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LO SGUARDO DI ERODOTO NELLA BABELE DELL’INCONSCIO…

Lezione N.: 
9

Prof. Giuseppe Nibbi           Lo sguardo di Erodoto          14-15-16  dicembre  2005

LO SGUARDO DI ERODOTO

NELLA BABELE DELL’INCONSCIO…

     Nello scorso itinerario, abbiamo potuto constatare che Erodoto, spesso, “gioca con le parole”, ma, nel testo de Le Storie gioca anche con i discorsi. Che cosa significa – in riferimento a Le Storie di Erodoto – usare l’espressione “giocare con i discorsi”?  “Giocare con i discorsi”, per Erodoto, significa avvalersi di “ciò che narra” per creare delle “fantastiche storie allegoriche”. De Le Storie di Erodoto noi abbiamo studiato le “forme strutturali” (come è fatto questo libro), abbiamo studiato e stiamo studiando le “forme intellettuali” (quali parole-chiave e quali idee significative contiene il testo di quest’opera), ora dobbiamo incontrare le “forme allegoriche”(le metafore erodotee).

     Gli esperti ci suggeriscono che, per Erodoto, esiste uno stretto rapporto tra la “storia” e l’allegorìa. L’allegoria è un insieme complesso di simboli che si presenta come una complicata figura misteriosa, come un’immagine emblematica difficile da decifrare se non possediamo le “chiavi di lettura”. L’allegorìa si manifesta attraverso una serie di  metafore, di paragoni rappresentativi, di parabole allusive.

     Noi, insieme a Tucidide (il primo della classe in “storia”, ve lo ricordate?), ci chiediamo se sia possibile “fare la storia” con le allegorie. È evidente che le allegorìe (le metafore, le parabole) non fanno la “storia” ma è altrettanto evidente – ci ricorda Erodoto “alludendo” – che le “storie” producono “allegorìe” che finiscono per sovrapporsi alle storie stesse. E le “allegorìe” muovono la riflessione, e la riflessione stimola il pensiero, e il pensiero favorisce l’apprendimento.

     La parola “allegorìa” (in greco “allegorìa) è costruita in un modo molto interessante e contiene il termine àllos che significa diverso, fuori dal normale, fantastico e il termine agoreùein, un verbo, che significa “parlare, raccontare in piazza” (sull’agorà), come dire che “chi racconta in piazza deve creare immagini fantastiche, allogorìe,  per farsi ascoltare”. Quindi, insieme alle parole ricerca (tesis), analisi (antitesis), giudizio (crisis), allusione (ìchonos), ambiguità (anfibìa, aporìa), vendetta (timorìa), coincidenza-incontro (chairòs), corrispondenza-accordo (syntesis), anche la parola allegoria-allegorìa va ad aggiungersi al catalogo che lo sguardo di Erodoto ci propone in questo Percorso di studio.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Cominciate ad osservare con attenzione queste parole in modo da essere pronti, quando ci sarà da scegliere, per dare una “forma” al territorio che stiamo attraversando…

     Noi sappiamo che, nel testo de Le Storie di Erodoto, sono proprio le “fantastiche allegorìe”, i “racconti simbolici”, disseminati lungo tutta l’opera, quelli che suscitano (e che hanno sempre suscitato) la maggior attenzione dei lettori. L’opera di Erodoto, nel ‘900, è diventata un fertile terreno di lavoro per i filosofi perché il pensiero moderno e contemporaneo si è dedicato con attenzione all’indagine sulla “funzione simbolica” e noi tutti sappiamo quanto siano importanti i “simboli”: pensate soltanto, per esempio, alle lettere dell’alfabeto. Ne Le Storie di Erodoto emerge con chiarezza l’importanza che la “funzione simbolica” ha avuto nella Storia del Pensiero Umano e soprattutto in relazione alla didattica della lettura e della scrittura.

     Nel mondo greco – in particolare nel mondo ionico (che è il mondo della prima formazione culturale di Erodoto) – vi è l’usanza di tagliare in due una moneta, un anello o un oggetto qualsiasi e darne metà a qualcuno. Le due metà, custodite di generazione in generazione, permettono ai posteri di riconoscere un antico patto di solidarietà, un antico legame di amicizia. Questo segno di riconoscimento, nel greco di Erodoto, ha un nome: si chiama”symbolon”. Il “simbolo” è quindi, prima di tutto, un elemento caratteristico capace di rinviare a qualcosa d’altro. La differenza del “simbolo” rispetto al “segnale” è che questo ha sempre un solo significato, mentre il “simbolo” rimanda a un’intera classe di oggetti e possiede una certa “ambiguità” (parola-chiave che abbiamo già incontrato nel catalogo dei termini di Erodoto) perché si basa su un rapporto di significazione aperta, non stabilita da alcuna norma codificata. Se prendiamo una bilancia, per esempio, essa può simboleggiare il potere giudiziario, può simboleggiare il fatto che qualcuno deve mettersi a dieta, ma può anche alludere al Giudizio Universale, o a una costellazione celeste, o a una serie di nozioni astratte come l’imparzialità e l’obiettività e poi molte altre cose. Vi è, in ogni segno simbolico, una ricchezza implicita tale che spesso ne impedisce una definizione esaustiva. Un simbolo può significare nozioni diversissime tra loro a volte addirittura opposte, spesso legate ai desideri. Ricordate il messaggio – formato da un uccello, un topo, una rana e cinque frecce – inviato dagli Sciti a Dario? Dario interpreta il significato degli oggetti, che gli Sciti gli fanno recapitare, secondo il proprio desiderio (avrebbe desiderato che quelli si sottomettessero a lui), e interpreta al contrario di ciò che loro gli vogliono mandare a dire (“ritìrati, se non vuoi fare una brutta fine”).

     I segnali sono recepiti anche dagli animali ma solo gli esseri umani (per quello che ne sappiamo) sono capaci di un’attività simbolica e Le Storie di Erodoto ci fanno capire che la capacità simbolica – 2500 anni fa – ha ormai raggiunto un alto grado di sviluppo. L’essere umano ormai – in quella che viene chiamata, dagli studiosi, l’Età assiale della storia (molti di voi sanno già di che cosa si tratta, altri non ancora e quindi ne parleremo) – riesce a vedere in qualsiasi oggetto il contrassegno di qualcosa d’altro. Prende così forma una comunicazione simbolica con la quale gli esseri umani riescono a esprimere, attraverso i simboli, una serie di nozioni altrimenti non pensabili né comunicabili.

