Prof. Giuseppe Nibbi La sapienza poetica e filosofica dell’età umanistica 25-26-27 novembre 2015
Edith Wharton
SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ UMANISTICA - DA ORIENTE A OCCIDENTE - SI SVILUPPA
L’IDEA ECUMENICA DELL’UNITÀ DEL SAPERE ...
Questo è l’ottavo itinerario del nostro viaggio di studio sul “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età umanistica” e ci troviamo ancora di fronte ad un vasto paesaggio intellettuale denominato “della Scolastica naturalistico-sperimentale” e sappiamo che questo scenario si trova a ridosso di un paesaggio attiguo, anch’esso di consistenti dimensioni, che si protende al di fuori dell’Ecumene occidentale per debordare verso Oriente. La scorsa settimana ci siamo rese e resi conto che sul piano didattico questi due paesaggi sono interdipendenti e il loro rapporto di dipendenza deriva dal fatto che alcuni elementi fondamentali e costitutivi della cultura umanistica - un avvenimento, l’Umanesimo, che viene considerato sempre come un esclusivo fenomeno “occidentale” - hanno la loro radice in Oriente e, per la precisione, i germi che precorrono il movimento dell’Umanesimo in Occidente si trovano, con due secoli e mezzo di anticipo, nelle Opere di due pensatori islamico-persiani: al Bīrūnī e Avicenna che hanno influenzato notevolmente tanto la Scolastica arabo-islamica che quella latino cristiana.
Un elemento che caratterizza l’Umanesimo è il concetto di “ecumenismo”: questa parola - che significa “universale” - è stata utilizzata in Età tardo-antica e alto medioevale con una valenza geografico-ideologica e si parla di “Ecumene” per definire l’insieme della terra abitata, una vasta area su cui imporre l’ideologia dei conquistatori di questo spazio: come esempio pensiamo al concilio di Nicea a cui viene dato l’appellativo di “ecumenico”, nel 325, gestito da Costantino per affermare la ritrovata unità dell’Impero romano intorno ad un nuovo Credo al quale tutti gli abitanti dell’Ecumene devono aderire, e un’idea di questo genere finisce per dividere più che per unire, ed è stata, difatti, foriera di interminabili guerre di religione.
Nel pensiero dell’Umanesimo il termine “ecumenismo” definisce un processo di natura culturale che deve portare “alla ricerca dell’unità del sapere” [ogni persona deve sapere di avere in testa un catalogo di parole-chiave e di idee-cardine che costituisce l’insieme dei valori universali comune a tutto il genere umano] con l’obiettivo di affratellare gente diversa che vuole comunicare, comprendersi, cooperare pur mantenendo le proprie prerogative. Ma procediamo con ordine.
Lo scienziato persiano al Bīrūnī che abbiamo incontrato la scorsa settimana - vissuto tra il 970 e il 1030 ed è quindi contemporaneo di Avicenna - ha condotto i suoi studi e le sue ricerche soprattutto nella città di Ghazna, l’odierna Ghaznī in Afghanistan, e le sue opere di storia, di cronologia, di religione comparata, di matematica, di astronomia e, in particolare, di astrologia hanno avuto una larga circolazione in Occidente: durante il Rinascimento, a Firenze, i Codici astrologici di al Bīrūnī vanno per la maggiore.
Al Bīrūnī nelle sue Opere, soprattutto nel suo celebre Libro sull’India, ha saputo fondere insieme gli elementi “della saggezza indiana” con quelli “della tradizione pitagorico-platonica” e quelli “della mistica dei sufi musulmani”, creando un genere che esalta la piena armonia del Creato, ed è stato usato il termine “ecumenismo” per definire lo stile di al Bīrūnī improntato alla ricerca dell’unità del sapere. Al Bīrūnī rappresenta il prototipo dello scienziato islamico - infatti è stato denominato il “Ruggero Bacone mussulmano” vissuto duecento cinquant’anni prima rispetto al “Ruggero Bacone francescano” - ed è stato il più significativo tra i maestri di Avicenna alla Scuola di Buchārā [che abbiamo frequentato la scorsa settimana: avete fatto un’escursione alla città-museo di Buchārā?] e Avicenna ha avuto ancora più influenza tanto in Oriente quanto in Occidente.
Lo scienziato persiano al Bīrūnī ha il merito di aver reso predominante “il modello del sapere unitario” in cui la teologia [la fede], la filosofia [la ragione] e la scienza [l’esperienza pratica] sono tra loro complementari e l’una arricchisce l’altra, e questa idea risulta formativa per Avicenna che acquisisce una personalità poliedrica: è un medico, è uno scienziato laico-razionalista di stampo neoplatonico e aristotelico ed è anche un mistico, un contemplativo profondamente devoto alla Fede islamica derivante dalla Letteratura del Corano.
Le opere “mediche” di Avicenna - il Canone della medicina e Il libro della guarigione - quando giungono nella penisola Iberica alla Scuola di Toledo e di Cordova danno un notevole impulso alla cultura occidentale [ed è un tema che abbiamo studiato durante il viaggio dello scorso anno scolastico] facendo crescere l’interesse per “il mondo della natura fisica”: questa “tendenza naturalistica” germoglia sul territorio della Scolastica [con la Scuola di Toledo, quella di Cordova, con Gerberto d’Aurillac, con Trotula de Ruggero e le dame della Scuola medica salernitana, con Ildegarda di Bingen, con Francesco d’Assisi, con la Scuola di Chartres] e mette al centro dell’attenzione - oltre al tema del rapporto tra la Fede e la Ragione - il concetto di “esperienza [l’episteme]”, che tuttavia, fino al XII secolo, rimane legato all’attività “pratica” e poi, dal 1228, presso la Scuola di Oxford, fondata dai francescani spirituali da Roberto Grossatesta, succede che dalla “pratica della ripetizione dell’esperienza [alla ricerca delle cause, l’eziologia]” si passa “all’interpretazione dei fenomeni e alla loro catalogazione [all’ermeneutica]” e, quindi, nasce e si sviluppa lo “sperimentalismo”: il movimento che mette in incubazione l’Umanesimo propriamente detto.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
C’è un’esperienza che vi ha coinvolte e coinvolti particolarmente che vorreste ripetere?…
Scrivete quattro righe in proposito…
Come ormai ben sappiamo, il protagonista della Scuola sperimentale di Oxford è Ruggero Bacone e il programma di questa istituzione [francescano-spirituale] prevede che si segua “il modello del sapere unitario” [entrato da tempo in circolo con le Opere di al Bīrūnī e di Avicenna] in cui la teologia [la fede], la filosofia [la ragione] e la scienza [l’esperienza pratica] sono tra loro complementari e l’una arricchisce l’altra. E i processi culturali che portano alla formazione di “un nuovo pensiero” partono sempre dall’attuazione di determinati programmi scolastici [e tanto a Oriente quanto a Occidente la Scolastica continua a formulare e a mettere in atto programmi didattici per arginare l’ignoranza generalizzata: una piaga perdurante].
È necessario, quindi, puntualizzare come si articola la struttura del programma della Scuola sperimentale di Oxford che propone il modello del “sapere unitario”. La conoscenza del programma della Scuola sperimentale di Oxford ci serve per capire la trafila che porta alla nascita del movimento dell’Umanesimo.
Il programma della Scuola sperimentale di Oxford diretta da Ruggero Bacone prevede che, in primo luogo, si studino a fondo le arti del quadrivio - la geometria l’aritmetica la musica e l’astronomia - soprattutto perché queste discipline hanno come campo d’indagine il mondo fisico, e i Libri di testo che vengono utilizzati a questo proposito sono la Fisica e la Metafisica di Aristotele nella versione che ne è stata data da Averroè nel suo grande Commento [una versione avversata dagli apparati che giudicano sull’ortodossia islamica e cristiana, e Averroè lo incontreremo tra poco perché è uno dei protagonisti di questo itinerario]: di conseguenza, a Oxford, nell’ambito della filologia [altra disciplina inserita nel programma per favorire la conoscenza e la comprensione del vero significato delle parole-chiave della Storia del Pensiero Umano], si studia oltre al greco e all’ebraico l’arabo e si tiene aperta la comunicazione con la cultura islamica di ispirazione laico-razionalista, quella data dal pensiero di Averroè.
