ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34 - «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»
PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE
DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA
La sapienza poetica e filosofica agli albori dell’età moderna 8–9-10 febbraio 2017
SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA RINASCIMENTALE ALL’ALBA DELL’ETÀ MODERNA
SI SVILUPPA L’IDEA CHE LA FEDE DEVE FAR RICORSO ALLA STORIA …
Questo è il quattordicesimo itinerario del nostro viaggio di studio sul “territorio della sapienza poetica e filosofica rinascimentale agli albori dell’età moderna” e siamo sempre in attesa di poter entrare dentro la Cappella Sistina per osservare le immagini affrescate da Michelangelo sul soffitto di questo famoso edificio, e, come ben sapete, l’attesa è dovuta al fatto che stiamo studiando l’itinerario della formazione intellettuale di Michelangelo in modo da acquisire i necessari elementi utili per capire il significato dei suoi affreschi e delle sue opere principali. Inoltre, seguendo il percorso formativo di Michelangelo, abbiamo iniziato a studiare nelle sue linee generali la Storia del Pensiero Umano agli albori dell’età moderna e, a questo proposito, la scorsa settimana abbiamo incontrato la figura di fra Girolamo Savonarola, un personaggio la cui predicazione ha influenzato [ha messo in crisi] tanto i maestri di Michelangelo [Marsilio Ficino, Angelo Poliziano, Pico della Mirandola] quanto l’artista stesso. Abbiamo studiato e stiamo studiando la dimensione intellettuale di fra Girolamo Savonarola e sappiamo che per sua iniziativa si viene trascritto e poi tradotto in latino “un codice” che si trova nella biblioteca di San Marco e che contiene una raccolta completa delle Opere scettiche [Ipotesi scettiche e Contro i dogmatici] del pensatore e medico greco Sesto Empirico vissuto nel II secolo d.C..
Può sembrare strano [perché nei confronti di Savonarola prevalgono i luoghi comuni] il fatto che fra Girolamo si occupi del “pensiero scettico” ma c’è una logica in questa sua scelta; il priore di San Marco trova interessante il pensiero scettico perché ha un riscontro nella cultura biblica: difatti, a questo proposito, fra Girolamo fa l’esegesi di un particolare Libro dell’Antico Testamento e questo commento influenza il pensiero del Rinascimento e incide anche sul carattere inquieto di Michelangelo il quale si rende conto [ed è molto combattuto per questo nel suo intimo] che sta vivendo in un’età di ostentazione della vanità [e questo è un motivo per cui anche Marsilio Ficino, Angelo Poliziano, Pico della Mirandola entrano in crisi]. E il tema dell’ostentazione della vanità non è forse di grande attualità?
Michelangelo confessa che da vecchio sentiva ancora la voce del priore di San Marco che predicava contro “la fiera delle vanità”, e la possiamo sentire anche noi questa voce mentre tuona: «Tutto è come un soffio di vento, vanità, vanità, tutto è vanità » [inutile, assurdo, senza senso]. E questo è l’incipit del Libro di Qoelet, un testo compreso nel catalogo dei Classici della Storia del Pensiero Umano: un testo che, in virtù della forma ironica con cui è scritto, vuole smascherare il fatto che le persone si assuefanno all’idea che tutto sia inutile, sia assurdo, sia privo di senso [tanto non cambia niente!] e, quindi, non reagiscano più e vivano in uno stato di alienazione. L’anonimo autore del Libro di Qoelet [con una buona dose di ironia] si propone, mettendo tutto in discussione provocatoriamente, di far riflettere le lettrici e i lettori sul tema esistenziale per eccellenza: la necessità di dare un significato alla vita umana ribadendo che il senso sta proprio nel non perdere mai la volontà di cercare, di investigare, di analizzare, di studiare.
Il Libro di Qoelet appartiene al gruppo dei “ketubim” [gli Scritti sapienziali e poetici] della Letteratura dell’Antico Testamento. L’indice della Letteratura dell’Antico Testamento [come ricorderete, abbiamo fatto un viaggio su questo territorio negli anni 2007 2008] comprende quarantanove testi divisi in quattro gruppi: la Legge [toràh, i primi cinque Libri, il Pentateuco: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio], i Profeti [nebiyim, ventuno Libri da Giosuè a Malachia], gli Scritti sapienziali e poetici [ketubim, tredici Libri dai Salmi alle Cronache] e i Deuterocanonici [i testi ellenistici, dieci Libri da Ester ai supplementi a Daniele].
Fra Girolamo Savonarola è un “lettore” particolarmente esperto sulla Letteratura dei Profeti e sugli Scritti sapienziali e poetici e, di conseguenza, per capire la mentalità e la natura del suo pensiero scettico è necessario leggere il Libro di Qoelet. Lui ne ha studiato il testo, ne ha divulgato il contenuto e lo ha predicato tanto da influenzare il pensiero del Rinascimento agli albori dell’Età moderna: il pensiero del Rinascimento agli albori dell’Età moderna contiene una buona dose di “scetticismo” [la volontà di mettere tutto in discussione]. E Michelangelo fa sua questa idea che emerge fin dalle sue prime Opere [come abbiamo studiato nelle scorse settimane].
Il Libro di Qoelet è formato da dodici brevi capitoli [in tutto una decina di pagine] che sono stati scritti intorno al III secolo a.C. da un sapiente e saggio anonimo scrivano che, secondo una tradizione consolidata, attribuisce le sue riflessioni al re Salomone perché questa attribuzione dava autorevolezza a un Libro [la figura del re Salomone, come sappiamo, corrisponde alla metafora della Sapienza].
Come c’insegna fra Girolamo, nel Libro di Qoelet ci sono tre grandi e semplici idee-chiave: la vita è contraddittoria e assurda; solo Dio, che è padrone della Storia, conosce il senso segreto della vita; l’unica via d’uscita per la persona è il timor di Dio cioè affidarsi totalmente a Lui. E queste tre idee [che stanno anche alla base del programma dei domenicani predicatori] sono gli assi portanti della struttura delle Prediche di fra Girolamo. Ma l’importanza di questo Libro - il motivo per cui è stato letto con interesse nel corso dell’Età moderna - consiste nel fatto che è uno dei testi che, attraverso il pessimismo del pensiero scettico, conduce a quella corrente intellettuale che nel secolo scorso ha preso il nome di “esistenzialismo”.
