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LO SGUARDO DI ERODOTO SULLE “ALLEGORÌE MORALI ”…

Lezione N.: 
10

Prof. Giuseppe Nibbi        Lo sguardo di Erodoto      11-12-13  gennaio  2006

LO SGUARDO DI ERODOTO

SULLE “ALLEGORÌE MORALI ”…

     Ben tornati a Scuola… e buon anno a tutti. Buon anno anche al nostro compagno di viaggio, a Eroroto, il quale, con il suo sguardo sorridente continua ad indicarci la strada dell’itinerario di studio che dobbiamo percorrere.

     Con il nuovo anno iniziamo la seconda parte di questo Percorso intitolato Lo sguardo di Erodoto. Nella prima parte del nostro viaggio ci siamo occupati soprattutto di scoprire le “forme” presenti nella mente di questo significativo scrittore e, di conseguenza, presenti nella sua opera. Ne Le Storie di Erodoto, e di conseguenza nel pensiero di Erodoto, possiamo individuare tre tipi di “forme”. Ci sono le “forme intellettuali” date dalle idee che Erodoto ha acquisito, da giovane, nella sua formazione scolastica avvenuta nella Ionia. Poi ci sono le “forme culturali” date dalle idee che Erodoto ha acquisito nel corso dei suoi viaggi per il mondo. Inoltre ci sono le “forme allegoriche” date dalle metafore morali che Erodoto ha colto nelle “storie” che ha sentito raccontare e che ha deciso di scrivere.

     Ci siamo resi conto che Erodoto, nel testo de Le Storie – al quale ci siamo avvicinati, lo scorso anno, con circospezione – gioca spesso con i discorsi. Che cosa significa – in riferimento a Le Storie di Erodoto – usare l’espressione “giocare con i discorsi”? “Giocare con i discorsi”, per Erodoto, significa avvalersi di “ciò che narra” per creare delle “fantastiche storie allogoriche”. Gli esperti ci suggeriscono che, per Erodoto, esiste uno stretto rapporto tra la “storia” e l’allegoria. L’allegoria è un insieme complesso di simboli che si presenta come una complicata figura misteriosa, come un’immagine emblematica difficile da decifrare se non possediamo le “chiavi di lettura”. L’allegorìa si manifesta attraverso una serie di  metafore, di paragoni rappresentativi, di parabole allusive. E noi, insieme a Tucidide (il primo della classe in “storia”), ci chiediamo ancora se sia possibile “fare la storia” con le allegorie.

     È evidente che le allegorie (le metafore, le parabole) non fanno la “storia” ma è altrettanto evidente – ci ricorda Erodoto “alludendo” – che le “storie” producono “allegorie” che finiscono per sovrapporsi alle storie stesse. E le “allegorie” muovono la riflessione, e la riflessione stimola il pensiero, e il pensiero favorisce l’apprendimento.

     Riflettiamo ancora una volta sulla parola allegoria. La parola “allegori” è costruita in un modo molto interessante: contiene il termine allos che significa diverso, fuori dal normale, fantastico e il termine agoreuein, un verbo che significa “parlare, raccontare in piazza (sull’agorà)”, come dire che “chi racconta in piazza deve inventare immagini fantastiche, allogorie,  per farsi ascoltare”. Quindi, insieme alle parole ricerca (tesis), analisi (antitesis), giudizio (crisis), allusione (ìchonos), ambiguità (anfibìa, aporìa), vendetta (timorìa), coincidenza (chairòs), corrispondenza (syntesis), anche la parola allegoria va ad aggiungersi al catalogo che lo sguardo di Erodoto ci propone in questo percorso di studio.

     Noi sappiamo che, nel testo de Le Storie di Erodoto, sono proprio le “fantastiche allegorie”, i “racconti simbolici”, disseminati lungo tutta l’opera, quelli che suscitano (e che hanno sempre suscitato) la maggior attenzione dei lettori. Le “allegorie” danno vita anche ad alcune significative “forme letterarie” come la parabola e il racconto morale…

     Erodoto, scrivendo Le Storie, costruisce molte “parabole”, molti “racconti morali”.

     Quindi affermare che Erodoto “gioca con i discorsi” significa ribadire che compone soprattutto “allegorie morali”. Per essere più precisi le “allegorie” che troviamo inserite nel testo de Le Storie sono state definite con un’espressione: i fantastici racconti morali di Erodoto. Da dove e da chi arriva questa “definizione”? Il primo a dare questa definizione è Matteo Maria Boiardo nel 1539 quando pubblica la traduzione in lingua italiana de Le Storie di Erodoto con il titolo: De le fantastiche istorie e allegorìe morali del greco Erodoto di Alicarnasso. Chi è Matteo Maria Boiardo?

     Matteo Maria Boiardo (1440 o 1441-1494) è nato a Scandiano (Reggio Emilia) ma trascorre gran parte della sua vita a Ferrara presso la corte degli Estensi. È stato governatore di Modena e di Reggio Emilia, ma noi lo ricordiamo soprattutto per i suoi meriti in campo intellettuale perché Matteo Maria Boiardo è stato uno dei più importanti “umanisti” europei. È uno studioso che possiede una solida cultura classica e comincia a scrivere versi in latino e poi si adopera in una straordinaria opera di traduzione e di volgarizzazione dei classici greci e latini. Matteo Maria Boiardo traduce e commenta le opere di Cornelio Nepote, di Apuleio, di Senofonte e soprattutto traduce e commenta Le Storie di Erodoto favorendo la diffusione di questo testo tra i molti intellettuali che non conoscono il greco.

     Noi abbiamo sentito nominare  Matteo Maria Boiardo soprattutto per le sue opere in poesia, infatti ha scritto un Canzoniere amoroso e poi il famoso (almeno di nome) poema fantastico intitolato Orlando innamorato (1483-1495) che risulta un punto di riferimento fondamentale per il ben più celebre Orlando furioso (1532) di Ludovico Ariosto che inizia proprio da dove Boiardo interrompe il suo poema.

     Dal punto di vista della didattica della lettura e della scrittura (visto che, camminando su questo sentiero, ci troviamo di fronte a questo “paesaggio intellettuale”) possiamo esercitarci a fare un confronto tra l’inizio (i primi sedici versi) dell’Orlando furioso dell’Ariosto e l’inizio (i primi trenta versi) dell’Orlando innamorato del Boiardo. L’inizio dell’Orlando furioso è un po’ nelle orecchie di tutti.

LEGERE MULTUM….

Ludovico Ariosto,  Orlando furioso (1532)

CANTO I

Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,

le cortesie, l’audaci imprese io canto,

che furo al tempo che passaro i Mori

d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto,

seguendo l’ire e i giovenil furori

d’Agramante lor re, che si diè vanto

di vendicar la morte di Troiano

sopra re Carlo imperator romano.

Dirò d’Orlando in un medesmo tratto

cosa non detta in prosa mai né in rima:

che per amor venne in furore e matto,

d’uom che sì saggio era stimato prima;

se da colei che tal quasi m’ha fatto,

che ’l poco ingegno ad or ad or mi lima,

me ne sarà però tanto concesso,

che mi basti a finir quanto ho promesso.

     Certamente, abbiamo detto che l’inizio dell’Orlando furioso è nelle orecchie di molti cittadini, anche se non lettori, però quando si tratta di “capire”, di fare “chiarezza intellettuale” nel testo di questo poema, che è considerato una delle opere più significative della Storia del Pensiero Umano, allora tutto diventa più complicato. Per esempio (purtroppo possiamo solo dedicare un breve sguardo a questo paesaggio intellettuale): chi è “colei che tal quasi m’ha fatto”, colei che ha fatto perdere la testa a Ludovico Ariosto come Angelica ha fatto perdere il senno a Orlando? Questa signora si chiama Alessandra Benucci: noi, ora, non possiamo dire altro perché questa è un’altra storia, è un altro itinerario, è un altro Percorso, e chissà, forse, in futuro, rientreremo in questo territorio. Se l’inizio dell’Orlando furioso è nelle orecchie di molti cittadini, l’incipit dell’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo è pressoché sconosciuto.