     Facciamo soltanto un accenno – infatti riprenderemo questo concetto quando, fra qualche Percorso, entreremo nel territorio del ’900 – al tema che, in età contemporanea, si è sviluppato attorno al concetto di “funzione simbolica”. L’indagine sulla “funzione simbolica” è stata sviluppata in particolare da Ernst Cassirer (1874-1945). Cassirer è un pensatore, un matematico, di impostazione kantiana il quale, in un’opera dal titolo Filosofia delle forme simboliche (1929), sostiene che: «Il simbolo non è un rivestimento accidentale del pensiero ma è il suo organo necessario ed essenziale; il simbolo è il modo con cui i concetti si rendono pensabili alla mente.  Il linguaggio, il mito e anche la conoscenza scientifica e l’intero universo culturale dell’umanità è costituito da grandiose elaborazioni imperniate su forme simboliche dotate ognuna di una propria particolarità …  Il concetto di “ragione” non può più quindi stare al centro dell’indagine filosofica, ma al centro dobbiamo porre la nozione di “forma simbolica”. La ragione è un termine poco adeguato se si vuole abbracciare in tutta la loro ricchezza e varietà le forme della vita culturale dell’essere umano, e queste forme sono essenzialmente forme simboliche. Invece di definire la persona umana come animale razionale si dovrebbe definirlo come “animale simbolico” (ecco che entra in gioco questa espressione che oggi è al centro dell’interesse degli studiosi) e attraverso l’attività simbolica, la persona, invece di avere a che fare con la realtà, con le cose stesse, è in un certo senso continuamente a colloquio con se medesima.  La persona si è circondata di forme linguistiche, di immagini artistiche, di simboli mitici, di riti religiosi a tale segno da non poter vedere e conoscere più nulla se non per il tramite di questa artificiale mediazione…».

     Quindi non è casuale il fatto che ne Le Storie di Erodoto abbaino assunto un’importanza fondamentale le “allegorìe” che sono un insieme complesso di “forme simboliche”.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Esiste per voi un “simbolo” particolarmente significativo ?

Scrivete quattro righe in proposito…

     Non è casuale il fatto che ne Le Storie di Erodoto l’attenzione dei lettori sia sempre puntata sulle “fantastiche storie allegoriche” che questo “promotore culturale” è stato capace di raccontare utilizzando la scrittura. Alcune di queste “fantastiche storie allegoriche” sono delle vere e proprie novelle psicologiche che hanno anche contribuito alla costruzione del genere letterario del “romanzo” che si sviluppa – come sappiamo – in età moderna e in età romantica. Queste “fantastiche storie allegoriche” che Erodoto ha sentito raccontare e ha raccolto e ha romanzato, non sono storie vere, sono “meravigliose (deinòs) elaborazioni simboliche” e appaiono come storie vere in un senso penetrante, proprio nel senso della psicologia del profondo.

     A questo proposito, il repertorio ci propone la lettura di tre famosi “racconti allegorici” di Erodoto: la storia di “Policrate e del suo anello” nel libro III  39-43, la storia di “Rampsinito e del suo tesoro” nel libro II  121, e la celebre storia di Gige nel libro I  7-13. Penso che qualcuno di voi abbia già sentito nominare questi personaggi.

     Ora prendiamo subito in considerazione la celebre storia di Gige che è il primo racconto fantastico e allegorico che Erodoto ci presenta ne Le Storie e inoltre rappresenta – come dicono gli studiosi, in particolare il dottor Sigmund Freud (1856-1939) – una “scena primaria” in cui Gige, nascosto nella stanza da letto di Candaule, re di Sardi, spia e vede nuda la sua bellissima moglie, con la complicità del sovrano stesso. Che cosa significa “scena primaria”? Il dottor Freud risponde dicendo che: il Re è come fosse nostro padre e quindi quella Regina nuda – che siamo costretti a spiare di nascosto – non è forse la moglie di nostro padre? E chi è la moglie di nostro padre? Ma prima di farci spiegare da Sigmund Freud che cosa intende dire con questo discorso è utile leggere la celebre avventura di Gige: è possibile che qualcuno non la conosca…

LEGERE MULTUM….

Erodoto,  Le Storie  I  7-13

Era re di Sardi quel Candaule, che i Greci chiamano Mirsilo, discendente da Alceo, figlio di Eracle.

Infatti Agrone, figlio di Nino, nipote di Belo e pronipote di Alceo, era stato il primo degli Eraclidi a regnare su Sardi, come Candaule, figlio di Mirso, fu l’ultimo.

Quelli che avevano regnato su questo paese prima di Agrone erano discendenti di Lido, figlio di Ati, dal quale prese nome tutto il popolo lidio, che prima era chiamato Meone.

Gli Eraclidi, discendenti da una schiava di Iardano e da Eracle, presero possesso della signoria, trasmessa da costoro in virtù d’un vaticinio; e vi regnarono, durante 22 generazioni in linea maschile, per 505 anni (altrove – Libro II cap. 142 – Erodoto determina la durata di una generazione in 33 anni; ma qui il calcolo deve essere diverso, perché così non torna), ricevendo il potere ciascuno dal proprio padre, fino a Candaule, figlio di Mirso. (Erodoto riprende il tema della “genealogia” caro a Ecateo di Mileto).

Questo Candaule, dunque, era innamorato di sua moglie; e, nell’esaltazione dell’amore, credeva di possedere la donna di gran lunga più bella di tutte.

Convinto di ciò, dato che fra le guardie del corpo c’era un certo Gige, figlio di Dascilo, che godeva in modo particolare la sua simpatia, a lui faceva le sue confidenze sugli affari più seri; e, fra l’altro, anche sulla bellezza della moglie, che esaltava oltre ogni dire.

Ma era proprio destino che Candaule dovesse finir male; dopo un po’ tenne a Gige questo discorso: «O Gige, poiché ho l’impressione che tu non mi creda quando ti parlo della bellezza di mia moglie (in effetti gli uomini prestano meno fede a quello che odono, in confronto a quello che vedono), fa’ in modo di vederla nuda».

Ma quello, alzando grida di protesta, esclamò: «O signore, quale discorso dissennato mi vai facendo tu, che mi inciti a guardare nuda la mia signora? Insieme con la veste la donna si spoglia anche del pudore. Già da antico gli uomini hanno trovato precetti di saggezza, dai quali giova trarre ammaestramento; uno di essi è che ciascuno volga lo sguardo a ciò che è suo (non desiderare la donna d’altri…). Io sono convinto che essa è la più bella di tutte le donne e ti prego di non chiedermi delle cose disoneste».

Con tali ragioni egli tentava di schermirsi, temendo che gliene dovesse derivare qualche malanno.

