ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34 - «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»
PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE
DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA
Prof. Giuseppe Nibbi
La sapienza poetica e filosofica agli albori dell’età moderna 22–23-24 febbraio 2017
SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA RINASCIMENTALE ALL’ALBA DELL’ETÀ MODERNA
EMERGE L’IDEA DELL’AUTONOMIA DELLO STATO…
Questo è il sedicesimo itinerario del nostro viaggio di studio sul “territorio della sapienza poetica e filosofica rinascimentale agli albori dell’età moderna” e siamo sempre in attesa di poter entrare dentro la Cappella Sistina per osservare le immagini affrescate da Michelangelo sul soffitto di questo famoso edificio, e, come ben sappiamo, l’attesa è dovuta al fatto che stiamo studiando l’itinerario [le forme e i contenuti] della formazione intellettuale di Michelangelo in modo da acquisire gli elementi utili per capire il significato dei suoi affreschi. In verità, in queste ultime settimane, abbiamo già potuto constatare in che modo la formazione intellettuale di Michelangelo e il ripercuotersi degli avvenimenti di questo periodo storico abbiamo influenzato la composizione delle sue opere: dalla Madonna della Scala alla Battaglia dei centauri, dal Crocifisso di Santo Spirito al Bacco [ubriaco], dalla Pietà al David, tutti capolavori realizzati nell’arco di circa quindici anni che hanno una valenza nella Storia del Pensiero Umano perché danno forma ai concetti della filosofia rinascimentale.
Siamo nel 1504 e, con la realizzazione della Pietà a Roma e poi del David a Firenze, Michelangelo è a 29 anni diventato uno scultore famoso. Il 31 ottobre 1503 è successo poi un avvenimento - che Michelangelo ha seguìto con molto interesse - destinato ad influenzare la sua vita: è salito al soglio pontificio il più intransigente oppositore dei Borgia, il cardinale Giuliano Della Rovere che prende il nome di Giulio II [in ogni itinerario questo personaggio è stato nominato ma non abbiamo ancora fatto in modo specifico la sua conoscenza e, per farlo, ci vuole spazio e ci vuole tempo]. Prima di conoscere meglio questo personaggio-chiave [colui che ha saputo utilizzare a pieno il talento di tutti gli artisti che ha avuto alle dipendenze] dobbiamo prendere atto che, dopo il successo ottenuto con la realizzazione della statua del David, Michelangelo accetta perfino di realizzare qualcosa che non ama fare: un dipinto.
Grazie agli affreschi realizzati nella Cappella Sistina Michelangelo è diventato uno dei pittori più famosi di tutti i tempi ma, come ben sappiamo, non ama dipingere. L’unica forma d’arte che apprezza è quella plastica e tridimensionale della scultura, poi apprezza anche l’architettura e ci prova con la fusione del metallo, ma, per lui, è la scultura l’arte per eccellenza e, quindi, stendere colori su una superficie piatta [da quando era a bottega dal Ghirlandaio] gli sembra noioso, e considera “la dipintura applicazione di poco genio” e in tutte le sue Lettere si firma sempre «Michelangelo, ischultore».
E allora [direte voi] che cosa lo spinge ad accettare la commissione di un dipinto, tenendo conto anche del fatto che, come scultore di successo è, a questo punto, molto richiesto e, di conseguenza, il lavoro non gli manca? La risposta è semplice: Michelangelo [e la prudenza non è mai troppa] non può rifiutare un’offerta che proviene da due delle più potenti famiglie fiorentine, i Doni e gli Strozzi, entrambe rivali di vecchia data dei Medici. Se Michelangelo vuole vivere sano e salvo e lavorare senza subire danni a Firenze non può certo inimicarsi queste due famiglie.
Michelangelo [siamo nel 1504] riceve una commissione per celebrare un matrimonio che unisce in pompa magna le due casate dei Doni [Agnolo Doni] e degli Strozzi [Maddalena Strozzi]. Michelangelo, che ne farebbe volentieri a meno di questa commissione ma non può, propone ai committenti di realizzare una Sacra Famiglia e loro accettano la proposta che è intonata alla circostanza. Michelangelo ricorda di aver visto nella residenza dei Medici, in cui aveva abitato da ragazzo, il dipinto de La Sacra Famiglia di Luca Signorelli [valido pittore, nato a Cortona in provincia di Arezzo intorno al 1450 e morto nel 1523], uno dei tanti artisti chiamati nel 1481 da Sisto IV a decorare le pareti della Cappella Sistina. La Sacra Famiglia di Luca Signorelli aveva colpito Michelangelo per la sua forma circolare e per la disposizione delle figure in primo piano e per l’aspetto scultoreo delle figure minute sullo sfondo.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Alla Galleria degli Uffizi potete osservare – oltre che su di un catalogo e navigando in rete -il dipinto de La Sacra Famiglia di Luca Signorelli esposto in una sala dedicata a lui [e al Perugino]...
Michelangelo [che ha buona memoria] pensa di realizzare La Sacra Famiglia in modo analogo ma, naturalmente, non vuole essere un semplice imitatore e, quindi, compone un’opera davvero singolare che ancora oggi disorienta chi la osserva senza le dovute chiavi di lettura, e in quest’opera Michelangelo rivela il suo stile di pittore che si manifesterà pienamente sul soffitto della Cappella Sistina.
