Prof. Giuseppe Nibbi La sapienza poetica e filosofica dell’età tardo-antica 13-14-15 marzo 2013
SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ TARDO-ANTICA
LA LETTERATURA DEI PADRI APOSTOLICI TENDE A TRASFORMARE IL CONCETTO
DELLA “MALORA ” [DEL TRIONFO DELLA MORTE]
NELL’IDEA DELLA “BUONORA ” [DELLA SPERANZA DELLA RISURREZIONE] ...
Benvenute e benvenuti a Scuola a percorrere il diciannovesimo itinerario [il penulimo prima della vacanza pasquale] di questo viaggio mediante il quale stiamo attraversando il “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età tardo-antica”. La scorsa settimana – su quest’ampia area di confine tra l’Antichità e il Medioevo – ci siamo soffermate e soffermati di fronte ad un nuovo paesaggio intellettuale: quello del “l’Età degli imperatori d’adozione” e abbiamo osservato lo scenario del primo periodo di quest’Epoca, dal 96 al 117, che è il momento degli imperatori Cocceio Nerva e Ulpio Traiano.
Questa sera ci troviamo ancora di fronte a questo scenario nel quale continuano ad emergere due temi che s’intrecciano di fronte a noi: un tema di carattere letterario che fa riferimento a due termini, la “vita agra” e la “malora”, i quali, dall’Età tardo-antica [in primis con gli Epigrammi di Marziale], descrivono una condizione esistenziale sulla quale oggi continuiamo a riflettere perché è tutt’altro che esorcizzata. In funzione della didattica della lettura e della scrittura [secondo la natura del nostro viaggio] stiamo ragionando su questi due concetti antropologici, la “vita agra” e la “malora”, insieme ad uno scrittore contemporaneo che si chiama Beppe Fenoglio [che incontreremo da vicino nel corso di questo itinerario], autore di un breve romanzo significativo, considerato [così come un certo numero di opere di questo autore] un “classico”, intitolato La Malora del quale abbiamo già letto l’incipit otto giorni fa: questa sera leggeremo ancora qualche pagina di quest’opera.
Il secondo tema che emerge dal paesaggio intellettuale che contiene lo scenario del primo periodo de “l’Epoca degli imperatori d’adozione ” [l’Età di Nerva e di Traiano]c orrisponde ad un importante argomento che riguarda più da vicino il nostro viaggio sul territorio dell’Età tardo-antica: quello della fioritura della Letteratura dei Vangeli, uno degli avvenimenti culturali più importanti non solo di quest’Epoca a cavallo tra il mondo antico e l’universo medioevale ma di tutta la Storia del Pensiero Umano. Sappiamo che l’evento evangelico non nasce dal nulla e l’ortodossia del cristianesimo si sviluppa in Epoca tardo-antica in rapporto con la cultura greca per opera di un movimento intellettuale che prende il nome di “tendenza conciliativa”: una corrente di pensiero che tende ad attuare l’integrazione tra cultura ebraica dell’Antico Testamento, la nuova cultura evangelica e la filosofia greca. In primo piano tra coloro i quali hanno dato sviluppo intellettuale alla “tendenza conciliativa [che hanno dimostrato di possedere la predisposizione mentale all’accordo, all’intesa, al patto, al compromesso, all’accomodamento]”, utilizzando le dinamiche della cultura greca, ci sono i Padri Apostolici.
La scorsa settimana abbiamo, a grandi linee, osservato una mappa riassuntiva di quel grande movimento culturale – che si sviluppa dal I al IV secolo in Età tardo-antica –che si chiama la Patristica ellenistica. La Patristica è un grande apparato letterario formato da molte Opere che costituiscono [se vogliamo usare una metafora] la “spina dorsale intellettuale” del Cristianesimo, composte da abili scrivani che sono stati chiamati Padri della Chiesa perché quell’organismo eterogeneo [espressione di molte e diverse anime] che chiamiamo la Chiesa fonda la sua autorevolezza culturale sul prestigio della scrittura. Le Opere dei Padri Apostolici [Clemente, Ignazio e Policarpo] costituiscono un tassello fondamentale e utile per capire i tratti che va assumendo la cultura tardo-antica nel II e nel III secolo: tratti che condizioneranno la Storia del Pensiero in Età medioevale. I Padri Apostolici – questo nome è stato loro attribuito nel XII secolo, in pieno Medioevo – hanno avuto soprattutto il merito di capire l’importanza dell’Epistolario di Paolo di Tarso e quindi hanno raccolto, conservato, ordinato, commentato e divulgato i testi delle sue Lettere [abbiamo dedicato un viaggio, quello dell’anno 2010-2011, a questo argomento].
I tre Padri detti “Apostolici ” [perché fanno da tramite tra i dodici Apostoli scelti da Gesù, di cui non si sa quasi nulla, e la Chiesa reale] sono dei “vescovi”, cioè sono i pastori, le guide spirituali, intellettuali e materiali di una comunità e sono vissuti tra il I e il II secolo [nel primo periodo dell’Età degli imperatori d’adozione] e costituiscono la stratificazione storica più profonda della Chiesa, sono i primi “costruttori” dell’identità culturale della Chiesa e, per questo motivo, vengono chiamati “padri”. I Padri Apostolici sono tre personaggi che tracciano idealmente una linea – la linea del “radicamento culturale dell’evangelizzazione” – e questa linea è una strada che unisce tre città importanti per la nascita e per la diffusione del Cristianesimo: la prima evangelizzazione [e l’incubazione della Letteratura dei Vangeli: canonica, apocrifa ed enciclica] si sviluppa lungo la strada che va da Antiochia [oggi è la città turca di Antakya] a Smirne [oggi è città turca di Izmìr] fino a Roma. Su questa strada – anch’essa lastricata con le parole-chiave con cui comincia a finire l’Età antica [la patria e l’esilio, il sonno e il sogno, l’amore e l’odio, la malattia e il tormento, il trionfo della morte e la speranza della risurrezione] – viaggiano [insieme alle persone o per lettera] le idee-cardine che hanno dato forma e contenuto alla dottrina della Chiesa e all’ortodossia cristiana.
La scorsa settimana abbiamo cominciato a percorrere questa strada in senso inverso [da ovest verso est] partendo da Roma e incontrando Clemente Romano [con il quale in questi anni abbiamo avuto molti contatti]: il vescovo Clemente Romano – come ci riferisce lo storico Eusebio di Cesarea – dirige la comunità di Roma dal 92 al 101, e il primo elemento concreto della storia della Chiesa di Roma è la tomba di Clemente.