Alla Scuola di Oxford si studiano anche i Dialoghi di Platone, in particolare quelli in cui si riflette sulla Logica [come il Parmenide] e sulla Natura [come il Timeo] e anche perché Platone è il teorico delle Idee e, quindi, è il grande architetto della struttura matematica dell’Universo [non dimentichiamoci che nel pensiero di Platone c’è una forte carica pitagorica] e la matematica, la disciplina privilegiata dalla Scuola di Oxford, è la base per lo studio scientifico dei fenomeni [e d’ora in avanti questa disciplina prenderà sempre più campo].
Il modello del “sapere unitario” che, a Oxford, acquista il nome di “sperimentalismo”, determina un sostanziale cambiamento di mentalità per cui nel movimento della Scolastica prende il sopravvento la Fisica sulla Metafisica, e Ruggero Bacone - per contrastare l’accusa che gli viene mossa dalle autorità ecclesiastiche [dal Vescovo di Parigi, severo custode dell’ortodossia] di aver provocato la caduta dell’interesse per i temi religiosi - controbatte affermando che il tema della Fede, che si alimenta alla fonte della Sacra Scrittura, è al centro del programma della Scuola sperimentale di Oxford e per dare uno spessore teologico alla sua affermazione - visto che “il modello del sapere unitario” prevede che la teologia, la filosofia e l’esperienza pratica collaborino insieme - prende spunto dal Commento del Vangelo secondo Giovanni di Roberto Grossatesta [un’opera che abbiamo già incontrato alla fine di ottobre, scritta, se ben ricordate, con il medesimo scopo, quello di giustificare una maggiore libertà d’indagine nei confronti di un mondo, il mondo della natura fisica, considerato territorio del peccato, del male, della perdizione] e decide - sulla scia del suo maestro - di scrivere un Compendio [un manuale che favorisca lo studio] del Vangelo secondo Giovanni. E, ancora una volta, il testo del Vangelo secondo Giovanni è al centro dell’attenzione perché come sappiamo è uno dei quattro Libri più importanti del Medioevo, insieme al Libro della Genesi, dell’Esodo e all’Apocalisse di Giovanni, ed è una delle opere più significative della Storia della Cultura universale.
Nel Compendio del Vangelo secondo Giovanni, composto da due capitoli di poche pagine, Ruggero Bacone - utilizzando le sue competenze filologiche nella lingua greca della Letteratura dei Vangeli - ribadisce che nel testo del Kata Ioannin [del Vangelo secondo Giovanni] c’è un motivo teologico che giustifica l’importanza della Fisica [e della Scienza in generale] che si presenta come la disciplina più adatta per conoscere il senso della Rivelazione e per capire da dove proviene la Salvezza. Nel testo secondo Giovanni, ribadisce Ruggero Bacone nel primo capitolo del Compendio, s’intersecano due linee intorno alla figura di Gesù di Nazareth che scaturiscono dal versetto 14 del Prologo del Vangelo di Giovanni che, così come è espresso - «Kai ò Logos sarx éghéneto» - può essere tradotto in duplice modo: «La Parola di Dio [ò Logos] si è fatta natura fisica [sarx]» oppure «La natura fisica [sarx] è diventata Parola di Dio [ò Logos]»: quindi, afferma Ruggero Bacone, Gesù appare come “il simbolo sapienziale della Fede” [è la carne che diventa Logos dando origine ad una serie di metafore, a sette elementi che rappresentano allegoricamente la figura di Gesù] e contemporaneamente appare come “corpo materiale [con il suo fisico] in cui si incarna la Fede [è il Logos che diventa carne] e questa duplice situazione, afferma Ruggero Bacone, esalta “il valore della natura fisica” e giustifica teologicamente “lo sperimentalismo” perché la Risurrezione, sostiene Ruggero Bacone, viene sperimentata nella carne, nella natura fisica, non con una metafora simbolica; ma ciò che c’è di simbolico nel testo del Vangelo secondo Giovanni dipende dalla natura fisica di Gesù che deve essere “vero Uomo” [l’espressione della Fisica] per poter essere “vero Dio” [per avvalorare la Metafisica]. Poi nel secondo capitolo del Compendio del Vangelo secondo Giovanni Ruggero Bacone costruisce il catalogo degli argomenti [dei “logoia”, gli argomenti comprovanti] che risultano essere prove esaustive di come il concetto “della natura fisica” sia l’elemento fondamentale che giustifica l’annuncio della Salvezza.
Per verificare il ragionamento di Ruggero Bacone, è utile fare un esercizio in funzione della didattica della lettura e della scrittura andando a ricercare i brani - che l’esegeta Ruggero Bacone indica, riporta e commenta - che esaltano come, anche nel testo del “Vangelo spirituale” [gnostico] per eccellenza, la Metafisica dipende dalla Fisica e il simbolismo sapienziale [il catalogo delle allegorie che qualifica la figura di Gesù Cristo: la porta, il pastore, la vite, la via, la vita, il pane, la luce] deriva dal rapporto privilegiato che Gesù ha con la realtà materiale e corporea. Gesù, scrive Ruggero Bacone, per indicare la via della Salvezza, agisce [sperimenta] sul piano della “natura fisica”, e Ruggero Bacone fa l’inventario delle prove salienti contenute nel testo del Vangelo secondo Giovanni che giustificano questo fatto, e riporta i versetti dall’1 al 45 del capitolo 11 [la morte e la risurrezione di Lazzaro], i versetti dal 2 al 17 del capitolo 13 [la lavanda dei piedi], i versetti dal 4 al 16 del capitolo 19 [dove Pilato mostra alla folla il corpo martoriato di Gesù dicendo: «Ecce homo!»], i versetti dal 10 al 18 del capitolo 20 [Maria Maddalena vede Gesù risorto e lui la invita a non toccarlo dicendo: «Me mou epton, non mi abbracciare!»], i versetti dal 24 al 29 del capitolo 20 [l’incontro tra Gesù risorto e l’incredulo Tommaso], i versetti dall’1 al 14 del capitolo 21 [Gesù risorto appare ai discepoli in Galilea e ha fame e li richiama: «Deute aristosate, venite a mangiare!»].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Andate a leggere questi brani dai quali - secondo l’esegesi operata da Ruggero Bacone sul testo del “Vangelo secondo Giovanni” - emerge la natura corporea, materiale, fisica di Gesù soprattutto in quanto “risorto”, per cui si giustifica il valore teologico del programma della Scuola sperimentale di Oxford… Tutti possedete un volume della Bibbia con il testo dei Vangeli e, quindi, dedicatevi a fare questo esercizio utile per compiere un investimento in intelligenza perché si tratta di attivale le azioni del conoscere, del capire e dell’applicare…
Il tribunale ecclesiastico parigino sentenzia che il Compendio sul Vangelo secondo Giovanni di Ruggero Bacone è un’opera non ortodossa perché “sminuisce il carattere divino di Gesù Cristo”. Quest’opera viene censurata ma la sentenza arriva quando Ruggero Bacone è già sparito dalla circolazione [sappiamo che, secondo la leggenda, si è volatilizzato il 12 ottobre 1292], e noi questo personaggio, nella sua natura di “spirito”, lo “abbiamo sentito aleggiare” più di una volta perché ci ha accompagnato e continua ad accompagnarci sul piano letterario. Infatti, la sua presenza viene evocata nel testo di un “romanzo-breve” intitolato Dopo che fa parte di una raccolta di racconti - pubblicata nel 1937 e intitolata Fantasmi - di cui è autrice la scrittrice statunitense naturalizzata “europea” [così si definiva] Edith Wharton, con la quale siamo entrate ed entrati in contatto già da qualche settimana: ebbene, questo “romanzo-breve” lo abbiamo quasi finito leggere.