L’autore del Libro di Qoelet, attraverso le sue riflessioni, ha constatato l’inutilità degli sforzi umani, la difficoltà di capire il senso della vita, l’insufficienza della sapienza di fronte ai problemi dell’ingiustizia, del futuro e della morte; ha constatato che i tradizionali consigli, basati sull’ipocrisia e sui luoghi comuni, non bastano per vivere bene l’esistenza quotidiana, e il significato del destino umano non si riuscirà mai a scoprire. E allora? Allora ogni persona deve cercare di riconoscere molto umilmente quale sia il suo posto nel mondo accogliendo quel che di buono la vita gli offre nel momento presente, utilizzando l’Intelletto per cercare “l’autentica bontà”: non “una bontà falsificata, contraffatta” ma “una bontà di qualità” [“Dio ha creato cose di qualità, gli umani le hanno svalutate”]. Fra Girolamo, quindi, aderisce allo “scetticismo” perché trova un logico riscontro nel Libro biblico di Qoelet che, complessivamente [ed è questa una caratteristica dei ketubim, degli Scritti sapienziali e poetici], contiene l’idea che, sui temi dell’esistenza, bisogna sempre “rimettere tutto in discussione per perfezionare le decisioni prese e le azioni svolte”, e questa è una delle caratteristiche proprie del pensiero dell’Umanesimo e del Rinascimento. Questa idea, secondo fra Girolamo, fa affiorare un elemento fondamentale della dottrina evangelica: schierarsi dalla parte degli ultimi, ed è per questo che la sua predicazione [in quanto uomo di fede e monaco domenicano] assume risvolti civili e, di conseguenza, fra Girolamo fa il coraggioso e rischioso tentativo di instaurare un governo popolare a Firenze, il governo degli eredi dei Ciompi, dei lavoratori più umili e più sfruttati, e per questo ideale generoso e non attuato fra Girolamo Savonarola è stato condannato, ma su questo punto, qualche decennio fa, ci ha pensato il professor Giorgio La Pira a “riabilitare” il priore di San Marco.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Utilizzando il volume della Bibbia che avete nella vostra biblioteca domestica leggete o rileggete il Libro di Qoelet: è lungo una decina di pagine e contiene molte interessanti riflessioni e anche una buona dose di ironia ...
Se qualche riga di questo testo vi piace particolarmente mettetela in evidenza scrivendola..
E ora leggiamo alcuni brani dal Libro di Qoelet dove troviamo espressioni diventate proverbiali.
LEGERE MULTUM….
Libro di Qoelet
Libro di Qoelet, figlio di Davide e re di Gerusalemme.
«Tutto è come un soffio di vento: vanità, vanità, tutto è vanità», dice Qoelet.
L’essere umano si affatica e tribola per tutta una vita. Ma che cosa ci guadagna? Passa una generazione e ne viene un’altra ma il mondo resta sempre lo stesso.
Il sole sorge, il sole tramonta; si alza e corre verso il luogo da dove rispunterà di nuovo. Il vento soffia ora dal nord ora dal sud, gira e rigira, va e ritorna di nuovo.
Tutti i fiumi vanno nel mare ma il mare non è mai pieno. E l’acqua continua a scorrere dalle sorgenti dove nascono i fiumi. Tutte le cose sono in continuo movimento non si finirebbe mai di elencarle eppure gli occhi non si stancano di vedere, gli orecchi di ascoltare. Tutto ciò che è già avvenuto accadrà ancora; tutto quello che è successo in passato accederà anche in futuro. Non c’è niente di nuovo sotto il sole. Qualcuno forse dirà: «Guarda, questo è nuovo!». Invece quella cosa esisteva già molto tempo prima che noi nascessimo. Nessuno si ricorda delle cose passate. Anche quello che succede oggi sarà presto dimenticato da quelli che verranno. …
Ho messo tutte le mie forze per indagare e scoprire il senso di tutto ciò che accade in questo mondo. Ma devo concludere che ogni sforzo è stato inutile. Dio ha dato alle persone un compito troppo faticoso! Ho meditato su tutto quel che gli umani fanno per arrivare alla conclusione che tutto il loro affannarsi è inutile. È come se andassero a caccia di vento. Non si può raddrizzare una cosa storta né si può calcolare quello che non c’è. Ero convinto di essere molto sapiente, più di tutti quelli che prima di me hanno governato a Gerusalemme. Pensavo di possedere una sapienza straordinaria poi ho cercato di capire qual è la differenza tra il sapiente e lo stolto ma ho concluso che in questa ricerca è come andare a caccia di vento. Chi sa tante cose ha molti fastidi, chi ha una grande esperienza ha molte delusioni. …
Ho capito che nella vita delle persone, per ogni cosa c’è il suo momento, per tutto c’è un’occasione opportuna. Tempo di nascere, tempo di morire; tempo di piantare, tempo di sradicare; tempo di uccidere, tempo di curare; tempo di demolire, tempo di costruire; tempo di piangere, tempo di ridere; tempo di lutto, tempo di baldoria; tempo di gettar via le pietre, tempo di raccogliere le pietre; tempo di abbracciare, tempo di staccarsi; tempo di cercare, tempo di perdere; tempo di conservare, tempo di buttar via; tempo di strappare, tempo di cucire; tempo di tacere, tempo di parlare; tempo di amare, tempo di odiare; tempo di guerra, tempo di pace. …
Perché tanto lavorare e tribolare? Che senso hanno tutte le fatiche alle quali Dio ha sottoposto l’essere umano? Nelle persone Dio ha messo il desiderio di conoscere il mistero del mondo. Ma è difficile poter capire. Mi sono convinto che la cosa migliore per le persone è stare serene e godersi la vita. Mangiare sano, bere con moderazione e godersi onestamente i frutti del proprio lavoro è un dono di Dio.
Ho osservato che, in questo mondo ci sono anche giudici ingiusti e amministratori disonesti. Allora mi son detto: un giorno Dio giudicherà sia i giusti sia i cattivi. Infatti ogni cosa ed ogni azione avviene quando è il suo momento. Ho anche pensato: Dio vuole metterci alla prova per farci capire che, in fondo, non siamo che bestie.
Le persone e le bestie hanno lo stesso destino: tutti devono morire. Tutti hanno lo stesso spirito vitale ma le persone non sono superiori agli animali. Tutto è come un soffio. Tutti vanno nello stesso luogo. Tutti vengono dalla polvere e tutti alla polvere ritorneranno. Chi può sapere se lo spirito delle persone sale veramente in alto e lo spirito degli animali scende sotto terra? Questo è il nostro destino. Noi non possiamo sapere quel che accadrà in futuro. …
Ho riflettuto anche su tutte le ingiustizie che si compiono in questo mondo. Gli oppressi piangono e invocano aiuto, ma nessuno li consola, nessuno li libera dalla violenza dei loro oppressori. Invidio quelli che sono morti. Essi stanno meglio di noi che siamo ancora in vita. Anzi, più fortunati ancora quelli che non sono mai nati, quelli che non hanno mai visto tutte le ingiustizie di questo mondo.