LEGERE MULTUM….

Matteo Maria Boiardo,  Orlando innamorato (1483-1495)

LIBRO PRIMO

EL LIBRO PRIMO DE ORLANDO INAMORATO, [EN] EL QUALE SE CONTIENE LE DIVERSE AVENTURE E LE CAGIONE DI ESSO INAMORAMENTO, TRADUTTO DA LA VERACE CRONICA DE TURPINO, ARCIVESCOVO REMENSE, PER IL MAGNIFICO CONTE MATEO MARIA BOIARDO, CONTE DE SCANDIANO,

A LO ILLUSTRISSIMO SIGNOR ERCULE DUCA DE FERRARA.

CANTO PRIMO

Signori e cavallier che ve adunati

Per odir cose dilettose e nove,

Stati attenti e quieti, ed ascoltati

La bella istoria che ’l mio canto muove;

E vedereti i gesti smisurati,

L’alta fatica e le mirabil prove

Che fece il franco Orlando per amore

Nel tempo del re Carlo imperatore.

    Non vi par già, signor, meraviglioso

Odir cantar de Orlando inamorato,

Ché qualunche nel mondo è più orgoglioso,

È da Amor vinto, al tutto subiugato;

Né forte braccio, né ardire animoso,

Né scudo o maglia, né brando affilato,

Né altra possanza può mai far diffesa,

Che al fin non sia da Amor battuta e presa.

    Questa novella è nota a poca gente,

Perché Turpino istesso la nascose,

Credendo forse a quel conte valente

Esser le sue scritture dispettose,

Poi che contra ad Amor pur fu perdente

Colui che vinse tutte l’altre cose:

Dico di Orlando, il cavalliero adatto.

Non più parole ormai, veniamo al fatto.

    La vera istoria di Turpin ragiona

Che regnava in la terra de oriente,

Di là da l’India, un gran re di corona,

Di stato e de ricchezze sì potente

E sì gagliardo de la sua persona,

Che tutto il mondo stimava niente:

Gradasso nome avea quello amirante,

Che ha cor di drago e membra di gigante.

     La prima cosa che colpisce leggendo l’Orlando innamorato è che all’inizio del poema s’incontra un personaggio – un re indiano – di nome Gradasso, e questo nome è entrato nel linguaggio comune, noi continuiamo ad usare l’espressione: “non fare il Gradasso”.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

In biblioteca potete consultare il testo dell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto e dell’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo: provate a continuare la lettura del primo canto di ciascuno dei due poemi utilizzando i commenti e le note

C’è un verso (o due) che vi ha colpito particolarmente ? 

Scrivetelo… 

     Lo stesso Matteo Maria Boiardo ci fa sapere – nelle sue lettere – che dal leggere, dal tradurre e dal commentare Le Storie di Erodoto ha imparato alcune cose importanti che ha poi utilizzato per scrivere il suo poema fantastico. Matteo Maria Boiardo, a contatto con Le Storie di Erodoto, ha capito come questo testo classico possieda uno spiccato senso narrativo che ne fa un’opera di carattere “fantastico”, di carattere “allegorico”,  più che di carattere “storico”. Boiardo viene influenzato dal modo di scrivere di Erodoto e pensa, quindi, nel comporre il suo poema, di modificare il suo stile di scrittura amplificando l’elemento narrativo di carattere “fantastico”, sviluppando maggiormente l’avventura fiabesca e l’allegoria. Inoltre Boiardo rimane colpito dalla lingua di Erodoto, si rende conto che non è più la lingua “epica” e “aristocratica” di Omero ma è una lingua popolare (Boiardo usa il termine “lingua democratica” perché in greco “demos” significa “popolo”), quindi una “lingua democratica” è una lingua diffusa, cittadina, pubblica, di uso comune. Anche Boiardo – incoraggiato dalla lingua di Erodoto – nel suo poema utilizza un linguaggio ricco di interpolazioni popolaresche.

     Matteo Maria Boiardo è attratto dai fantastici racconti allegorici e morali di Erodoto. E la presenza di questi racconti fantastici, allegorici e morali, ha sempre reso e rende accattivante la lettura de Le Storie. Per esempio, nel II libro de Le Storie, Erodoto ci porta con sé in Egitto e ci fa incontrare – e questo incontro lo abbiamo già annunciato prima delle vacanze – un personaggio un po’ stravagante: il Faraone Amasi. Il Faraone Amasi – secondo Erodoto – è un tipo “simpatico” che ha un rapporto tanto serio quanto giocoso con le Istituzioni. Amasi è “un Faraone un po’ mattacchione” – anche “un po’ filibustiere” – e inoltre non è proprio esatto affermare che Erodoto nel suo libro ne racconta la “storia”. Erodoto narra delle “storie allegoriche” che vedono il Faraone Amasi come protagonista, con l’intento di presentare al lettore non una serie di “avvenimenti” ma una sequenza di comportamenti. L’obiettivo di Erodoto non è tanto quello di far conoscere al lettore la “storia”, quanto invece quello di farlo riflettere sulla “morale”. Erodoto tratta la figura del Faraone Amasi con molta indulgenza perché gli permette di imbastire – attraverso le coincidenze e le corrispondenze etiche – un ragionamento su un tema che a Erodoto sta particolarmente a cuore: il tema dell’arroganza del potere. La figura di Amasi diventa per Erodoto una metafora per poter costruire un’allegoria, una parabola, un fantastico racconto morale sul tema dell’arroganza del potere.

     Amasi rappresenta un uomo di potere, un uomo che ha conquistato il potere, il quale però – ci spiega Erodoto – contrariamente al modo di comportarsi di tutti gli uomini che comandano, non si nasconde dietro ai veli artefatti del dominio, non si chiude in una reggia inaccessibile, non si barrica in una città proibita, non si atteggia a presentarsi come un dio, ma agisce scopertamente, senza ipocrisia e senza simulazione. Amasi è un po’ un “filibustiere”, è un po’ un “mattacchione” – racconta Erodoto – e si comporta pubblicamente come si comportano normalmente di nascosto gli uomini di potere, i quali – “allude” Erodoto – spesso sono ladri, sono bugiardi, sono vendicativi e favoriscono chi si prostra di fronte a loro mentre danneggiano chi non li venera.

     Erodoto utilizza le “storie” di Amasi per imbastire una riflessione sul tema della “forma apparente” e della “forma reale” del potere. Gli uomini di potere si comportano in modo tale da apparire quello che in realtà non sono perché – ci fa capire Erodoto – hanno spesso qualcosa da nascondere.

     Questa tematica viene ripresa e sviluppata da Niccolò Machiavelli nell’opera Il Principe pubblicata nel 1513, e anche Machiavelli conosce Erodoto attraverso la traduzione e il commento di Matteo Maria Boiardo. Scrive Machiavelli nel Principe: (Il principe) paia, a vederlo e a udirlo, tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto umanità, tutto religione. Ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu sei.

     Il Faraone Amasi – ci racconta Erodoto – è un tipo che non si nasconde, e che tende a mostrarsi così com’è: prima di tutto non appartiene all’aristocrazia ma è un “popolano” e come tale vuole essere accettato.

LEGERE MULTUM….

Erodoto,  Le Storie  II  172

Tolto, dunque, di mezzo Àprico, salì sul trono (vi rimase dal 569 al 526 a.C.) Amasi, che era del distretto di Sais; ma la sua città di origine si chiamava Siuf (oggi Es-Seffeh).