Ma quello replicò così: «Fatti animo, Gige; e non temere né di me, per paura che ti faccia questa proposta per tentarti, né di mia moglie, al pensiero che te ne possa venire del danno; poiché tutto io combinerò in modo che nemmeno s’avveda di essere da te osservata. Infatti, ti farò entrare nella stanza dove passiamo la notte e ti collocherò dietro un battente della porta che si apre; subito dopo che io sarò entrato, verrà anche mia moglie per coricarsi. Vicino alla porta di entrata c’è una sedia e su questa essa deporrà gli indumenti, a uno a uno, man mano che se li toglie di dosso e tu potrai contemplarla con tutta tranquillità. Quando, poi, dalla sedia si dirigerà verso il letto e tu ti troverai alle sue spalle, abbi cura che essa non ti veda mentre te ne andrai attraverso la porta».

Sicché Gige, visto che non poteva avere scampo, era disposto a ubbidire; e Candaule, quando gli parve giunta l’ora d’andare a dormire, lo introdusse nella stanza da letto: subito dopo ecco anche la moglie e mentre essa entrava e deponeva i suoi vestiti Gige la contemplava.

Poi, quando la donna, accostandosi al letto, gli volse le spalle, di soppiatto se ne uscì; ma mentre se ne andava essa lo scorse. Pur comprendendo quello che il marito aveva combinato, non si mise, però, a strillare per la vergogna, né fece mostra di essersene accorta, ma nell’animo meditava la vendetta contro Candaule: per i Lidi, infatti, come pure, in generale, per gli altri Barbari, essere visto nudo, anche per un uomo, è cosa che procura grande vergogna.

Per il momento, dunque, senza dare a veder nulla, se ne stette così, quieta; ma non appena fu giorno, messi sull’avviso quelli dei servi che vedeva esserle particolarmente devoti, fece chiamare Gige.

Questi, convinto che la regina nulla sapesse di quanto era avvenuto, si presentò all’invito, poiché anche prima era solito recarsi da lei quando la regina lo chiamava.

Quando, dunque, Gige arrivò, la donna gli disse: «Ora, Gige, delle due vie che ti si presentano, lascio a te scegliere quella che vuoi seguire: o, ucciso Candaule, ti prendi, insieme con me, anche il regno dei Lidi; oppure tu stesso, qui subito, devi morire, affinché, in tutto ligio a Candaule, non abbia per l’avvenire a veder più ciò che non si deve. Poiché bisogna pure che scompaia o lui che ha combinato questo tranello, o tu che mi hai vista nuda e hai fatto ciò che non è lecito».

Gige per un poco rimase sbalordito ad ascoltare ciò che gli si diceva; ma poi si mise a scongiurarla di non metterlo nella necessità di dover fare una tale scelta.

Siccome, però, non riusciva a piegarla e vedeva che era assolutamente necessario o uccidere il suo signore o essere egli stesso ucciso da altri, scelse di sopravvivere.

Quindi le rivolse questa domanda: «Poiché mi costringi a privare della vita il mio padrone, contro mia voglia, suvvia, che io sappia in qual modo potremo mettere le mani su di lui». 

Ed essa di rimando disse: «Dal medesimo luogo partirà l’insidia donde anche egli mi ha fatto apparire nuda; lo si colpirà mentre è immerso nel sonno».  Quando si furono accordati sulle modalità dell’insidia, sopraggiunta la notte, Gige (dato che non lo si lasciava libero né vi era alcuna via di scampo, ma bisognava proprio che morisse lui o uccidesse Candaule) seguì la donna nella stanza da letto.

Essa dopo avergli messo in mano un pugnale, lo nascose dietro la stessa porta; e più tardi, mentre Candaule riposava, Gige, sbucato fuori dal nascondiglio e uccisolo, divenne padrone della moglie di lui e del suo regno.

Anche Archiloco di Paro, che visse nello stesso periodo, ne fa menzione in un trimetro giambico (il poeta Archiloco è vissuto fra il 690 e il 630 a.C., fu uno dei maggiori poeti greci e il più celebrato fra gli autori di giambi. Il verso a cui qui si accenna dice: “A me nulla interessano i fatti di Gige ricco d'oro”).

Ebbe così il regno e vi fu confermato da un oracolo di Delfi.

Infatti, siccome i Lidi consideravano grave sventura l’uccisione di Candaule e avevano già in pugno le armi, fra i partigiani di Gige e gli altri Lidi si venne a un accordo: che, cioè, se l’oracolo avesse sentenziato che egli era re di Lidia, avrebbe regnato, altrimenti avrebbe restituito il potere agli Eraclidi.

Il responso fu a suo favore e così Gige fu re.

Veramente la Pizia aveva detto pure quest’altra cosa, che gli Eraclidi si sarebbero vendicati sul quinto discendente di Gige (veramente Creso, su cui si abbatté la vendetta, secondo i calcoli fatti dagli studiosi, sarebbe il quarto discendente di Gige; ma i Greci nel computo solevano tener conto anche del capostipite, cioè Gige stesso); ma di questa predizione i Lidi e i loro re non tennero conto alcuno, finché non venne a compimento.

     Quando il dottor Sigmund Freud legge questo “fantastico racconto allegorico” di Erodoto vede in esso una conferma alle sue teorie psicoanalitiche. Adesso non è facile, fuori dal contesto, lontano dal territorio del ’900, in cui approderemo a suo tempo, spiegare le teorie psicoanalitiche nel loro complesso.

     Per riflettere sui brani che abbiamo letto e che raccontano la celebre storia di Gige prendiamo in considerazione alcuni elementi fondamentali del pensiero psicoanalitico del dottor Freud (1856-1939). Secondo Freud vi è sempre una connessione tra gli avvenimenti che ci sono capitati nel passato (soprattutto nella nostra prima infanzia) e i sintomi (di ansia, di depressione, di nevrosi) che spesso ci affliggono nel presente. Freud sperimenta e capisce che risvegliando il ricordo degli avvenimenti passati i sintomi (di ansia, di depressione, di nevrosi) tendono a scomparire o a diminuire d’intensità. In genere ciò che viene dimenticato è un avvenimento di carattere negativo che non viene conservato dalla coscienza perché è considerato penoso, triste, doloroso, angoscioso, vergognoso. Il compito della psicoanalisi è quello di far ricordare ciò che è stato dimenticato vincendo, attraverso la conversazione, la resistenza di colui che dovrebbe ricordare. Perché – scrive Freud – è necessario vincere la resistenza di colui che dovrebbe ricordare? Perché – spiega Freud – esiste un meccanismo protettivo che respinge le esperienze sgradevoli, c’è un meccanismo di difesa che tende a evitare il dolore e Freud, questo processo psicologico di salvaguardia, lo chiama: “rimozione”. La coscienza rimuove le esperienze sgradevoli ricacciandole in un vasto territorio sotterraneo, oscuro, indeterminato, enigmatico, misterioso della mente. La psicanalisi ha lo scopo di scoprire le rimozioni e di eliminarle, e soprattutto ha il compito di esplorare questo vasto territorio situato al di sotto de la coscienza al quale, dagli studiosi, era già stato dato il nome di “inconscio”.

