Prof. Giuseppe Nibbi La sapienza poetica e filosofica dell’età tardo-antica 6-7-8 marzo 2013
SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ TARDO-ANTICA
FIORISCE LA LETTERATURA CLEMENTINA ...
È iniziato il mese di marzo, siamo in attesa dell’inizio della primavera e questo è il diciottesimo itinerario sul “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età tardo-antica”. La scorsa settimana – attraversando quest’ampia area di confine tra l’Antichità [il mondo antico si sta allontanando] e Medioevo [di cui si cominciano a distinguere i bagliori, sebbene ancora molto in lontananza] – abbiamo lasciato il paesaggio intellettuale dell’Età dei Flavi: sappiamo che gli imperatori della dinastia dei Flavi – Vespasiano, Tito e Domiziano – regnano dal 69 al 96 [per tutta la seconda metà del I secolo] e adesso ci troviamo in vista di un nuovo paesaggio intellettuale.
Questa sera – come abbiamo preannunciato otto giorni fa – ci sono due temi che s’intrecceranno di fronte a noi: un tema di carattere letterario, proposto da Marziale e poi da Quintiliano [del quale la scorsa settimana abbiamo studiato l’opera], ed è un tema che fa riferimento ai termini “vita agra” e “malora”, due concetti antropologici dei quali seguiremo lo sviluppo in funzione della didattica della lettura e della scrittura supportati da uno scrittore contemporaneo [che incontreremo alla fine di questo itinerario] autore di un romanzo significativo, mentre il secondo tema riguarda più da vicino il nostro viaggio sul territorio dell’Età tardo-antica in relazione al fiorire della Letteratura dei Vangeli, uno degli avvenimenti culturali più importanti di quest’Epoca a cavallo tra il mondo antico e l’universo medioevale.
Sappiamo che l’evento evangelico non nasce dal nulla e l’ortodossia del cristianesimo si sviluppa in Epoca tardo-antica in rapporto con la cultura greca per opera di un movimento intellettuale che prende il nome di “tendenza conciliativa”. Coloro i quali hanno dato sviluppo intellettuale alla “tendenza conciliativa [che hanno dimostrato di possedere la predisposizione mentale all’accordo, all’intesa, al patto, al compromesso, all’accomodamento]” hanno saputo investire in intelligenza utilizzando le dinamiche della cultura greca e questo ha favorito [come sappiamo], nella prima metà del I secolo, la composizione dei testi delle Lettere di Paolo di Tarso [su cui abbiamo compiuto molti studi], del testo del Vangelo secondo Marco [su cui abbiamo recentemente puntato l’attenzione] e poi delle Opere dei Padri Apostolici [Clemente, Ignazio e Policarpo] che costituiscono un tassello fondamentale, utile per capire i tratti che va assumendo la cultura tardo-antica nel II e nel III secolo. I Padri Apostolici – questo nome è stato loro attribuito nel XII secolo, in pieno Medioevo – hanno avuto il merito di capire l’importanza dell’Epistolario di Paolo di Tarso e quindi hanno raccolto, conservato, ordinato, commentato e divulgato i testi delle sue Lettere [argomento che abbiamo studiato nel corso del viaggio dell’anno 2010-2011]. I tre Padri Apostolici [Clemente, Ignazio e Policarpo, con i quali abbiamo avuto, in questi anni, diversi contatti in altri contesti, soprattutto con Clemente Romano, ed è proprio Clemente Romano che questa sera incontreremo, mentre con Ignazio e Policarpo abbiamo appuntamento la prossima settimana] li stiamo per incontrare dentro ad un nuovo paesaggio intellettuale [che è lo scenario di loro competenza], quello del “l’Età degli imperatori d’adozione”: che significato ha questa dicitura?
Dobbiamo – a questo proposito – dare una spiegazione di natura storica. L’Epoca degli imperatori d’adozione ha inizio nell’anno 96 quando, dopo l’assassinio di Domiziano, l’ultimo dei Flavi – che è stato un pessimo imperatore, avido di ricchezze e feroce, sostenuto dai pretoriani – il Senato della Repubblica [perché paradossalmente si continuava ad attribuire all’impero romano lo status di Repubblica], per impedire che le legioni dell’esercito e i pretoriani acclamino nuovi imperatori creando uno stato di confusione istituzionale e di guerra civile, sceglie prontamente uno dei suoi membri, un oppositore di Domiziano, il vecchio e stimato senatore Marco Cocceio Nerva e gli attribuisce il titolo di principe del Senato. Il Senato, con l’elezione di Nerva, istituisce anche un metodo per la scelta dell’imperatore: istituzionalizza un nuovo sistema di successione attraverso lo strumento dell’adozione [modificando il concetto familista di adozione introdotto da Augusto a suo tempo]: per questo motivo, i prìncipi di quest’epoca vengono chiamati “imperatori d’adozione” e questo nuovo sistema – che vuole contrastare il regime di dittatura militare instaurato dai Flavi – non deve portare al vertice dello Stato un parente del Principe per gratificare il proprio clan ma deve essere lo strumento per scegliere il candidato migliore, il “più degno [dignus qui laudētur]”.
Marco Cocceio Nerva è nato a Narni, intorno all’anno 30, e non possiamo lasciar passare inosservato il suo luogo di nascita. Vale infatti la pena fare una visita [seppur virtuale] alla bella cittadina di Narni, l’antica Nequinum degli Umbri, conquistata dai Romani nel 299 a.C., sul cui sito hanno fondato la colonia di Narnia in posizione strategica per il controllo del territorio. Narni [con circa ventimila abitanti] si trova in Umbria e fa parte del cosiddetto triangolo Amerino-Narnese ai cui vertici ci sono le città di Terni, Narni e Amelia: andate ad osservare questa zona sull’Atlante geografico, siamo nel cuore della penisola. Arrivando da Terni, percorrendo la via Flaminia, si entra in Narni Scalo [la moderna città bassa] attraversando un ponte sul fiume Nera accanto al quale resta una grandiosa arcata superstite dell’antico ponte di Augusto. La Narni antica sorge [a 240 metri di altitudine] su uno sperone che domina la gola del fiume Nera e la conca ternana, e l’asperità e la conformazione di questo colle ne ha condizionato lo sviluppo urbanistico in senso assai pittoresco.
Narni è ricca di bei monumenti medioevali, ne citiamo alcuni: il Duomo romanico [XI secolo] con apporti rinascimentali [XV secolo] dedicato a San Giovenale e Cassio [i nomi testimoniano il processo di cristianizzazione della romanità], la piazza dei Priori con la loggia dei Priori, il Palazzo del Podestà, la Chiesa di San Domenico [ristrutturata ad Auditorium e Museo], le Chiese di San Francesco, Sant’Agostino, Santa Margherita [del 1600] e, in alto, salendo per la caratteristica via del Monte, dopo aver percorso via Cocceio Nerva, si arriva alla Rocca papale [la Rocca di Narni è stata più volte ristrutturata nei secoli successivi] fatta costruire nella seconda metà del Trecento dal cardinale Gil Àlvarez Carillo de Albornoz, legato in Italia di papa Innocenzo VI [i papi erano ad Avignone].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Con una guida dell’Umbria e collegandovi alla rete potete fare un’escursione a Narni...