Clemente Romano è il primo papa [anche se i vescovi di Roma non si chiamano ancora così] del quale si abbiano delle notizie storiche attendibili [sui precedenti: Pietro, Lino e Cleto-Anacleto possediamo solo riferimenti di carattere leggendario] e i papi, storicamente, sono i successori di Clemente perché è Clemente che disegna la figura dell’Apostolo Pietro come depositario di un “primato”, e lui si reputa il successore e l’erede di questo primato. Clemente Romano è colui che, in Età tardo-antica, ha dato una prima forma istituzionale alla Chiesa di Roma e, per fare questa operazione di carattere culturale, ha utilizzato lo strumento della “scrittura” secondo lo stile delle comunità ebraiche della diaspora ellenistica [Clemente è un ebreo cresciuto nella Sinagoga di Roma] e anche secondo il metodo delle Scuole filosofiche ellenistiche perché i frutti migliori maturano sempre alla luce dell’integrazione culturale, e Clemente è uno dei massimi esponenti del movimento della “tendenza conciliativa” tra le culture [ebraica, evangelica, greca]. Clemente Romano è uno scrittore di Epoca tardo-antica e scrive utilizzando il greco della koiné [la lingua popolare più diffusa nell’impero romano, la lingua di Paolo di Tarso e della nascente Letteratura dei Vangeli] ed è autore di una serie di opere che, complessivamente, formano quella che viene chiamata la “Letteratura clementina” che è il documento scritto che rappresenta il primo atto costitutivo della Chiesa di Roma.
Sappiamo che Clemente Romano non opera da solo sul piano intellettuale ma fonda una Scuola di scrittura – secondo il modello delle Scuole ellenistiche [epicuree, stoiche, scettiche, eclettiche] – che le studiose e gli studiosi di filologia chiamano “Scuola ellenistica clementina”: questa Scuola può essere considerata il primo “Centro studi” della Chiesa di Roma e il Cristianesimo resiste e si afferma anche perché, attraverso questo laboratorio culturale, recepisce e utilizza la “Lezione dei classici” [come ha scritto Gerolamo nel V secolo]. Clemente Romano ha ricevuto un’istruzione da ebreo di cultura ellenistica ed è consapevole dell’importanza che ha avuto e che ha l’integrazione [la contaminazione, la conciliazione] tra la cultura biblica contenuta nei Libri dell’Antico Testamento [tradotti in greco ad Alessandria nei tre secoli precedenti], la cultura classica greco-romana [il cui processo di integrazione è ancora in corso nel I secolo] e il messaggio evangelico [intorno al quale sta nascendo una nuova Letteratura] ed è, quindi, facile per lui entrare in sintonia con il lascito intellettuale di Paolo di Tarso [Paolo è morto da circa trent’anni] e, difatti, Clemente raccoglie, riordina e completa ciò che dell’Epistolario paolino è stato tramandato e, inoltre, scrive un certo numero di Lettere sul modello di quelle di Paolo tanto che, a volte, questi testi presentano delle sovrapposizioni per cui è difficile distinguere chi sia l’autore: se Paolo o Clemente.
Ma, come sappiamo, Clemente ha avuto due grandi intuizioni che ha saputo concretizzare: la composizione del testo degli Atti degli Apostoli e del testo del Vangelo deutero-lucano che [come abbiamo studiato] corrisponde ai primi due capitoli del Vangelo secondo Luca, e mi auguro che li abbiate letti questi due capitoli visto che la scorsa settimana abbiamo fatto l’esegesi di alcuni punti fondamentali di quest’opera che si presenta come un’introduzione a tutta la Letteratura dei Vangeli.
Queste due opere – gli Atti e il testo Deutero-lucano – sono entrate nel canone del Nuovo Testamento [la Sacra Scrittura cristiana], ma Clemente Romano va ricordato soprattutto per le sue opere di carattere “enciclico [pastorale]” – comunemente dette Clementine – perché costituiscono la prima testimonianza, il primo fascicolo depositato nell’archivio – oggi enorme, formato da migliaia di opere – della Chiesa di Roma.
La Letteratura clementina o le Clementine – composta da Clemente Romano [da non confondersi con le Costituzioni clementine di Clemente V pubblicate da Giovanni XXII nel 1307] – è la prima raccolta di documenti ufficiali della Chiesa di Roma ed è formata da venti Omelie [prediche] e dieci Recognitiones [ricerche]. Il fatto è che solo quattro di queste Omelie e tre di queste Recognitiones sono opere autentiche [“originali”] di Clemente Romano: gli altri testi sono stati scritti da altri autori in epoca diversa [tra il IV e il V secolo].
Le Clementine non originali [le Recognitiones scritte qualche secolo dopo] contengono la narrazione di due leggende: la prima leggenda racconta che Clemente Romano – descritto come un noto esponente della Sinagoga di Roma – sarebbe stato convertito da San Pietro [ma se anche San Pietro fosse andato a Roma non avrebbe potuto incontrare Clemente perché non era ancora nato], mentre la seconda leggenda narra, con stile romanzesco, dell’avventurosa ricerca da parte di Clemente della propria famiglia, con un riconoscimento finale che ricorda l’episodio biblico di “Giuseppe e i suoi fratelli” [il capitolo 45 del Libro della Genesi].
Analizzando il testo latino delle Clementine “originali” emerge con chiarezza che Clemente Romano, come intellettuale ebreo della “diaspora”, conosce l’ebraico dell’Antico Testamento [e fa molte citazioni bibliche], conosce la koiné, legge e scrive nella lingua greca dell’Ellenismo [quindi commenta i testi della versione greca della Bibbia dei Settanta, delle Lettere di Paolo di Tarso e dei Vangeli] e naturalmente conosce il latino popolare [vulgaris] che è la lingua con cui si esprime nella sua vita quotidiana e ha grande dimestichezza con la lingua latina colta usata dai “classici”.
La prima annotazione da fare è che la Letteratura clementina è scritta in latino perché ormai il processo di evangelizzazione deve fare i conti con la lingua del potere politico che domina sull’Ecumene e questo fatto dimostra che Clemente ha capito il messaggio innovatore di Paolo di Tarso [che è morto a Roma da circa trent’anni] e che ha sostenuto l’importanza dell’integrazione culturale e della conoscenza delle lingue. Analizzando il testo latino delle Clementine “originali” s’intuisce che Clemente Romano s’impegna a favorire i processi di integrazione culturale e a maturare competenze nella conoscenza delle lingue, rifiutando la mentalità statica in nome di una impostazione dinamica: Clemente ha capito il concetto fondamentale per cui è necessario passare dalla visione della “Legge presa alla lettera [chiusa nella gabbia di un’antica lingua sacrale]” all’interpretazione dello “Spirito della Legge”.