Ne La Sacra Famiglia - che ha preso il nome di Tondo Doni - Michelangelo raffigura stoffe dai colori brillanti quasi metallici; dipinge la Vergine Maria in primo piano come una donna muscolosa e mascolina [sembra una sibilla romana]; le figure maschili in sottofondo [dall’aspetto poco cristiano e molto orfico] sono nude in posizioni ludiche e quasi erotiche; sulla destra spunta il mezzo busto di San Giovannino che appare più simile a un fauno mitologico che a un’icona cristiana, mentre San Giuseppe, dai tratti ebraici, porge Gesù bambino, già grandicello, alla Madonna, oppure, a seconda del punto di osservazione, è lui che lo prende in braccio. Michelangelo sembra divertirsi a complicare le cose e usa una serie di trucchi: le braccia di Maria e di Giuseppe sono così intrecciate tra loro che è quasi impossibile, a una prima occhiata, distinguerne i rispettivi proprietari [Michelangelo pretende che, quando si guarda, si faccia attenzione]. Anche la cornice del Tondo Doni - progettata da Michelangelo stesso - è un capolavoro e vi sono raffigurati profeti dell’Antico Testamento, sibille del mondo classico e il volto di Gesù. L’impressione generale che prova chi osserva quest’opera è quella di trovarsi di fronte ad una scultura dipinta perché le figure del Tondo Doni sembrano tridimensionali.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
In un catalogo che trovate in una biblioteca pubblica o nella vostra biblioteca domestica, navigando in rete o andando in visita alla Galleria degli Uffizi osservate le caratteristiche de La Sacra Famiglia o Tondo Doni di Michelangelo... E poi, sullo sfondo del dipinto [a destra], secondo voi, il pittore, ha voluto rappresentare il monte de La Verna e, se è così, perché lo avrebbe fatto?... C’è un dibattito in corso: dite la vostra opinione...
Sappiamo che il 31 ottobre 1503 un nuovo papa è stato eletto con il nome di Giulio II, è Giuliano Della Rovere, uno dei nipoti di Sisto IV, e questo papa [come già sappiamo, e a forza di citarlo ogni settimana ci è diventato familiare] vuole realizzare un progetto grandioso: vuol far nuovo - far moderno - il Vaticano, e comincia a tessere la sua tela con i fili che ha a disposizione prendendo le mosse proprio dal Tondo Doni che Michelangelo ha realizzato nel 1504, e si capisce che questo dipinto, prima di essere collocato nella camera da letto degli sposi, viene messo in mostra con tutti gli altri preziosi regali [è tradizione esporre i regali di nozze]. Giulio II tesse pazientemente la sua tela perché, per realizzare il suo grandioso progetto [far nuovo - far moderno - il Vaticano], sta cercando il personale adatto, e vuole le migliori maestranze, e quindi è interessato a contattare Michelangelo in veste di scultore [con la scusa di farsi fare la tomba] e quando, poi, il suo informatore [il papa invia un suo agente che va, con deferenza, ad ammirare i regali di nozze del matrimonio Doni-Strozzi] gli descrive La Sacra Famiglia di Michelangelo [i colori, le forme, lo stile], Giulio II non ha più dubbi e termina di tessere la sua tela: non solo lo attirerà in Vaticano per farlo scolpire ma è convinto che riuscirà anche a farlo dipingere, e non a fargli realizzare un quadretto da camera da letto nuziale ma a fargli affrescare una vasta superficie, la superficie di un soffitto, e non per decorarla soltanto per la glorificazione della Chiesa, ma per illustrare un programma - il programma per la riforma strutturale e culturale della Chiesa - che, se non verrà attuato [perché troppe sono le riluttanze della curia], rimarrà, tuttavia, come memoria da lasciare ai posteri [e oggi i posteri - che devono conoscere, capire, applicare, analizzare, sintetizzare, valutare - siamo noi].
Noi già sappiamo molte cose in relazione alla formazione di Giulio II [che corre parallela a quella di Michelangelo] ma c’è ancora tanto da dire in particolare per quanto riguarda il suo carattere pragmatico [un argomento di cui ci occuperemo la prossima settimana]. La concretezza di Giulio II fa riflettere su un tema pragmatico per eccellenza [che si pone agli albori dell’età moderna], e stimola il pensiero di uno studioso che incontreremo tra poco.
Ma prima di prendere il passo in questa direzione - di fronte al Tondo Doni [che andrete a osservare] - non possiamo non cogliere l’occasione per riflettere sulla “sacralità” della famiglia alla luce del testo teatrale che stiamo leggendo in cui le due famiglie protagoniste, più che essere dotate di generosità finiscono per mostrare la spietatezza, mettendosi al servizio del dio del massacro. Ed è appunto Il dio del massacro, come sapete, il titolo del testo teatrale scritto nel 2006 dalla scrittrice francese [di padre iraniano e madre ungherese] Yasmina Reza che stiamo leggendo. Il dio del massacro, come sapete, è una commedia [o un dramma] ambientata in un salotto dove due coppie di genitori [ultra quarantenni] s’incontrano per poter risolvere, da persone adulte e civili [quali esse ritengono di essere] una questione: la lite scoppiata ai giardinetti tra i rispettivi figli, nella quale uno dei due [Bruno], il figlio dei padroni di casa [Véronique e Michel], ha avuto la peggio [ci ha rimesso un dente] rispetto [a Ferdinand] al figlio degli ospiti [Annette e Alain]. L’incontro tra queste due coppie [una scrittrice e un grossista di articoli casalinghi, e una consulente patrimoniale e un avvocato] si svolge inizialmente all’insegna delle buone maniere ma poi, con il procedere della conversazione, vediamo sgretolarsi a poco a poco le maschere di benevolenza, di buona creanza, di correttezza politica, di apertura mentale, di dirittura morale che i protagonisti si sforzavano di sfoggiare.