Ho osservato la gente che lavora sodo e che ha successo. Ma ho capito che fa tutto per invidia degli altri. È stupido incrociare le braccia e lasciarsi morire di fame. Ma vale di più godersi un po’ di riposo, accontentandosi di poco, che lavorare troppo per la ricchezza. Chi ama il denaro non sarà mai soddisfatto. Chi desidera la ricchezza non avrà mai tutto quello che vuole. Anche questo è assurdo, come andare a caccia di vento. Meglio una persona povera e intelligente che una ricca e stolta incapace di controllarsi. Soltanto la persona sapiente capisce il senso di quello che accade. La sapienza rende sereno e benevolo il volto delle persone. …
Si capisce che fra Girolamo è una persona curiosa, informata, come dimostrano tanti suoi “appunti di lettura” che ha lasciato scritti nelle sue carte e sui quali bisogna riflettere. Come sappiamo, fra Girolamo vive in stretto contatto intellettuale con gli studiosi di Palazzo Medici e condivide con Giovanni Pico della Mirandola l’interesse per la cultura cabalistica ebraica e anche per la tradizione islamica. Pico della Mirandola compra testi ebraici [è lo studioso europeo che ha nella sua biblioteca il maggior numero di testi ebraici] li traduce e, per prima cosa, li va a leggere e a spiegare nella biblioteca di San Marco su invito del priore.
Pico della Mirandola traduce in latino l’Opera dello scienziato e filosofo arabo Ibn Khaldun e fa conoscere il pensiero di questo importante studioso islamico agli amici umanisti durante i loro incontri nella biblioteca di San Marco ospiti di fra Girolamo che fa proprio questo pensiero [il fatto che la Fede deve far ricorso alla Storia].
Ibn Khaldun [1337-1406], nato a Tunisi in una famiglia andalusa, lo abbiamo incontrato durante il Percorso dello scorso anno perché, in Età umanistica, prendendo a modello lo storico classico Tucidide, ha scritto un’opera grandiosa intitolata Kitab El-Ibar [Storia universale] nella quale descrive gli avvenimenti dalla creazione del mondo fino all’epoca che lui sta vivendo [la seconda metà del Trecento] e, nel comporre questo testo, rivela tutta la sua capacità di analisi. Ibn Khaldun - che di professione fa l’ambasciatore per conto dei governanti dell’area del Maghreb - si rende conto, analizzando gli avvenimenti storici, che “ciò che accade” [ogni accadimento] non dipende dal destino ma bensì dalle scelte degli esseri umani per cui, nel 1372, decide di ritirarsi in una fortezza solitaria per riflettere su questo tema [sul senso che ha la Storia] e per comporre un trattato intitolato Prolegomeni alla Storia universale [“prolegomena” in greco significa letteralmente “cose dette avanti” cioè “introduzione, esposizione preliminare”].
Il pensiero di Ibn Khaldun è stato trascurato dai suoi contemporanei perché era più avanti rispetto ai tempi: le sue idee - considerate blasfeme dai conservatori della sua epoca - vengono riprese in Età moderna da Niccolò Machiavelli [1469-1527] e da Gambattista Vico [1688-1744] ma Pico della Mirandola ne ha capito per tempo l’importanza. L’originalità [la modernità] delle tesi di Ibn Khaldun e la potenza della sua analisi fanno di lui il primo “filosofo della Storia”.
Ibn Khaldun afferma che la Storia [la disciplina storica] non può avere alcun legame con la Teologia: l’analisi degli avvenimenti [degli accadimenti] deve essere condotta, afferma Ibn Khaldun, mediante la “storiografia” perché, scrive Ibn Khaldun, il fatto che Dio sia necessario non significa che fa la Storia; Dio è necessario “nell’indicare i valori” [Dio crea i simboli] ma sono poi gli essere umani che devono suscitare gli avvenimenti tenendo conto dei valori dati da Dio. Quindi, afferma Ibn Khaldun, la Storia è opera degli esseri umani, è generata dalle strutture che gli esseri umani hanno costruito e dall’ambiente in cui gli esseri umani vivono e agiscono.
La “storiografia”, sostiene Ibn Khaldun, di conseguenza ha le sue regole e l’oggetto della storiografia è dato dall’analisi dei “fatti umani” e dalle “cause” che li producono. Per capire la Storia, afferma Ibn Khaldun, bisogna studiare le cause umane che la determinano perché spiegare i fatti facendo ricorso alla Fede non ha senso, se mai è la Fede che deve far ricorso alla Storia [questa idea entra nel pensiero rinascimentale importata da Pico della Mirandola e condivisa da Marsilio Ficino, da fra Girolamo Savonarola, e anche da Michelangelo e da papa Giulio II]. La Fede deve far ricorso alla Storia in modo che le persone, sostiene Ibn Khaldun, possano capire quanto siano state capaci di applicare davvero “i valori di Dio che danno significato alla Fede”, e la Storia c’insegna, afferma Ibn Khaldun con amarezza, che i valori fondamentali - l’uguaglianza, la giustizia, la pace, la solidarietà e la misericordia [i valori dell’Umanesimo] - sono stati applicati ben poco e, quindi, l’analisi storiografica, afferma Ibn Khaldun, c’insegna che “la religione [con tutti i suoi apparati di contenimento delle coscienze e di censura sulla conoscenza] è una sovrastruttura storica che opera spesso contro il volere di Dio e contro la Fede stessa”. Per questo, afferma Ibn Khaldun, la Storia è “la scienza nuova” [e questa affermazione rimanda a Giambattista Vico che ha scritto un’opera storiografica intitolata Principi di una scienza nuova nel 1725, ma questa è un’altra storia della quale ci occuperemo a suo tempo], ebbene, secondo Ibn Khaldun la Storia è “la scienza nuova che studia gli eventi nel loro rapporto e le cause nel loro rapporto”. Ebbene, fra Girolamo invita i più importanti umanisti fiorentini nella biblioteca di San Marco perché seguano quel grande mediatore culturale che è Giovanni Pico della Mirandola mentre presenta le idee di Ibn Khaldun, idee che avranno un seguito in Occidente quando troveranno uno sviluppo nelle Opere ottocentesche di Auguste Comte e di Karl Marx [personaggi di cui ci occuperemo a suo tempo]. Quindi, possiamo ben dire che negli incontri promossi da fra Girolamo [negli ultimi due decenni del Quattrocento] nella biblioteca di San Marco soffia un’aria di novità [la Riforma consiste in un processo di rinnovamento continuo dello Spirito].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Secondo voi, c’è qualcosa di nuovo sotto il sole oggi?...