Sappiamo che i protagonisti sono una coppia di americani, Mary e Ned [Edward], i quali hanno comprato, con la mediazione della loro amica Alida, una grande e suggestiva casa di campagna nella zona di Ilchester [dove è nato e dove, secondo la leggenda, è scomparso Ruggero Bacone]; inizialmente sono divertiti dall’idea che la loro dimora possa essere abitata da una presenza [magari quella di Roger Bacon] che “si fa sentire” in modo misterioso soprattutto da Mary la quale si lascia suggestionare [è anche un’esperienza emozionante quella di lasciarsi suggestionare], ma questa strana sensazione si mescola in lei con l’inaspettata constatazione dell’ambiguità di suo marito Ned il quale sta palesemente mentendo su un’operazione commerciale che per lui è stata il risultato di un affare assai redditizio portato a termine a scapito di un concorrente [un certo Elwell] che prima gli intenta una causa, poi la ritira, poi muore in circostanze non del tutto chiare [suicidandosi?]: questa situazione Mary la viene a conoscere attraverso una lettera anonima che contiene un articolo di giornale che parla di questo caso, un caso del quale lei era totalmente all’oscuro un po’ per suo disinteresse personale e un po’ per l’omertà del marito. Un misterioso personaggio, già enigmaticamente comparso una volta, viene a trovare Ned, e Ned se ne va con lui [solo una sguattera è testimone di questo fatto]: Ned esce e si allontana con lo “sconosciuto signore”, non rientra più a casa e si perdono le sue tracce. Sulla scrivania della biblioteca dove lavora [perché sta scrivendo un libro], come unico indizio, rimane solo un messaggio che Ned ha iniziato a scrivere e poi, inspiegabilmente, ha troncato bruscamente, indirizzato ad un certo Roger e, di fronte a questo nome, nella mente di Mery non può non formarsi un pensiero inverosimile che lei cerca subito di rimuovere: ma esiste una scolorina per sbianchettare i pensieri per quanto inopportuni possano essere?
Andiamo avanti a leggere: sono passate già due settimane e l’interesse dell’opinione pubblica per la scomparsa di Ned comincia a scemare.
LEGERE MULTUM….
Edith Wharton, Dopo
All’improvviso le balenò, come un ghigno che esca dal buio, l’idea che più volte lei e Ned avevano definito l’Inghilterra così piccola, “un luogo in cui è terribilmente difficile perdersi”.
Un luogo in cui è terribilmente difficile perdersi! Già, era stata proprio questa l’affermazione di suo marito. E adesso che il complesso meccanismo delle indagini ufficiali puntava i suoi riflettori da costa a costa, persino oltre gli stretti; adesso che il nome di Edward spiccava sui muri di qualsiasi città e villaggio, adesso che il suo ritratto (e come questo la feriva!) girava da un capo all’altro del paese a guisa dell’immagine di un criminale ricercato: ecco che adesso la piccola isola, così compatta e popolosa, tanto oculatamente vigilata dalla polizia, sorvegliata e amministrata, si rivelava una sfinge a guardia di abissali misteri che appuntava, negli occhi dell’angosciata moglie del ricercato.
Ned era scomparso da due settimane, senza lasciare una parola, una traccia dei suoi movimenti: persino le solite, fuorvianti notizie che fanno insorgere la speranza nei cuori torturati, erano state scarse e fugaci. Nessuno, a parte la sguattera, aveva visto il signor Edward uscir di casa, nessun altro aveva visto “il signore” che lo accompagnava. Tutte le indagini compiute nel circondario non erano servite a evocare il ricordo di una presenza estranea, quel giorno a Ilchester e dintorni; e nessuno aveva incontrato Edward, da solo o in compagnia, in nessuno dei villaggi viciniori oppure sulla strada che correva tra le doline oppure alla locale stazione ferroviaria. Il soleggiato meriggio inglese l’aveva inghiottito completamente, come se Edward fosse sprofondato nella notte cimmeria.
Mary, mentre tutti gli incaricati dell’indagine lavoravano a pieno ritmo, aveva frugato e rifrugato tra le carte del marito alla ricerca di qualche traccia di precedenti complicazioni, pasticci, obblighi da lui contratti e a lei ignoti, qualcosa insomma che potesse proiettare un raggio di luce nel buio. Ma se qualcosa del genere era mai stata nell’esistenza antecedente di Edward, era svanita come il pezzo di carta su cui il visitatore aveva scritto il proprio nome. Non restava alcun filo d’Arianna, eccezion fatta - sempreché si trattasse davvero di un’eccezione - per la lettera che Ned, a quanto pareva, stava scrivendo quando gli era giunto il misterioso richiamo. E la lettera, letta e riletta da sua moglie, e da questa consegnata alla polizia, conteneva ben poco che valesse ad alimentare congetture. “Ho appena saputo della morte di Elwell, e pur ritenendo che non ci sia più pericolo di ulteriori seccature, ritengo che sarebbe più sicuro…”. Questo era tutto. Il “pericolo di seccature” si spiegava facilmente alla luce del ritaglio di giornale da cui Mary aveva appreso del processo intentato a suo marito da uno degli ex soci della Blue Star. Un’unica informazione per lei inedita, conteneva la lettera, ed era che Edward, quando l’aveva scritta, evidentemente era ancora preda dell’apprensione circa i risultati del processo, benché avesse detto alla moglie che la denuncia era stata ritirata e benché la lettera stessa comprovasse che il denunciante era morto. Occorsero parecchi giorni di telegrammi su telegrammi per stabilire l’identità del “Roger” cui era indirizzato il frammentario messaggio; ma, anche quando risultò che si trattava di un avvocato di Oxford, nient’altro - se non un pensiero inconfessabile tanto improbabile quanto impossibile da rimuovere - se ne poté ricavare in merito alla causa promossa da Elwell. Roger pareva non avesse nulla a che fare con la faccenda, e che fosse al corrente dei fatti soltanto in veste di conoscente, tutt’al più di intermediario; e si dichiarò incapace di stabilire per quale ragione il signor Edward avrebbe voluto chiedere la sua assistenza.