In un primo tempo gli Egiziani lo guardavano con disprezzo, e non lo tenevano certo in grande considerazione, perché era un popolano e la sua famiglia non era illustre; ma, in seguito, Amasi se li seppe accattivare con l’abilità, non con l’arroganza.

Tra gli infiniti oggetti preziosi che possedeva, c’era anche un bacile d’oro nel quale solevano lavare i piedi Amasi stesso e i suoi convitati in ogni circostanza. Egli, dunque, ridotto in pezzi, ne fece fare la statua di un dio, che poi collocò nel luogo della città che era il più opportuno.

Gli Egiziani, venendo in folla presso la statua, la circondavano di grande venerazione, e Amasi, informato di quanto facevano i cittadini, chiamatili a raccolta, rivelò loro che la statua aveva avuto origine da quel bacile nel quale, prima, gli Egiziani solevano vomitare, orinare e lavarsi i piedi, e che allora, invece, onoravano con tanto trasporto. Allo stesso modo, proseguiva, anch’egli aveva avuto la sorte del bacile: poiché, se prima era un semplice popolano, al presente egli era loro re e pretendeva che l’onorassero e lo trattassero con ogni riguardo.

In tal modo, attirò a sé gli Egiziani tanto che accettarono come cosa giusta essere a lui soggetti.

     L’origine popolare di questo Faraone sembra essere gradita ad Erodoto, il quale, venendo dalla cultura della polis, tiene il “popolo” in grande considerazione rispetto alla cultura delle monarchie assolute. Gli espedienti che Amasi usa per gestire il potere non hanno nulla di “aristocraticamente regale” ma, questi stratagemmi, nella loro “sagace grettezza”, spesso risultano assennati. Volendo giocare con le coincidenze e le corrispondenze letterarie, questi sagaci stratagemmi ricordano un personaggio che tutti abbiamo sentito nominare: il personaggio di Bertoldo:il “meraviglioso” (deinòs) personaggio di Bertoldo è stato creato da Giulio Cesare Croce.

     Giulio Cesare Croce è un cantastorie girovago, è un cantautore, è uno scrittore stravagante ma di vasta cultura classica, nato a San Giovanni in Persiceto (a una ventina di chilometri a nord-ovest di Bologna) nel 1550. Abbiamo incontrato questo artista qualche anno fa, attraversando il territorio del 1600, e abbiamo anche imparato che l’opera, contenente le avventure del “difforme e bruttissimo villano”, in origine porta come titolo: Le sottilissime astuzie di Bertoldo, ed è stata pubblicata nel 1606. Quindi diciamo subito che siamo entrati nel compimento (come per Don Chisciotte l’anno scorso) dei 400 anni di Bertoldo (1606-2006): ci aspettiamo grandi commemorazioni di questo straordinario personaggio letterario. (Siamo senz’altro i primi e speriamo di non rimanere i soli a commemorare, come è successo per i 2000 anni de le Metamorfosi di Ovidio). Noi intanto facciamo in modo che la Scuola se ne occupi.

     Da quanto tempo non rileggete le avventure di Bertoldo? La “lettura” – ricordiamoci – è il più importante “atto commemorativo”!

     A proposito di coincidenze e di corrispondenze: se leggiamo la prefazione de Le sottilissime astuzie di Bertoldo scopriamo che Giulio Cesare Croce ripercorre il catalogo dei temi più significativi della cultura classica. Questi temi li conosce bene perché li elabora, li mette in musica e li utilizza come cantastorie sulle pubbliche piazze per guadagnarsi da vivere. In questo catalogo, in cui cita “i fatti importanti de le istorie” [possiamo “sentire” come un richiamo ad Erodoto, e anche Giulio Cesare Croce ha letto l’opera di Erodoto nella famosa traduzione di Matteo Maria Boiardo (Venezia 1539)] cogliamo anche questa coincidenza e poi approfittiamo – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – della sottile corrispondenza che s’intuisce tra le “storie” di Amasi e le avventure di Bertoldo per rileggere la prefazione de Le sottilissime astuzie di Bertoldo.

LEGERE MULTUM….

Giulio Cesare Croce,  Le sottilissime astuzie di Bertoldo  (1606)

Qui non ti narrerò, benigno lettore, il giudizio di Paris, non il ratto di Elena, non l’incendio di Troia, non il passaggio d’Enea in Italia, non i lunghi errori di Ulisse, non le magiche operazioni di Circe, non la distruzione di Cartagine, non l’esercito di Serse, non le prove di Alessandro, non la fortezza di Pirro, non i trionfi di Mario, non le laute mense di Lucullo, non i magni fatti di Scipione, non le vittorie di Cesare, non la fortuna di Ottaviano, poiché di simili fatti le istorie ne danno, a chi legge, piena contezza; ma bene t’appresento innanzi un villano brutto e mostruoso sì, ma accorto e astuto e di sottilissimo ingegno, a tale che, paragonando la bruttezza del corpo con la bellezza dell’animo, si può dire ch’ei sia proprio un sacco di grossa tela, foderato di dentro di seta ed oro. Quivi udirai astuzie, motti, sentenze, arguzie, proverbi e stratagemme sottilissime e ingegnose, da far trasecolare non che stupire. Leggi dunque, che di ciò trarrai grato e dolce trattenimento, essendo l’opera piacevole e di molta dilettazione.

Nel tempo che il re Alboino, re dei Longobardi, si era insignorito quasi di tutta l’Italia, tenendo il seggio regale nella bella città di Verona, capitò nella sua corte un villano, chiamato per nome Bertoldo; il quale era uomo difforme e di bruttissimo aspetto; ma, dove mancava la formosità della persona, suppliva la vivacità dell’ingegno: onde era molto arguto e pronto nelle risposte, e oltre l’acutezza dell’ingegno anco era astuto, malizioso e tristo di natura. E la statura era tale, come qui si descrive.

Prima era costui picciolo di persona, il suo capo era grosso e tondo come un pallone, la fronte crespa e rugosa, gli occhi rossi come di fuoco, le ciglia lunghe ed aspre come setole di porco, l’orecchie asinine, la bocca grande e alquanto storta, con il labbro di sotto pendente a guisa di cavallo, la barba folta sotto il mento e cadente come quella del becco, il naso adunco e righignato all’insù, con le nari larghissime, i denti in fuori come il cinghiale, con tre overo quattro gosci sotto la gola, i quali, mentre esso parlava, parevano, tanti pignattoni, che bollissero; aveva le gambe caprine, a guisa di sàtiro, i piedi lunghi e larghi, e tutto il corpo peloso; le sue calze erano di grosso bigio e tutte rappezzate su le ginocchia; le scarpe alte ed ornate di grossi tacconi.

Insomma costui era tutto il roverso di Narciso.

Passò dunque Bertoldo per mezo a tutti quei signori e baroni, ch’erano innanzi al Re, senza cavarsi il cappello né fare atto alcuno di riverenza e andò di posta a sedere appresso il Re, il quale, come quello che era benigno di natura e che ancora si dilettava di facezie, s’immaginò che costui fosse qualche stravagante umore, essendo che la natura suole spesse volte infondere in simili corpi mostruosi certe doti particolari che a tutti non è così larga donatrice; onde, senza punto alterarsi, lo cominciò piacevolmente ad interrogare, dicendo:

«Chi sei tu, quando nascesti e di che parte sei?»

«Io son uomo, nacqui quando mia madre mi fece e il mio paese è in questo mondo.»