Scrivete quattro righe in proposito...
Oggi [e questa potrebbe essere una novità] non si fa più l’errore [o non lo si dovrebbe fare] di considerare il priore di San Marco un antiumanista, un antirinascimentale, un antimoderno, una voce contraria alla Firenze “progressista”, mentre è vero il contrario, come sostiene il filosofo contemporaneo Eugenio Garin, il quale afferma che: «Se non avessero ucciso e bruciato Savonarola probabilmente si sarebbe potuta attuare una Riforma, prima di Lutero, e Firenze avrebbe potuto essere la Ginevra d’Italia». Perché Firenze avrebbe potuto essere come Ginevra? Questo è un tema che fa parte di un ampio contesto che dobbiamo studiare a breve.
Un altro elemento molto interessante che a noi [in quanto frequentati di un Percorso in funzione della didattica della lettura e della scrittura] non può sfuggire è che tra le carte di fra Girolamo Savonarola ci siano una serie di pagine, che lui ha ricopiato per motivi di studio e per utilizzare nella predicazione, tratte da un’opera di Lucio Anneo Seneca, un grande personaggio [che tutte e tutti noi conosciamo, e lo abbiamo incontrato più volte in questi anni] che si colloca nella tradizione di quegli intellettuali che si sono impegnati in politica e che, per la loro coerenza, hanno pagato volontariamente un prezzo molto alto. Dobbiamo rinfrescarci la memoria sulla vita e sulle Opere di Lucio Anneo Seneca perché facendo questo esercizio ci si rende conto del fatto che fra Girolamo - nonostante sia molto critico nei confronti degli autori della Letteratura latina - abbia trovato un’affinità con questa figura [e per inciso dobbiamo dire che anche Michelangelo è affezionato a questo personaggio, così come tutti gli Umanisti].
Lucio Anneo Seneca nasce in nobile famiglia a Cordova [la bella città andalusa] intorno al 4 a.C. e da adolescente viene mandato a Roma a studiare, e frequenta con profitto due Scuole di valore: quella dello stoico Attalo e quella del pitagorico Sozione. Lucio Anneo Seneca [detto “il Filosofo”, da non confondere col padre detto “il Rètore”] fa ben presto carriera nelle Istituzioni dell’Impero, ma le Scuole [stoica e pitagorica] che ha frequentato ne fanno un personaggio scomodo, poco incline agli accomodamenti e agli espedienti necessari per assicurarsi la benevolenza dei più potenti, e i potenti a Roma, nel I secolo, sono personaggi senza scrupoli [Augusto, Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone]: non tollerano critiche, non accettano buoni consigli e colpiscono duramente chi si oppone ai loro spesso nefasti progetti.
Nell’anno 39 Lucio Anneo Seneca pronuncia in Senato una orazione esemplare contro il modo di governare piuttosto “stravagante” di Caligola: è un discorso ironico, satirico, costruito sulle metafore che questo imperatore di basso profilo non capisce subito, poi glielo spiegano e Seneca ha appena il tempo di partire per Cordova, se fosse rimasto a Roma gli sarebbe capitato di sicuro un brutto incidente.
Caligola muore l’anno dopo nel 40, e Seneca può tornare a Roma dove lo aspetta la sorella di Caligola, Giulia Livilla, con la quale ha una relazione affettiva molto importante: Giulia Livilla oltre a essere una fanciulla bellissima è soprattutto una persona molto intelligente, colta, e tra i due c’è una completa sintonia. Nel 41 Seneca, sempre in Senato, attacca duramente Claudio, il nuovo imperatore, perché non governa: Claudio è un uomo debole, indeciso, che ha affidato praticamente il governo alla moglie Messalina, un tipo poco raccomandabile, ambiziosa, cinica, corrotta. Messalina si vendica e accusa ingiustamente Seneca di ordire, insieme a Giulia Livilla, un complotto contro l’Imperatore: Messalina corrompe i giudici e Seneca viene processato e, anche se non ci sono prove contro di lui, viene condannato all’esilio in Corsica e il duro esilio in Corsica, che allora era una terra selvaggia, dura otto anni [sono molti gli oppositori che Messalina fa condannare all’esilio]. Nel 49 Messalina, che ha molti nemici, viene uccisa, muore avvelenata, e Claudio, che non è molto oculato nelle scelte, sposa Agrippina, una vedova assai scaltra che ha un figlio dodicenne che si chiama Claudio Nerone: Agrippina nel contratto matrimoniale pretende che il figlio dell’imperatore Claudio e di Messalina, Britannico, venga emarginato e diseredato, in modo da garantire la successione al trono a suo figlio Nerone.
Agrippina, che è una persona molto astuta, fa concedere la grazia a tutti gli esiliati politici per accattivarsi la loro simpatia e anche Seneca torna a Roma. Nel 54 Claudio improvvisamente muore [dopo aver mangiato a cena i funghi trifolati che aveva raccolto e cucinato Agrippina] e Nerone diventa Imperatore a soli 17 anni e Agrippina, che è una persona accorta, affianca a lui che è un ragazzo inesperto due personaggi di valore come precettori e consiglieri: Afranio Burro, prefetto del pretorio, e il filosofo Lucio Anneo Seneca.
I primi cinque anni del governo di Nerone [in pratica di Burro e di Seneca] sono esemplari nella storia di Roma per le scelte politiche e amministrative molto oculate che vengono fatte e rese operative: viene ridato slancio all’amministrazione statale, ci si fa carico dei più deboli economicamente, si prendono provvedimenti adeguati per garantire la pace nell’Impero e ai suoi vasti confini. Ma poi esplodono, negli anni 60, in Nerone tutti i cattivi istinti ereditati dalla famiglia Claudia e il carattere perverso, vile e feroce di Nerone si manifesta: si sente ormai grande e onnipotente e rifiuta di ascoltare i suoi consiglieri e quando Burro si irrigidisce, rimproverandolo per i suoi comportamenti immorali [in combutta con i peggiori pretoriani], lo fa assassinare. Seneca dà le dimissioni sdegnato [non ha altra scelta] e si ritira a vita privata, mentre Nerone nomina prefetto del pretorio Sofonio Tigellino, uno della sua forza. Nerone odia tutti quelli che costituiscono un’alternativa morale a Roma e Tigellino lo asseconda: viene assassinato il suo fratellastro Britannico e anche Agrippina, sua madre, muore avvelenata.