Quest’informazione di carattere negativo, unico frutto delle ricerche delle prime due settimane, non ebbe nessuna aggiunta durante le interminabili settimane che seguirono. Mary sapeva che le indagini continuavano, ma aveva la sensazione, per quanto vaga, che un po’ alla volta l’impegno divenisse minore, e del resto il corso stesso del tempo sembrava rallentato. Era come se le giornate, prima in fuga davanti all’orrore provocato dall’immagine spettrale di quell’unico, imperscrutabile giorno, riacquistassero stabilità a mano a mano che la distanza da questo aumentava, giacché alla fine ricominciarono a procedere col passo normale. E altrettanto accadeva alle fantasie umane all’opera attorno all’oscuro evento. Certo, questo continuò a occupare le giornate, ma settimana dopo settimana, ora dopo ora, il suo interesse si faceva meno esclusivo, prendeva sempre meno spazio, lentamente ma inevitabilmente veniva allontanato dal proscenio della coscienza a opera dei nuovi problemi che di continuo sono spinti a galla dal ribollire dell’oscuro calderone delle umane esperienze. … Persino la coscienza di Mary un po’ alla volta era contagiata da quella diminuzione di velocità. Indubbiamente, essa tuttora ondeggiava con le incessanti oscillazioni delle congetture; ma le oscillazioni stesse erano più lente, il loro ritmo più regolare. C’erano persino momenti di stanchezza in cui, come la vittima di un veleno che lasci la mente lucida ma paralizzi il corpo, Mary sentiva l’orrore come qualcosa di familiare, ne accettava la perenne presenza come una delle condizioni stesse dell’esistenza. Tali momenti si dilatarono a ore e giorni, finché Mary trapassò in uno stato di passiva acquiescenza; seguiva la routine quotidiana con l’occhio privo di curiosità di un selvaggio sul quale le insignificanti attività della vita civile non producano la minima impressione. Ed era giunta a considerare se stessa parte della routine, un raggio della ruota che muoveva col movimento di questa; si sentiva quasi simile agli arredi della stanza in cui si trovava in questo o in quel momento, oggetto insensibile da spolverare e spostare qua e là insieme con seggiole e tavoli. E questa crescente apatia la inchiodava a Ilchester, nonostante le sollecitazioni degli amici e la solita raccomandazione dei medici di “cambiare aria”. I primi ritenevano che il suo rifiuto ad andarsene fosse promosso dalla persuasione che, prima o poi, il marito sarebbe ricomparso nel luogo stesso dov’era svanito, e anzi una vera e propria leggenda fiorì attorno a questo supposto stato di attesa. In effetti, però, Mary non nutriva convinzioni del genere: le profondità dell’angoscia di cui era preda non erano più illuminate da bagliori di speranza. Era certa che Ned non sarebbe mai più tornato, che fosse uscito per sempre dal suo orizzonte, come se la Morte stessa lo avesse atteso, quel giorno, sulla soglia. Aveva persino accantonato una a una, le varie teorie circa la sua sparizione che erano state formulate dalla stampa, dalla polizia, dalla sua stessa disperata fantasia. Per pura spossatezza, la sua mente volgeva per così dire le spalle a queste alternative d’orrore, per risprofondare nella semplice constatazione che Ned se n’era andato. … No, mai avrebbe saputo quello che gli era accaduto - nessuno l’avrebbe mai saputo. Ma la casa lo sapeva, lo sapeva la biblioteca in cui Mary trascorreva le sue lunghe, solitarie serate. Perché era qui che l’ultima scena era stata recitata, qui che era venuto lo straniero, qui che aveva pronunciato la parola in obbedienza alla quale Ned si era alzato e l’aveva seguito. Il pavimento che Mary calcava ne aveva sorretto il passo; i libri sugli scaffali ne avevano visto il volto; e c’erano momenti in cui la profonda cognizione delle vecchie pareti ombrose sembrava lì lì per sbottare in un’udibile rivelazione del loro segreto. Ma la rivelazione non si decideva a venire, Mary sapeva che mai sarebbe venuta. Questa di Ilchester non era una di quelle vecchie case loquaci che tradiscono i segreti loro affidati: la sua stessa leggenda, che rievocava il mito della sparizione di Roger Bacon, comprovava che era sempre stata una muta complice, l’incorruttibile custode dei misteri di cui aveva avuto sentore. E Mary, faccia a faccia con il silenzio della casa, avvertiva la futilità di ogni tentativo inteso a romperlo con mezzi umani. …
Ma noi è con mezzi “umani” che dobbiamo continuare il nostro itinerario per incontrare, come abbiamo preannunciato, il personaggio di Averroè [un personaggio che, come Avicenna, abbiamo incontrato molte volte in questi anni in diversi contesti], un personaggio convinto del fatto che ci si debba affidare soprattutto alle competenze “umane e razionali” per interpretare la realtà.
Perché dobbiamo incontrare Averroè [Abu Ibn Rušd: medico, astronomo, filosofo aristotelico, matematico, giurista]? Sappiamo che anche le Opere di Averroè, come quelle di Avicenna, hanno contribuito a creare i presupposti per la nascita del movimento dell’Umanesimo, ed è comprensibile, quindi, che questi due personaggi tornino necessariamente [loro usano volentieri questo avverbio] al centro della nostra attenzione: Avicenna lo abbiamo già incontrato, e ora tocca ad Averroè.
Alla fine del XII secolo il pensiero di Averroè viene considerato addirittura estraneo alla cultura islamica, le autorità religiose ritengono pericoloso l’atteggiamento laico dei filosofi arabo-islamici di formazione aristotelica e condannano il fatto che “la Ragione abbia un ruolo di primo piano rispetto alla Fede” e impongono l’obbligo del rispetto di una precettistica legata alla devozione religiosa e non permettono vi sia una riflessione esegetica ispirata alla dialettica e alle categorie di Aristotele come ha inteso fare Averroè, e anche le autorità religiose cristiane lo condannano perché l’interesse per l’Opera di Averroè da parte degli intellettuali della Scolastica latina è grande e la sua influenza viene considerata nefasta da chi vuol proteggere d’autorità l’ortodossia. Ebbene, di che cosa viene accusato Averroè: qual è il suo pensiero teologico?
Averroè [Abu Ibn Rušd: medico, astronomo, filosofo aristotelico, matematico, giurista come suo padre e suo nonno, e queste caratteristiche fanno pensare che abbia una vocazione per la sperimentazione] muore il 10 dicembre 1198 in Marocco a Marrakesh e il suo corpo viene trasportato nella sua città, Cordova, nella quale è nato il 14 marzo del 1126. Averroè era stato dichiarato eretico ed espulso da Cordova a causa del suo modo di interpretare la Letteratura del Corano considerato non ortodosso: il feretro viene accolto con ostilità dalle autorità religiose islamiche e durante le esequie viene acceso un falò in cui vengono bruciati i suoi Libri, i Libri che gli hanno assicurato un posto di rilievo nella Storia del Pensiero Umano e questi Libri, come ben sapete, contengono, in primo luogo, il Grande Commento alle Opere di Aristotele, in particolare alla Metafisica. Con il verso 144 del IV canto dell’Inferno - «Averroè, che il gran commento feo» - Dante Alighieri lo immortala nel Limbo insieme ai Classici greci e latini e lì, insieme ad Avicenna secondo la visione poetico-sapienziale di Dante, Averroè, in virtù della sua Opera di commentatore di Aristotele, aspetta fiducioso di salire in Paradiso nonostante sia stato scomunicato anche dalle autorità religiose cristiane.
Le autorità religiose islamiche e cristiane mettono sotto accusa la visione teologica di Averroè, orientata in termini aristotelici. Averroè sostiene che la creazione divina è un atto di “necessità” [parafrasa Aristotele che ritiene necessaria l’esistenza di un Motore immobile che mette necessariamente in movimento tutta la realtà] e questa affermazione [sebbene abbia un precedente nel pensiero di Avicenna, che è un mussulmano devoto vissuto circa un secolo e mezzo prima in Persia dove però non c’è un clima inquisitorio] viene considerata blasfema dai tribunali andalusi che vigilano sulle verità di Fede perché la dottrina ufficiale sancisce che “la Divinità [Allah e Jahvé] ha creato di sua volontà” e non in quanto soggetta alla necessità. Ma Averroè non desiste dal ragionare secondo la dialettica aristotelica su tutte le questioni riguardanti la dottrina, e le sue affermazioni - assolutamente corrette sul piano della logica - vengono tutte condannate.
Se la dottrina ufficiale, sostiene Averroè, afferma che il Mondo non può stare di per sé ma dipende da Dio ciò significa, secondo ragione, che Dio è “necessità” rispetto al Mondo, un Mondo che viene generato, o meglio, viene emanato esattamente come fa l’Uno di Plotino, puntualizza Averroè, e questa emanazione non può essere voluta da Dio ma risulta essere l’espressione necessaria della sua perfezione [l’onnipotenza non contempla l’esercizio della volontà ma è una qualità destinata ad esprimersi necessariamente: è destino, el kadar, secondo la sura XCVII del Corano]. È per questo motivo che il Mondo, sostiene Averroè, tende a Dio “necessariamente” e l’Essere umano, con l’intelletto, tende a conoscere “i valori universali” piuttosto che i precetti particolari di una determinata religione ed è solo riconoscendo i “valori universali” [ecumenici] contenuti nella Sacra Scrittura che la persona può scegliere di coltivare la propria Fede, secondo la XCVII. La sura del Destino, afferma Averroè.
La prevalenza del concetto di “necessità” fa pensare che il Mondo esiste da quando c’è Dio, “ab aeterno”,dall’eternità: il Mondo, afferma Averroè, è eterno come Dio e, quindi, “non esiste un prima e un dopo” e, di conseguenza, bisogna ribadire ancora una volta, afferma Averroè, che non ci sono i presupposti che giustificano un atto di volontà da parte di Dio. Poi, sostiene Averroè, il Mondo è buono non perché Dio lo abbia voluto tale, ma perché è espressione della perfezione divina [il concetto della bontà è insito in quello della perfezione] e anche questa riflessione dimostra che nella emanazione creatrice non c’è una finalità ma c’è la Necessità, e anche tutto ciò che accade nel mondo, afferma Averroè, è necessario, e la stessa attività umana deve sottostare a un ordine necessario e, a questo punto, Averroè si domanda, come già avevano fatto Aristotele e Plotino e Avicenna, se l’Essere umano sia libero visto che il Destino è già segnato.