Buon viaggio…
Marco Cocceio Nerva, nato a Narni intorno all’anno 30, è una persona di valore: onesto, intelligente e, sebbene abbia poca esperienza amministrativa e di comando, tuttavia è fornito di spirito pratico e umano e, soprattutto, è capace di scegliere le persone giuste da mettere ai posti giusti di governo. Cocceio Nerva – in virtù del sistema dell’adozione – sceglie subito un giovane e valoroso generale [l’individuo migliore che ci sia in circolazione] di nome Ulpio Traiano e, dopo avergli fatto fare tirocinio, lo designa come suo successore. Traiano – che governa dal 98 [l’anno della morte di Nerva, il quale guida lo Stato solo per sedici mesi] al 117 – è il primo imperatore nativo della Spagna: è un esperto generale, una persona moralmente onesta e giusta che porta avanti con determinazione il programma di governo di Nerva.
Traiano consolida i confini dell’impero, diminuisce le imposte alla classe media, desidera che si amministri la giustizia con mitezza, crea istituti di beneficenza a favore delle classi più povere, sottomette i Daci che si erano stabiliti a nord del Danubio inferiore e crea la provincia della Dacia, un territorio che oggi si chiama Romania, dove installa molte colonie, edifica città, fa costruire ponti, acquedotti, monumenti. Traiano in Romania è considerato il “padre fondatore” di questa nazione che conserva nel nome, nella lingua e nei siti monumentali i ricordi della dominazione romana e, per celebrare questo evento, a Roma, in mezzo al Foro Traiano, viene elevata una magnifica Colonna alta 43 metri e rivestita esteriormente da una fascia di bassorilievi che rappresentano i principali episodi della sottomissione dei Daci e, al vertice, vi era una grande statua di Traiano in bronzo. La Colonna Traiana è stata eretta nel 113 ed è l’unico documento che descrive la fondazione della provincia della Dacia. Il fregio a spirale – lungo duecento metri e alto un metro – che riveste l’esterno della Colonna è formato da bassorilievi scolpiti in marmo che presentato ben 2500 figure raccolte in scene di battaglia, di marce, di costruzioni militari. Nell’interno della Colonna c’è una scala a chiocciola che permette di salire fino alla sommità dov’era la statua dell’imperatore che, poi, è stata sostituita da quella di San Pietro.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Su una guida di Roma e collegandovi alla rete potete osservare la Colonna Traiana che è uno dei più importanti capolavori dell’arte romana: le “colonne narranti [sul cui fregio viene narrata, in modo mitico, la Storia, a imitazione dei frontoni degli antichi templi greci]” diventano un genere artistico tipico dell’Età tardo-antica… È probabile che un particolare di qualche scena, rappresentata sul fregio della Colonna Traiana, attiri la vostra attenzione e vi permetta – se riuscite ad osservarla – di scrivere qualche riga in proposito…
Quale di queste parole – fondamento, appoggio, sostegno, supporto – mettereste per prima accanto alla parola “colonna”… Scrivetela...
C’è una persona alla quale potete dire: «Sei il sostegno della mia vita»?… Perché?…
Scrivete quattro righe in proposito…
Traiano consolida anche il confine mediorientale occupando il territorio dei Parti e spingendosi fino al golfo Persico creando la nuova provincia dell’Arabia comprendente la penisola del Sinai. Traiano, dal Reno al Danubio, fa costruire una serie di fortificazioni a catena: questo sistema difensivo prende il nome di “limes germanicus [confine germanico]” e ciò dimostra come questo enorme impero cominci a sentirsi accerchiato da popolazioni – che i Romani cominciano a chiamare, con parola greca, “barbaroi barbaroi [stranieri, che non parlano la nostra lingua]” – che premono sulle sue frontiere perché sono state scacciate da vaste aree, interne ai confini, che erano i loro naturali territori di caccia e di raccolta di beni di sopravvivenza. Traiano muore nel 117 mentre tornava dall’Oriente ed è sepolto ai piedi della Colonna Traiana.
Il passaggio di governo avviene senza traumi perché lui aveva, da tempo, scelto e preparato come successore un suo giovane cugino, anche lui spagnolo, che era venuto a Roma da bambino: Publio Elio Adriano, ma questa è un’altra storia e noi, dopo aver introdotto sotto il profilo storico [a grandi linee] il primo periodo dell’Età degli imperatori d’adozione: il periodo di Nerva e di Traiano [96-117], dobbiamo introdurre il tema che vogliamo trattare in funzione della didattica della lettura e della scrittura e che riguarda le figure dei Padri Apostolici che inaugurano quella che è stata chiamata la Letteratura patristica, o semplicemente la Patristica, uno degli argomenti più significativi che hanno preso forma dal I secolo sul territorio della “sapienza poetica e filosofica dell’Età tardo-antica”.
Che cos’è la Patristica? La Patristica è un grande apparato letterario formato da molte opere che costituiscono [se vogliamo usare una metafora] la “spina dorsale intellettuale” del Cristianesimo, composte da abili scrivani che sono stati chiamati Padri della Chiesa perché quella grande struttura eterogenea che è la Chiesa fonda la sua autorevolezza culturale sul prestigio della scrittura. I Padri della Chiesa sono dei “vescovi”, cioè sono i pastori, le guide spirituali, intellettuali e materiali di una comunità. I tre Padri detti “Apostolici” sono vissuti tra il I e il II secolo [nel primo periodo dell’Età degli imperatori d’adozione] e costituiscono la prima stratificazione storica della Chiesa, sono i primi “costruttori” della Chiesa e, per questo motivo, vengono chiamati “padri”. Le studiose e gli studiosi di filologia ci suggeriscono che i Padri Apostolici sono tre personaggi che tracciano idealmente una linea che unisce tre città, tre città importanti per la nascita e per la diffusione del Cristianesimo: la cosiddetta “linea Antiochia [oggi si chiama Antakya] - Smirne [oggi si chiama Izmìr] - Roma”. Su questa linea ideale [che abbiamo descritto andando da est verso ovest] si muovono – o insieme alle persone o per lettera – le parole-chiave e i concetti-cardine che hanno dato forma e contenuto alla dottrina della Chiesa e all’ortodossia cristiana.
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Cercate e seguite sull’Atlante geografico, nelle pagine che illustrano il bacino del Mediterraneo, la linea che unisce la città di Antiochia [oggi si chiama Antakya] con la città di Smirne [oggi si chiama Izmìr] fino alla città di Roma… Su per giù: quanti chilometri sarà lunga questa “linea ideale”?… Sapete calcolare le distanze sull’Atlante?… Provate a fare questo esercizio…
Prima di proseguire è utile presentare, sinteticamente, la “mappa culturale” della Patristica ellenistica.
In questo quadro emergono per primi i tre Padri Apostolici [Ignazio di Antiochia, Policarpo di Smirne e Clemente Romano, vissuti tra il I e il II secolo], coloro che hanno tracciato la linea portante dell’ortodossia cristiana: questa sera noi incontreremo Clemente Romano.
Poi emerge il gruppo più numeroso dei Padri Apologisti [vissuti tra il II e il III secolo] di cui fanno parte Giustino, Clemente Alessandrino, Origene, e poi Ireneo, Tertulliano e Cipriano: questi padri sono, in parte, i difensori della linea dell’ortodossia nei confronti di chi la critica e, in parte, sono portatori di spinte eterodosse che vengono chiamate “eresie” dalla parola greca “hairesis haìresis” che significa “scelta” nel senso di “distinzione” dalla linea ortodossa. Poi ci sono i tre Padri Cappadoci [vissuti tra il III e il IV secolo]: Basilio di Cesarea, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa e, insieme a questi tre, le studiose e gli studiosi citano anche Gerolamo di Betlemme nostro consueto compagno di viaggio dallo scorso anno per la sua competenza nei confronti della cultura “classica”. Questo, molto sinteticamente, è il quadro della Patristica ellenistica dal I al IV secolo e – in funzione della didattica della lettura e della scrittura e della riflessione filosofica – ce ne occuperemo strada facendo.