L’autrice, senza moralismi e con un certo cinismo, costruisce un dramma molto vivace utilizzando un linguaggio volutamente leggero fatto di luoghi comuni e di battute spesso pronunciate fuori luogo che apparentemente fanno affievolire il nervosismo che progressivamente va emergendo, per cui l’incontro, invece di essere l’occasione per risolvere civilmente la situazione, diventa una sorta di resa dei conti, e fa capolino lo spirito [con la s minuscola] di quella terribile divinità, efferata ed oscura, che governa i rapporti fin dalla notte dei tempi: il dio del massacro. In realtà questi quattro genitori non sanno come comportarsi: sono in difficoltà a comunicare con i figli, non sanno se farli incontrare, dove, e come far sì che entrino in comunicazione tra loro, e non si rendono conto che i due bambini, come spesso succede tra bambini, saranno capaci autonomamente di risolvere il loro diverbio mentre gli adulti, o presunti tali - per lo meno in questo caso - riescono solo a complicare le cose pur sapendo che, per lo meno in teoria, esiste “il potere pacificante della cultura”.
Le due madri [Véronique e Annette] sono perfettamente d’accordo [come abbiamo letto la scorsa settimana] nel dire: «Noi tentiamo di compensare le carenze dell’insegnamento scolastico. Tentiamo di far leggere i nostri figli. Di portarli ai concerti, alle mostre. Forse sbagliamo, ma crediamo al potere pacificante della cultura!». Ma questa affermazione, però, non trova un corrispettivo concreto nel loro comportamento e suona solo come un luogo comune che rivela una sorta di impotenza nel contrastare l’azione subdola e feroce del dio del massacro che si annida, inesorabilmente, in ciascuna e ciascuno di noi. Continuiamo a leggere.
LEGERE MULTUM….
Yasmina Reza, Il dio del massacro
Rientra Michel con i caffè …
MICHEL La crostata può essere definita una torta? … È una domanda seria…ci pensavo in cucina … Andiamo, andiamo, non lasceremo questa fettina.
VÉRONIQUE Nella crostata la pasta e la frutta devono rimanere ben distinte.
ALAIN Lei è davvero una vera cuoca.
MICHEL Sì … è una vera cuoca …che poi …deve mettersi a dieta …Mi ricordo che quando eravamo fidanzati per paura di ingrassare ha fatto una dieta di banane … allora andava di moda … Veramente non è servito a niente … però aveva imparato benissimo ad arrampicarsi sugli alberi …
VÉRONIQUE Ah, ah …Quanto sei spiritoso! … È che la cucina mi piace. La cucina ti deve piacere. E, solo la crostata classica, fatta stendendo la pasta, merita il nome di crostata.
... continua la lettura ...
Il fatto è che Alain sta proprio rientrando in salotto dopo essere stato in bagno e li sente spettegolare malignamente in proposito e, come vedremo, la tensione tra i quattro è destinata a crescere.
Il soprannome di papa Giulio II è “il Terribile”, un appellativo relativo al suo tremendo carattere: un carattere corredato da una forte componente di pragmatismo che fa riflettere gli studiosi sul piano politico. Chi è Giuliano Della Rovere, alias papa Giulio II?
Giuliano Della Rovere [alias papa Giulio II] è nato ad Albisola, in provincia di Savona, nel 1443 e appartiene al cosiddetto ramo povero e decaduto, della famiglia Della Rovere. Compie i suoi studi fin da bambino a Perugia nel convento dei Francescani dove - dopo un “tirocinio mondano” compiuto fuori dal monastero [una serie di esperienze intellettuali, militari, amorose] - riceve gli ordini religiosi e diventa un frate francescano. La sua carriera ecclesiastica è favorita dallo zio Francesco Della Rovere il quale nel 1471 viene eletto papa e prende il nome di Sisto IV.
Papa Sisto IV lo abbiamo citato spesso in questo viaggio ma, per conoscere meglio suo nipote Giuliano, ci dobbiamo informare ulteriormente su di lui. Sappiamo che Sisto IV sistema tutti i suoi nipoti e le sue nipoti [una quindicina tra tutti] e alcuni di essi li nomina cardinali amplificando un fenomeno già in atto che è stato chiamato “nepotismo”, e così anche Giuliano [a ventotto anni] diventa cardinale. Il “nepotismo” di Sisto IV ha una motivazione politica ben precisa: vuole intorno a sé gente fidata [c’è in corso una dura lotta per il potere] perché intende riaffermare l’autorità del papato contro le famiglie baronali romane le quali hanno assunto un’influenza sproporzionata che si traduce in speculazioni edilizie, nella razzìa del materiale dell’antica città, in commerci e traffici illeciti e [come sappiamo] Roma si trova in una stato di degrado tremendo. Sisto IV sa che, per cambiare le cose [o, per lo meno, per modificare la situazione], deve sostenere una lotta senza quartiere e, quindi, ha bisogno di avere intorno persone di cui si possa fidare e che condividano pienamente il suo programma, e la persona più valida al suo servizio si dimostra proprio Giuliano che impara a misurare i meriti ma anche i molti limiti dello zio.