     Per scoprire le rimozioni ed eliminarle è necessario imparare a distinguere l’inconscio dalla coscienza, ed è necessario anche definire i reciproci rapporti tra questi due elementi che sono fortemente connessi, legati, concatenati e intrecciati tra loro. Freud studia il complesso rapporto tra la coscienza e l’inconscio, analizza l’intricato tema della rimozione, e poi riporta le sue ricerche e le sue osservazioni in tre famosi saggi che tutti abbiamo sentito nominare. Il primo di questi saggi s’intitola L’interpretazione dei sogni, pubblicato nel 1900, che è passato assolutamente inosservato, ed è stato fortemente criticato dal mondo accademico. Gli altri due trattati: La psicopatologia della vita quotidiana (1904) e Il motto di spirito (1905) diventano invece subito molto popolari e contribuiscono a far comprendere che la coscienza è influenzata in modo significativo dai processi e dalle evoluzioni dell’inconscio e, con questa realtà – oscura, sotterranea – ci dobbiamo fare necessariamente i conti. I sogni per esempio – secondo Freud – sono un utile strumento d’indagine per studiare il rapporto tra la coscienza e l’inconscio. Freud scopre che i sogni mettono in luce un desiderio recente, ma, questo desiderio recente, nel sogno,  viene attratto sempre da un desiderio più antico. Nei sogni, i desideri recenti – scrive Freud – rivelano desideri infantili. Quando Freud sogna di “essere al posto del ministro” (ora non abbiamo il tempo di raccontare tutta la trafila di questo sogno che lui ci racconta, ma ci si può documentare con la lettura de L’interpretazione dei sogni), si rende conto che, prima di desiderare il “posto del ministro”, lui ha desiderato il “posto del padre”.  «Mi sono sentito come Edipo – afferma Freud – che desidera prendere il posto del padre Laio accanto alla madre Giocasta» e noi sappiamo che quella di Edipo è una delle figure simboliche, una delle allegorie, più rappresentative della dottrina psicoanalitica.

     Un altro elemento che mette in evidenza il complicato rapporto tra la coscienza e l’inconscio è il lapsus, che letteralmente possiamo tradurre dal latino con l’espressione “atto mancato”. I lapsus, le distrazioni, le sbadataggini che rientrano nell’esperienza quotidiana, ordinaria e comune, sono situazioni molto adatte – secondo Freud – a far capire l’azione dei processi primari, cioè delle intenzioni inconsce. «I lapsus – scrive Freud nel saggio Il motto di spiritonon sono puri scarti di una espressione mal riuscita, sono l’interruzione, nel nostro discorso, di un altro discorso che l’inconscio conduce per conto suo, sulla spinta del desiderio. Se di un noto uomo politico, ritiratosi a vita contadina, io dico che ormai il suo posto è “davanti all’aratro” (un uomo politico deve stare dietro l’aratro per ben arare e ben seminare), ho così manifestato il mio segreto sentimento, perché davanti all’aratro ci sta solo il bue!… Anche il “motto di spirito”, che ci procura piacere, – continua Freud – è un espediente con cui gli impulsi repressi (libidici o aggressivi) fanno sentire la loro voce accanto alle rigide pretese della morale. Privati, durante l’infanzia, del piacere di giocare con le parole, a tutto vantaggio della razionalità costituita, col lapsus e col motto di spirito noi esercitiamo la nostra piccola rivincita, magari facendo noi stessi le spese della trasgressione umoristica».

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Che cosa vi fanno venire in mente le parole: lapsus, distrazione, sbadataggine ?

Scrivete quattro righe in proposito…

Qui entra senz’altro in gioco l’autobiografia: raccontate i vostri lapsus, le vostre distrazioni, le vostre sbadataggini …

     L’inconscio è formato – scrive Freud – da contenuti istintivi che tendono a scaricare con violenza la propria forza emotiva. La coscienza invece funziona come un organo che sceglie dall’inconscio quasi esclusivamente il materiale che non suscita troppa ansietà nella persona, e respinge sempre quegli impulsi che ne suscitano troppa. L’inconscio tuttavia irrompe spesso sul piano della coscienza sotto varie forme: nella fantasia, nei sogni, nelle fantasticherie, nelle illusioni, nelle allucinazioni. E, di solito, l’inconscio – scrive Freud – opera in silenzio, al di fuori della consapevolezza dell’essere umano. Da questo ininterrotto lavorìo sotterraneo della mente emergono di continuo informazioni, materiali, prodotti. E queste informazioni, questi materiali, questi prodotti della mente si presentano sul piano della coscienza in modo non direttamente identificabile ma sotto forma di metafore, di simboli, di figure allegoriche, di racconti fantastici da decodificare. Da che cosa dipende – si chiede Freud – tutta questa agitazione inconscia?

     Nell’opera Tre saggi sulla teoria della sessualità pubblicata nel 1905 (ma più volte rimaneggiata) Freud spiega che l’attività dell’inconscio è fondamentalmente influenzata dalla libido, cioè dall’energia dell’istinto sessuale. Gli impulsi della libido – spiega Freud – non sempre possono essere appagati, quindi si rende necessario che essi siano rimossi nell’inconscio, ossia che vengano tenuti lontano dalla coscienza. Ma nell’inconscio questi impulsi conservano tutta la loro carica energetica e inevitabilmente ed incessantemente ritornano a galla. E, quasi sempre, ecco che gli impulsi, con tutta la loro carica energetica, riemergono alla luce della coscienza non così come sono ma sotto forma di racconto fantastico, di allegoria. Freud chiama questo procedimento: sublimazione. La sublimazione è una situazione in cui gli impulsi, con tutta la loro carica energetica, possono essere deviati verso mete, verso destinazioni, verso obiettivi socialmente approvati.

     Il “racconto fantastico, allegorico”, con tutta la sua valenza creativa, è pubblicamente stimato, accolto con favore nella comunità. Per Freud i “racconti fantastici, allegorici” – che ha cercato e ha letto con passione nella storia della letteratura, soprattutto classica, greca e latina (i poemi epici, le tragedie, le storie fantastiche) sono sempre stati un indicatore per trovare un riscontro nei confronti delle proprie teorie.