Ora concentriamo la nostra attenzione sui Padri Apostolici: questi tre personaggi sono stati chiamati così perché, secondo la Tradizione, fanno da tramite tra i dodici Apostoli [Simone detto Pietro, Andrea, Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tommaso, Giacomo il Minore, Taddeo, Simone il Cananeo, Giuda] – di cui storicamente non sappiamo quasi nulla e rappresentano i personaggi ideali di una Letteratura [la Letteratura dei Vangeli] che, in Età tardo-antica, è in formazione –; i Padri Apostolici sono l’espressione reale delle figure ideali dei dodici Apostoli [dell’ipotetica Chiesa di Gerusalemme, riunita intorno al tavolo dell’Ultima Cena].
I Padri Apostolici rappresentano la realtà concreta della Chiesa dei vescovi che è andata formandosi sul territorio dell’Ellenismo nel corso del I secolo, in Età tardo-antica, e si presenta frammentata in Ekklesìe [in assemblee, nel viaggio di tre anni fa abbiamo studiato questo tema] sorte nell’ambito delle Sinagoghe nelle quali, da secoli, si era sviluppata la cultura della diaspora ebraica e presenti in tutte le più importanti città dell’Ecumene [Antiochia, Filippi, Efeso, Smirne, Corinto, Tessalonica, Alessandria, Roma: quando Paolo di Tarso viaggia sul territorio ellenistico si sposta da una Sinagoga all’altra, da un’Ekklesìa all’altra].
I Padri Apostolici cominciano a tessere una trama intellettuale facendo “conciliare” l’evento evangelico con la cultura greca e, a questo proposito, si dedicano alla conservazione e all’esegesi dei testi delle Lettere di Paolo di Tarso che, volendo rinnovare l’ebraismo sulla scia della “buona notizia” della risurrezione del rabbi Gesù di Nazareth, diventa il reale apostolo del Cristianesimo e sono i Padri Apostolici a far diventare l’Epistolario paolino il primo tassello, il primo segmento fondamentale, il primo punto fermo della Letteratura dei Vangeli. Poi i Padri Apostolici, scrivendo a loro volta Lettere sul modello di quelle di Paolo, cominciano a dare una struttura alla Chiesa, favorendo la messa in rete [un’operazione di grande attualità] tra le varie comunità, tra le diverse Ekklesìe [assemblee].
Per costruire la “rete culturale” ci vuole il “filo”, e il filo deve essere fatto di materiale intellettuale e, difatti, il filo della prima rete culturale del Cristianesimo è fatto della stessa sostanza con cui sono fatte le parole-chiave e le idee-cardine contenute nell’Epistolario di Paolo di Tarso e i tessitori sono i tre Padri Apostolici: Clemente Romano [che molte e molti di voi conoscono bene, e che stiamo per rincontrare], Policarpo di Smirne e Ignazio di Antiochia [che incontreremo la prossima settimana].
Di Clemente Romano – il primo dei Padri Apostolici – la maggioranza di voi sa già tutto [si tratta, quindi, di un utile ripasso e sapete che l’esercizio del ripasso è parte integrante dell’attività di studio] ma altre persone qui presenti è possibile che non abbiano mai sentito nominare questo importante personaggio: è il primo papa della Chiesa di Roma su cui ci sia certezza storica, quando ancora al vescovo di Roma non veniva attribuito il confidenziale titolo di papa [il papà, il babbo].
Il vescovo Clemente Romano – come ci riferisce lo storico Eusebio di Cesarea – dirige la comunità di Roma dal 92 al 101, ed è sulla tomba di Clemente [come riporta il testo della liturgia del Giubileo dell’anno 2000] che sorge la prima struttura di riferimento, il primo elemento concreto della storia della Chiesa di Roma. Clemente Romano è il primo papa del quale si abbiano delle notizie storiche attendibili [sui precedenti: Pietro, Lino e Cleto-Anacleto possediamo solo riferimenti di carattere leggendario] e i papi, storicamente, sono i successori di Clemente perché è Clemente che disegna la figura dell’Apostolo Pietro come depositario di un “primato”, e lui si reputa il successore e l’erede di questo primato. Clemente Romano è colui che, in Età tardo-antica, ha dato una prima forma istituzionale alla Chiesa di Roma e, per fare questa operazione di carattere culturale, ha utilizzato lo strumento della “scrittura” secondo lo stile delle comunità ebraiche della diaspora ellenistica – anche perché Clemente è un ebreo cresciuto nella Sinagoga di Roma –, e poi utilizza lo strumento della “scrittura” anche secondo il metodo delle Scuole filosofiche ellenistiche [è sempre l’integrazione culturale a dare i frutti migliori]. Clemente Romano è uno scrittore di Epoca tardo-antica e scrive utilizzando, prima di tutto, il greco della koiné [la lingua popolare più diffusa nell’impero romano, la lingua di Paolo di Tarso e della nascente Letteratura dei Vangeli] ed è autore di una serie di opere che, complessivamente, formano quella che viene chiamata la “Letteratura clementina” che è il documento scritto che rappresenta il primo atto costitutivo della Chiesa di Roma. Clemente Romano non opera da solo sul piano intellettuale ma – secondo il modello delle Scuole ellenistiche [epicuree, stoiche, scettiche, eclettiche] – fonda una Scuola di scrittura che le studiose e gli studiosi di filologia chiamano “Scuola ellenistica clementina” che viene considerata il primo Centro studi della Chiesa di Roma e il Cristianesimo resiste e si afferma anche perché, attraverso questo laboratorio culturale, recepisce la “Lezione dei classici” [come ha scritto Gerolamo nel V secolo].
Clemente Romano ha ricevuto un’istruzione da ebreo di cultura ellenistica ed è consapevole dell’importanza che ha avuto e che ha l’integrazione [la contaminazione, la conciliazione] tra la cultura biblica contenuta nei Libri dell’Antico Testamento [tradotti in greco ad Alessandria nei tre secoli precedenti], la cultura classica greco-romana [il cui processo di integrazione è ancora in corso nel I secolo] e il messaggio evangelico [intorno al quale sta nascendo una nuova Letteratura] ed è, quindi, facile per lui entrare in sintonia con l’esperienza intellettuale di Paolo di Tarso [Paolo è morto da circa trent’anni]. Egli difatti raccoglie, riordina e completa ciò che dell’Epistolario paolino è stato tramandato [in primo luogo dai membri della corrente paolina che, all’inizio degli anni 70, hanno composto il testo del Vangelo secondo Marco, un’opera prima che diventa il modello di un nuovo genere letterario] e, inoltre, scrive un certo numero di Lettere sul modello di quelle di Paolo tanto che, a volte, questi testi presentano delle sovrapposizioni per cui è difficile distinguere chi sia l’autore: se Paolo o Clemente.
La prima intuizione geniale di Clemente Romano è stata quella di aver raccolto molti materiali [racconti scritti di carattere avventuroso ed edificante, che hanno come protagonista soprattutto Paolo di Tarso, provenienti da Cesarea e da Alessandria] e di averli fatti diventare il testo omogeneo degli Atti degli Apostoli. Clemente compone questa importante opera [che abbiamo studiato in lungo e in largo] con lo stile del romanzo apologetico tipico dell’Età tardo-antica, facendola diventare il primo “catechismo” cristiano e, difatti, gli Atti degli Apostoli è un’opera che non intende raccontare la “storia” della Chiesa primitiva perché Clemente non è in possesso di elementi per poterlo fare [se non di notizie poco rassicuranti come lo scontro insanabile tra Pietro e Paolo, raccontato da Paolo nelle sue Lettere] ma il testo degli Atti narra in modo mitico, con intento pastorale, come dovrebbe essere la Chiesa e vuole insegnare su quali valori si deve basare la sua attività e che tipo di struttura, incentrata sulla fraternità [adelphia adelphia] e sull’amore solidale [agape agape], deve avere.