Giuliano Della Rovere, a servizio dello zio, mette subito in mostra la sua abilità militare perché, alla testa dell’esercito pontificio [e poi, da papa, continuerà a comandarlo lui personalmente l’esercito], sottomette il tiranno di Città di Castello, Niccolò Vitelli, che era diventato aggressivo e si voleva espandere, e questa azione repressiva, condotta esemplarmente dal nipote Giuliano, diventa un ammonimento che Sisto IV lancia ai baroni e ai burocrati che non vogliono rispettare le decisioni papali.
Sisto IV ha dei meriti: ridimensiona la burocrazia dello Stato pontificio [il papa aveva 70 consulenti, tutti ben pagati e lui li licenzia tutti], e poi riesce , on uno scontro epocale, a imporre un piano regolatore per rinnovare l’urbanistica della città, aprendo nuove strade, facendo dragare il Tevere, portando l’acqua potabile in città [dove il tifo era endemico] e ripristinando il ponte Rotto [il più strategico], oggi ponte Sisto. Sisto IV favorisce - in antagonismo con l’Accademia platonica fiorentina [istituzione che ben conoscete] - la ricostituzione dell’Accademia romana fondata dall’umanista neoplatonico Pomponio Leto [che era stata chiusa dal suo predecessore, Paolo II], poi, dopo aver nominato bibliotecario l’esperto umanista Bartolomeo Sacchi detto il Platina (siete state e siete stati invitati tempo fa a visionare un dipinto che raffigura questo avvenimento)], rifonda la Biblioteca vaticana favorendone l’accesso agli studiosi e al pubblico, e investe risorse per elevare il livello della Cappella dei Cantori di S. Pietro.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Sisto IV chiama a Roma il compositore franco-fiammingo Josquin Desprez [trascritto anche Des Prés o Desprès] autore di un centinaio di mottetti, di una cinquantina di canzoni profane e di una ventina di messe [basate anche su musiche mondane come la celebre melodia l’homme armé]...
La musica polifonica, dalla metà del ‘400, sta raggiungendo grandi vette e potete facilmente - navigando in rete [dove trovate molti siti in proposito] - dedicarvi a degli ascolti per conoscere la colonna sonora del momento [la musica rinascimentale agli albori dell’età moderna]…
Sisto IV benedice l’invenzione e l’uso della stampa che considera un dono della Provvidenza [mentre, contemporaneamente, impone l’Indice dei Libri proibiti], naturalmente favorisce la ricerca e lo studio dell’Archeologia che diventa una vera e propria disciplina. Dobbiamo dire che con Sisto IV nasce la Roma rinascimentale e moderna. Molti di questi progetti da realizzare hanno un costo [è soprattutto l’esercito ad assorbire risorse] e allora Sisto IV ritiene opportuno che coloro i quali hanno commesso peccati gravi, soprattutto se possono pagare, facciano penitenza [non solo di “pater ave et gloria”] e si riscattino devolvendo alla Chiesa laute elargizioni: questo provvedimento - che si traduce nella compravendita delle assoluzioni - produce effetti [come vedremo a suo tempo] molto negativi.
Ma noi siamo in cammino per conoscere Giulio II e allora, dopo aver predisposto il contorno [ed è - come sempre quando si parla di papi - un contorno molto sostanzioso], torniamo a Giuliano Della Rovere il quale intraprende la sua carriera pastorale come vescovo di Carpentras, un’importante [come ben sapete] cittadina provenzale alle falde del Mont Ventoux - che abbiamo visitato durante il viaggio dello scorso anno insieme a Francesco Petrarca [con il quale siamo salite e saliti in vetta al Mont Ventoux il 26 aprile 1336]. È proprio qui che Giuliano Della Rovere, già fornito di un bagaglio culturale eccellente, approfondisce, attraverso le Opere di Petrarca [il cui spirito aleggia - e continua ad aleggiare - in Provenza], i temi dell’Umanesimo e del neoplatonismo.
A Carpentras esiste anche, dal 1360, la Sinagoga più antica di Francia e il vescovo Giuliano Della Rovere può entrare in contatto con la cultura ebraica: stringe amicizia con alcuni sapienti rabbini e approfondisce la sua conoscenza della Letteratura dell’Antico Testamento in lingua originale e, nell’ambito di questo dialogo che lui coltiva con grande interesse, matura un’idea diversa da quella imposta da suo zio, da papa Sisto IV nel campo della dottrina. Papa Sisto IV [e lo sapete bene] vuole che la Cappella Sistina abbia le stesse misure del Tempio di Salomone a Gerusalemme perché il Dio degli ebrei ha ormai cambiato residenza e connotati secondo la dottrina della “successione delle fedi” [un tema al quale abbiamo già fatto riferimento nel primo itinerario di questo viaggio]. Secondo questa dottrina una fede, in questo caso il cristianesimo, prende il posto della precedente sul cui pensiero si è sviluppata [in questo caso l’ebraismo] perché l’apparato di questo pensiero, l’ebraismo, ne costituisce solo l’anticipazione; secondo questa dottrina, la Letteratura dell’Antico Testamento [La Legge e i Profeti] non farebbe altro che preannunciare la venuta salvifica di Gesù Cristo, il vero messia: Colui che ci ha fatto conoscere [sostiene Sisto IV] il vero volto, il volto “cristiano” di Dio e, quindi, era già previsto in principio che il cristianesimo avrebbe assunto il ruolo di “vera e unica fede che invalida tutte le altre” [ed è soprattutto l’Inquisizione spagnola, in questo momento, che vuole tutelare questa affermazione].