Quando nel 64 viene scoperta una congiura contro Nerone, guidata dalla famiglia dei Pisoni, l’Imperatore condanna a morte un grandissimo numero di persone, tutte innocenti: tra queste muoiono, tagliandosi le vene, il poeta Anneo Lucano, nipote di Seneca, autore del poema Pharsalia, lo scrittore Petronio autore del Satiricon e anche Seneca, nello stile dei filosofi stoici, si taglia le vene per “non respirare la stessa aria del tiranno”: era l’anno 65.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Camminando lungo la via Appia Antica a Roma s’incontrano molti monumenti, c’è anche il sepolcro di Seneca, che si può pure osservare navigando in rete ... Visitatelo …
Perché abbiamo raccontato a grandi linee questi avvenimenti? Perché fra Girolamo Savonarola [come abbiamo detto poc’anzi] ha ricopiato, per motivi di studio e per utilizzare nella predicazione, una serie di pagine tratte da un’opera di Lucio Anneo Seneca e, difatti, in molte delle sue Prediche dice che “il Borgia [papa Alessandro VI] è peggio di Nerone” e che “il comportamento di Lucio Anneo Seneca è stato esemplare”. Fra Girolamo - nonostante da domenicano non approvi il suicidio - ammira la coerenza di Seneca e ne apprezza le Opere.
Lucio Anneo Seneca ha scritto molte opere importanti: i Dialoghi [ne possediamo otto], venti Libri di Lettere morali che conosciamo con il nome di Lettere a Lucilio che è il giovane a cui sono indirizzate [quest’opera l’abbiamo citata più volte in questi anni]. Poi Seneca ha scritto nove Tragedie delle quali ricordiamo una Medea e una Fedra [sono opere che abbiamo studiato a suo tempo].
Le pagine che fra Girolamo ha ricopiato e conservato nelle sue carte sono tratte da uno dei Dialoghi di Seneca, scritto nell’anno 61, che s’intitola De tranquillitate animi [La tranquillità dell’animo]; quest’opera contiene e sviluppa un’idea fondamentale: Seneca scrive che il compito, il fine e il senso della vita di una persona è quello di dedicarsi allo studio non per motivi di arrivismo personale ma per favorire il tasso di “educazione” nella società. La persona “realizzata”, [scrive Seneca, è quella che sa insegnare prima di tutto a se stessa che la virtù non è un dono della natura, ma è il prodotto dell’esercizio dell’intelligenza umana ed è il frutto della volontà della persona stessa: fra Girolamo e tutti gli Umanisti [e anche Michelangelo] condividono questa idea.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quale di queste parole - quiete, calma, serenità, silenzio, distacco, sicurezza, fiducia, autocontrollo o quale altra - mettereste per prima accanto al termine “serenità”?...
Che cosa vi fa venire in mente la parola che avete scelto? ...
Scrivete quattro righe in proposito...
E adesso leggiamo una delle pagine che fra Girolamo ha estrapolato dal De tranquillitate animi, ha trascritto e ha conservato nelle sue carte: il tema di questa pagina riguarda “il possesso dei libri” ed è inequivocabile che fra Girolamo l’abbia scelta per il rapporto che esiste tra “il possesso dei libri” e “la vanità”. Leggiamo questa pagina che è di una attualità straordinaria.
LEGERE MULTUM….
Lucio Anneo Seneca, De tranquillitate animi [La tranquillità dell’animo]
A che servono libri innumerevoli e intere collezioni se, nell’arco della vita, il padrone riesce a malapena a leggerne i titoli? Chi possiede molti libri non è detto sia un lettore. Il possesso di molti libri non istruisce di per sé e quando si studia è molto meglio seguire pochi autori che vagabondare senza meta attraverso molti.
Con la biblioteca di Alessandria bruciarono quarantamila volumi. Anche Tito Livio definisce quel monumento un capolavoro di buon gusto e di premura regale: non fu né buon gusto né premura, ma sfarzo culturale, anzi, nemmeno culturale, perché non si erano procurati quei libri per lo studio ma per ostentazione, come per molti ricchi ignoranti, ignari dell’alfabeto, i libri non sono strumenti di studio, ma arredi per le sale della loro casa. E allora procuriamoci i libri che bastano, senza ostentazioni. Ma, si dirà, sono soldi spesi meglio di quelli sciupati in vasi di Corinto o in quadri. Il troppo è sempre fuori posto. Come puoi perdonare ad un uomo che acquista armadi di cedro e avorio, che ricerca le collezioni complete di autori sconosciuti o di pessima recensione, che sbadiglia tra tutte quelle migliaia di volumi e si diletta dei frontespizi e dei titoli? Le collezioni complete degli oratori o degli storici le puoi trovare in casa di chi meno studia, in scaffali che toccano il soffitto: oggi, di fatto, in una casa con bagni e terme, è indispensabile allestire una bella biblioteca. Sarei pronto a perdonare, se si sbagliasse per eccessivo amore dello studio, ma oggi opere rare di sacri geni, ben suddivise sotto i ritratti dei loro autori, si comprano quasi esclusivamente per arredare e abbellire pareti.
Abituiamoci a evitare il lusso e a valutare le cose secondo la loro utilità, non per le loro bardature. Il cibo domi la fame, la bevanda la sete, i desideri siano soddisfatti secondo necessità. Impariamo a reggerci sulle nostre gambe, a non trattarci e nutrirci all’ultima moda, ma come ci insegnano i canoni della buona salute. Impariamo a far aumentare la modestia e la sobrietà, a reprimere la vanità, a controllare la collera, a guardare serenamente la povertà, a praticare la frugalità a dispetto dei molti ai quali parrà vergognoso questo venire incontro con poco spreco alle esigenze naturali.
Impariamo a tenere alla catena le ambizioni sfrenate e le preoccupazioni per il futuro, impariamo a comportarci da persone che chiedono le ricchezze al proprio animo e non agli affari e alla ruota della fortuna. …
È evidente che la fede cristiana di Fra Girolamo si concilia con questa pagina in cui Lucio Anneo Seneca enuncia i precetti della morale stoica [una pagina che assomiglia al Discorso della montagna del Vangelo secondo Matteo], questi precetti vengono apprezzati da tutti gli Umanisti e, naturalmente, anche da Michelangelo che durante la sua lunga esistenza cercherà di vivere secondo questi ammonimenti.