     E veniamo al racconto di Gige che Freud nomina come esempio significativo di “scena primaria”. Per valutare l’importanza che Freud attribuisce alla libido, all’energia dell’istinto sessuale, dobbiamo sottolineare il fatto che lui vede l’intera esistenza umana in funzione della sessualità: dapprima infantile (fino ai cinque anni circa), poi latente, infine matura nella pubertà. Secondo Freud l’età infantile perde quindi le sue caratteristiche di ingenua purezza ed appare dominata dalla sessualità. Soprattutto – sempre nell’ambito di queste forme infantili di sessualità – il bambino, o la bambina, manifesta, fra i tre e i cinque anni, il desiderio di possedere in esclusiva l’affetto della madre, o del padre, e di sentirsi oggetto di tutta la sua attenzione. Poiché la presenza del padre, o della madre, è di ostacolo a questo possesso esclusivo, ecco che i bambini sono portati a sentirsi rivali del padre, e le bambine della madre.

     Nasce così quello che è stato chiamato il complesso di Edipo e ne abbiamo parlato poco fa e ne abbiamo parlato qualche settimana fa incontrando Sofocle: il personaggio di Edipo (nella tragedia Edipo re) uccide il padre Laio per sposare la madre Giocasta. Nel complesso di Edipo – secondo Freud – sorge l’inconscio desiderio di eliminare il padre o la madre per prenderne il posto e contemporaneamente emerge il timore di subire la punizione. Secondo Freud questo timore (di castrazione) fa sì che i bambini, e le bambine, rinuncino, reprimendosi, alla competizione con i genitori rivali sostituendo l’avversione con l’identificazione. E Freud aggiunge che, a causa di questa auto-repressione operata con timore, il complesso di Edipo riemerge trovando sfogo in una inesauribile creazione di informazioni, di materiali, di prodotti della mente che si presentano sul piano della coscienza in modo non direttamente identificabile ma sotto forma di allegorìe e di racconti simbolici da decodificare.

     La letteratura classica – scrive Freud – ci riporta tutte queste allegorìe e tutti questi racconti simbolici, e l’avventura fantastica di Gige – secondo Freud – è uno degli esempi più significativi: è la scena primaria che descrive nel modo più efficace questa situazione psicologica. Nella storia di Gige – secondo il pensiero di Freud – il Re Candaule rappresenta la figura del padre e la Regina nuda – spiata di nascosto – rappresenta la figura della madre. Gige coltiva il “complesso di Edipo” e dapprima rimuove la sua inconscia avversione per il Re-padre e la sublima identificandosi con lui ma poi – dovendo scegliere – lo elimina e si sostituisce a lui accanto alla Regina-madre…

     Gli antichisti ci fanno notare che ne Le Storie di Erodoto ogni tanto fa capolino Freud e, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, dobbiamo tenerne conto se ci vogliamo esercitare, come lettori, su questo testo.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Siete consapevoli di aver “rimosso” nell’inconscio qualche situazione sgradevole che ogni tanto riemerge (sotto forma di sogno, di figura simbolica, di allegoria) alla luce della vostra coscienza ?  Scrivete quattro righe in proposito, la scrittura è utile per dare consistenza alle immagini della mente…  

La parola “sublimare” significa: innalzare, esaltare, idealizzare, elevare, nobilitare, purificare, trasformare, spiritualizzare…

Quale di queste azioni scrivereste per prima accanto alla parola “sublimare” ?  

Scrivetela qui…

     E ora, per completare questa riflessione, leggiamo una pagina tratta dall’opera Tre saggi sulla teoria della sessualità (1905).

LEGERE MULTUM….

Sigmund Freud,  Tre saggi sulla teoria della sessualità (1905)

Nel fare ricerca ho sempre utilizzato due discipline strettamente legate alle determinazioni concrete della vita. La prima disciplina è la biologia che fornisce un gran numero di nozioni e offre il metodo di osservazione dei fatti, la seconda disciplina è la storia che, impedendo di fissare i dati dell’osservazione in una immobilità astratta, li restituisce alla vita in cui hanno la loro verità.

Il sesso è innanzitutto una struttura fisiologica ma è anche una storia, nel senso che le sue determinazioni accompagnano la vita della persona fin dalla sua prima origine.

La nozione di “libido” si colloca, appunto, sulla linea d’incrocio tra la biologia e la storia: essa ha radici nell’istinto sessuale, ma non si confina affatto nella struttura genitale, in quanto investe, come un’energia mobile, i meccanismi psichici più diversi.

La pulsione sessuale ha, sì, una radice biologica con una determinazione organica ben precisa, ma prima di concentrarsi, con la pubertà, negli organi sessuali, si dispiega, durante la primissima infanzia, in una pluralità di direzioni, differenziandosi a seconda dell’oggetto in cui si fissa.

Il bambino ha i suoi istinti e le sue attività sessuali sin dall’inizio, li porta con sé venendo al mondo, e da essi, attraverso uno sviluppo significativo, ricco di tappe, emerge la cosiddetta sessualità normale dell’adulto.

La pulsione sessuale ha una radice biologica ma ha anche una sua storia con la quale dobbiamo fare i conti.  

   Se è vero che, ogni tanto, in Erodoto fa capolino Freud, è anche vero che in Frued, per lo meno in questa pagina, spunta Erodoto. A proposito di “allegorìe” e di “figure simboliche”: Erodoto ci stupisce ancora quando ci racconta di aver visto a Babilonia nientemeno che una delle figure simboliche più famose della nostra cultura: la Torre di Babele, che i Babilonesi chiamavano torre di Etemenanki. Oggi di questo monumento rimangono ancora delle rovine dette di Birs Nimrud. Leggiamo il racconto di Erodoto.

LEGERE MULTUM….

Erodoto,  Le Storie  I  181

La cinta di mura di cui si è parlato costituisce quasi la corazza della città (Babilonia), ma all’interno corre tutt’intorno un altro muro, che non è molto meno forte del primo ma è più stretto. Ciascuna delle due parti della città aveva, nel suo centro, una grande costruzione: l’una il palazzo reale con un muro di cinta grande e forte, l’altra il santuario dalle bronzee porte di Zeus Belo (era il santuario di Bél-Marduk, o Baal, suprema divinità solare babilonese) – che esisteva ancora ai miei tempi – di forma quadrangolare, ogni lato lungo due stadi. Nel centro del sacro edificio è costruita una torre massiccia lunga uno stadio e larga altrettanto (è la famosa “Torre di Babele” della tradizione biblica, detta dai Babilonesi torre di Etemenanki, di cui ora rimangono delle rovine, dette di Birs Nimrud). Sopra questa torre ve ne è sovrapposta un’altra e un’altra ancora sopra la seconda, e così fino a otto torri.  La via d’accesso ad esse è costruita esternamente a spirale intorno a tutte le torri. In un certo punto, a metà salita, c’è un luogo di sosta e dei sedili per riposo sui quali siedono e prendono fiato coloro che salgono. Nell’ultima torre c’è un gran tempio, nell’interno del quale vi è un gran letto, adorno di bei drappi, e, accanto, è apprestata una tavola d’oro.