Giuliano Della Rovere, dialogando con i sapienti rabbini della Sinagoga di Carpentras, matura l’idea non della “successione” ma della “continuazione delle fedi” per cui il Dio di Gesù Cristo è proprio lo stesso Dio di Abramo [il protagonista del Libro della Genesi, dell’Esodo, dei Libri del Pentateuco, dei Libri dei Profeti, e non è possibile alterare l’esegesi di questi testi con interpretazioni di comodo] e Gesù Cristo non si sovrappone ad una tradizione ma è il frutto di questa tradizione divina: Gesù Cristo non esprime [non può esprimere] un’egemonia ma manifesta un perfezionamento qualitativo della Storia della salvezza [che ha inizio con l’alleanza tra Dio e i vari patriarchi biblici] e il vescovo Giuliano Della Rovere deve aver pensato: «Se in avvenire avrò il potere di farlo, voglio che questa idea trovi la sua manifestazione proprio nella Cappella Sistina» [ma, a volte, certi pensieri si avverano].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Nel centro di Carpentras c’è la cattedrale [dedicata a St-Siffrein] la cui costruzione [sopra una chiesa romanica] è iniziata nel 1404 ed è un esempio significativo dell’architettura tardo-gotica, e sempre nel centro della città c’è la sinagoga più antica di Francia...
Utilizzando una guida della Francia e navigando in rete andate a visitare questi due monumenti nei quali aleggia lo spirito di Giuliano Della Rovere …
Poi Giuliano Della Rovere diventa arcivescovo di Bologna e poi arcivescovo di Avignone. Sappiamo che Avignone è stata la sede del papato durante lo scisma d’Occidente dal 1308 al 1417 [c’è il famoso Palazzo dei papi che ci ha ospitate ed ospitati durante il viaggio dello scorso anno] e, quindi, l’arcivescovo di Avignone ricopre anche l’importante ruolo di legato pontificio in terra di Francia: un ruolo molto delicato, soprattutto in questo momento storico.
Giuliano Della Rovere, come arcivescovo di Avignone e in veste di legato pontificio, fa alzare le sue quotazioni a livello internazionale quando diventa mediatore tra Luigi XI re di Francia e l’imperatore Massimiliano di Germania, che stanno per scontrarsi, obbligandoli a firmare un trattato di non belligeranza che evita per il momento una guerra sanguinosa tra francesi e tedeschi.
Nel 1484 Sisto IV muore e gli succede Innocenzo VIII [il genovese Gian Battista Cybo] che regna, senza prendere troppe iniziative, fino al 1492. Alla morte di Innocenzo VIII, nel conclave dell’estate del 1492, ci sono due candidati in lizza: Ascanio Sforza e don Rodrigo Borgia. I due candidati contrattano. Don Rodrigo fa un’offerta in fiorini. Ascanio Sforza fiuta l’affare e alza la posta. Don Rodrigo accetta la richiesta e l’affare simoniaco è fatto: don Rodrigo Borgia viene eletto papa e prende il nome di Alessandro VI. A Giuliano della Rovere quest’uomo non piace e soprattutto disapprova il suo progetto politico.
Don Rodrigo Borgia è un papa pubblicamente accoppiato, ha una compagna che si chiama Vannozza Catanei e quattro figli: Giovanni, Cesare, Jofri e Lucrezia. Il lato maggiormente negativo del pontificato di Alessandro VI è quello di aver governato la Chiesa in modo familista: confonde l’interesse della Chiesa con gli interessi della sua famiglia e non solo assicura ai suoi famigliari le più solide posizioni di prestigio politico ed economico [non è un semplice nepotismo il suo] ma, per la prima volta, il bilancio di una famiglia e il bilancio della Chiesa s’identificano.
Contro questa situazione reagisce, come sappiamo, fra Girolamo Savonarola [che ci rimette la pelle], ma l’avversario più pericoloso di papa Borgia è Giuliano Della Rovere che critica duramente i progetti di Alessandro VI e promuove la nascita del partito dei cardinali francesi che contrastano le scelte del papa. Giuliano Della Rovere viene privato di tutte le cariche, viene minacciato [scampa ad una serie di attentati] ed è costretto ad allontanarsi da Roma: fugge ad Ostia, s’imbarca per Savona e poi raggiunge clandestinamente Avignone e Carpentras dove, protetto dai suoi amici ebrei, rimane nascosto in Sinagoga.
In Provenza, periodicamente, si riuniscono cardinali, vescovi e laici francesi [la Chiesa che si oppone ai Borgia] e a Giuliano Della Rovere viene affidato il ruolo di coordinatore di questo movimento dissidente e lui, con grande abilità, agendo in clandestinità ma seguendo i canali diplomatici, denuncia i comportamenti del papa e della sua famiglia: il misterioso assassinio di Giovanni Borgia, la politica di don Rodrigo tutta tesa a far diventare lo Stato vaticano un impero della famiglia Borgia con a capo il secondogenito, Cesare, che ha molta influenza sul padre e usa ogni mezzo - allacciando e disfacendo alleanze, anche con i Turchi, confiscando ricchezze, usando l’assassinio politico - per realizzare questo nefasto progetto. Alessandro VI usa anche i soldi incassati nel Giubileo del 1500 e quelli raccolti per la Crociata [contro i Turchi] per finanziare le imprese militari di suo figlio Cesare Borgia. Ma improvvisamente nel 1503 Alessandro VI muore, il potere dei Borgia si ridimensiona, e Giuliano, con gli altri cardinali dissidenti, torna a Roma per il conclave.