La seconda intuizione geniale di Clemente Romano è stata quella di aver scritto i primi due capitoli del Vangelo secondo Luca [e questo è un tema-chiave che abbiamo trattato più volte ma che dobbiamo ripassare e presentare per chi non lo conosce]. Le studiose e gli studiosi di filologia c’informano che il testo del Vangelo secondo Luca [kata Lucanos kata Lucanos] nasce da una prima stesura [su sentenze] su materiali elaborati a Cesarea Marittima e questo testo viene chiamato Proto Lucano. Una seconda stesura è avvenuta ad Alessandria e questo nuovo testo viene chiamato Proto Lucano Orientale. Alla fine degli anni 90 questo materiale arriva a Roma nelle mani del vescovo Clemente Romano che sta svolgendo [con la sua Scuola di scrittura] un lavoro da rapsodo [“rapsodo” in greco è il “sarto”] e, quindi, mette in ordine e predispone con una logica pastorale tutti gli scritti utili all’evangelizzazione che circolano sul territorio dell’Ecumene da un’Ekklesìa all’altra.
Clemente [la Scuola ellenistica clementina] scrive un racconto che narra in modo mitico – con lo stile poetico e filosofico tipico della Letteratura tardo-antica – la storia della nascita, in parallelo, di Giovanni il Battezzatore e di Gesù di Nazareth – e questo racconto, diviso in due capitoli, viene cucito [rhaptein rhàptein, in greco] sul testo del Vangelo secondo Luca [che è una rapsodia, rhaptein oide rhàptein oidè] e, quindi, i primi due capitoli del Vangelo secondo Luca danno forma ad un’opera [un’operetta, per la sua brevità] di Scuola clementina composta in Età tardo-antica e di pregevole valore letterario, filosofico e dottrinale: quest’opera [che dobbiamo considerare nella sua autonomia letteraria] è stata chiamata Vangelo deutero-lucano perché “deuteros deuteros”, in greco, significa “secondo”, come dire: un testo composto in un “secondo momento” per introdurre, completare e collegare tra loro vari testi già esistenti.
Basta una semplice ricognizione per capire come il Vangelo deutero-lucano [i primi due capitoli del Vangelo secondo Luca] si distingua nettamente dal testo del Vangelo secondo Luca che inizia con il terzo capitolo nel quale emerge un grande personaggio che nel I secolo continuava a contendere a Gesù il titolo di Messia: Giovanni il Battezzatore. In molte Ekklesìe c’era un acceso dibattito in corso su chi fosse il Messia: se Gesù o Giovanni…
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Tutti possediamo una Bibbia nella nostra biblioteca domestica, e la seconda parte di questo volume contiene le opere del Nuovo Testamento – un apparato di testi tra i più significativi della cultura tardo-antica - e, quindi, possiamo andare a constatare come il terzo capitolo del “Vangelo secondo Luca” inizi con le classiche parole di un incipit [“Era l’anno quindicesimo del regno dell’imperatore Tiberio ...”]…
Fate materialmente questo “esercizio di osservazione” perché è il primo gradino di quella disciplina che si chiama “esegesi”, parola che in greco significa “lettura attenta [che presta particolare attenzione alla forma e al contenuto]”, una disciplina che è stata introdotta nel III secolo a.C. in Biblioteca dai grammatici alessandrini per interpretare i papiri… Assumete una mentalità esegetica...
Il Vangelo deutero-lucano – i primi due capitoli aggregati al testo del “Vangelo secondo Luca” da Clemente Romano in cui si narra, in parallelo, la nascita di Giovanni e di Gesù – è congegnato come una vera e propria introduzione a tutta la Letteratura dei Vangeli [che è in via di formazione ma comprende già un discreto apparato di scritti]. Clemente [con grande sapienza intellettuale] vuole predisporre l’incipit [l’inizio] della trafila letteraria della “scrittura cristiana”, di quello che Paolo ha chiamato il Nuovo Testamento: è da questa introduzione – pensa Clemente – che bisogna cominciare a leggere con ordine le parole che contengono il messaggio di salvezza che scaturisce dalla “buona notizia” della risurrezione di Gesù.
In questo momento storico [nell’Età della sapienza poetica e filosofica tardo-antica] – ad un secolo dalla nascita di Gesù di Nazareth – è anche necessario chiarire, per quanto è possibile, alcuni argomenti piuttosto delicati che, nelle Ekklesìe, danno adito a violente polemiche, si discute animatamente sul ruolo di Giovanni il Battezzatore, sul ruolo di Maria di Nazareth, sul problema della misteriosa nascita di Gesù e sul tema della sua infanzia: come vengono affrontate queste complesse questioni? Mediante degli investimenti in intelligenza [con l’elaborazione letteraria e la riflessione filosofica], ma procediamo con ordine.
Nel testo del Vangelo deutero-lucano, prima di tutto, si vuol cercare di porre fine ad una polemica che nelle Ekklesìe si sta trascinando da quasi un secolo: bisogna chiarire, una volta per tutte, il ruolo della figura di Giovanni il Battezzatore che veniva considerato il Messia in molte comunità [Giovanni il Battezzatore ha lasciato una traccia profonda nella tradizione giudaico-ellenistica per il suo ruolo di guida: Gesù è stato discepolo di Giovanni, per il suo stile di vita, per la sua morte eroica], ed è necessario, quindi, descrivere in modo efficace la sua straordinaria missione profetica affermando che Giovanni non è il Messia ma è il fondamentale “precursore ebraico” del Messia e questo risultato viene raggiunto dagli scrivani della Scuola ellenistica guidata da Clemente con la composizione del “Cantico di Zaccaria [il padre di Giovanni]”, un bel brano [collocato al capitolo 1, versetti 67-80 del Vangelo deutero-lucano] in linea con le caratteristiche culturali dell’Età tardo-antica perché in esso la “sapienza poetica” e la “riflessione filosofica [in questo caso teologica]” s’incontrano in modo mirabile.
Nel “Cantico di Zaccaria” troviamo la prima definizione dottrinaria, di carattere “filosofico”, del Dio cristiano perché al versetto 78 del capitolo 1 del Vangelo deutero-lucano si legge: «Il nostro Dio è bontà e misericordia». Sul piano “filosofico” questo enunciato si rifà al pensiero delle Scuole ellenistiche [epicuree, stoiche, scettiche, eclettiche] le quali hanno sempre cercato di definire “che cosa sia” il Logos [il Sommo Bene, il Pensiero assoluto, la Parola divina] e non “chi sia” il Logos. Ed è significativo, quindi, il fatto che anche la prima definizione riguardante il Dio cristiano non rimanda all’interrogativo “chi è Dio?” ma bensì alla domanda “che cos’è Dio?” e questa scelta, dal punto di vista pastorale e filosofico, è molto importante perché se Dio, per quanto riguarda la sua essenza [chi è Dio] è indefinibile e quindi inimitabile, per quanto riguarda la sostanza che avvalora la sua esistenza [che cos’è Dio] si apre, invece, la possibilità di “umanizzare il divino” e di definire le qualità che la persona umana può far proprie a imitazione di Dio. Se la sostanza di Dio è “bontà e misericordia” significa – secondo la prassi pastorale e la visione filosofica di Clemente Romano che si esplicita nel testo del Vangelo deutero-lucano – che la persona vive, e deve vivere, di “bontà e misericordia”, due qualità che danno la felicità e che introducono alla “buonora” in un mondo dominato dalla “malora”.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
In quale occasione pensate di aver praticato la bontà e la misericordia?…
Scrivete quattro righe in proposito…
E ora – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – leggiamo una pagina e mezza del testo del Vangelo deutero-lucano in cui sono contenuti tre brani: nel primo brano si narra la visita di Maria ad Elisabetta e contiene il cantico del “Magnificat”, nel secondo brano si narra la nascita di Giovanni, e il terzo brano contiene il “Cantico di Zaccaria”. Prima di passare alla lettura è necessario conoscere una serie di note per poter capire il testo di questi tre brani del Vangelo deutero-lucano.