Nelle Recognitiones [ricerche] “originali” Clemente individua nei testi dell’Antico Testamento tradotti in greco – specialmente nei Libri dei profeti [Isaia, Geremia, Amos, Ezechiele, Daniele] – i brani in cui, secondo lui, emerge la figura messianica di Gesù e li traduce in latino: il rabbi ebraico Gesù di Nazareth, con la Scuola di scrittura di Clemente Romano, diventa [dopo circa un secolo dalla sua comparsa] un personaggio il cui messaggio ha un copertura linguistica ecumenica perché le lingue che contano, dal punto di vista culturale nell’Età tardo-antica sul territorio dell’Ecumene, sono il greco e il latino. Clemente Romano capisce che è necessario conoscere le lingue delle culture dell’Ecumene [l’ebraico, il greco, il latino] e, a questo proposito, andate a leggere o a rileggere il significativo brano che racconta l’episodio della Pentecoste [della discesa dello Spirito Santo sugli Apostoli cinquanta giorni dopo Pasqua] che si trova all’inizio del secondo capitolo degli Atti degli Apostoli. La Scuola ellenistica clementina compone questo brano alla luce del pensiero della “tendenza conciliativa”: sulla testa degli Apostoli, sotto forma di lingue di fuoco, scende lo Spirito Santo e loro – nonostante siano dei poveri ignoranti – cominciano a parlare lingue diverse perché la “buona notizia della risurrezione” va tradotta, va fatta circolare, e non può rimanere segregata a Gerusalemme.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
C’è una lingua in particolare che vi piacerebbe conoscere?… Perché?…
Scrivete quattro righe in proposito…
Clemente Romano, il primo dei Padri Apostolici, scrive in greco una serie di Lettere sul modello di quelle di Paolo [spesso ci sono delle sovrapposizioni per cui è difficile distinguere tra i due autori], scrive in greco gli Atti degli Apostoli [che è il primo “catechismo” cristiano], scrive in greco i primi due capitoli del Vangelo secondo Luca [il testo deutero-lucano] e poi raccoglie, ristruttura, codifica e traduce in latino [e questa è una scelta strategica di grande importanza] le Lettere di Paolo di Tarso e, con questa significativa operazione intellettuale, determina e orienta in modo decisivo la linea dottrinale [l’ortodossia] del Cristianesimo.
Paolo di Tarso [più di cinquant’anni prima] aveva capito benissimo che la carta vincente per la diffusione della “buona notizia” era quella di usare la lingua della koiné: il greco dell’Ellenismo. Clemente Romano capisce altrettanto bene che questo patrimonio culturale – la traduzione in greco dei Libri della Bibbia ebraica, le Lettere di Paolo di Tarso e le Clementine che lui ha prodotto – deve essere tradotto in latino “vulgaris”, nell’idioma popolare delle classi subalterne che hanno aderito per prime alla nuova dottrina e ne costituiscono lo zoccolo duro, che è l’idioma ordinario dei membri dell’esercito e dei quadri del pubblico impiego [un vasto strato sociale di nuova conversione] a cui il Cristianesimo propone, con successo, il suo messaggio di salvezza in un momento di grande crisi [politica, economica, sociale, morale]. Gli imperatori di questo periodo storico [siamo di fronte al paesaggio intellettuale dell’Età degli imperatori d’adozione] Nerva, Traiano, e poi Adriano, sono persone che cominciano a domandarsi a che cosa sia servito spargere tanto sangue per costruire un apparato statale di queste dimensioni, e ormai ingovernabile [che va in malora].
Il testo delle Omelie [le prediche] di Clemente Romano contiene la prima esegesi [il primo commento] dell’Epistolario di Paolo di Tarso e oggi si attribuisce a Clemente anche la Lettera agli Ebrei di Paolo [questo testo, difatti, più che le caratteristiche di una lettera ha il carattere di una predica].
Clemente Romano è un intellettuale di cultura ebraico-ellenistica che nelle sue opere dimostra una grande conoscenza dei testi dei Libri dell’Antico Testamento e un’altrettanta conoscenza della filosofia e dell’etica ellenistica per cui imbastisce un dialogo con gli Epicurei e con gli Stoici dimostrando di conoscere bene il pensiero delle loro Scuole e le idee contenute nei loro catechismi. La cultura di Clemente Romano nasce da una matura ed equilibrata sintesi tra la religiosità ebraica e la spiritualità greco-romana e i frutti di questa sintesi [di questa “tendenza alla conciliazione tra le culture”] si ritrovano [come sappiamo] nel testo del Vangelo deutero-lucano e in quello degli Atti degli Apostoli. Tra le opere di Clemente si distinguono soprattutto le due Lettere ai Corinti scritte con lo stile epistolare di Paolo: la prima, redatta nell’anno 96, è originale, la seconda invece è apocrifa [è stata composta qualche secolo dopo].
Perché Clemente nel 96 scrive ai fedeli dalla comunità di Corinto? Se si studia l’Epistolario di Paolo di Tarso [come abbiamo fatto nel viaggio di tre anni fa] s’impara che i membri della Ekklesìa di Corinto sono piuttosto litigiosi e anche durante il pontificato di Clemente nasce una violenta discordia all’interno di questa comunità e per questo motivo Clemente, a nome della Chiesa di Roma, scrive questa Lettera per esortarli alla pace, per ravvivare la loro fede e per spingerli a dedicarsi alla carità. Clemente parla con cognizione di causa perché conosce le Lettere ai Corinti di Paolo [scritte circa quarant’anni prima] e da questa conoscenza fa derivare la sua autorità: l’autorità della Chiesa di Roma, e con questa “autorità” si fa mediatore, attraverso dei delegati, tra le parti in conflitto.
La Lettera ai Corinti di Clemente Romano è molto importante perché contiene il primo testo sul “Primato del Vescovo di Roma”: «Vi ordino la pace – scrive Clemente – perché ho l’autorità per farlo». Il “primato del Vescovo di Roma” si basa – scrive Clemente – sul concetto del “primato di Pietro” così come lo ha descritto Paolo con grande sagacia [sebbene un po’ contrariato] ma anche con grande umiltà: «Se il Signore ha chiamato Pietro accanto a sé una ragione ci sarà» e Paolo fa questa affermazione, palesemente sarcastica, perché [e lo abbiamo capito tre anni fa studiando il testo della Lettera ai Galati] Pietro e Paolo a Gerusalemme si sono scontrati con durezza [la pensano in modo opposto su come si debba gestire la “buona notizia” della risurrezione di Gesù: Pietro pensa che debba essere proclamata nel Tempio in lingua ebraica mentre Paolo pensa che debba essere diffusa sul territorio dell’Ecumene ellenistica in lingua greca], ma questo contrasto insanabile non impedisce a Paolo di utilizzare la figura di Pietro [che aveva vissuto a stretto contatto con il Signore] per codificare sapientemente il concetto di “autorità” nella Chiesa facendo conciliare il termine “autorità” con la parola-chiave “servizio”: il più importante, il più autorevole è colui che si mette a servizio degli altri. Paolo [nel testo della Lettera ai Galati] insiste sul fatto che Pietro non ha capito che, se la “buona notizia [il vangelo]” non esce da Gerusalemme e non viene diffusa nel vasto territorio dell’Ecumene, il messaggio salvifico di Gesù di Nazareth non avrà futuro. Pietro si scaglia contro Paolo in malo modo e Paolo reagisce [fanno a sassate, in una reciproca intifada] ma capisce anche che Pietro ha vissuto col Signore e, quindi, rappresenta un’autorità e, se il Signore lo ha scelto, c’è una ragione: probabilmente [pensa Paolo] Pietro, nonostante tutti i suoi limiti, è un puro di cuore e sa mettersi a servizio degli altri. Paolo, quindi, lascia da parte tutti i suoi rancori [li elabora, anche se ha ricevuto solo dissenso] e, nel suo viaggiare sul territorio dell’Ecumene, si presenta portando “l’autorità” di Pietro [anche se Pietro, e anche Giacomo, non ha voluto dargli nessuna credenziale] e Paolo fa pronunciare a Pietro parole di stampo ellenistico che Pietro non conosce e in questo modo [con questa intraprendenza] Paolo, a Roma, dà forma alla “autorità” di Pietro proclamando che il suo “primato” deriva dalla sua capacità di servire il prossimo. Quindi non ha nessuna importanza che Pietro sia stato materialmente a Roma perché, quando arriva nella capitale dell’impero, Paolo si sente in dovere di farlo parlare con le sue parole e con le sue idee: Paolo costruisce il prestigio di Pietro. Clemente, trent’anni dopo, raccoglie e sviluppa questa tradizione riportandola nel testo degli Atti degli Apostoli e poi, in nome di Paolo, impone, per Lettera, il suo “primato” come successore di Pietro.