C’è un candidato forte in questo conclave, sponsorizzato dal re di Francia [che vorrebbe il controllo sulla Chiesa]: è il cardinale George d’Amboise, primate di Francia, che però è inviso agli spagnoli. Giuliano Della Rovere ufficialmente lo sostiene ma fa finta perché, in realtà, teme il condizionamento francese, così come quello spagnolo, sulla Chiesa, e allora tesse un accordo tra cardinali italiani e spagnoli per cui il conclave elegge Francesco Todeschini Piccolomini di Siena che prende il nome di Pio III ed è in precarie condizioni di salute e, difatti, regna [per modo di dire] dal 2 settembre al 18 ottobre del 1503 [e detiene un record pontificio di brevità con Albino Luciani, (Giovanni Paolo I)].
Nel nuovo conclave il cardinale Giuliano Della Rovere [che ha avuto il tempo di tessere la sua tela] si presenta come ago della bilancia nel contenzioso tra Francia e Spagna: promette favori a tutti i cardinali e viene eletto all’unanimità alla prima votazione e decide di chiamarsi Giulio II e poi, una volta in carica, non concede privilegi a nessuno facendosi molti nemici. Fa invece molte “concessioni” a coloro che operano per contrastare le condizioni di degrado [religioso, morale e politico] in cui versa la Chiesa. La parola “concessione” ha un ampio ventaglio di significati, e Giulio II ha utilizzato questo termine in funzione della realizzazione di grandi opere tanto di carattere materiale quanto di natura spirituale e intellettuale.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quale di questi termini - permesso, autorizzazione, assegnazione, licenza, facilitazione, agevolazione - mettereste per primo accanto alla parola “concessione”? Scrivetelo...
Avete chiesto e ottenuto, oppure non ottenuto, una concessione?...
Scrivete quattro righe in proposito...
Il pragmatismo di papa Giulio II [e dei risultati del suo attivismo ne parleremo la prossima settimana] ha fatto riflettere uno studioso che, proprio nel 1513, l’anno della morte di Giulio II quando la cultura moderna inizia il suo cammino, pubblica la sua opera più importante intitolata Il Principe. Stiamo parlando di Niccolò Machiavelli che non viene influenzato dalle nefaste imprese di Cesare Borgia ma piuttosto dalla concretezza, dal realismo, dall’efficacia delle azioni di papa Giulio II [è lui il vero Principe!].
Savonarola predicava la Gerusalemme celeste, la res-publica governata dallo Spirito Santo, qualcosa che poteva essere teorizzato e predicato, ma difficile da realizzare. Savonarola, da scolastico medioevale, vede le cose come “avrebbero dovuto essere” mentre Giuliano Della Rovere vede le cose “così come sono”, nella loro reale concretezza e pensa di dover difendere l’autonomia dello Stato vaticano che i Borgia volevano mettere a servizio della potenza della loro famiglia. E il concetto dell’autonomia dello Stato, e dell’autonomia della politica, trova il suo grande teorico in Niccolò Machiavelli.
Niccolò Machiavelli [1469-1527] nasce a Firenze in una facoltosa famiglia ormai economicamente decaduta. È un grande studioso [ha compiuto fin da bambino studi classici] ed è diventato un uomo politico ben preparato al quale viene affidato il ruolo di segretario della cancelleria della Repubblica fiorentina [il soprannome di “Segretario fiorentino” lo ha accompagnato per tutta la vita] e ha il compito di occuparsi non solo degli affari interni ma soprattutto di quelli esteri e per questo motivo compie molte missioni diplomatiche in Italia e in Europa. Ricopre cariche politiche fino a quando, dall’esilio nel 1512, tornano i Medici per riprendersi il potere in Firenze [il cardinale Giovanni e suo fratello Giuliano II]. Machiavelli cerca una mediazione con i Medici ma viene arrestato [con gli altri membri del governo repubblicano] e dopo qualche mese di galera [in cui subisce anche dei maltrattamenti fisici] viene liberato con l’obbligo di rimanere appartato, di vivere fuori dalla città nella sua casa nei pressi di San Casciano [a S.Andrea in Percussina] dove passa il suo tempo studiando e componendo le sue opere: scrive, oltre a Il Principe, i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, le Storie fiorentine, molte Lettere e alcune Commedie.
Per capire il pensiero [rinascimentale agli albori dell’età moderna] di Niccolò Machiavelli cominciamo proprio dal teatro perché una delle sue commedie ha avuto nei secoli un grande successo: questa commedia s’intitola La Mandragola nel testo della quale si manifesta l’idea di un [antico] atteggiamento culturale che si ravviva nel Rinascimento [agli albori dell’età moderna] per poi svilupparsi in avvenire: il concetto di “pessimismo senza riscatto”. Questa commedia figura tra i capolavori del teatro europeo e appartiene solo convenzionalmente al genere comico; effettivamente è una beffarda creazione di uno spirito lucido e disincantato, irridente verso le molteplici stoltezze della vita ma, in realtà, il ricco e scintillante impianto comico su cui si basa la trama poggia su un fondo costituito da un amaro scetticismo dal quale scaturisce la convinzione che l’essere umano non sarà mai in grado di correggere i propri errori [l’individuo persegue l’utile non attraverso l’onestà ma attraverso la forza e l’astuzia] perciò non resta altro da fare che riderci sopra malinconicamente.