Giovanni Battista [il Battezzatore] è il figlio di Elisabetta, la cugina di Maria [nella Storia dell’arte pittorica queste figure hanno un ruolo importante ed è probabile che, in questo momento, vi venga in mente l’immagine di qualche dipinto, e non è difficile, collegandovi alla rete, fare delle osservazioni in proposito], e suo padre è Zaccaria, uno dei sacerdoti del tempio. Elisabetta e Zaccaria sono già anziani [richiamano le figure vetero-testamentarie di Sara e di Abramo e il racconto della nascita di Isacco], non hanno avuto figli e, quindi, sentono incombere su di loro la maledizione del Signore [la malora] ma dietro [o davanti] a questa sterilità – ci racconta il testo “deutero-lucano” – c’è un piano divino [la buonora] che riguarda la comparsa del più grande tra tutti i profeti, del “precursore” del Messia e, dopo circa un secolo di predicazioni eterogenee, è necessario fare chiarezza sul ruolo dei personaggi di una Letteratura [la Letteratura dei Vangeli] che vuole indicare la via della salvezza ed è, quindi, doveroso che ciascuno dei protagonisti svolga bene la propria parte.
Nel brano che narra la nascita di Giovanni Battista [il Battezzatore] emerge un concetto a noi noto dall’autunno scorso [da quando abbiamo iniziato questo viaggio] e legato a due parole-chiave che rimarcano l’inizio della fine dell’Età antica che si prolunga nell’Epoca tardo-antica; succede difatti che il sacerdote Zaccaria, nel tempio, quando viene incaricato di bruciare l’incenso nel Santo dei Santi, ha una visione angelica [noi non leggeremo questo episodio che appartiene alla prima parte del racconto e che prende il nome di “annuncio della nascita di Giovanni”]: l’arcangelo Gabriele [che subito dopo andrà a Nazareth a “salutare” Maria favorendo la nascita di quel “quadro” - replicato in non si sa quante versioni - a cui diamo il nome di “annunciazione”] annuncia a Zaccaria la nascita di un figlio, ciò che lui desiderava, ma, di fronte a questa “buona notizia [euanghelon euanghelon]”, Zaccaria si spaventa, teme che quello che gli sta capitando sia solo il frutto della sua immaginazione [la proiezione di un desiderio] e manifesta un’incredulità che provoca il disappunto da parte di Gabriele, tanto che a Zaccaria viene tolta la parola, e rimane muto e, probabilmente, anche sordo.
La “paura” e il “silenzio” – conosciamo queste due parole-chiave dall’inizio del nostro viaggio – sono due elementi che caratterizzano l’Età tardo-antica e la Scuola ellenistica clementina su questi termini-cardine investe in intelligenza così come fanno i “classici” ed elabora questi due concetti culturali [la “paura” e il “silenzio”] nel senso della “buonora” da contrapporre alla “malora” dando un contributo [alternativo a quello dei “classici” perché decisamente ammantato di speranza] alla riflessione esistenziale [di natura filosofica] in corso sul territorio dell’Ecumene tra il I e il II secolo. Gli scrivani “clementini” avvalorano in modo ancora più deciso la metafora della scrittura come “silenzio che urla, che proclama” e questa idea la capiremo quando, leggendo il testo, prenderemo atto del semplice ma significativo gesto [sul piano allegorico] che Zaccaria compie per liberarsi dal mutismo: è l’esercizio silenzioso della scrittura che dà voce al progetto di salvezza.
Zaccaria, che è rimasto muto, deve comunicare se il bambino – come sostiene Elisabetta – si debba davvero chiamare Giovanni [anche se non ci sono parenti che si chiamano così nella sua famiglia], e lui si fa dare una tavoletta, un stilo e scrive: «Questo bambino deve chiamarsi Giovanni [Yehōhānnān]» perché nel nome c’è l’identikit del personaggio e Giovanni [Yehōhānnān], in ebraico, letteralmente, significa “Dio [Yahve] è favorevole ad un cambiamento di mentalità” e difatti il programma di Giovanni il Battezzatore [personaggio che viene citato anche dallo storico Giuseppe Flavio nell’opera “La guerra giudaica”], che vive nel deserto come un profeta e va a predicare provocatoriamente nelle città [e anche Gesù di Nazareth si forma alla sua Scuola], si fonda sul concetto della “metanoia metànoia”, parola greca che in latino traduciamo “mutatio mentis” e che, in italiano, significa “cambiamento di mentalità, di idee, di propositi, rinnovamento interiore [conversione a U, cambio di marcia]”.
Nel passo intitolato il “Cantico di Zaccaria” troviamo [e ne siamo al corrente] la prima definizione del Dio cristiano che si presenta come una sintesi che chiude una riflessione, presente in tutto il brano che stiamo per leggere [e, se facciamo attenzione alle parole, i termini di questa riflessione non ci sfuggiranno], sul valore delle parole “bontà” e “misericordia” [la certificazione della “buonora”] che si contrappongono ai termini “paura” e “silenzio” [le immagini della “malora”].
Poi nel testo del Vangelo deutero-lucano emerge un’altra questione fondamentale che si pone agli albori della storia della Chiesa e che riguarda il ruolo di Maria di Nazareth, la madre di Gesù: questione assai delicata perché Maria, in quanto “madre del figlio di Dio”, finirebbe per sovrastare tutto e tutti nel segno della “dèa madre”. Il testo del Vangelo deutero-lucano fonde insieme, a regola d’arte [con una raffinata operazione di integrazione culturale], la figura ebraica della feconda “serva del Signore” [nella visione ebraica dell’Antico Testamento la donna raggiunge la dignità di “serva del Signore” quando è sposata, deflorata e feconda madre di molti figli] con la figura olimpica della “dèa vergine” secondo la cultura ellenica [le dèe dell’Olimpo sono vergini, vogliono godere del privilegio di non subire le sofferenze e i grattacapi delle donne mortali procurati dai parti e dallo svezzamento della prole], creando così il sintetico e paradossale concetto [che diventerà dottrina] della “vergine-madre”: un’operazione culturale [che abbiamo già studiato a suo tempo sotto vari aspetti] di grande e sapiente spregiudicatezza intellettuale che si esplicita nel racconto [e chi non lo conosce?] dell’Annunciazione e poi nell’inno elegiaco-sapienziale del “Magnificat”.