Nessuna statua è eretta in quel luogo; nessun essere umano passa colà la notte, soltanto un’unica donna del paese, quella che il dio ha scelto fra tutte, a quanto affermano i Caldei (casta sacerdotale di Babilonia, astrologi e interpreti di fenomeni celesti. Questo termine per lo più designa gli abitanti del paese fra Eufrate e Tigri), che sono i sacerdoti di questo dio.

     La Torre di Babele è un simbolo fondamentale della nostra cultura e tutti sappiamo a che cosa si riferisce, tutti abbiamo nella mente il brano del libro della Genesi, capitolo 11, 1-9, che ci racconta il famoso episodio della “confusione delle lingue”.

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Genesi  11, 1-9

Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall’oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono. Si dissero l’un l’altro: «Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco». Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento (Con questo materiale erano costruite le grandi torri a gradinate, dette ziqqurat – “collina del cielo”, “montagna degli dèi” – cui il racconto fa qui indirettamente allusione. Sulla terrazza più alta di queste torri, che si riteneva toccasse il cielo, era situata la dimora degli dèi.). Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra» (Questo versetto sembra voler esprimere il sogno segreto di certi individui o gruppi, qui rappresentati da Babilonia, di assicurare l’unità del genere umano attraverso una qualche forma di imperialismo politico e religioso.). Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: «Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro». Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele (L’autore del testo condanna le pretese di Babilonia al dominio universale, collegando per assonanza il nome della città – in ebraico babel - con la radice ebraica balal, che, appunto, significa confondere, mescolare…), perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra.

     È chiaro che, nel contesto de Le Storie, e secondo la mentalità “greca”, se Erodoto  avesse potuto narrare il “racconto biblico” della Torre di Babele lo avrebbe raccontato al rovescio. Così come la biblica storia della Torre di Babele è stata letta al rovescio da molti scrittori: da Dostoevskij, da Kafka, e anche da Jorge Luis Borges e da Elias Canetti. Che cosa significa leggere alla rovescia la storia della Torre di Babele? Intanto anche secondo la “mentalità greca” – e quindi secondo il modo di pensare di Erodoto – esisterebbe una lingua madre originaria dalla quale sono derivate tutte le altre lingue. Ma, secondo la “mentalità greca” – e quindi secondo il modo di pensare di Erodoto –  non è per punizione divina che gli esseri umani hanno perduto l’unica lingua originaria. Gli esseri umani si sono messi a parlare lingue diverse perché così hanno scelto loro. Sapendosi uguali hanno voluto presentarsi come diversi, provvisti ciascuno di un’identità forte, di una personalità inconfondibile. Distinguersi, diversificarsi significa rifiutare l’omologazione, l’uniformazione.

     L’omologazione e l’uniformazione non favoriscono lo sviluppo di quel processo, utile per ogni comunità – omogenea o eterogenea che sia – che si chiama processo di integrazione. Il “processo di integrazione” – “allude” Erodoto ne Le Storie – comincia a svilupparsi quando gli esseri umani prendono atto del fatto che essere “diversi” non significa essere “avversi”. L’avversione è un sentimento che porta la comunità a chiudersi all’interno del proprio recinto lasciando fuori la “diversità”. Sfrattare la “diversità” – “allude” Erodoto ne Le Storie – significa allontanare la conoscenza e bloccare il processo di apprendimento. Sappiamo che la “diversità” – per Erodoto – corrisponde alla “varietà”, e la “varietà” stimola la ricerca, l’analisi, il giudizio. Questo vale per le lingue, vale per le memorie, vale per i costumi, vale per gli usi: “distinguersi” significa “differenziarsi”, e “differenziarsi” significa conservare nel mondo la “varietà”, la molteplicità, l’assortimento, tutti elementi che garantiscono una continuità alla vita. Ed Erodoto si avvicina costantemente alle diversità – artificiali, superficiali ma evidentemente necessarie – con rispettosa meraviglia. Erodoto è come se avesse sempre in mano uno specchio, che offre tanto ai Greci quanto agli Stranieri (Barbaroi) invitando loro a rispecchiarsi, a osservarsi bene e poi a domandarsi: che cosa c’è in me di diverso dagli altri, che cosa c’è di uguale?

     C’è un saggio che è stato scritto qualche anno fa (prima del 1987) e che s’intitola Le miroir d'Hérodote, Lo specchio di Erodoto, non conosco però il nome dell’autore e non so se sia stato tradotto in italiano: sarebbe interessante informarsi perché forse, questo saggio, si occupa dei temi di cui stiamo parlando.

     Abbiamo detto che nello specchio di Erodoto – a proposito del mito della Torre di Babele e della narrazione della “confusione delle lingue” – si sono rispecchiati molti scrittori. Due di questi scrittori, Jorge Luis Borges ed Elias Canetti, hanno voluto interpretare al contrario il racconto della Torre di Babele, alludendo, nelle loro opere – come fa Erodoto – al fatto che gli esseri umani hanno perduto la lingua madre originaria non  per punizione divina ma perché così hanno scelto loro. Hanno voluto distinguersi, diversificarsi rifiutando l’omologazione, l’uniformazione.

     Tutta l’opera di Jorge Luis Borges (1899-1986) può essere definita col titolo di Biblioteca di Babele. Borges nasce a Buenos Aires nel 1899 da una famiglia dell’alta borghesia; vive a Ginevra (1914-1918) e in Spagna (1919-1921), dove partecipa ai movimenti letterari d’avanguardia. Tornato in Argentina si oppone della dittatura di Perón (1946-55) e così passa “dai libri ai polli” perché viene trasferito dalla Biblioteca, in cui lavora da anni, alla sovrintendenza delle fiere del pollame. Caduta la dittatura peronista viene nominato direttore della Biblioteca nazionale e docente di Letteratura inglese all’università. Purtroppo a causa di una malattia ereditaria Borges diventa progressivamente cieco. La crescita internazionale della sua fama, a partire dai primi anni ’60, lo porta più volte a viaggiare per conferenze negli Stati Uniti e in Europa (è più volte in Italia dal 1977 al 1985). Nel 1974, con il ritorno del peronismo al governo in Argentina, si dimette dalla Biblioteca nazionale. A Buenos Aires fonda la rivista murale Prisma, poi si trasferisce in Svizzera, muore a Ginevra nel 1986. Tra le molte opere in poesia e in prosa che Borges ha scritto ricordiamo l’Antologia di letteratura fantastica (1940) e i racconti gialli Sei problemi per Isidoro Parodi (1942). I due libri di racconti intitolati Finzioni (1944) e L’Aleph (1949) sono universalmente considerati i suoi capolavori e naturalmente se ne consiglia la lettura.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Nell’opera di Borges fa capolino Erodoto: cercate in biblioteca i suoi racconti e leggetene qualche pagina…

     E ora da Finzioni leggiamo tre frammenti. Il personaggio che incontriamo in questo racconto si chiama Ireneo Funes. Ireneo è un giovanotto di Fray Bentos in Uruguay il quale, a causa di una caduta da cavallo, rimane paralizzato. Questa drammatica “diversità”, che ha accidentalmente acquisito, costituisce per lui una specie di rinascita. L’immobilità fisica stimola la sua mente che assume le dimensioni di una biblioteca di Babele in cui la varietà delle descrizioni, delle memorie, delle lingue, dei transiti, dei decorsi e delle mutazioni dà un senso al mondo e alla vita di Ireneo Funes.