La commedia racconta la strategia amorosa posta in atto dal giovane Callimaco per “espugnare” la bella Lucrezia, e con questa narrazione l’autore ripropone, su un piano di quotidiana mediocrità, le leggi inesorabili dell’agire politico: non diversamente da come si conquista il potere nello Stato, Lucrezia viene conquistata con la forza e con l’inganno. Nell’universo de La Mandragola nessun personaggio è innocente: non il marito di Lucrezia, Nicia, saccente e stupido, pronto all’assassinio pur di assecondare i propri fini; non Callimaco, giovane superficiale e puerile; non padre Timoteo e Ligurio - gli autentici registi dell’azione - che sono spregiudicati in funzione esclusiva dell’ambiente corrotto che li accoglie; non Sostrata, la madre di Lucrezia che per aggiustare le cose coltiva l’ipocrisia, e non Lucrezia che non si ribella e si adegua passivamente secondo la logica della sottomissione e della convenienza.
Machiavelli ci dice - attraverso una comicità inquietante [si ride a denti stretti] - che nell’universo de La Mandragola non c’è nulla da salvare perché è un mondo ormai irrimediabilmente degradato [Machiavelli fa dire ironicamente e allusivamente a padre Timoteo - parafrasando il Talmud - che la creazione non è riuscita tanto bene e che Dio dovrebbe riprovarci, ma poi si rimangia l’affermazione pensando che è meglio tirare a campare così che subire un altro diluvio visto che lui, per giunta, non sa neppur nuotare].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Se navigate in rete trovate più di una registrazione della commedia La Mandragola e rivedendola potrete individuare le molte salaci metafore che contiene il testo di quest’opera per capire come certi atteggiamenti – ipocriti, menzogneri, dissimulatori, infingardi - continuino ad essere attuali...
C’è un atteggiamento ipocrita che volete segnalare: bastano quattro righe, scrivetele...
Quando i Medici nel 1527 vengono cacciati per la seconda volta, Machiavelli viene interpellato dai governanti della nuova Repubblica che gli propongono un incarico come diplomatico ma lui preferisce starsene da parte e, comunque, nello stesso anno [1527] muore.
Per noi cittadine e cittadini italiani l’importanza di Machiavelli consiste prima di tutto nel fatto che nelle sue opere parla dell’Italia e del suo destino di nazione. Capisce che senza diventare uno Stato l’Italia non sarebbe progredita ma, divisa in staterelli, avrebbe subìto l’egemonia delle nazioni straniere e, per questo, cerca - facendo appello ai Classici soprattutto latini - di chiarire le origini storiche della comunità italiana per costruire una Tradizione di carattere nazionale.
Machiavelli passa le sue serate a leggere l’opera di Tito Livio [che giudica di “meravigliosa piacevolezza, luminosissima eleganza e di stile ampio e pastoso” (la “rotunditas” ciceroniana)] e quindi riflette e comincia a scrivere le sue riflessioni.
Tito Livio [59 a.C. - 17 d.C.] è lo storico di Roma per eccellenza [è nato a Padova in una famiglia di tendenze repubblicane], si trasferisce a Roma giovanissimo per studiare retorica e filosofia e vive durante l’età di Augusto [con il quale ha avuto un rapporto non sempre facile] e per quarant’anni lavora alla sua opera intitolata Annales ab Urbe condita [Annali dalla fondazione di Roma] in 142 Libri [dei quali oggi ce ne restano 35] divisi in cinque decadi [cinque parti di dieci Libri ciascuna]. Tito Livio, con grande capacità narrativa, esalta le virtù etiche e civili [la “virtus romana”] degli antichi abitanti dell’Urbe tutti dediti ad operare per il Bene dello Stato repubblicano.
Nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio Machiavelli riflette in modo critico e scrive che il mezzo attraverso il quale una comunità può rinnovarsi per evitare la propria decadenza è quello di ricostruire e studiare la Storia e la Tradizione di pensiero di quella stessa comunità perché la vitalità e l’energia creativa di un popolo la si riconosce attraverso la Storia del Pensiero Umano che ha saputo elaborare. Ma questo processo a ritroso, scrive Machiavelli, deve tener conto della “realtà effettuale” ossia delle condizioni di fatto a cui soggiace la società umana.
E che caratteristiche ha [si domanda Machiavelli] la società umana? La società umana, scrive Machiavelli, si configura come “un gioco necessario di passioni” nel quale - siccome ogni gioco ha le sue regole - solo lo Stato, in quanto ente normativo, può introdurre un ordine etico. Lo Stato può e deve avere la capacità di armonizzare gli egoismi dei singoli nell’ambito del bene collettivo [per questo Machiavelli ammira il pragmatismo di Giulio II che combatte per rendere autonomo lo Stato della Chiesa].