Nel brano che narra la celebre [artisticamente parlando] visita di Maria [che è appena rimasta incinta] ad Elisabetta [che è già al sesto mese di gravidanza] emergono due temi di straordinaria importanza: il primo riguarda il significato “politico” che ha il testo del “Cantico del Magnificat” [fra un po’ lo leggeremo] dove, secondo una logica proveniente dall’eversiva Letteratura dei Libri dei profeti dell’Antico Testamento [il midrash nebijm, un argomento che abbiamo più volte studiato: ultimamente nell’anno scolastico 2007-2008], Dio annuncia, per bocca di Maria, non solo un “cambiamento di mentalità [la metànoia]” ma un rovesciamento del sistema imperialista e le autorità romane – quando mettono l’occhio su questa Letteratura che detta le regole sul comportamento che devono tenere le persone evangelizzate nei confronti dei poteri dello Stato [praticare la disubbidienza civile] – non possono fare a meno di condannare il linguaggio evangelico [e scattano le Leggi sulla Lesa maestà e sull’attentato alle Istituzioni] come fomentatore dell’anarchia, una situazione che i governanti romani temono particolarmente [l’impero è una statolatria: si tende a divinizzare lo Stato e la figura dell’imperatore in cui lo Stato s’incarna e chi non crede in questo è considerato ateo]: quindi, non è per specifici motivi “religiosi” [a Roma si praticano liberamente centinaia di culti] ma è, prima di tutto, per motivi “politici” che entra in funzione il meccanismo della “persecuzione” dei cristiani [considerati anarchici, concubini, blasfemi, atei] e persino gli imperatori più illuminati non transigono.
Il secondo tema che emerge dal racconto della visita di Maria ad Elisabetta è ancor più “eversivo” sul piano antropologico perché è la prima volta che una Letteratura ci presenta, in modo così evidente, la complicità tra due dignitose donne del popolo alle quali non è affidata [per mezzo della loro fecondità] lo sviluppo di una dinastia, di un clan familiare, ma è addirittura affidata la storia della salvezza dell’Umanità. In un mondo, come quello imperiale romano, dove le donne, per decreto, non hanno alcun potere istituzionale [sono prigioniere nel recinto del loro clan familiare] e, nell’ambito dell’aristocrazia, sono costrette a farsi la guerra tra loro senza esclusione di colpi [come abbiamo studiato a suo tempo] per collocare i loro figli maschi ai vertici del potere, ebbene, in questo caso l’abbraccio tra Maria ed Elisabetta [e lo leggeremo] – due donne qualunque in procinto di diventare madri e consapevoli della loro missione [della loro “diakonia diakonìa”] – crea, questo abbraccio, l’effetto di «colmare di Spirito Santo [riempire di Pneuma, avvolgere nel Logos]» e le rende «benedette» creando un’inversione di tendenza nella riflessione sulla “condizione femminile”.
E, a questo proposito [prima di leggere], dobbiamo dire che questa pagina del Vangelo deutero-lucano ha, nei secoli, animato il dibattito sul ruolo della donna nella società e nella Chiesa [scatenando spesso la repressione] e ultimamente, in particolare dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II, soprattutto le donne delle Comunità di base [e le teologhe come Adriana Zarri] hanno cercato di porre all’ordine del giorno il tema della “diakonìa femminile ” [e già nella Lettera ai Romani di Paolo di Tarso, al capitolo 16, si fa riferimento alla diaconessa Febe della chiesa di Cencre] perché l’abbraccio tra Maria ed Elisabetta – che “le colma di Spirito Santo” rendendole simili agli Apostoli nel giorno di Pentecoste – avvalora il fatto che «questo atto [scrive Adriana Zarri] si estende a tutte le donne desiderose di avere un ruolo effettivo, una diakonìa, che vada oltre a quello di fare le pulizie [Adriana Zarri è sempre stata pungente]» e, in proposito, la strada da fare è ancora molta ed è in salita. A cominciare dal definire correttamente l’8 marzo come la “Giornata internazionale della donna lavoratrice”.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Collegandovi alla rete, e anche consultando un catalogo di Storia dell’arte che potete richiedere in biblioteca, potete osservare una delle diverse interpretazioni pittoriche che sono state date sul tema della “Visita di Maria ad Elisabetta”…
Descrivete, con quattro righe scritte, l’opera che avete osservato...
E ora [finalmente] leggiamo il testo che abbiamo commentato e che risulta molto più corto del commento che abbiamo fatto, ma la Letteratura clementina di Età tardo-antica è assai stimolante nel provocare riflessioni [e anche pericolosa per certe gerarchie maschiliste].
LEGERE MULTUM….
Vangelo secondo Luca [Testo deutero-lucano] 1, 39-80
In quei giorni Maria si mise in viaggio e raggiunse in fretta un villaggio che si trovava nella parte montagnosa della Giudea. Entrò in casa di Zaccaria e salutò Elisabetta. Appena Elisabetta udì il saluto di Maria, il bambino dentro di lei ebbe un fremito, ed essa fu colmata di Spirito Santo e a gran voce esclamò: «Dio ti ha benedetta più di tutte le altre donne, e benedetto è il bambino che avrai! Che grande cosa per me! Perché mai la madre del mio Signore viene a farmi visita? Appena ho sentito il tuo saluto, il bambino si è mosso in me per la gioia. Beata te che hai avuto fiducia nel Signore e hai creduto che egli può compiere ciò che ti ha annunziato».
Allora Maria disse: «Grande è il Signore: lo voglio lodare. Dio è mio salvatore: sono piena di gioia. Ha guardato a me, alla sua povera serva: tutti, d’ora in poi, mi diranno beata. Dio è potente: ha fatto in me grandi cose, santo è il suo nome. La sua misericordia resta per sempre con tutti quelli che lo servono. Ha dato prova della sua potenza, ha distrutto i superbi e i loro progetti. Ha rovesciato dal trono i potenti, ha rialzato da terra gli oppressi. Ha colmato i poveri di beni, ha rimandato i ricchi a mani vuote. Fedele nella sua misericordia, ha risollevato il suo popolo, Israele. Così aveva promesso ai nostri padri: ad Abramo e ai suoi discendenti per sempre».
Maria rimase con Elisabetta circa tre mesi. Poi ritornò a casa sua.
Giunse intanto per Elisabetta il tempo di partorire e diede alla luce un bambino. I suoi parenti e i vicini si rallegravano con lei perché avevano sentito dire che il Signore le aveva dato una grande prova della sua bontà.
Quando il bambino ebbe otto giorni vennero per il rito della circoncisione. Lo volevano chiamare Zaccaria, che era anche il nome di suo padre. Ma intervenne la madre: «No! - disse. - Il suo nome sarà Giovanni».
Gli altri le dissero: «Nessuno tra i tuoi parenti ha questo nome!».
Si rivolsero allora con i gesti al padre [era muto e sordo], per sapere quale doveva essere, secondo lui, il nome del bambino. Zaccaria chiese allora una tavoletta e scrisse: «Il suo nome è Giovanni». Tutti rimasero meravigliati. In quel medesimo istante Zaccaria aprì la bocca e riuscì di nuovo a parlare, e subito si mise a lodare Dio. [Attraverso la scrittura si acquista la parola]. Tutti i loro vicini furono presi da un senso di paura, e dappertutto in quella regione montagnosa della Giudea la gente parlava di questi fatti. Coloro che li sentivano raccontare si facevano pensierosi e tra le altre cose dicevano: «Che cosa diventerà mai questo bambino?». Davvero la potenza del Signore era con lui.