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Jorge Luis Borges, Finzioni  (1944)

Lo ricordo (io non ho diritto di pronunciare questo verbo sacro; un uomo solo, sulla terra, ebbe questo diritto, e quest’uomo è morto), e ricordo la passiflora oscura che teneva nella mano, vedendola come nessuno vide mai questo fiore, né mai lo vedrà anche se lo avrà guardato dal crepuscolo del giorno a quello della notte, per una vita intera. Ricordo il suo volto taciturno dai tratti d’indiano, singolarmente remoto dietro la sigaretta. Ricordo (credo) le sue mani affilate d’intrecciatore; ricordo presso queste mani un servizio da matè con le armi della Banda Orientale; ricordo a una finestra della sua casa una tenda gialla, con un vago paesaggio lacustre. Ricordo chiaramente la sua voce; la voce posata, nasale e un poco lamentosa dell’orillero antico, senza le sibilanti italiane di oggi. Non l’ho visto più di tre volte; l’ultima nel 1887

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     Come nell’opera di Borges fa capolino Erodoto, così lo sguardo di Erodoto spunta anche nell’opera di Elias Canetti di cui abbiamo letto qualche settimana fa (sei settimane fa) un brano tratto da un suo famoso romanzo, Auto da fè, (chissà se qualcuno di voi si è avvicinato a questo libro?), e abbiamo preannunciato che, strada facendo, avremmo ancora incontrato questo scrittore.

     L’incontro con Elias Canetti ci permette di ricordare ancora una volta che il 2005 – che si sta per concludere – è un anno di anniversari significativi da commemorare. Prima di tutto è l’anniversario (i 400 anni dalla nascita, dalla pubblicazione) di uno straordinario “personaggio simbolico”: Don Chisciotte, accompagnato da Sancio Panza. Ma nel 2005, si ricordano (e noi li abbiamo già ricordati) gli anniversari di alcuni personaggi del mondo della cultura che sono esistiti in carne ed ossa: Schiller (a 200 anni dalla morte), Sartre (a 100 anni dalla nascita). Questa sera dobbiamo aggiungere alla nostra lista commemorativa anche Elias Canetti, che è nato in Bulgaria  nel 1905: cento anni fa. Perché Erodoto s’incuriosirebbe – e noi con lui c’incuriosiamo – di fronte alla figura di Elias Canetti? Perché la mente di Elias Canetti corrisponde alla biblioteca di Babele, con tutta la sua varietà. Che significato ha questa affermazione?

     Elias Canetti (1905-1994) è nato da genitori ebrei sefarditi di origine spagnola e quindi, in casa, parla lo spagnolo, ma i suoi genitori tra loro, nell’intimità, parlano il tedesco. A scuola Elias parla in bulgaro e studia anche il francese e l’inglese. Non pensate che la sua mente equivalga alla biblioteca di Babele? Inoltre, con la lingua tedesca – una lingua a lui sconosciuta e resa in qualche modo magica dall’uso che ne fanno i genitori –, questo bambino poliglotta ha un rapporto speciale e doloroso. Elias impara il tedesco dopo l’improvvisa e prematura scomparsa del padre: glielo insegna, con pazienza e fatica, sua madre come se fosse un impegno d’amore indirizzato al marito morto. Questa singolare esperienza Elias Canetti la racconta in un bellissimo romanzo autobiografico che s’intitola La lingua salvata – un testo che abbiamo già incontrato in altri itinerari – e che probabilmente qualcuno di voi ha già letto. Canetti decide di scrivere in tedesco – proprio nella lingua che ha fatto più fatica ad imparare – perché per lui diventa la lingua dell’amore, e anche la lingua del possesso della madre, ci direbbe, compiaciuto, il dottor Freud che, non a caso, abbiamo incontrato questa sera sul nostro itinerario. Elias Canetti è vissuto a Vienna dove si è laureato in chimica (come Primo Levi) e poi, dopo l’annessione dell’Austria alla Germania nazista, nel 1938 si trasferisce a Londra. Canetti scrive per il teatro alcune significative commedie: Nozze (1932), Commedia della vanità (1952), Le vite a scadenza (1952). Sappiamo già che nel 1935 pubblica il romanzo Auto da fé, di cui si continua a consigliare vivamente la lettura perché è considerato uno dei capolavori del ‘900.

     Per decenni Canetti lavora a un saggio fondamentale, pubblicato nel 1960, che s’intitola Massa e potere: è un’opera sui meccanismi psicologici del controllo sociale. Canetti studia con quali meccanismi il potere crea e controlla la massa, studia il concetto dell’indottrinamento, un processo che tende ad eliminare la “diversità” e la “varietà”: è in questo contesto che si dedica con attenzione alla lettura de Le Storie di Erodoto. Canetti dimostra che l’indottrinamento è l’esatto contrario del concetto di educazione. Infine Canetti ha scritto una serie di volumi autobiografici: La lingua salvata (1977), Il frutto del fuoco (1980), Il gioco degli occhi (1985) e La tortura delle mosche (1992). Canetti nel 1981 ha ricevuto il premio Nobel. Muore a Zurigo nel 1994.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

In biblioteca ci sono tutti i libri di Elias Canetti, si possono osservare, toccare, sfogliare e se ne può leggere qualche pagina …

     E ora leggiamo una pagina tratta da La lingua salvata. Leggiamo questo brano per commemorare i cento anni di Elias Canetti e anche per renderci conto che, quando uno scrittore ha in testa la biblioteca di Babele, ecco che fa capolino anche Erodoto con il suo sorriso allusivo.

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Elias Canetti, La lingua salvata (1977)

Proprio per tenere testa alle pretese della mamma fui dunque spinto ad accentuare la mia naturale vivacità. Nella mia ben diversa situazione della scuola, la mia condotta era simile a quella a cui ero avvezzo in casa. Mi comportavo come se l’insegnante fosse la mamma. L’unica differenza era che a scuola dovevo alzare la mano prima di sbottare con la risposta. Ma essa seguiva immediatamente, lasciando i compagni con un palmo di naso. Non mi era mai passato per la mente che questo mio modo di fare potesse irritarli o addirittura ferirli. Non tutti gli insegnanti avevano lo stesso atteggiamento di fronte a questa mia velocità nel rispondere. Alcuni sentivano la prontezza di certi scolari come qualcosa che gli facilitava l’insegnamento. Era a tutto vantaggio del loro lavoro, l’atmosfera non stagnava mai, succedeva sempre qualcosa, avevano l’impressione che la loro lezione fosse ben riuscita se suscitava immediatamente le opportune reazioni.