Clemente Romano merita il titolo di Padre della Chiesa, di Padre Apostolico [in quanto portatore della “autorità” degli Apostoli] perché sviluppa sapientemente la grande ed epocale operazione culturale iniziata da Paolo di Tarso. Alla fine del I secolo la Chiesa di Roma – per opera di Clemente Romano – fonda la sua “autorità” sulle Lettere di Paolo, e i concetti contenuti nelle Lettere di Paolo diventano la trafila della “linea pastorale e dottrinaria” della Chiesa di Roma che tende a diventare il punto di riferimento per tutte le altre Ekklesìe sparse sul territorio dell’Ecumene.
Per concludere questo incontro [che non sarà l’ultimo] con Clemente Romano dobbiamo ricordare che in questo tempo [nell’Età degli imperatori d’adozione] la Chiesa di Roma può contare su ridottissime strutture materiali: Clemente vive in una modesta casa, si mantiene facendo il suo lavoro di impiegato, dirige l’attività liturgica, di predicazione e di studio della comunità e gestisce il lavoro intellettuale della sua Scuola nella più grande precarietà eppure lascia [provvidenzialmente?] una bella impronta culturale sul territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età tardo-antica.
A questo proposito è interessante leggere [o rileggere] uno dei più significativi romanzi scritti da un autore che abbiamo recentemente incontrato [nel viaggio dello scorso anno scolastico] e che si chiama Guido Morselli [1912-1973] del quale abbiamo anche commemorato il centenario della nascita e del quale ad agosto celebreremo il quarantennale della morte. Questo significativo romanzo s’intitola Roma senza papa [1974]. Morselli – con grande capacità di riflessione – immagina che venga eletto un papa il quale pensa che la gerarchia della Chiesa debba tornare a vivere e a comportarsi secondo il modello di Clemente Romano: non è un’operazione facile da compiere ma, con pazienza e con dedizione, questo papa [dell’avvenire?] riesce a spostare la Santa Sede in un monastero a Zagarolo facendo, a giustificazione della sua scelta, un’affermazione molto interessante sulla natura di Dio.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Cercate in biblioteca il romanzo Roma senza papa di Guido Morselli e leggetelo o rileggetelo…
E ora, a proposito di didattica della lettura e della scrittura, prima di incontrare Policarpo di Smirne [Ignazio di Antiochia lo incontreremo la prossima settimana], dobbiamo fare conoscenza con lo scrittore Beppe Fenoglio: la scorsa settimana abbiamo letto l’incipit di uno dei suoi romanzi più famosi intitolato La Malora perché questo termine evoca una condizione esistenziale sulla quale, dall’Età tardo-antica, la Storia del Pensiero Umano ha imbastito una significativa riflessione.
Chi è Beppe Fenoglio? Beppe Fenoglio [1922-1963] è uno scrittore che ha il talento di un Capuana, di un Verga, di un Faulkner, di un Flaubert, di un Hemingway e il mondo della cultura si è accorto tardi delle sue doti – solo nel 1978, a cura di Maria Corti, è stata pubblicata l’edizione critica delle Opere di Beppe Fenoglio – e questo è avvenuto [abbiamo già detto la scorsa settimana] anche perché Fenoglio aveva un carattere molto schivo, perché non gradiva intervenire nelle vicende editoriali, perché preferiva vivere appartato nella provincia piemontese, perché lo tediava l’idea di andare a Roma a farsi conoscere negli ambienti letterari, perché aveva raccontato cose scomode e molti lo evitavano e, infine, perché è morto troppo presto. Oggi i suoi romanzi sono famosi – benché li abbiano letti in pochi – e alcuni sono considerati dei veri e propri “classici” come Il partigiano Johnny, Una questione privata, I ventitre giorni della città di Alba, La paga del sabato, La Malora.
Beppe Fenoglio è nato ad Alba – il centro più importante delle Langhe, in provincia di Cuneo – il 1º marzo 1922 ed è il primo di tre figli: suo padre Amilcare fa il garzone di macellaio, è un socialista seguace di Filippo Turati, e sua madre, Margherita Faccenda, è una donna dal forte carattere e vuole che i suoi figli studino. Nel 1928 Amilcare – dopo aver fatto molti sacrifici – riesce ad acquistare una sua macelleria sulla piazza del Duomo di Alba e, dopo anni di duro lavoro, riuscirà ad avere un buon reddito.
Beppe Fenoglio frequenta la Scuola elementare “Michele Coppino [uomo politico e letterato nato ad Alba, autore della Legge con la quale, nel 1877, diventa obbligatoria la Scuola elementare in Italia]” e si dimostra un bambino intelligente e riflessivo, e la madre, su consiglio dei maestri – e malgrado le persistenti ristrettezze della famiglia – lo iscrive al Liceo Ginnasio di Alba. Durante tutta la sua adolescenza, nel tempo libero e nelle vacanze, Beppe ha lavorato come contadino nei campi d’asparagi [uno dei prodotti tipici delle Langhe] e a Scuola si è sempre distinto come un alunno modello, come un lettore vorace e, soprattutto, si è appassionato allo studio della lingua inglese e ha iniziato a proporsi come traduttore inventandosi un lavoretto che poi, nel tempo, è diventata una vera e propria professione quando, dopo la guerra, ha tradotto per l’editoria molte opere della Letteratura anglo-americana. Al liceo Beppe Fenoglio ha avuto come insegnanti dei professori illustri e indimenticabili, che, durante la dittatura hanno educato una generazione ad amare la democrazia, tra questi Leonardo Còcito, professore di lingua italiana, uno degli organizzatori del Comitato Nazionale di Liberazione Alta Italia che ha diretto la Resistenza in Piemonte fino al 7 settembre del 1944 quando è stato arrestato e impiccato dai nazi-fascisti, e il professor Pietro Chiodi, docente di storia e filosofia, grande studioso di Kierkegaard e di Heidegger, compagno di Còcito, e deportato in Germania in campo di concentramento.