     Erodoto “allude” e nel presentarci la figura “un po’ bertoldesca” del Faraone “popolano” Amasi, ci vuol dire che noi, forse, certe circostanze, oggi, non le capiamo più. Oggi – “allude” Erodoto – noi, per nostra fortuna, siamo abituati a coniugare e a veder coniugata la parola “potere” (nel senso del potere politico) con la parola onestà, con la parola sincerità, con la parola imparzialità. «Voi oggi non le capite più certe “storie” – “allude” Erodoto – ma, vi assicuro che queste cose,  al tempo di Amasi, succedevano, eccome se succedevano…». Ma è così lontano dal nostro, il tempo di Amasi? Abbiamo già letto – in un itinerario prima delle vacanze – che questo Faraone faceva tagliare la testa a chi non dimostrava di aver guadagnato onestamente i redditi dichiarati. Insomma è proprio “un gran mattacchione” questo Amasi.  E allora leggiamo due capitoli in cui è protagonista.

LEGERE MULTUM….

Erodoto,  Le Storie  II  173  174

Nel disbrigo dei suoi doveri egli aveva questo sistema: al mattino, fino all’ora in cui il mercato è pieno, si dedicava attivamente agli affari che gli si presentavano; ma da quell’ora in poi si dava al bere, combinava scherzi ai suoi compagni di mensa, e si dimostrava frivolo e buffone.

I suoi amici, che tolleravano a malincuore questi suoi modi, lo ammonivano dicendogli così : «O re, tu non ti comporti saggiamente, lasciandoti andare troppo in basso: tu dovresti, assiso con maestà sul sacro trono, per tutta la giornata attendere ai tuoi uffici; in tal modo gli Egiziani riconoscerebbero che sono governati da un uomo di valore e tu godresti migliore reputazione. Ora, invece, quello che fai non è assolutamente degno d’un re».

Ma egli rispondeva: «Quelli che possiedono un arco, quando devono adoperarlo lo tendono; quando, però, l’hanno usato, lo lasciano allentare; poiché, se fosse costantemente teso, finirebbe col rompersi e non potrebbero valersene in caso di necessità. Così è anche la condizione dell’uomo. Se volesse uno essere costantemente impegnato in cose serie, e non si lasciasse andare, di tanto in tanto, al sollievo e allo scherzo, senza accorgersene diventerebbe pazzo o finirebbe, almeno, per abbrutirsi. Ora, io che lo so, do all’una e all’altra cosa la sua parte».

Questa fu la risposta che diede agli amici.

 

Si racconta che Amasi, anche quando era cittadino privato, beveva volentieri, era amante dello scherzo e non era certo quello che si dice un uomo serio.

Quando, a forza di gozzovigliare e di darsi alla bella vita, gli venivano a mancare i mezzi, soleva andar qua e là a rubare.

Orbene, quelli che lo accusavano di tenere presso di sé beni che erano loro, quando si ostinava a negare, lo traevano di solito davanti all’oracolo del luogo, dove ciascuno si trovava: spesso anche dall’oracolo veniva convinto di furto; ma pure spesso ne usciva assolto.

Quando, poi, salì al trono, ecco cosa fece: di tutti gli dèi che l’avevano scagionato dall’accusa di furto, egli trascurava in pieno i templi e non concedeva nessun contributo per restaurarli; né vi si recava a offrire sacrifici, perché, diceva, non meritavano nulla, dato che possedevano oracoli che mentivano; mentre si prendeva la massima cura di tutti quelli che l’avevano condannato come ladro, poiché, quelli sì, erano veramente dèi e avevano oracoli non menzogneri.

     La lettura di questi frammenti costituisce appena un assaggio di quello che Erodoto racconta del regno di Amasi, e per giunta siamo nella parte finale del II libro de Le Storie dedicato alla musa Euterpe. Il II libro de Le Storie ci presenta l’Egitto con i suoi usi, i suoi costumi, i suoi personaggi, le sue cerimonie e gli avvenimenti che – inventariati da Erodoto – fanno o dovrebbero fare (Erodoto qualche volta sbaglia) la “storia” di questa famosa regione del mondo. Se si legge il II libro de Le Storie (di cui si consiglia la lettura) si ha subito l’impressione che l’immagine della civiltà egiziana che Erodoto ci ha lasciato non sia la stessa “immagine oleografica” che ne abbiamo noi oggi. Sappiamo già – lo abbiamo imparato un anno fa sul Percorso del “romanticismo galante”, in compagnia del signor Vivant Denon – che, dal 1799, ci troviamo in piena “egittomanìa”: una situazione di morbosa curiosità determinata soprattutto dagli affascinanti reperti del cosiddetto “periodo classico” valorizzati dalla ricerca archeologica. Anche Erodoto tratta dell’Egitto “classico” con tutti i suoi “oggetti mitici”, e anche per lui quel periodo è già “antico”: tra Erodoto e le piramidi c’è la stessa distanza che c’è tra noi ed Erodoto, quindi noi consideriamo Erodoto “antico” allo stesso modo in cui Erodoto considera “antiche” le piramidi, si può dire che, in un certo senso, è come se fossimo alla pari.

     Ma Erodoto – questa è l’impressione che si ha leggendo il II libro de Le Storie – ha dell’Egitto “classico” una visione, una percezione, un’idea molto più smaliziata della nostra e utilizza anche questo terreno per far scattare le sue “allegorie morali”. Erodoto, nel II libro de Le Storie, sulla scia del Faraone Amasi, ci porta in Egitto e ci fa capire che non tutti i Faraoni sono “scherzosi” come lui, anzi quelli più famosi, quelli della celebre quarta dinastia – Cheope, Chefren, Micerino – quelli che hanno fatto costruire le grandi piramidi, sono, a sentire Erodoto, decisamente antipatici. Erodoto ci porta ai piedi delle piramidi e, di fronte a questi grandiosi monumenti, esprime un concetto che ripeterà pure Napoleone Bonaparte nel 1800 durante la famosa “spedizione in Egitto”, alla quale partecipa anche il signor Vivant Denon (lo ricordate?), autore del famoso resoconto Viaggio attraverso il Basso e l’Alto Egitto durante le campagne del generale Bonaparte. Questo volume, scritto e pubblicato dal signor Vivant Denon – che è stato il primo sovrintendente del museo del Louvre, la persona che costruito questo museo, il primo a scrivere una “descrizione ufficiale” (che noi abbiamo letto e studiato) del quadro La Gioconda di Leonardo – è corredato da disegni molto significativi (realizzati sul posto dallo stesso autore), e riscuote un successo straordinario in tutta Europa e contribuisce a creare quella “smania egiziana” che, dopo oltre due secoli, ancora non ci è passata: «Dall’alto delle piramidi – dice Erodoto anticipando il generale Bonaparte – molti secoli di storia ci guardano». Quanti secoli di storia ci guardano dall’alto delle piramidi? Per noi circa 46 secoli, e, quando le vede Erodoto, le piramidi hanno già circa ben 21 secoli di storia; quindi presumiamo che Erodoto, riflettendo “sull’antichità” delle piramidi, abbia provato le stesse sensazioni che proviamo noi a contatto di questi affascinanti oggetti.

     Erodoto “allude” al fatto che sotto le piramidi vorremmo e dovremmo avere dei pensieri adeguati, dei pensieri in linea con la grandezza di questi “meravigliosi” (deinòs) monumenti. Invece – si rammarica Erodoto – sotto le piramidi, passano per la testa soltanto pensieri banali: lui deve aver fatto fatica (viaggiare è “fastidioso”) per avvicinarsi alle piramidi. I primi pensieri che passano per la mente sotto le piramidi sono che fa caldo, e il caldo stimola la sete, e la sete fa desiderare un po’ d’acqua fresca. Che fare per adeguare i nostri banali pensieri – sul caldo, sulla sete e sul desiderio di acqua fresca – alla grandezza di questi “meravigliosi” (deinòs) monumenti? Sotto le piramidi dove va a parare la nostra mente seguendo le coincidenze e le corrispondenze che Erodoto ci invita a cercare? Il caldo, la sete e il desiderio di acqua fresca, sotto le piramidi, fanno pensare a Sesto Giulio Frontino: chi è Frontino?