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     E così, con questo atto d’amore per “il sapere disinteressato”, siamo arrivati anche alle vacanze di Natale e alla fine dell’anno 2005. Abbiamo concluso la prima parte del nostro viaggio in compagnia di Erodoto, nella quale ci siamo occupati soprattutto di scoprire le “forme” presenti nella mente dello scrittore e, di conseguenza, presenti nella sua opera. Ne Le Storie di Erodoto, e di conseguenza nel pensiero di Erodoto, possiamo individuare tre tipi di “forme”: ci sono le “forme intellettuali” date dalle idee che Erodoto ha acquisito, da giovane, nella sua formazione scolastica avvenuta nella Ionia; poi ci sono le “forme culturali” date dalle idee che Erodoto ha acquisito nel corso dei suoi viaggi per il mondo; inoltre ci sono le “forme allegoriche” date dalle metafore morali che Erodoto ha colto nelle “storie” che ha sentito raccontare e che ha deciso di scrivere.

     Quando torneremo a Scuola il prossimo anno, nel 2006 – nella seconda parte del nostro Percorso in compagnia di Erodoto – ci occuperemo ancora delle “forme” e poi passeremo ai “contenuti”, ma le due cose andranno sempre di pari passo. Naturalmente ci occuperemo di “contenuti” tenendo sempre conto delle “forme intellettuali, culturali e allegoriche” che abbiamo individuato, e continueremo a compilare il nostro catalogo di parole-chiave e di idee significative in funzione della didattica della lettura e della scrittura.

     Il “contenuto” de Le Storie di Erodoto riguarda il racconto di un’epopea, non scritta in modo epico, ma tuttavia costruita con tratti apologetici. Le Storie di Erodoto raccontano le guerre persiane, raccontano il tentativo da parte dell’impero Persiano di conquistare la Grecia, di conquistare il mondo. Le Storie di Erodoto raccontano la tenace e sagace resistenza e la gloriosa vittoria dei Greci sugli invasori.

     C’è chi sostiene che – con questa epopea – Erodoto voglia esaltare la vittoria dell’Europa sull’Asia, voglia celebrare il trionfo della civiltà Occidentale sulla civiltà Orientale. Tutti gli antichisti oggi sostengono – e noi stessi possiamo constatare leggendo il testo de Le Storie – che Erodoto non ci pensa neppure allo scontro di civiltà. Erodoto pensa che si debba sempre combattere l’invasore che pretende di estendere il proprio dominio al mondo intero in modo da uniformarlo, da omologarlo. Il mondo è bello, buono, giusto proprio perché è vario: perché privarlo della sua varietà? I Greci – secondo Erodoto – combattono contro la perdita dell’identità in modo da mantenere le “diversità”, anche tra loro stessi: Ateniesi, Spartani, Plateesi, Tebani, Milesii si distinguono gli uni dagli altri. Erodoto – a nome dei Greci – spiega che le “diversità” sono utili perché sono il motore dei processi di integrazione, E i processi di integrazione sono virtuosi dal punto di vista economico, politico, sociale, culturale, educativo (ricordiamo l’Andalusia dell’anno 1000).  

     Tra pochi giorni è Natale ed Erodoto sorride e “allude” perché, avendo vissuto con noi in questi due mesi e mezzo, ha capito una cosa che lo interessa molto. Il Natale cristiano – Erodoto è vissuto 500 anni prima e per lui è una novità (mentre nel mondo in cui viviamo il Natale risulta quasi come una stanca consuetudine consumista) – si basa su un concetto molto accattivante per lui. Qual è la “buona notizia”, il “bell’annuncio” (in greco euanghelon) del Natale? La “bella notizia” è che: «Un bel giorno il Logos, la Parola di Dio, si fa carne». Tutti abbiamo nelle orecchie queste parole tratte dal testo del Vangelo secondo Giovanni (una delle opere più significative della Storia del Pensiero), un testo scritto – come tutta la Letteratura dei Vangeli, che abbiamo studiato a suo tempo – in lingua greca, nella lingua di Erodoto. Un bel giorno un Dio decide di “farsi carne”, di farsi persona umana, di nascere bambino. Questa idea, per noi, è diventata un’abitudine, ma per Erodoto è una sorpresa che avvalora il suo modo di pensare: perché? A Natale, il Dio biblico facendosi “carne” compie un’operazione sorprendente: si fa “diverso” da sé. Un Dio che “nasce come un bambino”, che è proprio “un bambino”, ha voluto inserire la diversità e la varietà nella sua natura: si è fatto “diverso”, ha valorizzato al massimo l’idea di “diversità”. Erodoto ci fa riflettere su un fatto che oggi risulta fondamental, sul fatto che il Dio del monoteismo (ebraico-cristiano-mussulmano) – che oggi è stato portato alla ribalta spesso nel peggiore dei modi – debba essere descritto prima di tutto con le parole “diversità e varietà”.

     Erodoto, come teologo, non pensa ad un Dio unico che ha creato il mondo, ma concepisce un Mondo vario che ha creato gli dèi e c’insegna che il concetto di Dio potrà essere arricchito anche dalle parole “bontà e misericordia” (le parole che accomunano tutti gli umanesimi, religiosi e laici) solo se comprenderà le parole “diversità e varietà”. La bontà (euèteia)  e la misericordia (èleos) sono gli attributi fondamentali legati all’idea di Dio e si sviluppano solo in un contesto dove – c’insegna Erodoto – la diversità e la varietà (in greco queste due parole corrispondono entrambe al termine: diaforà) risultano un valore. Quando a Pentecoste lo Spirito - Pneuma (sotto forma di lingue di fuoco) scende sugli Apostoli, loro cominciano a parlare e a capire lingue diverse, ad apprezzare segni e simboli diversi, a comprendere idee diverse. La Spirito divino non omologa il mondo ma permette di capirne le diversità. A Natale il Logos, la Parola di Dio, si fa carne: persino Dio (realmente o simbolicamente che sia) si fa “altro da sé”, si fa diverso. Erodoto sorride e “allude” e, sulla scia luminosa di questa riflessione, augura a tutti buon Natale.

     La Scuola si unisce completando l’augurio: buon Natale di studio a tutti. Accorrete, la Scuola è qui…

 

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Dicembre 16, 2005