Nel 1940 Beppe Fenoglio si iscrive alla facoltà di Lettere dell’Università di Torino che frequenta fino a quando viene richiamato alle armi e, dopo l’8 settembre 1943, Fenoglio torna ad Alba e si unisce alle prime formazioni partigiane e combatte nella Resistenza partecipando alla breve esperienza della Libera Repubblica di Alba che si è resa indipendente tra il 10 ottobre e il 2 novembre 1944. In seguito a questo avvenimento Fenoglio scrive I ventitré giorni della città di Alba, una raccolta di dodici racconti pubblicata nel 1952 che la Scuola vi invita a leggere. L’esperienza della Resistenza è stata fondamentale nella vita di Fenoglio: ha combattuto in diverse brigate partigiane, ha tenuto le relazioni con gli Alleati anglo-americani [conoscendo bene l’inglese] e, per un certo periodo, a causa dei rastrellamenti, è rimasto anche a combattere da solo compiendo pericolosissime azioni. Beppe Fenoglio è considerato il più autorevole scrittore sul tema della guerra di Liberazione perché descrive questo avvenimento storico con il più crudo realismo, con la massima asciuttezza, da testimone che non indulge su nessun tipo di retorica.
Alla fine della guerra Fenoglio riprende per un breve tempo gli studi universitari ma poi decide di interromperli per dedicarsi interamente all’attività letteraria. Nel maggio del 1947, sempre grazie alla sua ottima conoscenza della lingua inglese, viene assunto come corrispondente estero di una casa vinicola di Alba [la Langa è una zona di vini pregiati] e questo lavoro, non molto impegnativo, gli permette di dedicarsi alla lettura e alla scrittura. Nel 1949, sulla rivista Pesci rossi [che è il bollettino editoriale della Bompiani], compare il suo primo racconto intitolato Il trucco e firmato con lo pseudonimo di Giovanni Federico Biamonti. Nello stesso anno presenta all’editore Einaudi il testo de La paga del sabato, un romanzo che merita di essere letto e che ottiene un giudizio molto favorevole da parte di Italo Calvino.
Nel 1950, a Torino, Fenoglio conosce Elio Vittorini che sta preparando per l’editore Einaudi la nuova collana, intitolata “Gettoni”, ideata per accogliere nuovi scrittori e, poi, conosce di persona Italo Calvino con il quale aveva intrattenuto fino a quel momento una cordiale corrispondenza, e conosce la scrittrice Natalia Ginzburg che lo incoraggia a completare il romanzo-breve intitolato La Malora, che viene pubblicato nell’agosto del 1954 e accolto con interesse dal mondo letterario.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
In quale circostanza avete pensato di mandare qualcuno “alla malora”?...
Scrivete quattro righe in proposito...
Beppe Fenoglio ha contribuito, in Età contemporanea, a dare forma al tema della “Malora”, una condizione esistenziale basata sulla domanda ricorrente: “perché esiste il Male?”, un interrogativo sul quale, incessantemente, dall’Epoca tardo-antica – attraverso l’Età medioevale, moderna e contemporanea – continuiamo a riflettere.
Sappiamo che il romanzo La Malora è ambientato nella zona delle Langhe [siamo in Piemonte] e rievoca il mondo contadino dei primi anni del Novecento, un mondo che sembra vivere fuori dalla Storia. I personaggi che Beppe Fenoglio descrive sono drammaticamente vivi anche se ciascuno di loro ha un carattere simbolico di stampo epico e questo romanzo è originale – tanto da essere considerato un “classico” – proprio perché, per l’espressività della scrittura, assume una forma [grammaticale e semantica] che lo fa assomigliare ad un poema epico. Il protagonista di quest’opera è Agostino che – mentre ripensa alla recente morte del padre – racconta la storia della sua famiglia, i Braida, poveri contadini delle Langhe, la cui vita è segnata dalla fame, dal duro lavoro e dalla “Malora” che, come un’ombra oscura da cui è impossibile liberarsi, guida drammaticamente il destino umano. La famiglia Braida – e la scorsa settimana abbiamo letto le pagine dell’incipit che la descrivono – possiede una piccola proprietà nell’alta Langa, in una zona collinare con poca vegetazione e povera di acqua dove la terra non è fertile e, di conseguenza, il cibo è scarso [oggi questo è un territorio rinomato ed è una meta turistico-gastronomica d’eccellenza]. Agostino – dopo il ritorno di suo fratello più grande, Stefano, dal servizio militare –deve abbandonare la sua casa e i suoi per andare a lavorare, come servitore, per sette marenghi l’anno, in un podere, il Pavaglione, presso la famiglia di Tobia Rabino, che è il mezzadro di un ricco farmacista di Alba, mentre il fratello più piccolo, Emilio, in cambio della remissione di un debito di cento lire che i Braida hanno contratto con una devota vecchia maestra, è costretto ad entrare in seminario dove soffre per la depressione, per la fame, e dove si ammala in modo irreversibile di tisi.
Adesso, prima di incontrare nuovamente Beppe Fenoglio, leggiamo altre tre pagine de La Malora nelle quali Agostino ci racconta del suo inserimento nella famiglia di Tobia Rabino e narra quali fossero i progetti di questo mezzadro e capisce come mai quest’uomo sia affetto da tanta avarizia da non permettere ai suoi figli e a sua moglie – a suon di cinghiate e di bestemmie – di mangiare neppure un coniglio o una robiola [e quando lo fanno, lo fanno di nascosto a loro rischio e pericolo].
LEGERE MULTUM….
Beppe Fenoglio, La Malora
Quasi tre anni sono restato al Pavaglione, e adesso ci manco da cinque mesi, ma mi sembra ieri sera che ci arrivai la prima volta, e al bordello del cane Tobia mi si fece incontro sull’aia e nel salutarmi mi tastava spalle e braccia per sentire se in quella settimana i miei non m’avevano lasciato deperire apposta.
Di chi proprio non posso lamentarmi è la donna di Tobia. Alla prima vista trovò che avevo l’aria brava e mi prese in stima e a benvolere. Mai una volta che abbia scorciato i capelli ai suoi figli senza farmi poi passar anche me sotto le forbici e la scodella, e tante sere d’inverno, dopo d’aver richiamato alla catena il cane alla larga nel bosco, entrava col lume nella stalla a vedere se ero ben coperto. E m’accudì anche meglio quando seppe che avevo un fratello che studiava da prete. Io che Tobia lo chiamavo per nome, a lei diedi sempre della padrona.