Allora Zaccaria, suo padre, fu riempito di Spirito Santo e si mise a parlare in modo profetico. «Benedetto il Signore, il Dio d’Israele: è venuto incontro al suo popolo, lo ha liberato. Per noi ha fatto sorgere un Salvatore potente tra i discendenti di Davide, suo servo. Da molto tempo lo aveva promesso per bocca dei suoi profeti. Ci ha liberato dai nostri nemici e dalle mani di tutti quelli che ci odiano. Ha avuto misericordia dei nostri padri, è rimasto fedele alla sua alleanza. Ha giurato ad Abramo, nostro padre di strapparci dalle mani dei nemici. Ora possiamo servirlo senza timore, santi e fedeli a lui per tutta la vita. E tu, figlio mio, diventerai profeta del Dio Altissimo andrai dinanzi al Signore a preparargli la via. E dirai al suo popolo che Dio lo salva e perdona i suoi peccati. Il nostro Dio è bontà e misericordia, ci verrà incontro dall’alto, come luce che sorge. Splenderà nelle tenebre per chi vive nel timore del trionfo della morte e guiderà i nostri passi sulla via della pace».
Il bambino intanto cresceva fisicamente e spiritualmente. Per molto tempo visse in regioni deserte fino a quando pubblicamente si manifestò al popolo d’Israele. …
Nel testo del Vangelo deutero-lucano troviamo poi la ricostruzione simbolica [nota a tutti] della nascita e dell’infanzia di Gesù: è il cosiddetto “Vangelo dell’infanzia” perché – dopo quasi un secolo – si sente l’esigenza di colmare un vuoto, e anche il racconto allegorico della nascita e dell’infanzia di Gesù [che si snoda in parallelo con il racconto della nascita di Giovanni il Battezzatore] ha in sé proprio i caratteri tipici della Letteratura ellenistica tardo-antica che riprende lo stile dell’epica-elegiaca [unisce angeli e pastori], e vi si riconosce il simbolismo religioso di stampo orfico al quale il cristianesimo delle origini si sta sovrapponendo, e vi si coglie il modo di interpretare i Libri dei profeti biblici secondo lo stile dell’ebraismo alessandrino che si è nutrito della cultura greca dei “classici”.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci mnuti al giorno di lettura e di scrittura:
A questo punto l’esercizio che tutte e tutti noi dovremmo fare è quello di leggere, o di rileggere, per intero e con attenzione [sono tre pagine] i primi due capitoli del “Vangelo secondo Luca” con la consapevolezza che si tratta di una vera e propria opera autonoma e introduttiva intitolata “Vangelo deutero-lucano”: il frutto del lavoro intellettuale della Scuola ellenistica clementina…
E, a questo proposito, leggiamo ancora insieme i primi quattro versetti del Vangelo deutero-lucano in chiave propedeutica: in preparazione alla lettura del testo completo dei primi due capitoli del Vangelo secondo Luca. Leggiamo questi versetti per capire come lo spirito e la cultura ellenistica [la Lezione dei “classici”] abbiano propiziato la composizione di quest’opera significativa e di tutta la Letteratura dei Vangeli, canonica e apocrifa.
Il Vangelo deutero-lucano inizia come se fosse una Lettera: «Caro Teofilo [Kratiste Teofile Kratistè Teofile, Illustre Teofilo]…», secondo lo stile di Paolo di Tarso ma anche, e soprattutto, secondo lo stile pedagogico di Epicuro [la Lettera a Meneceo] e di Seneca [le Lettere a Lucilio]. Il nome “Teofilos” non indica una persona reale ma è un termine allegorico: “Teofilos” significa “amico di Dio”, o meglio ancora, “la persona che ama Dio” e anche gli Atti degli Apostoli, il proto-catechismo cristiano, comincia proprio così: «Caro Teofilo…», un’espressione che rappresenta il marchio della “Scuola ellenistica clementina”. Poi l’autore del Vangelo deutero-lucano dichiara di voler scrivere “con ordine [katecse soi grafe katecsé soi grafé]”, e l’ordine di cui parla non è un ordine di tipo cronologico [non è storia perché avrebbe utilizzato i termini: tacsis tàcsis o kosmos kosmos] ma bensì un assetto di tipo letterario e didattico [è catechesi, katecsis katècsis] secondo il pensiero – già espresso, a suo tempo, nell’Epistolario di Paolo di Tarso – che: “il terreno di coltura della fede è la cultura”.
E allora leggiamo i primi quattro versetti del Vangelo deutero-lucano:
LEGERE MULTUM….
Vangelo secondo Luca [Testo deutero-lucano] 1, 1-4
[Caro Teofilo], molti prima di me hanno tentato di narrare con ordine quei fatti che sono accaduti tra noi. I primi a raccontarli sono stati i testimoni di quei fatti che avevano visto e udito: essi hanno ricevuto da Gesù l’incarico di annunciare la parola di Dio. Anch’io perciò mi sono deciso di fare ricerche accurate su tutto, risalendo fino alle origini. Ora, o illustre Teofilo [Kratistè Teofile], ti scrivo tutto con ordine [katècsis], e così potrai renderti conto di quanto sono solidi gli insegnamenti [kateketes] che hai ricevuto. …
Di quali insegnamenti [kateketes] parla Clemente Romano? Parla del “catalogo dei princìpi” intorno al quale sta prendendo forma la dottrina della Chiesa di Roma e il primo fascicolo di testi scritti contenenti i punti fondamentali della dottrina della Chiesa è la Letteratura clementina formata da opere, scritte da Clemente Romano, che non sono entrate – come invece è successo agli Atti degli Apostoli e al Vangelo deutero-lucano – nel canone del Nuovo Testamento ufficializzato dal Concilio di Nicea nel 325, ma che hanno contribuito a fondare l’ideologia, il programma pastorale e il pensiero filosofico della Chiesa. La Letteratura clementina è formata da opere non di valore “canonico [sacro e ispirato, la sacra scrittura del Vangelo]” che non sono entrate a far parte della Letteratura del Nuovo Testamento [delle Sacre Scritture] ma di carattere “enciclico [di carattere pastorale, su come si debba applicare la parola del Vangelo]”. Le opere della Letteratura clementina o le Clementine sono le prime “encicliche [le direttive del Vescovo]” della storia della Chiesa: quali sono queste opere? Di questo tema – che riguarda l’evoluzione della Storia del Pensiero Umano in Età tardo-antica – ce ne occuperemo la prossima settimana. Ora ci avviamo verso la conclusione di questo itinerario imbastendo una riflessione in funzione della didattica della lettura e della scrittura.
La società tardo-antica, che si sviluppa all’interno di quell’enorme Stato che è l’impero romano [in questo momento, con Traiano, nella sua maggiore estensione], versa in una situazione di degrado [economico, sociale, politico, morale] e gli autori “classici” greco-romani nelle loro Opere, in modo ironico e sarcastico, analizzano questo clima condizionato dalla “malora” [termine derivante dalla “sapienza poetica” di Marziale] e spesso sono portati ad evocare e anche ad affrontare la morte con la convinzione che possa essere un atto liberatorio nei confronti di una vita che non vale la pena di essere vissuta a causa della tirannide, mentre gli autori della Letteratura dei Vangeli [come abbiamo potuto constatare anche nel tratto di strada percorso questa sera], senza fare né ironia né sarcasmo, esorcizzano la “malora” e considerano la morte un punto di passaggio verso una vita di migliore qualità: questo messaggio di speranza orientato alla “buonora” in un mondo dominato dalla “malora” non può che riscuotere successo.
Il fatto è che la Malora [scritta con la M maiuscola] è una condizione esistenziale che si è guadagnata un posto di riguardo nello spazio della Storia del Pensiero Umano e, se mai, è stata la “buonora” – nonostante la carica di speranza portata dall’evento evangelico – a rimanere in secondo piano. La parola-chiave “malora” che definisce una condizione esistenziale dominata dalla rovina, dalla miseria, dalla perdizione, dalla disgrazia, dal fallimento ha avuto e ha un ruolo importante nella Letteratura, specialmente nella Letteratura contemporanea.