Per sintetizzare: fra Girolamo Savonarola è un intellettuale che investe in intelligenza facendo tesoro della cultura scettica del greco Sesto Empirico, della cultura storicistica dell’arabo Ibn Khaldun e della cultura stoica del filosofo latino Lucio Anneo Seneca. Fra Girolamo è perfettamente inserito nell’Universalismo intellettuale del Rinascimento.
Quando nel 1492 Piero de’ Medici, il figlio maggiore di Lorenzo il Magnifico, in seguito alla morte del padre si trova, a soli vent’anni, a capo della casata la situazione precipita perché mentre Lorenzo a vent’anni era già ben preparato per assumere una responsabilità di governo, lui [Piero] al contrario è debole, immaturo, viziato, e la sua unica preoccupazione è quella di organizzare feste, e Michelangelo che, come si suol dire, non ha nessuna voglia di “trastullarsi” è molto scontento perché vorrebbe che gli si commissionassero delle opere da realizzare nel marmo e non una grande statua di Ercole fatta di ghiaccio come gli viene richiesto da Piero per accogliere festosamente l’eccezionale nevicata del 1493: una statua in via di dissolvimento che diventa l’allegoria dell’effimera condizione in cui i Medici sono precipitati.
Con la crescente controffensiva delle famiglie nemiche dei Medici [i Pazzi e gli Strozzi]; con la campagna denigratoria verso gli ebrei [che erano protetti da Cosimo e da Lorenzo]; con la predicazione di fra Girolamo Savonarola e con i tumulti che genera; con la morte per avvelenamento di due dei suoi cari maestri, Angelo Poliziano e Pico della Mirandola; con la nuova alleanza tra il re di Francia e il duca di Milano per lanciare una forte offensiva nel cuore della penisola italiana che mette fine a quel periodo di pace, durato un’intera generazione [per merito di Lorenzo il Magnifico], in cui l’artista era cresciuto, ebbene, da questi avvenimenti Michelangelo capisce che tutto è cambiato e comincia a pensare di andarsene da Firenze.
Un bel giorno del 1494 Michelangelo fa rapidamente i bagagli e lascia la città, e di lì a poco [l’anno successivo] le famiglie ostili ai Medici [gli Arrabbiati] e i seguaci di Savonarola [i Piagnoni] costringono Piero e la sua corte alla fuga, e anche gli ebrei per prudenza sono costretti a partire.
Il diciannovenne Michelangelo nel 1494 lascia Firenze e si stabilisce a Venezia perché la Serenissima Repubblica ospita già un buon numero di esuli fiorentini. Però a Venezia Michelangelo rimane poco tempo perché lì non conclude nulla e decide, quindi, di riavvicinarsi a Firenze passando per Bologna.
A Bologna finisce subito nei guai perché entra in città senza ricordarsi di pagare la gabella d’ingresso e quando viene fermato da una pattuglia del bargello bolognese, non ha la ricevuta di pagamento della tassa di soggiorno e viene portato in galera dove ammette la sua dimenticanza, giura di non essere un malfattore e dichiara di trovarsi a Bologna per incontrare Gianfrancesco Aldrovandi. Per fortuna Gianfrancesco Aldrovandi è una persona che conta, è parente dei signori di Bologna, è uno storico alleato dei Medici e accorre in aiuto del giovane artista, paga la cauzione, e ospita Michelangelo in casa sua per un anno. E, durante questo anno, siccome il palazzo bolognese degli Aldrovandi assomiglia al palazzo fiorentino dei Medici [quando c’era Lorenzo], Michelangelo può dedicarsi agli studi: approfondisce la conoscenza di Dante, di Plutarco, di Ovidio, e Gianfrancesco Aldrovandi si fa leggere, ogni sera, da Michelangelo qualche brano della Divina Commedia perché ama sentirla recitare nell’autentico accento fiorentino di Dante.
Aldrovandi procura inoltre al giovane scultore alcune commissioni retribuite e, in particolare, Michelangelo realizza per lui un Apollo [e qui ci troviamo di fronte al “mistero dell’Apollo dell’Aldrovandi”]. Di quest’opera è lo stesso Aldrovandi a darne testimonianza e a descrivere l’oggetto, e nelle sue Memorie scrive che il dio Apollo sarebbe stato raffigurato da Michelangelo in tutta la sua bellezza di adolescente, con al fianco una faretra e delle frecce [le frecce del dio Apollo] capaci tanto di donare ispirazione intellettuale quanto di infliggere malattie e morte. Si è creduto per molto tempo che questa statua fosse andata perduta ma nel 1990 è stata rintracciata [con delle mutilazioni, mancano le braccia e la parte inferiore delle gambe] all’interno dell’ambasciata francese a New York e, dopo l’attribuzione, è stata collocata al Metropolitan Museum con il nome di Giovane arciere perché piuttosto che ad Apollo questo personaggio assomiglierebbe a Cupido. È comunque interessante notare come questo corpo nudo sia stato rappresentato da Michelangelo soprattutto nella parte posteriore nello stesso modo con cui ha realizzato la figura di Gesù del crocifisso della basilica di Santo Spirito [di cui abbiamo parlato la scorsa settimana] portato a termine due anni prima.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Utilizzando un catalogo che trovate in biblioteca e navigando in rete andate ad osservare quest’opera intitolata Giovane arciere o Apollo-Cupido...
Sono misteri michelangioleschi: belli a vedersi, buoni a sapersi ...
Ma Michelangelo non riesce ad adattarsi a Bologna e nell’inverno del 1495 torna a Firenze. Della città della sua adolescenza, la città di Lorenzo il Magnifico, non c’è più traccia: il governo degli Arrabbiati e dei Piagnoni non riesce ad attuare gli ordinamenti suggeriti da fra Girolamo Savonarola e vengono commessi - con la scusa del mal interpretato “rogo delle vanità” - anche molti abusi che il priore di San Marco condanna ma poi sarà lui a pagarne le conseguenze.