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E ora torniamo brevemente ad occuparci dello scrittore su cui stiamo puntando l’attenzione. Beppe Fenoglio, dopo la pubblicazione nell’aprile del 1959 del romanzo Primavera di bellezza – di cui si consiglia la lettura – riceve il premio “Prato” e questo fatto lo incentiva a dedicarsi con maggiore intensità all’attività di scrittore e di traduttore dall’inglese. Nel 1960 si sposa con Luciana Bombardi, con la quale conviveva già dall’immediato dopoguerra, e il 9 gennaio del 1961 nasce la figlia Margherita e per l’occasione scrive due brevi racconti: La favola del nonno e Il bambino che rubò uno scudo.
Quattro mesi fa, proprio mentre stavo preparando questa Lezione, il 14 novembre 2012 è comparsa sui giornali, con un trafiletto [l’ho conservato], la notizia della morte di Luciana Bombardi: «È morta nella notte di ieri [13 novembre 2012] ad Alba, all’età di 85 anni, la vedova dello scrittore Beppe Fenoglio. I due nel 1960 si unirono con rito civile e questo fece scandalo. Dopo la morte dello scrittore Luciana Bombardi ha vissuto nell’anonimato». Mi domando che cosa avrebbe dovuto fare per mettersi in evidenza e mi piace pensare – con un pensiero provocatorio [che forse sarebbe piaciuto a Fenoglio] – che abbia aspettato, per andarsene, il momento giusto proprio per essere ricordata in un Percorso di Alfabetizzazione culturale, in un itinerario funzionale alla didattica della lettura e della scrittura: e noi – ciascuna e ciascuno a suo modo – la ricordiamo.
Proprio nell’inverno del 1960 si aggrava l’asma bronchiale che affliggeva Fenoglio da qualche anno, anche a causa dell’eccessivo vizio del fumo. Nel 1962, mentre si trovava in Versilia per ritirare il premio “Alpi Apuane”, conferitogli per il racconto Ma il mio amore è Paco, Fenoglio si sente male e rientra precipitosamente a Bra, e la malattia diagnosticata è grave: un tumore ai polmoni. Fenoglio si trasferisce per un breve periodo a Bossolasco, a 757 metri d’altitudine, dove trascorse il tempo leggendo, scrivendo e ricevendo la visita degli amici, ma presto viene ricoverato in ospedale alle Molinette di Torino dove muore la notte del 18 febbraio 1963 [siamo nel cinquantenario]. Fenoglio è stato sepolto nel cimitero di Alba dopo una semplice cerimonia così come aveva lasciato scritto: «Vorrei una breve cerimonia funebre con rito civile durante la quale un prete dicesse poche parole …», e il prete, che dice poche parole alle esequie di Fenoglio, è il suo amico don Natale Bussi, ex professore di liceo e partigiano, il quale parla per pochi minuti e conclude leggendo una riga dal romanzo I ventitré giorni della città di Alba: «Sempre sulle lapidi, a me basterà il mio nome, le due date che sole contano, e la qualifica di scrittore e partigiano». Così è fatta la lapide di Beppe Fenoglio.
L’evento editoriale più significativo dell’anno 1968 è stato la pubblicazione – curata da Lorenzo Mondo – del romanzo più noto di Fenoglio: Il partigiano Johnny, e non c’è nessun altro libro sulla Resistenza italiana che possa, per ora, superare – come documento e come riuscita artistica – questo incompiuto, grezzo, straripante, monumentale abbozzo di romanzo di cui la Scuola consiglia la lettura. Nel 2001 è stato istituito a Mango [in provincia di Cuneo] il primo percorso letterario intitolato “Il paese del partigiano Johnny” e altri itinerari fenogliani sono stati istituiti, in seguito, a Murazzano e San Benedetto Belbo, dove sono ambientati alcuni dei racconti di Langa più intensi e significativi.
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I romanzi di Beppe Fenoglio li trovate in biblioteca, mentre sulla rete, cercando alla dicitura “itinerari letterari di Beppe Fenoglio”, potete fare, virtualmente, una serie di camminate in compagnia dello scrittore…
E poi sarà lo scrittore stesso a domandarvi: quale di queste parole – rovina, miseria, perdizione, fallimento, sfacelo – mettereste per prima accanto al termine “malora”?...
Scrivetela, alla buonora...
Il 10 marzo 2005, all’Università di Torino, a Beppe Fenoglio è stata conferita la “Laurea ad honorem” in Lettere alla memoria, e anche in questo caso è doveroso dire: alla buonora!
Nell’Età del tardo-antico sono stati i Padri Apostolici che, con le loro opere e la loro testimonianza, hanno voluto creare un’alternativa alla condizione esistenziale della “malora” sviluppando l’idea che la “buona notizia della risurrezione” era il segno della “buonora” e, dopo Clemente Romano, è venuto il momento di incontrare Policarpo di Smirne, mentre Ignazio di Antiochia lo incontreremo la prossima settimana. Ignazio di Antiochia e Policarpo di Smirne [così come Clemente Romano] sono figure importanti che lasciano il segno soprattutto scrivendo Lettere sullo stile di Paolo di Tarso e – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – dobbiamo riflettere sul fatto che il riconoscimento di “Padre della Chiesa” lo si acquisisce soprattutto per meriti culturali e, in particolare, con l’esercizio della scrittura.
Chi è Policarpo di Smirne? Policarpo, vescovo di Smirne [ricordiamo che, in greco, “poli poli” significa “tanti” e “karpos karpòs” significa “frutto”, quindi il nome Policarpo significa “che dà tanti frutti”], è un personaggio che emerge nella letteratura tardo-antica in primo luogo perché è uno dei protagonisti di un’opera, molto interessante, che s’intitola Dialogo con Trifone scritta dal filosofo Giustino di Efeso. Il filosofo Giustino è considerato il più importante esponente del movimento della “tendenza conciliativa”, la corrente di pensiero che crea l’integrazione tra la cultura ebraica dell’Antico Testamento, la nuova cultura evangelica e la filosofia greca: Giustino, a breve, lo incontreremo ancora, nel successivo paesaggio intellettuale. Il filosofo Giustino [100-165] emigra a Roma dalla regione della Samaria, abbraccia la fede cristiana di cui diventa un appassionato teorizzatore utilizzando il pensiero di Platone: scrive due importanti Apologie e subisce il martirio dopo essere stato processato e condannato a morte per “ateismo” per non aver voluto riconoscere l’imperatore come espressione della divinità. Nell’opera Dialogo con Trifone Giustino racconta il travagliato itinerario culturale che lo porta verso la fede.