E, a questo proposito [come abbiamo annunciato all’inizio], non possiamo fare a meno di puntare l’attenzione, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, su un romanzo che, pubblicato nella più grande disattenzione, è poi diventato, insieme al suo autore, un “classico”. Questo romanzo s’intitola La Malora ed è stato scritto da Beppe Fenoglio, un autore che è stato preso seriamente in considerazione solo dopo la sua morte. Chi è Beppe Fenoglio, autore di una serie di romanzi che, oggi, vengono considerati dei “classici” del Novecento? A questa domanda risponderemo la prossima settimana. Questa sera, per concludere, leggiamo l’incipit de La Malora. Ma, prima di leggere, dobbiamo dire qualcosa in proposito.
Se [come diceva Italo Calvino] dovessimo rispondere alla domanda: chi sono i grandi della Letteratura italiana contemporanea?, non potremmo fare a meno di citare Beppe Fenoglio e, di solito, questa citazione provoca stupore perché poche persone lo conoscono e la stragrande maggioranza degli Italiani proprio non sa chi sia e, se si pensa a quanti imbecilli senza talento [senza saper far nulla] hanno raggiunto la notorietà, viene rabbia.
Fenoglio [1922-1963], come scrittore, merita di essere conosciuto perché ha il talento di un Capuana, di un Verga, di un Faulkner, di un Flaubert, di un Hemingway e il mondo della cultura si è accorto tardi delle sue doti – solo nel 1978, a cura di Maria Corti, è stata pubblicata l’edizione critica delle Opere di Beppe Fenoglio – e questo è avvenuto anche per una serie di comprensibili motivi: per il carattere schivo della persona, per la sua strana vicenda editoriale, per il fatto di aver vissuto arroccato in un angolo di Piemonte e di non aver avuto voglia di andare a Roma a farsi conoscere, per aver raccontato cose scomode e, infine, per essere morto troppo presto. Oggi, alcuni suoi romanzi sono famosi e sono considerati dei classici, benché in pochi li abbiano letti, come Il partigiano Johnny, Una questione privata, I ventitre giorni della città di Alba, La paga del sabato, La Malora.
Lo stile di Fenoglio – che scrive negli anni ’50 – contribuisce a creare una Letteratura nuova perché questo stile ha in sé, paradossalmente, la potenza di qualcosa di antico che si rivela con uno straordinario linguaggio: un linguaggio duro, arcaico, petroso, ricoperto da un significativo velo dialettale che lo rende particolarmente ironico e, a tratti, comico. Il linguaggio di Fenoglio è permeato da una grammatica spigolosa attraverso la quale passato e futuro, campagna e città, albe e tramonti s’incontrano, e questo modo di raccontare è congegnale a pochissimi scrittori: Fenoglio utilizza una “forma” che porta il contenuto ad arrivare subito al dunque.
Prima di leggere l’incipit de La Malora dobbiamo ancora dire che questo romanzo-breve, pubblicato nel 1954, racconta una vicenda ambientata nelle Langhe [siamo in Piemonte nel territorio di Alba] che rievoca il mondo contadino dei primi anni del Novecento, ma la dimensione storica è poco significativa, perché Beppe Fenoglio conferisce ai personaggi, sebbene siano drammaticamente vivi, un carattere simbolico, possiamo dire, epico [La Malora è un poema epico in prosa]. La “Malora” – il concetto esistenziale che abbiamo incontrato sulla via del tardo-antico – è la malasorte che colpisce una terra avara, abitata da persone prostrate non solo dalla miseria, ma anche dalle ingiustizie.
Il protagonista del romanzo è Agostino Braida, un ragazzo che – raccontando in prima persona – ricorda i momenti più significativi della sua vita. La narrazione si apre con l’immagine del cimitero di San Benedetto Belbo dove è sepolto suo padre, e questa immagine fa scattare la memoria degli avvenimenti che precedono e seguono il lutto. La famiglia Braida vive in un podere poco produttivo nell’alta Langa, una zona collinare povera di vegetazione e di acqua: la terra non è fertile ed il cibo è scarso. Agostino deve abbandonare la casa dove abita con i suoi per andare a lavorare come servitore in un podere chiamato il Pavaglione, presso la famiglia di Tobia Rabino – che è il mezzadro di un ricco farmacista di Alba – mentre suo fratello Emilio è costretto ad entrare in seminario. Fenoglio descrive un mondo di sfruttati, braccianti e affittavoli, abbrutiti dal lavoro ed accomunati dalla lotta per la sopravvivenza e, difatti, anche i figli di Tobia non sfuggono alla dura realtà quotidiana della fatica. Al Pavaglione i rapporti umani sono rari, condizionati dalla necessità, spesso dominati dalla reciproca incomprensione. La rigida gerarchia sociale, fondata sul denaro, è accettata fatalisticamente: tutti i personaggi subiscono il loro destino come una condanna – la condanna della Malora – alla quale nessuna volontà può sottrarsi [in Omero è il Fato, in Esiodo è il Dolore].
LEGERE MULTUM….
Beppe Fenoglio, La Malora
Pioveva su tutte le langhe, lassù a San Benedetto mio padre si pigliava la sua prima acqua sottoterra.
Era mancato nella notte di giovedì l’altro e lo seppellimmo domenica, tra le due messe. Fortuna che il mio padrone m’aveva anticipato tre marenghi, altrimenti in tutta casa nostra non c’era di che pagare i preti e la cassa e il pranzo ai parenti. La pietra gliel’avremmo messa più avanti, quando avessimo potuto tirare un po’ su testa. Io ero ripartito la mattina di mercoledì, mia madre voleva mettermi nel fagotto la mia parte dei vestiti di nostro padre, ma io le dissi di schivarmeli, che li avrei presi alla prima licenza che mi ridava Tobia. Ebbene, mentre facevo la mia strada a piedi, ero calmo, sfogato, mio fratello Emilio che studiava da prete sarebbe stato tranquillo e contento se m’avesse saputo così rassegnato dentro di me. Ma il momento che dall’alto di Benevello vidi sulla langa bassa la cascina di Tobia la rassegnazione mi scappò tutta. Avevo appena sotterrato mio padre e già andavo a ripigliare in tutto e per tutto la mia vita grama, neanche la morte di mio padre valeva a cambiarmi il destino.
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Leggeremo ancora qualche pagina da La Malora di Beppe Fenoglio che, oggi, viene considerato uno dei più significativi scrittori europei del Novecento. Chi è Beppe Fenoglio? Lo incontreremo la prossima settimana, e la prossima settimana incontreremo ancora Clemente Romano e poi Policarpo di Smirne mentre Ignazio di Antiochia lo incontreremo tra quindici giorni.
Le Opere dei Padri Apostolici costituiscono un tassello fondamentale, utile per capire i tratti [poetici e filosofici] che va assumendo la cultura tardo-antica nel II e nel III secolo. Ebbene, che importanza ha l’itinerario che parte da Antiochia passa per Smirne e arriva a Roma? E qual è il veicolo necessario per percorrere questo itinerario?
Per rispondere a queste domande è doveroso seguire la scia dell’Alfabetizzazione e dell’Apprendimento permanente perché l’Alfabetizzazione culturale e funzionale è un bene comune [come la buonora] e l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona: per questo la Scuola è qui con il suo carattere “errabondo” per invitarci ad investire in intelligenza …
Il viaggio continua…