Michelangelo si adatta al clima di sobrietà [una delle sue principali virtù] predicato da fra Girolamo e si ritrova con i suoi pochi amici che sono rimasti a Firenze [quelli del Giardino di San Marco, della Scuola di Bertoldo] e, anche per accontentarli e per tenersi in esercizio, realizza un’imitazione di un statua romana di Cupido dormiente che si ricordava di aver visto forse a Palazzo Medici. Ne viene fuori un’opera così perfetta che si poteva tranquillamente scambiare per un’autentica statua romana e così, per scherzo, Michelangelo, con la complicità dei suoi amici, la fa invecchiare artificialmente [la ricetta non è pervenuta] e la invia a Roma grazie ad un mercante d’arte antica che riesce a venderla niente meno che al cardinale Girolamo Riario, il ricco nipote di papa Sisto IV. Michelangelo poi si pente [e un po’ teme] di aver messo in atto una truffa nei confronti di un uomo così potente, coinvolto nella congiura dei Pazzi ai danni dei Medici. Sta di fatto però che quando Michelangelo scopre di aver ricevuto solo trenta dei duecento ducati pagati dal cardinale all’intermediario diventa furioso [una delle “qualità” di Michelangelo è quella di diventare furioso di fronte alle ingiustizie], furioso all’idea che qualcuno abbia usufruito così ingiustamente del suo talento e del suo faticoso lavoro, e per questo decide di andare a Roma [dove non è mai stato] a cercare il mercante disonesto: ma quando arriva nella Città eterna si distrae per tutte le meraviglie che ci sono da vedere. Michelangelo a Roma rischia molto, lì non ha protettori e per di più era stato un pupillo dei Medici ed è cittadino di Firenze, una città invisa a Roma e alla corte papale. Ma Michelangelo è un ragazzo coraggioso - e l’ardimento glielo dà anche il suo talento - e chiede udienza al cardinale Riario che gliela concede e Michelangelo gli rivela l’inganno. Girolamo Riario [uomo di mondo, come la maggior parte dei cardinali di quest’epoca] è già al corrente delle capacità di questo giovane, e ora ne ha la prova tangibile [scolpisce anche meglio dei classici], non solo lo perdona ma gli commissiona un opera che ha in mente: la statua di un Bacco ubriaco. Michelangelo esce da palazzo Riario facendo salti di gioia: è come se fosse entrato dal portone principale nella città del Papa.
Girolamo Riario, nipote di papa Sisto IV, è un cardinale di rango che in teoria avrebbe dovuto essere un uomo devoto e votato alla castità e alla povertà ma invece offre a Michelangelo una discreta somma di denaro perché realizzi una statua del dio pagano dell’ebbrezza, Bacco [che è il nome latino di Dioniso], in modo da esaltare la cultura orfico-dionisiaca nel senso più sensuale del termine. In proposito, bisogna tenere conto del fatto che, dal 1492, è papa don Rodrigo Borgia, col nome di Alessandro VI, che è stato uno dei papi più corrotti della Storia della Chiesa e, quindi, anche i cardinali si adeguano a questo stile dissoluto, e un Bacco ubriaco diventa il simbolo appropriato dell’attuale licenziosità vaticana, e come dare torto a fra Girolamo Savonarola che contro i comportamenti antievangelici di papa Borgia sta conducendo la sua battaglia. E Michelangelo [tra il 1496 e il 1497] realizza quest’opera riflettendo proprio su questa ipocrisia e si capisce che la vuole smascherare calcando, ad arte, la mano.
Il Bacco di Michelangelo è secondo la forma come se fosse un autentico capolavoro della Roma antica: i capelli del giovane dio sono grappoli d’uva e la posa sensuale delle varie parti del suo corpo accentua la sua nudità; girando intorno alla statua si scopre, dietro Bacco, un giovane fauno che tiene tra le mani un grappolo d’uva per portarselo alla bocca in un atteggiamento chiaramente allusivo, e questo piccolo fauno ha delle simboliche corna caprine [come il demonio?] molto verosimili e realistiche. Settantacinque anni dopo, la famiglia Medici acquista il Bacco di Michelangelo e lo porta a Firenze [nel 1572 i Medici pensavano già che dovevano mettere questo oggetto a nostra disposizione, a disposizione dell’Alfabetofanìa].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Se volete osservare il Bacco di Michelangelo potete utilizzare un catalogo che trovate in biblioteca e i siti della rete ma per vederlo da vicino è opportuno fare visita al Museo Nazionale del Bargello e dopo la visita, a tempo debito, potete brindare: quale vino [se ne consiglia mezzo bicchiere] scegliereste per festeggiare l’evento?...
Scrivete con quale vino, che, in questo caso, il bicchiere risulta senz’altro mezzo pieno!...
Il cardinale Riario è molto soddisfatto della sua nuova statua che può mostrare agli amici durante le feste che si tengono nel suo palazzo, poi però la situazione cambia in relazione alla ripercussione dovuta all’impiccagione e al rogo, il 23 maggio del 1498, di fra Girolamo Savonarola e dei suoi due compagni. Per il papa Borgia e per il collegio cardinalizio è stata certamente una liberazione l’aver messo a tacere “la tonante voce apocalittica” di fra Girolamo [una voce che ha di gran lunga superato le mura di Firenze] tuttavia, essendo la superstizione un fenomeno che tocca tutti, succede che tanto il papa quanto i cardinali sono propensi [sebbene non lo dicano] a pensare che quel rogo non avrebbe portato bene: quel rogo avrebbe continuato a bruciare.
E il cardinale Riario comincia a guardare con altri occhi [e più consapevoli] la figura di Bacco scolpita da Michelangelo, e coglie l’allegoria che il giovane artista fiorentino ha messo in scena: la metafora dell’ubriacatura dovuta alla fiera delle vanità, un’ubriacatura che ha messo la Chiesa nella condizione di “essere sbronza”, priva, come predicava fra Girolamo Savonarola, della necessaria sobrietà per coltivare le quattro “virtù cardinali” [che sono le stesse virtù della cultura orfico-dionisiaca tramandate dal Neoplatonismo]: la sapienza, la temperanza, la fortezza, la giustizia. Quattro virtù che - nel quadro della formazione che Michelangelo ha ricevuto a Palazzo Medici - prima di essere cristiane sono neoplatoniche e, come spiega Plotino nelle Enneadi, sono collegate a quattro azioni fondamentali dell’esistenza: sapienza è studiare, temperanza è lavorare, fortezza è meditare, giustizia è concordare.
Questa riflessione [e la consapevolezza che Savonarola è morto ingiustamente] mette in crisi il cardinale Riario [che è uomo spregiudicato ma intelligente] il quale prova imbarazzo ad avere in casa il Bacco di Michelangelo e regala la statua a un amico di lunga data, Jacopo Galli, un collezionista che la sistema nel suo giardino romano mostrandola ai suoi ignari ospiti come se fosse un’autentica scultura romana. Jacopo Galli però rivela la verità riguardo alla statua di Bacco all’amico cardinale Jean de Bilhères de Lagraulas ambasciatore del re di Francia Carlo VIII presso la Santa Sede il quale, avendo constatato la bravura di Michelangelo, lo contatta privatamente per commissionargli un’opera: una statua di carattere religioso che richiami la pietà e la misericordia, ma questa storia la riprenderemo la prossima settimana.