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Potete trovare in biblioteca il testo del “Dialogo con Trifone”, lo si trova anche insieme alle "Apologie" di Giustino e potete leggerne qualche pagina…
Ma soprattutto potete concentrarvi su questa domanda: a quando risale l’ultima passeggiata che avete fatto sulla spiaggia?…
Scrivete quattro righe in proposito…
Vi starete chiedendo: perché dovremmo applicarci per rispondere a questa domanda e che cosa c’entra tutto ciò con Policarpo di Smirne? Nel prologo del Dialogo con Trifone Giustino racconta quello che gli è successo un giorno mentre stava camminando sulla spiaggia, sul lungomare di Efeso [voi su quale lungomare avete camminato ultimamente? Scrivete quattro righe in proposito], Giustino cammina sulla spiaggia tutto solo ed è triste e sconsolato perché, dopo aver provato tante Scuole, non sa più a che cosa credere. Ad un tratto comincia a distinguere in lontananza la figura di una persona che, con passo flessuoso, si avvicina e, quando lo vede bene, si accorge che è un “bel vecchio”, dal fisico asciutto, tutto nudo e tutto abbronzato, con i capelli e la barba candidi il quale, quando gli è vicino, gli sorride e gli dice: «Tu mi stavi aspettando» e gli parla, illuminandolo, poi lo saluta e torna indietro da dove è venuto. Giustino saprà poi che quel vecchio – apparso come per incanto sulla spiaggia di Efeso – era Policarpo il vescovo di Smirne [l’immagine di un vescovo tutto nudo al sole in riva al mare è simbolo di essenzialità, di trasparenza, di moralità]. Giustino racconta questa significativa esperienza a Trifone [di qui il titolo dell’opera di stampo platonico: “Dialogo con Trifone”] che è un importante esponente della comunità ebraica di Efeso. Ma che cosa ha detto Policarpo a Giustino in riva al mare? Leggiamo un frammento dal Prologo del Dialogo con Trifone.
LEGERE MULTUM….
Giustino, Dialogo con Trifone [Prologo]
Dopo essermi rivolto successivamente ad uno Stoico della Scuola del Portico capii che per la sua troppa fiducia nell’essere umano non mi fece fare nessun progresso nella conoscenza del Logos divino, poi mi rivolsi ad un Peripatetico della Scuola del Liceo il quale, per darmi lezioni, mi chiese su due piedi di fissargli un lauto salario, poi mi rivolsi ad un Pitagorico della Scuola Mistica che mi costrinse ad una lunga iniziazione preliminare alla scienza, poi mi affidai a un Platonico della Scuola dell’Accademia che suscitò in me l’ingenua speranza di poter vedere subito il Sommo Bene. A liberarmi da questa illusione fu un bel vecchio dal fisico asciutto, tutto nudo e tutto abbronzato, con i capelli e la barba candidi che incontrai sulla riva del mare dove mi ero recato a camminare solo e sconsolato per trovare silenzio e solitudine. Egli mi sorrise, mi salutò e m’illuminò rivelandomi che la vera filosofia, quella che conduce alla perfezione e alla felicità non si raggiunge per via di dimostrazione, non è insomma quella dei sapienti di questo mondo, è quella dei profeti di Dio, degli amici di Cristo, del Verbo incarnato, del Logos che illumina ogni persona e che è stato predetto da Mose e dai profeti. …
Policarpo di Smirne è autore di una Lettera ai Filippesi. La Lettera ai Filippesi di Policarpo di Smirne è stata scritta nell’anno 107 e contiene un numero veramente alto di citazioni provenienti dalle Lettere di Paolo di Tarso: il tema principale di quest’opera riguarda il contrasto tra l’avarizia e la generosità. Policarpo è un diligente raccoglitore, selezionatore e divulgatore di “scritti” significativi – a cominciare dai testi dalle Lettere di Paolo di Tarso – che andranno a far parte della Tradizione della Chiesa e che daranno forma e contenuto alla “dottrina” cristiana. Policarpo, secondo la Tradizione, aveva vissuto con l’apostolo Giovanni detto l’Evangelista [il discepolo prediletto di Gesù che la Tradizione vuole sia emigrato a Smirne], difatti i due personaggi, Giovanni Evangelista e Policarpo di Smirne, s’identificano.
Sappiamo che un gruppo della comunità di Smirne – guidato da un monaco che convenzionalmente viene chiamato Giovanni il Presbitero [è Policarpo in persona? Non ci sono documenti per fare questa affermazione] – si trasferisce nell’isola di Patmos dove viene composto il testo del Vangelo secondo Giovanni e il testo dell’Apocalisse di Giovanni: due opere tardo-antiche fondamentali per la Storia del Pensiero Umano [il testo del Vangelo secondo Giovanni e soprattutto dell’Apocalisse di Giovanni condizionano la Storia del Pensiero medioevale e noi, a suo tempo, le studieremo in questo contesto], e ora dobbiamo precisare che il testo del celebre “prologo” del Vangelo secondo Giovanni viene, da tutte le studiose e gli studiosi di filologia, attribuito al filosofo Giustino e su questo argomento torneremo prossimamente.
Vale la pena a questo punto fare un’escursione sull’isola di Patmos anche per capire che cosa s’intende per “Tradizione culturale che fa riferimento all’Apostolo Giovanni”. L’isola di Patmos è la più settentrionale delle isole del Dodecaneso e la sua conformazione deriva dalla congiunzione, mediante istmi, di tre isolotti: è un’isola aspra e ventosa che ha coste molto frastagliate con tante insenature e tante belle piccole spiagge. Sull’isola di Patmos tutto è governato dal grande monastero [che assomiglia ad una fortezza] eretto nell’XI secolo dall’imperatore bizantino Alessio I Comneno il quale lo donò al monaco Cristodulo. Questo monastero è dedicato a San Giovanni Evangelista [l’Apostolo Giovanni] ma si chiama di San Giovanni Teologo per far conciliare la leggenda con la storia perché, secondo la Tradizione, Giovanni Evangelista sarebbe stato qui in esilio ai tempi dell’imperatore Domiziano [dall’anno 95 all’anno 97] ma, in realtà, alla figura di San Giovanni Evangelista corrisponde quella di Policarpo di Smirne e quella del monaco [successore di Policarpo] che viene chiamato convenzionalmente Giovanni il Presbitero [l’anziano saggio e sapiente] che ha diretto la comunità nella quale, alla fine del I secolo, sono stati composti i testi del Vangelo secondo Giovanni e dell’Apocalisse di Giovanni.
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Utilizzando la guida della Grecia e collegandovi alla rete, fate un’escursione sull’isola di Patmos e visitate: il monastero-fortezza di San Giovanni Teologo e il monastero dell’Apocalisse, un edificio, ricostruito nel XVII secolo, dove, secondo la Tradizione, San Giovanni Evangelista avrebbe scritto il testo dell’Apocalisse, buon viaggio…
Su Policarpo di Smirne possediamo un significativo testo epistolare che lo vede protagonista: la Lettera degli Smirnesi sul martirio di Policarpo, quest’opera, di autore anonimo, fa parte della letteratura tardo-antica dei Padri Apostolici e in essa i membri della comunità di Smirne divulgano il racconto edificante ed ironico del martirio del loro vescovo. Leggiamo un frammento di questa Lettera che ci fa capire che tipo fosse Policarpo di Smirne: certamente una figura dalla forte personalità, dalla fede salda e in possesso di un senso dell’umorismo che emerge quando la Letteratura evangelica tende, in Età tardo-antica, a trasformare il concetto della “malora ” [del trionfo della morte] nell’idea della “buonora ” [della speranza della risurrezione].