Poi la scure della condanna si abbatte su Averroè quando, in linea con il pensiero di Aristotele, afferma che l’intelletto individuale s’identifica con l’anima e, quindi, afferma Averroè, quando la persona muore vengono meno le sue attività sensoriali e intellettuali e, di conseguenza, afferma Averroè, l’anima è mortale. Poi, per quanto riguarda il problema dei rapporti tra la Fede e la Ragione, Averroè afferma che la Verità è sostanzialmente una sola ma formalmente ci troviamo di fronte a una doppia verità perché il filosofo la ricerca con la dimostrazione razionale mentre il credente la accetta per Fede e siccome non tutti possono elevarsi alla Filosofia succede che i fedeli non filosofi devono accontentarsi della dottrina e delle pratiche di devozione espresse in forma mitica o sentimentale: questa è la condizione più gradita, afferma ironicamente Averroè, dalle autorità religiose che preferiscono “un fedele ingenuo” piuttosto che “una persona raziocinante”.
Tutte le proposizioni di Averroè che abbiamo citato vengono condannate dalle autorità preposte alla salvaguardia dell’ortodossia perché lui fonda il pensiero laico secondo cui “Dio è l’espressione della Necessità che governa la realtà” e la religione, afferma Averroè, è “il guinzaglio per gli ignoranti” e poi dichiara che: “il pensiero ha le ali e nessuno è in grado di fermare il suo volo” e, difatti, l’eredità intellettuale lasciata da Averroè non è andata perduta ma è servita ad innescare un processo che ha portato alla nascita del movimento dell’Umanesimo [che ha uno spirito laico].
Averroè è uno dei precursori dell’Umanesimo soprattutto quando dichiara: «più che in senso religioso e legalistico bisogna imparare a leggere il testo del Corano secondo l’autorità dei valori umanistici che proclama come salvifici: l’uguaglianza, la giustizia, la pace, la solidarietà e la misericordia». Quindi ci si salva, sostiene Averroè, se si praticano questi valori universali piuttosto che attraverso i rituali religiosi spesso ammantati di superstizione. La controparte inquisitoria decreta che il cammino per risalire a Dio non può che essere una procedura di carattere religioso, ritualistico e cerimoniale, guidata da ministri appartenenti a una gerarchia ufficialmente riconosciuta e depositaria delle verità di Fede e, quindi, condanna tutte le affermazioni teologiche di Averroè ispirate all’idea troppo laica di “necessità”.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quale scelta poco gradita avete dovuto fare perché ritenuta necessaria?…
Scrivete quattro righe in proposito…
Tuttavia “l’averroismo” non solo non si esaurisce ma si diffonde, e il suo sviluppo avviene in terra mitteleuropea nell’ambito della Scolastica latino-cristiana [il pensiero ha le ali - dice Averroè - e nessuno può fermare il suo volo], e il Grande Commento alle Opere di Aristotele in particolare il Commento alla Metafisica [Tafsīr mā ba’d aţ-Tabī’at], tradotto in latino nel 1230, si diffonde in tutte le Scuole europee [Tommaso d’Aquino - che abbiamo incontrato alla fine del maggio scorso - fa, come sappiamo, abbondantemente uso del Commento di Averroè per scrivere la Summa theologiae anche se non condivide e critica con un’opera il pensiero teologico di Averroè]. A Parigi nasce e si sviluppa un movimento [non si tratta di una vera e propria corrente] che prende il nome di “averroismo latino” [presso la Facoltà delle Arti, nel Vico degli Strami, dove andremo la prossima settimana].
Ora siamo ancora davanti al “paesaggio della Scolastica naturalistico-sperimentale” - formato [come sappiamo] da due vasti spazi attigui che mettono in comunicazione Oriente e Occidente - e dobbiamo, a proposito di interdipendenza tra cultura occidentale e cultura orientale, incontrare un personaggio emblematico che, durante il drammatico funerale di Averroè, di cui è amico di famiglia, rimane molto colpito: questo personaggio si chiama Ibn ’Arabi, il filosofo mistico arabo-islamico per eccellenza che è in disaccordo con il legalismo delle autorità religiose islamiche ma è anche critico nei confronti del razionalismo di Averroè. Chi è Ibn ’Arabi, e quali sono le linee fondamentali del suo pensiero?
Ibn ‘Arabi è nato a Murcia nel 1165 in una famiglia di giureconsulti come quella di Averroè.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Con la guida della Spagna e navigando in rete fate una visita a Murcia e andate a scoprire perché è chiamata “la città della sardina”… Buon viaggio e buon appetito: come la fate e come la preferite voi la sardina? … La “sardina scritta” ha una sua caratteristica bontà…
Ibn ‘Arabi si sposta giovanissimo con i suoi a Siviglia, che è diventata, dal 1147, la capitale della dinastia degli Almohadi e, governata da questi saggi amministratori, si trasforma in un importante centro di vita spirituale e intellettuale.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Con la guida della Spagna e navigando in rete fate un’escursione mirata a Siviglia per visitare alcuni importanti monumenti edificati durante il periodo della gestione degli Almohadi: la Giralda, la Torre del Oro, l’Alcazar e le mura della Macarena… Buon viaggio e, anche in questo caso, buon appetito perché la “paella sivigliana” è un piatto preparato nella tipica padella arabo-andalusa [dalla quale prende il nome] a base di riso, di zafferano e di frutti di mare o di carne di pollo che s’ispira al metodo di cottura del riso detto del pilaf e alla ricetta del biryani indo-pakistano: questo metodo e questa ricetta sono stati importati dagli Arabi nella penisola Iberica… Avete un ricordo legato alla “paella”? …
Scrivetelo…
Ibn ‘Arabi ha davanti a sé un brillante avvenire di studioso e di alto funzionario, ma comincia ad avere delle visioni, sente una forte attrazione per la mistica, e a vent’anni decide di cambiare vita: dona tutto ai poveri - se non il necessario per vivere - e comincia a seguire “la via della perfezione” frequentando la Scuola coranica di arti meditative e contemplative di Siviglia.
Ibn ‘Arabi va spesso a Cordova e intrattiene un intenso rapporto intellettuale con Averroè [lui è un ragazzo, Averroè ha settant’anni ed è affascinato dalla sua intelligenza] ma il razionalismo aristotelico della Scuola di Cordova non lo coinvolge, e rifiuta anche la predicazione formale delle autorità religiose dedite a custodire l’ortodossia della dottrina e a controllare che i fedeli compiano correttamente le pratiche devozionali. E così, come capiterà vent’anni dopo a Francesco d’Assisi, la scelta di Ibn ‘Arabi provoca sia in Andalusia che in Africa del Nord aspre reazioni da parte dell’ambiente religioso dominato dal legalismo e dal ritualismo. Nel 1202, quattro anni dopo la morte di Averroè, Ibn ‘Arabi decide di emigrare verso Oriente [il paesaggio intellettuale nel quale vive non ha confini]: si reca da prima in Terra Santa, poi in Egitto, poi nella penisola Arabica dando inizio ad una peregrinazione che ha termine solo quando, nel 1224, fissa la sua dimora a Damasco dove muore nel 1241.
Ibn ‘Arabi è diventato un’autorità in campo mistico per le sue scelte, il suo stile di vita e per la risonanza che hanno avuto le sue Opere, in particolare, il Libro delle teofanie divine e il Libro delle gemme della sapienza.