Machiavelli guarda realisticamente la società del suo tempo che è organizzata in Principati. Chi ha la possibilità, si domanda Machiavelli, di governare lo Stato in questo momento? Non certo il popolo che langue nell’indigenza e nell’ignoranza e, in pratica, lo Stato si incarna nella figura del Principe. Gli Stati sono oggetti antropomorfi, corrispondono a una persona e, di conseguenza, c’è da augurarsi, scrive Machiavelli, che il Principe, in cui si incarna lo Stato, sia “ben educato” a svolgere il suo ruolo di “statista”, non quello di padrone. E la buona educazione del Principe consiste, scrive Machiavelli, tassativamente, nel non confondere gli interessi dello Stato con i suoi interessi privati. Il Principe, scrive Machiavelli, si trova dunque a dover lottare contro gli egoismi individuali dei sudditi e deve saper armonizzare i singoli interessi nell’interesse superiore della collettività, compito non facile perché è difficile stabilire quale sia la natura degli esseri umani: sono buoni, si domanda Machiavelli, o sono cattivi? E, a questo proposito, non si può dare che una risposta ambigua: «Gli esseri umani, scrive Machiavelli, non sono per natura loro né buoni né cattivi, ma possono essere l’una e l’altra cosa». Conviene quindi, scrive Machiavelli, che il Principe parta dal presupposto che tutti i sudditi sono cattivi e, di conseguenza, è bene trattarli con “la crudeltà necessaria” [con il massimo rigore]. Nello svolgere il suo compito di governante, scrive Machiavelli, il Principe deve lottare contro “la Fortuna” che è arbitra della metà delle azioni umane e, quindi, l’individuo riesce a governare solo il cinquanta per cento della propria vita.
Machiavelli dichiara di essere arrivato a queste conclusioni studiando la Storia e, di conseguenza, anche il Principe deve dedicarsi allo studio della Storia per poter trarre dal passato utili insegnamenti per l’avvenire e soprattutto per poter acquisire la “Virtù”. La Virtù [un’insieme di qualità in cui - come per Cicerone - spiccano: la sincerità, la lealtà, l’onestà e l’intelligenza] è la capacità che permette al Principe di dominare, per quanto è possibile, la Fortuna.
Per Machiavelli il concetto dello Stato sostituisce il concetto di Dio, ed è bene, è vero, è giusto ciò che è bene, vero e giusto per lo Stato. La religione, scrive Machiavelli parafrasando Ibn Khaldun, è un prodotto della Storia e il Principe accorto deve servirsi della religione come “instrumentum regni” [strumento che aiuta a gestire il potere]. La religione, scrive Machiavelli, è utile per “avvincere a sé l’animo dei sudditi” e la morale va separata dalla politica per cui lo Stato deve poter sacrificare, anche ingiustamente, gli interessi dei singoli per l’interesse collettivo e, quindi, “il fine giustifica i mezzi” [e su questa affermazione, diventata celebre, il dibattito è sempre in corso] ed è evidente che Machiavelli - attraverso le sue opere - vuole provocare il dibattito sull’arte di governare. Machiavelli, nell’ultimo capitolo de Il Principe, si rivolge a un ipotetico “Principe redentore” chiamato a salvare l’Italia: «L’Italia senza capo, senza ordine, e lacera » scrive Machiavelli: il tono è ironico, così come suona ironica la dedica che scrive sul volume che invia ai Medici perché lo acquistino, ma non ha “fortuna” perché non glielo comprano e [con scarsa lungimiranza] lo rispediscono al mittente.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
In quale occasione siete state baciate e baciati dalla Fortuna?...
Scrivete quattro righe in proposito...
Nella basilica di Santa Croce in Firenze potete visitare la tomba di Machiavelli e a S. Andrea in Percussina potete leggere la targa che si trova sulla facciata di quella che era la sua casa, oggi è una villa che continua a chiamarsi “l’Albergaccio” , fate un’escursione fin lì…
Vicino a l’Albergaccio c’era un’osteria [c’è anche oggi ma - anche se è tradizionalmente indicata - non è più la stessa di una volta]. Machiavelli frequenta quotidianamente l’osteria: vi consuma un pasto frugale perché ha poche risorse [e non può permettersi di spendere] ma soprattutto, nel tardo pomeriggio, passa all’osteria un paio d’ore in allegria “ingaglioffandosi” in mezzo al popolo prima di rientrare a casa, a sera, per dedicarsi allo studio.
E, per averne conferma, concludiamo leggendo un frammento della celebre Lettera di Niccolò Machiavelli a Francesco Vettori [del 10 dicembre 1513].
LEGERE MULTUM….
Niccolò Macchiavelli, Epistolario Lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513
Son solito usar d’intrattenermi al meriggio tardo all’ostaria con i beccai, i mugnai e i fornaciai. Con questi i’ m’ingaglioffo per un paio d’ore giuocando a cricca e a tricche-tracche, tanto che nascono mille contese e infiniti dispetti di parole assai ingiuriose, e il più delle volte si combatte un quattrino e ci si sente gridar non di manco fin da San Casciano. E venuta la sera, mi ritorno in casa, entro nel mio scrittoio e in sull’uscio mi spoglio di quella vesta cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali, e rivestito così decentemente entro nelle corti venerande de li classici antiqui, e allora leggo con attenzione e medito del pari e, di poi, iscrivo, per appuntar pensiero. …
E un bel giorno il pragmatismo di Giulio II investe anche Michelangelo: quando, come, perché?
Per rispondere a queste domande bisogna procedere con lo spirito utopico che lo “studio” porta con sé. Per questo la Scuola è qui per far sì che ciascuna e ciascuno di noi prenda la buona abitudine di leggere [quattro pagine al giorno], di riflettere [un quarto d’ora al giorno] e di scrivere [quattro righe al giorno], come dice Machiavelli, “per appuntar pensiero” perché, ribadisce Cicerone, verba volant, scripta manent.
E, quindi, sulla scia aleatoria delle parole dette e sulla traccia indelebile delle parole scritte: il viaggio continua «per strade assai contorte più che dritte, ma la diritta via [dice il poeta] senza le curve fa monotonia»…