Abbiamo citato la parola “misericordia” ed è anche l’ultima parola che fra Girolamo Savonarola pronuncia prima di salire sul patibolo. Fra Girolamo, rivolto ai due commissari papali [non avendo anche potuto ottenere la grazia per i suoi due confratelli], dice: «Voi credete che esista il dio del massacro, io credo nell’unico Dio che esiste, il Dio della misericordia». Il priore di San Marco da dotto esegeta estrapola questa affermazione dal Libro dell’Esodo dove si legge: «Non sono il dio degli eserciti, non sono il dio del massacro ma sono il Dio dell’alleanza [della berit] perché ho avuto misericordia di voi». Si sa che risulta molto più facile far esistere “il dio del massacro” che il Dio della misericordia e, quindi, cogliamo al volo questa dicitura in funzione della didattica della lettura e della scrittura perché la scrittrice Yasmina Reza ha pensato che fosse utile intitolare Il dio del massacro una delle sue commedie in modo da fare riflettere il pubblico su questo tema.
Yasmina Reza è nata a Parigi il 1º maggio del 1959, ed è figlia di un ingegnere iraniano e di una violinista ungherese, ambedue di origine ebraica. Comincia la sua carriera teatrale come attrice in varie compagnie che interpretano le opere di Molière e di Marivaux. Dal 1987 inizia a scrivere testi per il teatro, e il successo internazionale arriva nel 1994 con l’opera intitolata Art tradotta e rappresentata in oltre trenta lingue per cui riceve il premio Molière per il miglior autore, il primo di tanti riconoscimenti che negli anni le sono stati attribuiti in varie parti del mondo. Le commedie di Yasmina Reza sono diventate spesso dei film, e Il dio del massacro [scritta nel 2006] è stata portata sulle schermo nel 2011 da Roman Polanski, mentre a teatro molte attrici e attori importanti hanno voluto cimentarsi con questo testo capace di squarciare con soave crudeltà i veli che coprono il cinismo e la spietatezza dell’essere umano.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Potete visionare il film di Roman Polanski del 2011 intitolato Carnage [Il massacro] tratto dalla commedia Il dio del massacro di Yasmina Reza, buona visione...
Il dio del massacro è una commedia [o un dramma, se preferite] ambientata in un tipico salotto borghese in cui due coppie di genitori quarantenni s’incontrano per cercare di risolvere, da persone adulte e civili - quali essi ritengono di essere - una questione: la lite, non proprio indolore, scoppiata ai giardinetti tra i rispettivi figli. Il primo impatto fra i quattro genitori è fatto di convenevoli e di buone maniere [e le prime pagine che stiamo per leggere riguardano questo aspetto] poi, con il procedere della conversazione, vediamo sgretolarsi a poco a poco le maschere di benevolenza, di buona creanza, di correttezza politica, di apertura mentale, di dirittura morale che i protagonisti si sforzavano di sfoggiare.
L’autrice, con humour e con una buona dose di cinismo e senza mai assumere il tono della moralista, costruisce un vivace psicodramma usando un linguaggio volutamente leggero fatto di luoghi comuni [e battute mediocri, e non sempre calzanti] che innescano un meccanismo di comicità involontaria che amplifica la ferocia che progressivamente va emergendo per cui l’incontro, invece di essere l’occasione per risolvere civilmente la situazione, diventa una sorta di resa dei conti, e sotto quelle maschere di finta tolleranza vediamo apparire il ghigno del nume efferato e oscuro che ci governa fin dalla notte dei tempi: il dio del massacro.
LEGERE MULTUM….
Yasmina Reza, Il dio del massacro
VÉRONIQUE HOULLIÉ MICHEL HOULLIÉ ANNETTE REILLE ALAIN REILLE
(Tutti sui quarant’anni).
Un salotto. Nessun realismo. Nessun elemento inutile.
Gli Houllié e i Reille, seduti gli uni di fronte agli altri. Si deve capire subito che si è in casa degli Houllié e che le due coppie hanno appena fatto conoscenza.
Al centro, un tavolino basso con molti libri d’arte. Nei vasi due grandi mazzi di tulipani.
Regna un’ atmosfera compunta, cordiale e tollerante.
VÉRONIQUE Ecco la nostra dichiarazione … Voi naturalmente farete la vostra …
«Il 3 novembre, alle diciassette e trenta, ai giardinetti di via de l’Aspirant-Dunant, a seguito di un alterco, Ferdinand, di anni undici, armato di un bastone, ha colpito in faccia nostro figlio Bruno. Le conseguenze di tale atto sono, oltre alla tumefazione del labbro superiore, la rottura dei due incisivi e una lesione del nervo dell’incisivo destro».
ALAIN Armato?
VÉRONIQUE Non le piace «armato»? Che cosa mettiamo, Michel? Munito, dotato? Munito di un bastone, va bene?
ALAIN Sì, munito.
MICHEL Munito di un bastone.
VÉRONIQUE (corregge) Munito. … L’assurdo è che abbiamo sempre considerato i giardinetti di via de l’Aspirant-Dunant un’oasi di sicurezza, a differenza del parco Montsouris.
MICHEL Sì, è vero. Abbiamo sempre detto, il parco Montsouris no, i giardinetti di via de l’Aspirant-Dunant sì.
... continua la lettura ...
Anche se serpeggia un certo nervosismo siamo ancora ai convenevoli corredati da luoghi comuni di varia natura e intanto arriva la crostata, e ci accorgeremo che esiste una vera e propria “filosofia della crostata”, ma per informarci in proposito continueremo a leggere il testo di questa commedia la prossima settimana.
E infine ci domandiamo: quale opera di carattere religioso, che richiami la pietà e la misericordia, Michelangelo scolpisce per il cardinale Jean de Bilhères de Lagraulas?
Per rispondere a queste e ad altre domande bisogna procedere con lo spirito utopico che lo “studio” porta con sé. Per questo la Scuola è qui e il viaggio continua [siamo sulla buona strada per entrare nella Cappella Sistina? Ma siamo solo a metà del viaggio!] e speriamo che, la prossima settimana, tocchi anche a noi un fettina di crostata perché “la bontà” [il buono, il bello e il giusto] rende consapevoli del fatto che non bisogna mai perdere la volontà d’imparare!...