Il Libro delle teofanie divine è un’opera scritta in forma di dialogo platonico dove gli interlocutori sono i grandi pensatori che hanno contribuito a far nascere e a far sviluppare la cultura dell’Oriente: Ibn ‘Arabi inserisce nel pensiero islamico concetti del neoplatonismo, dell’ebraismo, del cristianesimo, dello zoroastrismo, del buddismo, dell’induismo, e dimostra che “l’unità del sapere” è una metodologia possibile e opportuna da realizzare perché può garantire l’autonomia, il rispetto e la pace. Il tema centrale del Libro delle teofanie divine consiste nell’idea dell’unità dell’Essere [wahdat al-wujūd], e l’Essere, afferma Ibn ‘Arabi, corrisponde al Dio della rivelazione, e il sistema che si articola intorno a questa idea è stato chiamato “monismo mistico [itinerario contemplativo per far riconciliare ogni elemento di molteplicità con l’unità assoluta di Dio]”. Se il Dio della rivelazione [Allah] è l’Essere, il Corano, afferma Ibn ‘Arabi, è il Logos, è il Pensiero dell’Essere che esprime una Parola dalla quale si apprende che l’esistenza è una potenzialità necessaria per imparare ed eliminare quanto c’è nella vita di contingente e di relativo. Con l’esercizio della contemplazione, afferma Ibn ‘Arabi, l’Essere umano può intercettare spazi di Assoluto ed elementi di Necessità che corrispondono a “ritagli dell’Eterno” e a “frammenti dell’Essere”, e l’entrare in contatto con queste “teofanie [manifestazioni] di Dio” permette alla persona di edificare una “Stazione della Quiete” [così la chiama Ibn ‘Arabi], un luogo privilegiato dell’Interiorità, dove si può gustare uno stato di ben-essere spirituale che porta la vita terrestre ad assumere caratteristiche simili a quelle della vita celeste.
Il secondo scritto importante di Ibn ‘Arabi s’intitola Libro delle gemme della sapienza ed è un’opera in cui raccoglie l’insegnamento dei profeti biblici citati nel testo del Corano per rafforzare l’idea del “monismo mistico”. In quest’opera l’autore ribadisce che c’è “una religione universale”, valida per tutti, una religione planetaria che invita ogni persona a perseguire l’obiettivo della realizzazione dell’Amore [della clemenza e della misericordia] di Dio perché non è la Legge il fine della religione ma bensì la costruzione di una società solidale. Questo concetto ha un sorprendente respiro “ecumenico” che supera tutti gli schemi culturali del momento e dà uno spessore filosofico alla tradizione dei Sufi [il misticismo esoterico mussulmano, e in arabo sūf è il pelo di cammello con il quale è tessuto il mantello dei Sufi] e crea grandi entusiasmi in chi vuole un mondo aperto alla comunicazione tra i popoli ma suscita anche reazioni violente da parte dei poteri costituiti.
A Damasco Ibn ‘Arabi incontra e istruisce Jalāl al-Dīn Rūmī [1207-1273] il più importante poeta mistico della Letteratura persiana che fonda la confraternita dei “dervisci rotanti [in persiano e arabo il termine “darwīsh” significa “monaco mendicante”]” che accoglie, senza fare distinzioni, asceti ebraici, cristiani, buddisti, induisti, oltre che islamici. Il ballo rotante [Mawli] è l’esercizio di “colui che cerca il passaggio che porta da questo mondo materiale ad un paradisiaco mondo celestiale”. L’opera più famosa di Rūmī s’intitola Mawlānā [che si può tradurre con il termine “Canzoniere”] e l’incipit di quest’opera è una lirica che sintetizza il “monismo mistico” di Ibn ‘Arabi: «L’uomo potente viaggia superbo sulle vie del mondo con gran seguito, la persona umile viaggia da se stessa in se stessa cercando il passaggio che porta da questo mondo materiale ad un paradisiaco mondo celestiale. Prediligi sempre l’umiltà alla potenza».
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
C’è un posto tranquillo o una situazione rilassante o una condizione gratificante che potete identificare con una vostra “Stazione della Quiete” nella quale potete gustare un po’ di ben-essere?…
Scrivete quattro righe in proposito: anche il momento della scrittura può essere definito come una “Stazione della Quiete” …
Citeremo ancora Ibn ‘Arabi a metà febbraio, quando incontreremo un personaggio che traduce in latino le sue Opere anche per forgiare il suo pensiero orientato a fondare un “ecumenismo universale”, ma ora la nostra attenzione è indirizzata verso la nostra Mary che è ben lontana dall’aver raggiunto “una Stazione della Quiete” da quando suo marito Ned è sparito senza lasciare traccia: e ora dedichiamoci a leggere le ultime pagine del romanzo-breve intitolato Dopo di Edith Wharton che termina in un alone di inquietante mistero.
LEGERE MULTUM….
Edith Wharton, Dopo
«Non dico che non fosse corretto, ma non posso neppure dire che lo fosse. Si trattava di affari, ecco tutto». A quelle parole, Mary levò di scatto il capo e fissò chi le aveva pronunciate. Quando, mezz’ora prima, le era stato recapitato un biglietto su cui stava scritto il nome “Roger”, aveva avuto l’immediata certezza che il nome in questione fosse stato nella sua coscienza, parte integrante di essa, da quando l’aveva letto sulla lettera lasciata a mezzo di Ned. Aveva trovato ad attenderla in biblioteca un omino pallido e calvo, con gli occhiali cerchiati d’oro, e si era sentita tremare all’idea che fosse questa la persona cui l’ultimo pensiero noto di suo marito era stato rivolto.
Il signor Roger, con tono educato ma senza preamboli - coi modi cioè di un uomo il quale sa che il tempo è prezioso - aveva esposto la ragione della sua visita. Giunto in Inghilterra per affari, e trovandosi nei dintorni di Ilchester, non se l’era sentita di lasciare l’isola senza presentare i suoi omaggi alla signora Mary e senza chiederle, se del caso, che cosa intendeva fare per i familiari di Bob Elwell. Quelle parole fecero scattare la molla di un oscuro timore nel cuore di Mary. Che dopotutto il visitatore sapesse che cosa Ned aveva voluto significare con la frase lasciata a mezzo? Chiese chiarimenti, e notò immediatamente che il signor Roger sembrava sorpreso della sua ignoranza in merito. Era proprio possibile che ne sapesse così poco?
«Non ne so niente, e vorrei che lei me lo spiegasse», balbettò Mary; e allora il visitatore le riferì l’episodio. Il quale, anche a occhi inesperti, da non iniziata, come quelli di Mary, gettava una fosca luce su tutta la confusa faccenda della Blue Star.
I quattrini che Ned aveva racimolato in quella brillante speculazione li aveva fatti per così dire a gomitate, rubando l’iniziativa a qualcuno meno pronto a cogliere l’occasione; e vittima della sua abilità era stato il giovane Robert Elwell che lo aveva messo al corrente del progetto. …Alla prima esclamazione di sorpresa di Mary, Roger le aveva scoccato un’occhiata fredda e imparziale attraverso le lenti degli occhiali.
«Bob Elwell», spiegò, «non era stato abbastanza sul chi vive, questo è tutto; se lo fosse stato, avrebbe potuto prendere la palla al balzo e giocare al signor Edward lo stesso tiro. Sono di quelle cose che accadono ogni giorno nel mondo degli affari, e se non mi sbaglio si tratta di quella che gli scienziati chiamano sopravvivenza del più adatto. Chiaro?» chiese il signor Roger, evidentemente compiaciuto della metafora. «Ma allora…» si decise a chiedere Mary, «allora lei accusa mio marito di un’azione disonesta?» … «Oh, no», disse il signor Roger, «nient’affatto. Non oserei dire che non fosse una cosa corretta». Lasciò vagare lo sguardo sulle file di libri, quasi che uno di essi potesse fornirgli la definizione che cercava. «Non dico che non fosse corretta, ma non posso neppure dire che lo fosse. Si trattava di affari, ecco tutto».
E non poteva darsi definizione più precisa. … Mary se ne stava seduta a fissarlo terrorizzata: il signor Roger le faceva l’effetto dell’indifferente ambasciatore di un potere maligno.
«Ma, a quanto sembra, gli avvocati del signor Elwell non la pensavano come lei», fece osservare, «e suppongo che la denuncia sia stata ritirata su loro consiglio».