     Frontino è uno scrittore latino. Il desiderio di acqua fresca che si prova sotto le piramidi fa pensare alla appassionata descrizione che Frontino fa delle acque della città di Roma: l’Acqua Appia, l’Acqua Marcia, l’Acqua Tepula, l’Acqua Giulia, l’Acqua Vergine, l’Acqua Claudia.  Frontino è prima di tutto – siamo nel primo secolo d.C. – il sovrintendente alle acque per conto dell’imperatore Nerva e, anche per questo motivo, scrive un delizioso e rinfrescante trattatello sugli acquedotti: De aquae ductu urbis Romae (La rete idrica della città di Roma). Che cosa c’entrano le piramidi con Frontino e con gli acquedotti romani? Frontino, nel suo refrigerante trattatelo, tira in ballo anche le piramidi. E perché le tira in ballo? Per ammirarle nella loro imponenza? No, le cita per disprezzarle. Frontino laconicamente scrive: «Gli acquedotti che costruiamo noi Romani sì che sono utili, importanti. Non come queste piramidi oziose – “pyramidas otiosas” – che se ne stanno lì senza far nulla, che non servono a niente… se non a far venire sete a chi le guarda».

     Frontino è un sovrintendente, è una persona molto pratica: capisce che le piramidi sono formidabili opere di ingegneria, frutto di uno sforzo enorme tanto sul piano dei finanziamenti quanto soprattutto sul piano del lavoro. Non ne comprende però il valore sociale, e non capisce quale beneficio pubblico possano portare. Che cosa ci dice Erodoto – cinque secoli prima di Frontino – in materia di piramidi? Anche Erodoto “allude” a questo problema: sono davvero solo “oziose” le piramidi di Cheope, Chefren e Micerino?  Erodoto risponde: «Ma no, le piramidi non sono solo “oziose”. Questi colossali monumenti sono come il primo “motore immobile”. Stanno ferme ma fanno muovere tante cose e soprattutto fanno muovere tanta gente». Ed effettivamente Erodoto si è mosso alla volta dell’Egitto (nonostante il caldo, la sete, il desiderio di acqua fresca) anche per vedere con i propri occhi questi  mastodontici “oggetti” i quali, ancora oggi, attirano, per la loro fama, milioni di persone (l’economia egiziana, oggi, se ne giova).

     Ma Erodoto aggiunge: «Le piramidi non sono “oziose”, infatti, oltre alle persone, fanno muovere anche tanti pensieri». Quali pensieri si “muovono” nella testa delle persone che capitano sotto le piramidi o davanti ad una figura che le rappresenta? Le piramidi fanno “muovere” pensieri legati ad una serie di interrogativi. Tutti coloro i quali si sono trovati davanti alle piramidi si sono sempre chiesti: che cosa sono esattamente? Come sono state fatte? I blocchi di pietra da dove vengono? Come sono orientate?  Chi le ha fatte costruire?

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Siete mai state, siete mai stati ai piedi delle piramidi?

Scrivete quattro righe in proposito…

Quale parola vi fa venire in mente il termine “piramide”? 

Scrivetela …

     Anche Erodoto naturalmente – dopo essersi fatto una bella bevuta di acqua fresca su consiglio di Sesto Giulio Frontino – si pone tutte queste domande e, mentre se le pone, racconta. Erodoto ci tiene a dire che è facoltativo credere in quello che lui scrive perché sono cose che ha sentito raccontare da fonti diverse e vanno prese con beneficio d’inventario. Ancora una volta sono le coincidenze e le corrispondenze etiche che interessano ad Erodoto e, in questo caso, ribadisce ancora una volta che l’autoritarismo degli uomini di potere è causa di molti mali. Il fatto che Cheope faccia chiudere i templi significa – “allude” Erodoto nel II libro de Le Storie – porre limiti alla libertà d’opinione e alla dinamicità dell’economia (“sacrificare” significa “consumare”, i templi sono soprattutto dei “grandi mercati”). Il fatto che Erodoto ci presenti le piramidi come il frutto di un “lavoro forzato” ci fa capire che, di fronte a queste “grandi opere”, lo scrittore ha pensato soprattutto alle parole: obbligo, costrizione, vincolo, imposizione.

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Erodoto,  Le Storie  II  123  124  125

Di tutto quanto raccontano gli Egiziani si valga pure colui che tali cose ritiene credibili; quanto a me, io mi sono proposto in tutta la mia storia di scrivere, come le ho sentite, le cose narrate dagli uni e dagli altri.

A quanto dicono gli Egiziani, i signori del mondo sotterraneo sono Dèmetra e Dioniso (corrispondono a Iside e Osiride) e furono ancora gli Egiziani a formulare per primi la dottrina che l’anima dell’essere umano è immortale, e, quando il corpo si dissolve, entra essa in un altro animale che, di volta in volta, viene al mondo. Dopo essere passata per tutti gli animali della terra, del mare e dell’aria, di nuovo l’anima entra nel corpo di un uomo che nasce alla vita: questo giro di trasmigrazione per l’anima si compie, dicono, in tremila anni.

Di questa teoria si valsero alcuni fra i filosofi greci (gli Orfici, Ferecide, Pitagora, Empedocle) chi prima, chi dopo; come se fosse stata loro propria: io ne conosco i nomi, ma tuttavia non ne parlo.

Ordunque, fino al regno di Rampsinito, dicevano i sacerdoti, in Egitto regnava un ordine perfetto e il paese godeva di grande prosperità; ma quando salì al trono dopo di lui Cheope, questi lo gettò nella più completa miseria.

Per prima cosa, fatti chiudere tutti i templi, impedì agli Egiziani di compiere sacrifici; in seguito li obbligò tutti a lavorare per lui. Ad alcuni fu imposto di trascinare le pietre delle cave fino al Nilo, cave che si trovano nella montagna d’Arabia; ordinò poi che altri ricevessero le pietre trasportate oltre il fiume su delle chiatte, e le trascinassero al monte chiamato Libico.

Lavoravano a turni di 100.000 uomini, che si alternavano senza interruzione ogni tre mesi. Quanto al tempo, ben dieci anni passarono, per il popolo sottoposto a logorante fatica, nella costruzione della strada, lungo la quale trascinavano le pietre, opera, a mio modo di vedere, non molto, di certo, inferiore alla piramide – è lunga infatti, cinque stadi; larga dieci orge (l’orgia, equivalente a 4 cubiti o a 6 piedi corrispondeva a m. 1,80 circa); e l’altezza è di otto orge –, fatta di pietre levigate e adorna di figure d’animali intagliate.

Dieci, dunque, furono gli anni impiegati per costruire questa strada e le camere sotterranee sopra l’altura, dove si ergono le piramidi, camere che egli faceva perché servissero alla sua sepoltura in una piccola isola, dopo avervi immesso con un canale l’acqua del Nilo.

E vent’anni furono passati nell’erigere la piramide stessa; la quale, di forma quadrata, misura su ciascuna fronte, da tutti i lati, otto pletri (il pletro, corrispondente a 100 piedi, era di circa 30 metri) e altrettanti ne misura in altezza (qui Erodoto cade certo in grave errore: in realtà la piramide misura m. 146,59 di altezza): è rivestita di lastre levigate e connesse tra loro alla perfezione; e nessuna pietra misura meno di trenta piedi.

