione di coscienza, di anarchia e condannati a morte].
Sappiamo che la proclamazione dei “valori civili” è costata la vita anche a un certo numero di scrittori “classici [Cicerone, Catone l’Uticense, Seneca, Lucano, Petronio]” i quali si danno la morte per liberarsi da una vita che la tirannia ha reso di pessima qualità mentre un certo numero di scrittori “evangelici” affrontano la morte per guadagnare una vita di migliore qualità, ed è in linea con questo pensiero che la prossima settimana incontreremo [rincontreremo] i Padri Apostolici. La prossima settimana incontreremo solo il primo dei Padri Apostolici: Clemente Romano [al quale affidiamo metaforicamente la sede vacante].
Chi sono i Padri Apostolici e che valore hanno le loro opere? Le Opere dei Padri Apostolici [Clemente, Ignazio e Policarpo] costituiscono un tassello fondamentale, utile per capire i tratti [poetici e filosofici] che va assumendo la cultura tardo-antica nel II e nel III secolo. Che caratteristiche ha la “Scuola ellenistica clementina”, fondata a Roma da Clemente Romano? E perché questo laboratorio culturale diventa il primo Centro studi della cristianità? E quali sono le Opere letterarie che formano lo strato intellettuale più profondo nel quale mette radici la Chiesa di Roma, destinata ad assumere un ruolo di centralità nella Storia del Pensiero Umano tardo-antico e, poi, medioevale?
Per rispondere a queste domande è doveroso seguire la scia dell’Alfabetizzazione e dell’Apprendimento permanente perché l’Alfabetizzazione culturale e funzionale è un bene comune [come l’eloquenza] e l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona: per questo la Scuola è qui con il suo carattere “vagante” per spronarci ad investire in intelligenza.
Il viaggio continua…