«Oh, certo: gli avvocati sapevano che, dal punto di vista formale, non aveva nessuna base. E fu quando gli hanno consigliato di rinunciare al processo, che Bob Elwell si è lasciato andare alla disperazione. Sa, gran parte del denaro che aveva perduto nell’affare della Blue Star l’aveva preso in prestito, e adesso si trovava in assai cattive acque. È per questo che si è sparato quando gli hanno detto che non aveva nessuna probabilità di farcela». L’orrore investiva Mary con grandi, assordanti ondate.
«Si è sparato? Si è ucciso per questo?»
«Be’, non è che proprio si sia ucciso. Ha tirato avanti due mesi prima di morire».
Un’affermazione che Roger aveva pronunciato con la stessa noncuranza di un grammofono che faccia girare il disco. …
«Vuol dire che ha cercato di suicidarsi e non ci è riuscito? che ha tentato un’altra volta?»
«Oh, non aveva bisogno di riprovarci», pronunciò Roger gelido.
Rimasero l’uno di fronte all’altra in silenzio. … «Ma se lei sapeva tutto questo», disse finalmente Mary, la sua voce era poco più d’un sussurro, «come si spiega che quando le ho scritto al momento della scomparsa di mio marito, lei mi ha risposto che non comprendeva il tenore della sua lettera?» … Roger accolse la domanda senza alcun apparente imbarazzo. «Be’, non la capivo - a rigor di termini. E non era certo il momento di parlarne, anche se l’avessi capita. L’affare Elwell era stato sistemato con il ritiro della denuncia, niente di ciò che avrei potuto dirle l’avrebbe aiutata a ritrovare suo marito». … Mary continuava a scrutarlo. «E allora, perché me lo dice adesso?»
Neppure questa volta Roger mostrò esitazioni. «Be’, tanto per cominciare, perché pensavo che lei ne sapesse di più quanto in realtà ne sa. Delle circostanze della morte di Elwell, voglio dire. E poi, attualmente se ne riparla: la faccenda è stata rispolverata, voglio dire, e ho pensato che, se non lo sapeva prima, adesso l’avrebbe comunque saputo». Mary restò silenziosa e Roger riprese: «Vede, soltanto questi ultimi anni si è saputo che gli affari di Elwell andavano malissimo. Sua moglie è una donna orgogliosa, e ha tirato avanti finché ha potuto, rimboccandosi le maniche sobbarcandosi a lavori di cucito a casa, finché non è stata troppo male: un disturbo di cuore, se non mi sbaglio. Aveva la madre e i figli cui pensare, un peso che ha finito per farla crollare, e così ha dovuto rassegnarsi a chiedere aiuto. Questo ha richiamato l’attenzione sul caso, i giornali hanno ripreso la notizia, è stata aperta una sottoscrizione. Tutti laggiù amavano Bob Elwell, e sulla lista dei sottoscrittori ci sono i nomi dei personaggi più in vista della città, per cui la gente ha cominciato a chiedersi come e perché…» … Roger si interruppe, si frugò in una tasca interna. «Ecco qui», riprese, «un resoconto dell’intera faccenda apparso sulla Sentinel - in chiave un tantino sensazionalistica, com’è ovvio. Sarebbe meglio che lei ci desse un’occhiata». Porse un giornale a Mary che lo spiegò lentamente rammentandosi, nel farlo, la sera in cui, in quella stessa stanza, l’esame di un ritaglio della Sentinel aveva per la prima volta scosso le fondamenta della sua sicurezza. Evitando di soffermarsi sul titolo a effetto, La vedova della vittima obbligata a chiedere aiuto, scorse rapidamente la colonna, giunse ai due ritratti che vi erano inseriti: il primo era quello di suo marito, ricavato da una fotografia scattata l’anno in cui si erano trasferiti in Inghilterra, quella che a lei piaceva di più, la stessa che stava sullo scrittoio di sopra, nella sua camera da letto. E, come i suoi incontrarono gli occhi dell’immagine, sentì che le sarebbe stato impossibile leggere quel che di Ned si diceva, e chiuse le palpebre come per un dolore intenso. … «Ho pensato che anche lei poteva magari contribuire alla sottoscrizione…» udì dire a Roger.
Con uno sforzo riaprì gli occhi, e il suo sguardo si posò sull’altro ritratto: un uomo dall’aspetto giovanile, piuttosto magro, i tratti in parte nascosti dall’ombra proiettata dalla tesa del cappello. Dove aveva visto quel volto prima? Lo fissò smarrita, col cuore che le martellava alle orecchie. Poi lanciò un grido.
«È lui! È l’uomo che è venuto a cercare mio marito! È lui! lo riconoscerei ovunque!» insistette, con voce che alle sue stesse orecchie era risuonata come un grido.
La risposta di Roger sembrò venire da lontanissimo, di là di infiniti meandri avvolti nella nebbia. «Signora Mery, lei non si sente bene. Vuole che chiami qualcuno? Che vada a prenderle un bicchier d’acqua?»
«No, no, no!» e Mary si protese verso di lui, freneticamente artigliando il giornale.
«Le dico che è lui! Lo conosco! Mi ha rivolto la parola in giardino».
Roger le prese di mano il giornale, infilandosi gli occhiali per guardare il ritratto.
«Ma non può essere, signora Mery, Quest’uomo è Robert Elwell».
«Robert Elwell?»
Lo sguardo vacuo di Mary sembrò perdersi nello spazio. «Sicché, è stato Robert Elwell che è venuto a cercarlo».
«A cercare il signor Edward? Il giorno in cui se ne è andato di casa?» Roger aveva parlato sottovoce, con tono inversamente proporzionale al suo. Si chinò ancora su di lei, posandole una mano fraterna sul braccio, come a persuaderla a rimanere tranquilla al suo posto.
«Ma andiamo, Elwell era morto! Non se ne ricorda?»
Mary continuava a fissare l’immagine, sorda a quello che Roger le diceva.
«Non si ricorda della lettera indirizzata a me e che suo marito ha lasciato incompiuta? La lettera che ha trovato sulla sua scrivania quel giorno? Era stata scritta immediatamente dopo che Ned aveva avuto notizia della morte di Elwell».
Mary avvertì uno strano tremito nella voce così pacata di Roger. «Non può non ricordarsene!» insistette questi. … Certo che se ne ricordava: ed era questo l’aspetto più orribile. Elwell era morto il giorno prima che suo marito scomparisse; e quella era la fotografia di Elwell, il ritratto dell’uomo che le aveva rivolto la parola in giardino. Mary levò il capo, volse lentamente lo sguardo per la biblioteca. Questa sì che avrebbe potuto testimoniare che era proprio l’immagine dell’uomo che quel giorno era venuto a chiamare Ned, distogliendolo dalla lettera rimasta incompiuta. Attraverso le nebbie che le fluttuavano nel cervello, Mary ebbe l’impressione di udire la debole eco di parole semidimenticate, le parole pronunciate da Alida prima che Mary e Ned vedessero la casa di Ilchester, prima che pensassero di potervi un giorno abitare. … «Questo è l’uomo con cui ho parlato», ripeté. Tornò ad appuntare lo sguardo su Roger intento a celare il proprio imbarazzo dietro a quella che probabilmente pensava essere un’espressione di pietosa indulgenza; ma le labbra gli si erano sbiancate: «Mi crede pazza, ma io non sono pazza», disse Mary, e all’improvviso le balenò l’idea: ecco come fare per giustificare la sua singolare affermazione! Rimase immobile, controllando il tremito delle proprie labbra, finché non sentì di potersi fidare della propria voce, allora disse, fissando Roger: «Può rispondere a una mia domanda? Quando è stato che Robert Elwell ha tentato il suicidio? La data precisa. La prego, cerchi di ricordare».
Vide che nell’uomo la paura che lei gli incuteva aumentava.
«Ho le mie buone ragioni», insistette.
«Capisco, capisco. Solo che non riesco a ricordare. Un paio di mesi prima, direi».
«La data», ripeté lei. … Roger prese il giornale. «Possiamo vederlo qui», disse, sempre con tono condiscendente. Scorse la pagina. «Ecco qua. Nell’ottobre scorso, il…» … Mary gli tolse la parola. «Il venti, vero?» Con un’occhiata inquisitiva, l’uomo verificò. «Già, proprio il venti», constatò. «Ma allora, lei sapeva!»