E fu costruita così questa piramide: prima di tutto, a mo’ di gradinata, con una serie di ripiani, da alcuni chiamati “sporgenze”, da altri “basamenti d’altare”; poi, quando l’ebbero fatta in tal modo, le rimanenti pietre le sollevavano per mezzo di macchine, formate di piccole travi, alzandole da terra fino al primo ripiano; ogni volta che le pietre arrivavano là, le si ponevano su un’altra macchina, già pronta sul primo ripiano e, da questo, veniva tirata sul piano successivo e su un’altra macchina.

Poiché tanti erano i ripiani della gradinata, altrettanto erano le macchine; o forse, era la stessa unica macchina, facile a maneggiarsi, che essi trasportavano da un piano all’altro, dopo averla liberata dalla pietra.

Tanto sia detto per l’un caso e l’altro, come, appunto, vuole la tradizione.

Furono portate a compimento prima le parti più elevate della piramide; poi si completarono le parti vicine a esse; infine, fu data l’ultima mano alle parti vicine al suolo e alle più basse.

Sulla piramide è segnato in caratteri egiziani quanto fu speso in rafani, cipolle e aglio per i lavoratori e, se ben ricordo quello che mi diceva l’interprete decifrando l’iscri-zione, la somma spesa fu di 1600 talenti d’argento.

E se questa cifra è esatta, quanti altri talenti è da pensare che siano stati spesi per gli arnesi di ferro con i quali lavoravano, per il nutrimento e il vestiario dei lavoratori, dal momento che a costruire le opere impiegarono il tempo che s’è detto! Ma ben altro tempo, e, a mio parere, non breve, consumarono quando tagliavano le pietre, le portavano, e scavavano il canale sotterraneo.

     E poi, come spesso succede, Erodoto ci racconta storie curiose e anche un po’ inquietanti. Nel capitolo 126 del II libro de Le Storie incontriamo la figlia del Faraone Cheope, e scopriamo che il Faraone Cheope, avendo bisogno di denaro (per costruire la propria piramide), manda la figlia a lavorare in una casa di piacere per accumularne. Ma il particolare più curioso è che questa fanciulla chiede ai clienti – oltre al compenso che lei devolve al padre – il dono di una pietra. Con queste pietre – secondo la testimonianza dei sacerdoti raccolta da Erodoto – fu costruita una delle famose piramidi che possiamo, ancor oggi, ammirare, perché anche la figlia del Faraone vorrebbe lasciare un ricordo di sé.

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Erodoto,  Le Storie  II  126

Cheope sarebbe giunto a tale perversità che, avendo bisogno di denaro, collocata la sua figlia in una casa di piacere, le avrebbe imposto di esigere una certa somma di denaro, che non si conosce, perché i sacerdoti non la precisarono.

Ma essa, oltre a farsi rilasciare quanto dal padre le era stato comandato, per conto suo pensò di lasciare anch’essa un ricordo; e a ciascuno di quelli che si intrattenevano con lei chiedeva che le facesse dono d’una pietra: con queste pietre, dicevano i sacerdoti, fu costruita quella delle tre piramidi che si erge nel mezzo, di fronte alla grande piramide, e i cui lati misurano un pletro e mezzo ciascuno.

     È vera questa storia? Oppure è una leggenda che si tramanda? Anche Erodoto sembra mettere le mani avanti sull’autenticità della storia, ma si domanda che cosa ci sia dietro – con che cosa coincida, a che cosa corrisponda – il racconto. Dove ci porta Erodoto con le sue coincidenze e le sue corrispondenze etiche? Dove ci conduce Erodoto con le sue “fantastiche allegorìe morali”? Erodoto ci vuole dire – vera o falsa che sia questa “storia” – che la costruzione delle piramidi ha un costo “umano” notevole: è forse una cosa “giusta” mandare a lavorare la propria figlia in un bordello? È un comportamento sbagliato qualunque sia il fine per cui si opera questa scelta. Le coincidenze e le corrispondenze etiche, in questo racconto, coincidono con la domanda principale, “fastidiosa” ma inevitabile, che Erodoto si pone: chi le ha costruite materialmente le piramidi? Chi materialmente – nella costruzione delle piramidi – mette a disposizione il proprio “corpo”, la propria “carne”? Quali operai e quanti e per quanto tempo ci hanno lavorato?  E quanto vengono pagati, se vengono pagati? E che cosa mangiano: rafani, cipolle, aglio? (è la dieta di Bertoldo). E che cosa bevono?  Chi gli porta l’acqua se non ci sono acquedotti? Frontino è un gran criticone ma non dice male.

     Questa “fastidiosa domanda” – la stessa che, in origine, si pone Erodoto – se la pongono con insistenza molti intellettuali del ’900. Bertolt Brecht (1898-1956) – drammaturgo, attore, regista, poeta, polemista e saggista – in una delle sue famose poesie liriche (perché destinate al canto, musicate da Kurt Weill) riprende il tema principale che Erodoto ha affrontato ai piedi delle piramidi. Questa lirica s’intitola: Domande di un operaio quando diventa un lettore, e figura nella raccolta Poesie di Svendeborg (1939). In questa ballata l’autore afferma che negli anni della scuola si sentono celebrare le imprese di re, principi e condottieri (Alessandro Magno, Cesare, Filippo II di Spagna, Federico II di Prussia), quasi che essi da soli abbiano compiuto imprese memorabili. Anche i poeti hanno sempre cantato i vincitori, i conquistatori e ignorato le masse di gente sulle quali i grandi hanno edificato la loro celebrità. Ma un operaio, un lavoratore (un trascinatore di massi) deve imparare a leggere – scrive Bertolt Brecht – perché allora potrà domandarsi: dove sono nei libri di storia le persone come me? Scrive Hanna Arendet a commento di questa ballata: «Ciò che indigna non è tanto la povertà, l’oppressione e lo sfruttamento, quanto il fatto che i poveri, gli oppressi, gli sfruttati non hanno mai potuto dire la loro, che la loro voce è stata irrevocabilmente soffocata, che sempre all’onta della sconfitta e della infelicità si è unito lo scherno dell’oblio». 

     Chi è Hanna Arendet? La incontreremo nei territori del ‘900.

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Bertolt Brecht, Domande di un operaio quando diventa un lettore

da Poesie di Svendeborg (1939)

Tebe dalle Sette Porte, chi la costruì? Ci sono i nomi dei re, dentro i libri.

Son stati i re a strascicarli, quei blocchi di pietra?

Babilonia, distrutta tante volte, chi altrettante la riedificò?

In quali case, di Lima lucente d’oro abitavano i costruttori?

Dove andarono, la sera che fu terminata la Grande Muraglia, i muratori?

Roma la grande è piena d’archi di trionfo. Su chi trionfarono i Cesari?

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     Questo stesso motivo ricorre in un’altra lirica intitolata Canzone della ruota.

LEGERE MULTUM….

Bertolt Brecht, Canzone della ruota  da Poesie di Svendeborg (1939)

Dei potenti della terra sono note le canzoni:

essi salgono e tramontano come le costellazioni.

Questo consola e si deve saperlo.

Ma per noi che ci tocca nutrirli non ci furono grosse sorprese.

Salgano o cadano: chi paga le spese?

     “Quante vicende, tante domande”: le stesse domande che si pone Erodoto. Troviamo i nomi dei Re, troviamo i nomi dei Faraoni dentro le “storie”, ma, per esempio, della figlia del Faraone Cheope, che si prostituisce per guadagnare soldi in modo che il padre possa portare a termine la costruzione della piramide, non si conosce neppure il nome! Eppure questa figlia (leggenda o non leggenda) ha contribuito materialmente, con il corpo, con la carne, ad edificare la gloria del padre. Non sono stati i Re, non sono stati i Faraoni a trascinarli, questi blocchi di pietra. Chi allora? Erodoto si pone la “fastidiosa” domanda un po’ prima di noi contemporanei, e risponde in modo sconcertante, da far ancora discutere. E come risponde Erodoto? Risponde registrando la voce dell’odio popolare contro Cheope, contro Chefren: «Per odio gli Egiziani non vogliono neanche nominare questi Re ma dicono che le Piramidi sono del pastore Filiti, che in quel periodo pascolava greggi in questi luoghi». Queste parole leggiamo nel libro II al capitolo 128.