LEGERE MULTUM….
Lettera degli Smirnesi sul martirio di Policarpo
I carnefici tentarono invano di spaventare Policarpo minacciando di farlo morire tra atroci tormenti: o sbranato dalle belve o bruciato nel fuoco o fritto nell’olio bollente. Policarpo rispose col sorriso sulle labbra e con la solita sicurezza con cui aveva guidato la nostra comunità e disse: «Volete farmi mangiare dalle belve? Bene, non sono forse creature di Dio? Volete farmi bruciare nel fuoco? Bene, Dio non parla forse attraverso il roveto ardente? Volete friggermi nell’olio? Bene, non serve forse l’olio per la consacrazione regale?». E aggiunse rivolgendosi paternamente ai carnefici: «Qualunque scelta facciate, fratelli, è ben fatta davanti a Dio!» …
La Tradizione vuole che Policarpo fosse a Roma nel 154, quando aveva circa 85 anni, per discutere, molto animatamente, col papa Aniceto, undicesimo successore di Pietro, sulla data della celebrazione della Pasqua. A Roma sostenevano la flessibilità della data [secondo il calendario lunare], Policarpo sosteneva che la Pasqua andava celebrata quando la celebravano gli Ebrei [il 14 di Nisan]. Non fu trovato un accordo e allora a Roma, per la celebrazione della Pasqua, fu adottato il metodo della data flessibile [la domenica immediatamente successiva alla prima luna piena dopo l’equinozio di primavera, dopo il 21 marzo] mentre in Oriente ci fu la continuità con la data della Pasqua ebraica.
Le comunità “giovannee” che s’ispirano a Policarpo vescovo di Smirne, dal I secolo, si diffondono in tutte le isole elleniche e in tutte le terre bagnate dal Mar Egeo: in queste Ekklesìe prendono forma, in funzione liturgica, i testi del Vangelo secondo Giovanni e dell’Apocalisse di Giovanni- Nell’opera intitola Apocalisse di Giovanni – che studieremo a suo tempo sul “territorio della sapienza poetica e filosofica medioevale” – si assiste ad un grande scontro tra il concetto della “malora” e l’idea della “buonora”, e con questa considerazione, per concludere questo itinerario, torniamo al romanzo di Beppe Fenoglio e torniamo ad Alba.
Beppe Fenoglio è nato ad Alba, una cittadina piemontese in provincia di Cuneo di circa trentamila abitanti, che si trova nella valle del fiume Tanaro al centro della zona delle Langhe [Langhe significa: “territori di collina dai crinali lunghi e sottili”]. La città di Alba si è sviluppata in età medioevale su un insediamento di origine romano che, a sua volta, era sorto su un sito risalente alla preistoria e nel Museo Civico di Alba sono conservati molti significativi reperti sia preistorici che romani [ad Alba è nato Publio Elvio Pertinace, acclamato imperatore nel 192 in un periodo anarchia quando c’erano quattro o cinque imperatori che si contendevano il potere]. La peculiarità medioevale di Alba – che ha una pianta di forma circolare – appare oggi, soprattutto, nelle pittoresche torri che fiancheggiano via Cavour e via Vittorio Emanuele e che si levano sopra le case [le case torri] di piazza Risorgimento dove c’è anche il Duomo d’impronta gotica del XV secolo. Oggi Alba è un importante centro – turistico, gastronomico, commerciale e letterario [anche per merito di Beppe Fenoglio] – che si trova su di un territorio che vanta una produzione di vini pregiati: il Barolo, il Barbaresco, il Nebbiolo, il Barbera, il Dolcetto, e le Fiere langarole del vino si tengono a Pasqua. Altro prodotto tipico di Alba è il tartufo bianco – la Sagra del Tartufo si tiene in novembre per San Martino – e la Fiera del Tartufo si svolge ad ottobre in concomitanza con il Palio delle Contrade.
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Fate una visita ad Alba e alla zona delle Langhe utilizzando la guida del Piemonte e navigando in rete, buon viaggio… Pensate anche che è possibile dare gusto a questo viaggio virtuale assaggiando uno dei vini - Barolo, Barbaresco, Nebbiolo, Barbera, Dolcetto - che si producono su questo territorio e che oggi sono facilmente reperibili…
Sapete con quali animali viene corso il Palio delle Contrade di Alba?… Informatevi...
E ora, leggendo due pagine da La Malora di Beppe Fenoglio, osserviamo Alba attraverso gli occhi di Agostino: occhi non abituati a vedere una città.
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Beppe Fenoglio, La Malora
Dopo dei mesi che lavoravo al Pavaglione, arrivò per me la volta buona di calare ad Alba. Tanta la voglia che n'avevo che quella notte la passai mezza bianca, e bastò a svegliarmi al romper del giorno il rumore che fece Tobia per aprire il cassetto del car-ro e metterci dentro il pane e il lardo e il pintone di vino da mangiare e bere laggiù in città.
Scendevamo, Tobia dietro al freno e io davanti alla bestia, che a ogni svolta m’aspettavo di veder Alba distesa sotto i miei occhi come una carta tutta colorata. A San Benedetto si parlava sempre d’Alba quando si voleva parlare di città, e chi non n’aveva mai viste e voleva figurarsene una cercava di figurarsi Alba. Bene, stavolta l’avrei vista e ci avrei camminato dentro, e quella fosse pur stata la prima e l’ultima volta, io avrei poi sempre potuto entrare in ogni discorso su Alba e mai più provare invidia per chi l’aveva vista e si dava delle arie a discorrerne. E mentre che ero tanto lontano da casa che vedevo Alba, a casa in un certo senso ci tornavo, perché mio fratello Emilio stava in Alba.
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Siamo invitate e invitati anche tutti noi al matrimonio di Ginotta Rabino e parteciperemo al suo pranzo di nozze per mezzo di questo straordinario veicolo che è la lettura, e capiremo come le donne, che vengono sfruttate fino all’esaurimento di ogni energia, siano l’anello forte di questa società contadina dei primi del Novecento investita dalla “malora”.
La prossima settimana – in cui percorreremo l’itinerario pre-pasquale – oltre a conoscere il carattere di Ginotta [che lascia per sempre la casa dei suoi per trasferirsi altrove nel podere in cui lavora il marito] faremo conoscenza anche con il carattere di Ignazio di Antiochia [che, in stato d’arresto, dalla sua città compie un lungo viaggio fino a Roma per essere giustiziato]: che caratteri hanno questi due singolari personaggi?
Per rispondere a questa domanda è doveroso seguire la scia dell’Alfabetizzazione e dell’Apprendimento permanente perché l’Alfabetizzazione culturale e funzionale è un bene comune [come il pane fresco e il vino buono] e l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona: per questo la Scuola è qui con il suo carattere “peregrinante” per esortare ad investire in intelligenza.
Il viaggio continua: “germoglia il viaggio a primavera”…