«Lo so adesso». Il suo sguardo era tornato a perdersi nel vuoto. «Domenica 20 ottobre. È quello il giorno in cui è venuto per la prima volta».
La voce di Roger fu appena udibile. «Venuto qui la prima volta?»
«Sì». … «Sicché, lei l’ha visto due volte?» … «Due volte, sì», pronunciò Mary in un soffio. «È venuto la prima volta il venti ottobre. Ricordo la data perché fu il giorno in cui andammo a Meldon, dove non eravamo mai stati». E Mary sentì urgerle dentro una risatina al pensiero che, se non fosse stato per quel particolare, magari se ne sarebbe dimenticata.
Roger continuava a scrutarla come se tentasse di intercettarne lo sguardo.
«Lo abbiamo visto dal tetto», continuò Mary. «È venuto lungo il viale diretto alla casa. Era vestito proprio come in questa fotografia. Mio marito l’ha visto per primo; ha avuto un sussulto ed è corso dabbasso, precedendomi; ma giù non c’era nessuno. Lui era svanito» … «Elwell era svanito?» tartagliò Roger.
«Sì». Erano stati, i loro, due sussurri che erano parsi cercarsi a vicenda nel buio.
«Soltanto adesso mi rendo conto di quello che è accaduto. Prima non ci sarei riuscita. Lui ha tentato di venire già allora, ma non era ancora abbastanza morto: non poteva raggiungerci. Doveva aspettare altri due mesi, aspettare di morire, e poi è tornato. E Ned se ne è andato con lui». Annuì verso Roger, con l’espressione di trionfo di un bambino che sia riuscito a risolvere un difficile gioco di pazienza. Poi, all’improvviso, si portò le mani alle tempie, premendovele con gesto disperato.
«Oh, buon Dio!» gridò. «Sono stata io a mandarlo da Ned, io che gli ho detto dove andare! Sono stata io a mandarlo in questa stanza!»
Ebbe l’impressione che le muraglie di libri le precipitassero addosso, come rovine crollanti su se stesse; e udì Roger, lontanissimo, che di tra le rovine la chiamava tentando di avvicinarsi a lei. Ma Mary era insensibile al suo tocco, non sapeva quel che stava dicendo, e nel tumulto riusciva a udire, chiara, un’unica nota, la voce di Alida che diceva qualcosa sul prato davanti a casa sua.
«Ma certo che a Ilchester c’è un fantasma ma non lo riconoscerete mai. Lo si sa soltanto dopo, perché così vuole la leggenda», pronunciava la voce. «Soltanto dopo, soltanto molto tempo dopo».
Questo racconto è un’allegoria per descrivere una condizione tipica dell’esistenza umana: di come ci si accorga sempre “dopo” di certe cose che - nel corso di una relazione, dentro ad una determinata situazione - non abbiamo potuto o voluto vedere perché non eravamo in grado di inquadrarle nella loro realistica dimensione. Anche Averroè deve essersene accorto “dopo” di avere così tanti nemici che consideravano il suo pensiero addirittura estraneo alla cultura islamica ed eretico per quella cristiana.
Ma “l’averroismo” non si estingue bensì ha un “dopo”, e il suo sviluppo avviene proprio nel cuore della cultura Scolastica dove lo si critica severamente: a Parigi, presso la Facoltà delle Arti, nel Vico de li Strami, nasce e si sviluppa una movimento d’opinione che prende il nome di “averroismo latino” e questo è un avvenimento non indolore. La guida del movimento degli “Averroisti latini” è un intellettuale che si chiama Sigieri del Brabante perché è nato in terra fiamminga tra il 1235 e il 1240, ed è un grande conoscitore delle Opere di Aristotele attraverso gli studi che ha compiuto sui testi di Averroè. Sigieri studia alla facoltà delle Arti tra il 1255 e il 1257 e in questa stessa facoltà diventa magister di teologia [c’è molta concorrenza quindi è molto competente]. La prima notizia documentata che abbiamo di Sigieri è del 26 agosto 1266 ed è relativa al suo spirito protestatario perché - in opposizione a una circolare autoritaria del rettore dell’Università di Parigi - guida una rivolta studentesca repressa con durezza. Intorno alle Opere di Sigieri si forma un movimento d’opinione al quale aderiscono studenti e maestri delle Arti, e nel 1270 il vescovo di Parigi Étienne Tempier condanna Sigieri per “tredici proposizioni eretiche” contenute nei suoi scritti e nel 1277 gli viene proibito l’insegnamento e viene convocato dall’inquisitore di Francia Simon du Val. Per sottrarsi ad una dura condanna Sigieri parte per Orvieto che, in questo momento, è la residenza del Papa, e lì si consegna al pontefice Martino IV che lo accoglie “in veste di prigioniero”. Ma, nel 1284 [ma la data è incerta], Sigieri viene pugnalato da un sicario [dal suo segretario?] e sulla sua morte violenta è calata l’ombra del mistero: quale dei suoi tanti nemici si è premurato di farlo fuori? A questa domanda nessuno è mai stato in grado di rispondere: Sigieri fa paura perché è un personaggio che ha una straordinaria lucidità di pensiero specialmente quando demolisce tutte le “affermazioni relative” che sono state fatte diventare, senza un valido criterio, afferma Sigieri, delle “verità assolute, dei dogmi di Fede”.
E la “lucidità di pensiero” di Sigieri trova in Dante un testimone d’eccezione. Dante Alighieri mette il filosofo Sigieri in Paradiso [nel Cielo quarto o del Sole dove stanno i Dottori in Teologia e in Filosofia] e [il bello è che…] lo fa presentare e lodare da un suo acerrimo avversario Tommaso d’Aquino: adesso ci resta solo il tempo per leggere sei versi, dal 133 al 138, del Canto X del Paradiso. Tommaso d’Aquino presenta a Dante gli Spiriti sapienti che formano la prima corona del Cielo del Sole: ci sono le anime del fior fiore della sapienza antica, tardo-antica, alto-medioevale e Scolastica [Tommaso d’Aquino, Alberto Magno, Francesco Graziano, Pietro Lombardo, Salomone, Dionigi Areopagita, Lattanzio, Paolo Orosio, Severino Boezio, Isidoro di Siviglia, il venerabile Beda, Riccardo di San Vittore] e l’ultima, quando lo sguardo di Dante ritorna su Tommaso, è “l’anima eternamente luminosa” di Sigieri che, “meditando profondamente sulle cose di questo mondo, gli parve che la morte fosse lenta a venire”. Leggiamo questi sei versi.
LEGERE MULTUM….
Dante Alighieri, Paradiso Canto X 133-138
«Questi onde a me ritorna il tuo riguardo,
è ‘l lume d’uno spirto che ‘n pensieri
gravi a morir li parve venir tardo:
essa è la luce etterna di Sigieri,
che, leggendo nel Vico de li Strami,
silogizzò invidiosi veri» …
Con un verso lapidario, Dante fa dire a Tommaso d’Aquino che Sigieri “sillogizzò invidiosi veri”: argomentò [in rue du Fouarre, in Vico de li Strami, dove ha sede la Facoltà delle Arti] verità pericolose che hanno suscitato grandi invidie.
Per conoscere e per capire quali sono gli “invidiosi veri” sillogizzati [argomentati] da Sigieri del Brabante dobbiamo seguire la via dell’Alfabetizzazione culturale e funzionale con lo spirito utopico che lo “studio” porta con sé.
La Scuola è qui e, siccome non dobbiamo, non possiamo e non vogliamo mai perdere la volontà d’imparare.
Ci vediamo a Parigi in Vico de li Strami, in rue du Fouarre dove ha sede la Facoltà delle Arti, e lo strame è letame e, quindi, bisogna stare ben attente e attenti a dove si mettono i piedi, ma non è un buon motivo per mancare alla penultima Lezione prima della vacanza natalizia anche perché ad Orvieto andremo a cena con un papa, e questo non è uno di quei papi che mangiano alle mense della Caritas quindi tenetevi leggere, tenetevi leggeri, e poi il viaggio continua…