LEGERE MULTUM….

Erodoto,  Le Storie  II  128

E considerano questi 106 anni come quelli in cui ogni sorta di malanni si riversò sugli Egiziani; e per un periodo così lungo i templi, che erano stati chiusi, non furono mai riaperti.

Per odio che hanno contro di loro, gli Egiziani non vogliono nemmeno nominare questi due re ma dicono che le piramidi sono del pastore Filiti, il quale allora faceva pascolare il gregge in questi luoghi.

     La risposta data da Erodoto è molto curiosa perché i popolani egiziani che confessano allo scrittore il loro odio verso i due Faraoni non sono i figli, i nipoti, i pronipoti dei “trascinatori di massi”: quelle piramidi sono state costruite venti secoli prima. Erodoto registra un odio che dura nel tempo in modo sorprendente. Le “guide egiziane” che accompagnano i gruppi di turisti a visitare le piramidi si dimostrano molto informate, molto colte e anche molto patriottiche, e sostengono che quegli onesti e devoti lavoratori egiziani del 2600 a.C. erano ben contenti di contribuire, trasportando massi giganteschi, alla immortalità del Sovrano. Però queste “guide turistiche” – almeno credo nella maggior parte dei casi – non hanno letto Erodoto. Questi crede che si debba dubitare fortemente del fatto che si possa essere felici a lavorare (con quel caldo…) per l’immortalità di un altro, sia pure il Faraone. E qui Erodoto, in anteprima di mezzo millennio, ci fa capire – per coincidenza e per corrispondenza – che cosa sia stato l’avvento del Cristianesimo. Con l’avvento del Cristianesimo si proclama la resurrezione per tutti, non solo per pochi Re, per pochi Faraoni, per pochi Potenti. Questa resurrezione è una rivoluzione egualitaria ed Erodoto intuisce questo concetto.

     Se riprendiamo il viaggio all’interno del II libro de Le Storie (di cui si consiglia la lettura) scopriamo che, al tempo di Erodoto, le piramidi non erano il più grande monumento d’Egitto. Il monumento più grande, l’opera più stupefacente che si trova in Egitto al tempo di Erodoto è il Labirinto: leggiamo che cosa ci racconta Erodoto.

LEGERE MULTUM….

Erodoto,  Le Storie  II  147 148

Finora ho esposto quello che dicono gli Egiziani soltanto; dirò ora quanto gli altri uomini e, d’accordo con loro, pure gli Egiziani affermano che è avvenuto in questo paese: a ciò si aggiungerà anche qualche particolare di quello che io stesso ho veduto.                            

 Riacquistata la libertà, dopo il regno del sacerdote di Efesto [bisogna leggere i capitoli precedenti per capire di che cosa si parla…], gli Egiziani (poiché essi mai potevano vivere se non avevano un re) crearono dodici re, dopo aver diviso l’Egitto intero in dodici dipartimenti.                       

Costoro, legatisi per mezzo di matrimoni, regnarono stabilendo queste norme di vita: non eliminarsi reciprocamente; non cercare di possedere uno più dell’altro; essere amici il più possibile. E la ragione per cui stabilirono queste leggi e vi si attenevano scrupolosamente, è questa: era stato loro predetto fin da principio, subito appena saliti al potere, che quello tra loro che avesse libato nel santuario di Efesto con una coppa di bronzo, avrebbe dominato su tutto l’Egitto: infatti essi solevano raccogliersi tutti insieme in tutti i santuari.

Stabilirono, poi, anche di lasciare un monumento a ricordo del comune dominio e, quando l’ebbero deciso, costruirono il Labirinto, che si trova un po’ sopra il lago Meri, press’a poco all’altezza di quella che è detta la “città dei coccodrilli” (Shodit, che più tardi divenne Arsinoe). L’ho visto io stesso ed è superiore a quanto si possa dire: poiché se si facesse un calcolo di tutte le costruzioni dei Greci e delle loro opere d’arte, apparirebbero certo di minore impegno e di meno grave spesa che non questo labirinto; eppure, il tempio di Efeso e quello di Samo (templi famosi, sacri ad Artemide a Efeso e ad Eracle a Samo) sono ben degni di essere ricordati.

Già le piramidi erano al disopra di ogni possibile descrizione e ognuna di esse degna di essere confrontata con molte e grandi opere greche, ma il Labirinto vince il confronto anche con le piramidi. In esso, infatti, vi sono dodici cortili coperti, con le porte di fronte l’una all’altra; sei rivolte a nord, sei aperte verso sud; e i cortili sono contigui, e un muro unico li recinge all’esterno.

Vi sono due ordini di stanze, parte sotterranee, parte sul livello del suolo sopra le prime: in numero di 3000; 1500 per ordine.

Le stanze superiori le abbiamo viste noi stessi passando da una all’altra e ne parliamo per averle visitate, ma di quelle sotterranee abbiamo solo informazioni per sentito dire; poiché quelli degli Egiziani che vi sovraintendono non hanno voluto assolutamente farcele vedere, dicendo che ci sono le tombe dei re che fin dall’inizio costruirono questo labirinto e dei coccodrilli sacri.

Così, delle sale che sono sotto terra diciamo solo quanto abbiamo sentito dire; ma le sale sopraelevate noi stessi abbiamo constatato che sono superiori a ogni umano lavoro. Infatti, il cammino per uscire dalle stanze che si attraversano, gli andirivieni che sono molto tortuosi per attraversare i cortili, ci davano motivo di straordinaria meraviglia, quando passavamo dal cortile alle sale e dalle sale nei portici; e poi dai portici in altre stanze e dalle stanze in altri cortili.

Il tetto di tutte queste costruzioni è di pietra, come anche i muri; questi, poi, sono coperti di figure incise; ogni cortile è circondato da colonne di pietre bianche, connesse tra loro alla perfezione. Vicino all’angolo dove ha termine il Labirinto, s’eleva una piramide alta quaranta orge, sulla quale sono scolpiti degli animali di grandi dimensioni; la via che porta a essa è stata scavata sotto terra.

     A cento chilometri dal Cairo c’è l’oasi di Al-Fayum, e a pochi passi c’è Coccodrillopoli, il cimitero dei coccodrilli sacri.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Se date un’occhiata, sull’ atlante, sulla “guida” o sulla rete, ad una carta dell’Egitto potete individuare questa località…

     Nell’oasi, oggi, si trova un malinconico cartello sul quale si può leggere: «Qui c’era il Labirinto, 305 metri per 244, costruito in pietra dal Faraone Amenemhat III, nel 2000 a.C.». Sembra che Erodoto non abbia visto nessun Labirinto, ma solo i resti di un antico palazzo: ha visto un po’ di pietre come possiamo vedere oggi noi in questo luogo. Perché Erodoto ha mentito?  C’è anche uno studio, un saggio del prof. Kimball Armayor che lo dimostra. Gli esperti affermano che ci si accorge subito quando Erodoto mente dal fatto che ripete con insistenza sospetta la formula: io vidi, io vidi, io vidi.

     Perché l’ha fatto? Perché intuisce – ci fanno sapere gli antichisti – che la differenza fra ciò che gli uomini fanno e ciò che pensano di fare, o di aver fatto, è estremamente sottile. Erodoto conosce bene le “storie” della civiltà cretese e sa che il Labirinto è un’idea mitica, è una fantastica allegorìa morale molto importante per la nostra cultura. Erodoto pensa già – anticipando le opere degli esperti contemporanei (come Umberto Eco per esempio) che la parola “storia” può indicare insieme “il resoconto delle cose accadute” e, contemporaneamente, “il racconto delle cose immaginate”. E questi, nelle nostre lingue, sono rimasti i due significati fondamentali della parola “storia”, nella quale possiamo trovare sempre la realtà indissolubilmente intrecciata con l’immaginazione.

     Nel testo di Erodoto – abbiamo detto – quelle che suscitano (e che hanno sempre suscitato) maggior attenzione sono le “storie fantastiche”, disseminate lungo tutta l’opera. Queste storie fantastiche – e noi lo sappiamo – sono state raccolte, elaborate e scritte da Erodoto sotto forma di “allegoria morale” perché, la “storia”, “allude” Erodoto, deve essere prima di tutto: “maestra di vita”. Inoltre le “storie fantastiche” di Erodoto sono tutte molto interessanti dal punto di vista della narrazione: sono già da considerarsi dei brevissimi romanzi storici e psicologici.

     A questo proposito – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – possiamo leggere la storia di “Policrate e del suo anello” nel libro III  39-43 e la storia di “Rampsìnito e del suo tesoro” nel libro II  121. Sono storie inventate ma vere in un senso profondo, proprio nel senso della psicologia del profondo. Il primo racconto fantastico de Le Storie di Erodoto è l’avventura di Gige che spia nella stanza da letto di Candaule, re di Sardi, e vede la sua bellissima moglie, nuda. Noi abbiamo già letto e commentato – prima delle vacanze – questo “breve romanzo” nel libro I  7-13. Questo racconto fantastico – ricordate? – è costituito da una scena primaria che è stata studiata con attenzione dal dottor Freud e da molti altri studiosi. Che cosa significa “scena primaria”? Il dottor Freud – a proposito del “racconto” di Gige (Libro I  7-13), ricordate? – risponde dicendo che il Re (Candaule) rappresenta il Padre e quella Regina nuda – che Gige è costretto a spiare di nascosto – rappresenta la moglie del Padre, desiderata nel profondo con un pesante senso di colpa. Il dottor Freud ha letto con molto interesse anche la storia di “Policrate e del suo anello” nel libro III  39-43 e la storia di “Rampsìnito e del suo tesoro” nel libro II  121.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Leggete voi – se volete – queste due “storie fantastiche”, queste due “allegorìe morali” e se, leggendo di Policrate (libro III  39-43), di Rampsìnito (libro II  121) – e anche di Gige – vi viene in mente qualche “pensiero”, qualche “allegorìa” o qualche storia (soprattutto autobiografica) non vi resta che scrivere: bastano quattro righe per esprimere un pensiero, un’allegorìa, una storia… 

     Per concludere questo itinerario dobbiamo dire che per Erodoto esiste uno stretto rapporto tra la “storia” e l’allegoria, e la metafora e il paragone e la parabola. E la parola “allegoria”, insieme alle parole ricerca, analisi, giudizio, allusione, ambiguità, vendetta, coincidenza, corrispondenza, va ad aggiungersi al catalogo che lo sguardo di Erodoto ci propone. Ma Erodoto non coltiva solo uno spirito immaginario (quando, per esempio, esagera nel descrivere il Labirinto) o uno spirito allegorico, molte cose Erodoto le vede davvero, ricorda molti fatti di cronaca (soprattutto di cronaca nera, che è quella che, da sempre, attira di più l’attenzione) e poi, da buon greco della sua epoca, Erodoto osserva, misura, valuta e fa i conti.

LEGERE MULTUM….

Erodoto,  Le Storie  II  149  150  151

Pur essendo così meraviglioso il Labirinto che ho descritto, meraviglia ancor maggiore suscita il lago che si chiama “lago di Meri” nelle cui vicinanze è stato costruito il Labirinto.

Il suo perimetro è di 3600 stadi, dato che misura 60 scheni, lunghezza pari a quella del fronte d’Egitto sul mare. Il lago si stende in lunghezza da nord a sud; la sua profondità al punto massimo è di 50 orge. Che si tratti d’un bacino artificiale e scavato lo rivela a prima vista, poiché press’a poco nel mezzo del lago si alzano due piramidi, che dall’acqua emergono cinquanta orge, sia l’una che l’altra; e altrettanto misura la parte che è stata costruita sotto il livello dell’acqua: sopra ciascuna delle due piramidi c’è un’enorme statua seduta in trono. Così le piramidi misurano in tutto cento orge; le cento orge corrispondono esattamente a uno stadio di sei pletri, dato che ciascuna orgia equivale a sei piedi o a quattro cubiti, ed essendo i piedi a loro volta pari a quattro palmi (il palmo misura circa 8 cm.) e i cubiti a sei palmi. L’acqua che si trova nel lago non è sorgiva (in quel luogo, infatti, il paese è terribilmente arido), ma vi è stata introdotta dal Nilo per mezzo d’un canale: per sei mesi essa affluisce nel lago; per altri sei mesi defluisce di nuovo nel Nilo. Quando l’acqua esce dal lago, per quei sei mesi la pesca del pesce frutta al tesoro reale un talento d’argento ogni giorno; quando, invece, vi entra, frutta appena venti mine (un terzo di talento, dato che la mina corrispondeva a 100 dracme).

Mi dicevano gli abitanti del paese, tra l’altro, che questo lago sbocca nella Sirti libica per una via sotterranea che si affonda a occidente verso l’interno del continente, lungo la catena montuosa che sovrasta Menfi. Ma poiché di tale scavo non vedevo in alcun luogo la terra che se n’era tratta, e d’altra parte la cosa mi stava molto a cuore, chiesi a quelli che abitavano nelle immediate vicinanze del lago, dove mai fosse il materiale ricavato dallo scavo. Essi mi spiegarono dov’era stato portato e non durarono fatica a persuadermene, poiché io sapevo, per averlo sentito dire, che qualche cosa di simile era avvenuto anche a Ninive, città degli Assiri. Là, infatti, dei ladri avevano progettato di rubare i tesori di Sardanapalo, re di Ninive, che erano ingenti e custoditi in depositi sotterranei. A cominciare, dunque, dalle loro case, si diedero a scavare sotto terra, calcolando la distanza fino al palazzo reale e il materiale che proveniva dallo scavo lo portavano, appena scendeva la notte, nel fiume Tigri, che scorre accanto a Ninive: fino a che portarono a compimento quello che volevano. La stessa cosa ho sentito che è avvenuta quando si scavò il lago in Egitto, tranne che il trasporto veniva effettuato non di notte, ma durante il giorno: a mano a mano che procedevano nello scavo, gli Egiziani portavano la terra nel Nilo, il quale, ricevendola, la doveva poi disperdere.

A questo modo, si racconta, fu scavato il lago testé descritto.

I dodici re governarono, dunque, nel rispetto della giustizia. Ma dopo alquanto tempo, com’ebbero sacrificato nel santuario di Efesto

     Erodoto vede molte cose reali, ricorda molti fatti di cronaca (la cronaca nera, da sempre, attira l’attenzione) ed Erodoto osserva, misura, valuta e fa i conti, da buon greco della sua epoca. E in quale “epoca” vive Erodoto, di quale “epoca” è portavoce? L’epoca di Erodoto è stata chiamata l’Età assiale della storia e la prossima settimana – in compagnia di Erodoto – ci occuperemo di questo tema. Che cos’è l’Età assiale della storia e in che rapporto sta Erodoto con quest’epoca?

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Lezione del: 
Venerdì, Gennaio 13, 2006