Prof. Giuseppe Nibbi Lo sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale 9-10-11 novembre 2011
NEL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO IMPERIALE
C’È JANUS, IL DIO DELLA IANUA, DELLA PORTA E DELLA CHIAVE E DEL BASTONE ...
Abbiamo iniziato questo viaggio di studio quattro settimane fa sul territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale” e l’argomento su cui stiamo riflettendo riguarda il fenomeno dell’integrazione tra la cultura greca e la cultura latina.
Sappiamo che l’Ellenismo, nell’ottica della didattica della lettura e della scrittura [secondo la natura del nostro viaggio che avviene nell’ambito di un Percorso di alfabetizzazione culturale e funzionale], è lo scenario delle più grandi operazioni di integrazione culturale che siano mai state fatte nel corso della Storia del Pensiero Umano: prima c’è stata l’integrazione tra la cultura greca e le culture orientali [persiana, indiana, cinese: il viaggio compiuto due anni], poi c’è stata l’integrazione tra la cultura greca e la cultura beritica [i Libri della Bibbia: il viaggio dello scorso anno] e dopo l’integrazione tra la cultura greca e la cultura latina [il viaggio che stiamo compiendo]. Sappiamo anche che il processo di integrazione tra la cultura greca e la cultura latina è caratterizzato da un complesso e dialettico rapporto di amore e odio, e in questo contesto problematico emerge, per prima, la figura di Marco Porcio Catone detto il Censore.
Catone il Censore [come sapete] è un cittadino della Repubblica romana che vive nel II secolo a.C., in un momento delicato della storia di Roma, nel periodo di passaggio tra l’antica Repubblica [caratterizzato da un’economia tipicamente agricola] al periodo della cosiddetta nuova Repubblica [caratterizzato dall’economia mercantile]. La scorsa settimana abbiamo imparato che Catone il Censore è il primo scrittore in prosa della Letteratura latina e di lui ci rimangono i frammenti di tre opere significative: il trattato De agri cultura, una raccolta di ottanta Orazioni e un compendio di carattere storico intitolato Origini. Questa terza opera di Catone il Censore su cui abbiamo, già la scorsa settimana, puntato la nostra attenzione, è quella che c’interessa maggiormente.
Origini era una grande composizione in sette libri: nel primo libro Catone raccontava la storia di Roma sotto i re, nel secondo e nel terzo libro raccontava le origini delle città italiche – da qui viene il nome dell’opera, Origini – e cioè narrava la storia primitiva dei Liguri, degli Etruschi, dei Galli, dei Veneti, degli Insubri e degli Italioti della Magna Grecia. Nel quarto libro narrava la prima guerra punica, nel quinto la seconda e negli ultimi due, il sesto e il settimo, trattava delle vicende riguardanti le altre guerre condotte dai Romani sino al 151 a.C.. Catone il Censore [abbiamo detto] descrive gli avvenimenti evitando di scrivere i nomi dei comandanti dell’esercito ed evita di elogiare le famiglie aristocratiche da cui provenivano, preferisce segnalare soltanto la magistratura che essi stavano ricoprendo: per lui prima vengono le Istituzioni. Fino a questo momento le storie romane erano state scritte da annalisti ellenistici in lingua greca i quali [ce ne occuperemo strada facendo] non risparmiavano elogi ai vincitori romani per ricevere qualcosa in cambio, Catone il Censore è il primo storico latino che – utilizzando una prosa vivace e polemica – esalti, senza voler fare né l’erudito né l’adulatore, la stirpe italica che combatte contro i Cartaginesi e contro i Greci.
Perché l’opera di Catone il Censore intitolata Origini, della quale rimane solo un certo numero di frammenti, c’interessa in modo particolare? Quest’opera c’interessa in modo particolare perché nei frammenti che ci sono rimasti troviamo tracce di racconti mitologici e il tema dei miti romani è molto interessante per i problemi filologici che questo tema propone e per gli interrogativi che fa sorgere; infatti, le studiose e gli studiosi di filologia da secoli si domandano: sono esistiti davvero i miti romani oppure i miti romani sono miti greci riciclati? Che siano miti greci riciclati è ormai appurato ma il riciclaggio [che è un’operazione complessa] come è avvenuto: c’è stata una ricopiatura di storie, una riproposizione di figure e di contenuti con la semplice traduzione dal greco al latino oppure questa operazione ha riguardato più l’aspetto formale nel senso che sono stati utilizzati generi letterari tipicamente greci per comporre storie mitiche contenenti elementi autoctoni [originari] romani? C’è poi chi afferma che i Romani erano troppo pratici, troppo duri, troppo presi dalla guerra e dalla conquista della terra per perdere tempo con i miti, c’è chi sostiene che i Romani non ebbero miti propri ma hanno creato in un tempo successivo racconti sulle loro origini [ab origine] e poi – da persone pratiche e concrete quali erano – li hanno trasformati in storia.
Qui emerge una grande questione culturale – che viene studiata tuttora –, una questione che possiamo sintetizzare con due interrogativi intorno ai quali questo argomento ruota: perché i Greci hanno da sempre ben accettato di essere stati “aborigeni” – facciamo attenzione a questa parola-chiave “aborigeno” che deriva dall’espressione latina “ab origine” – e hanno, quindi, riflettuto sui contenuti, anche abominevoli, degli albori della loro cultura [ricordate il Percorso che abbiamo compiuto nel territorio della tragedia?] con tutta la potenza della loro immaginazione, consapevoli del fatto che “le cose raccontate non sono mai avvenute in quanto tali ma continuano sempre a ripetersi in modo simile” e perché invece i Romani hanno rimosso l’idea di essere stati “aborigeni” accampando, soprattutto in età imperiale, la pretesa di essere stati da sempre fatti e finiti, quadrati ed equilibrati? Intorno a queste domande sono stati scritti centinaia di saggi e sono nate molte correnti di pensiero in proposito; una cosa è certa: i Greci hanno elaborato una cultura che ha teso a trasformare il lontano ricordo degli avvenimenti primordiali in miti mentre i Romani hanno elaborato una cultura che ha teso a trasformare i racconti mitici, quasi sempre mutuati da altre tradizioni, in storia.
Catone il Censore è un personaggio complesso e l’incontro con lui risulta per noi molto utile per capire proprio il livello di complessità del tema che stiamo trattando, una complessità che si presenta sotto forma di alcuni paradossi: che significato ha questa affermazione?
Catone il Censore è anti-ellenista e, alla metà del II secolo a.C. combatte l’invadenza della filosofia e della retorica greca a Roma e questo lo sappiamo, lo abbiamo studiato. Catone il Censore è pure schierato contro il patriziato romano, contro il partito dei mercanti anche perché i membri più autorevoli di questo raggruppamento sociale che si sta imponendo sono filo-ellenistici e cominciano a considerare la cultura ellenica come propria; è in questa fase, alla metà del II secolo a.C. [nel momento di passaggio tra l’antica e la nuova Repubblica], che l’aristocrazia mercantile romana – forte del fatto di essere vittoriosa – rimuove l’idea di aver avuto degli antenati latini che sono stati degli “aborigeni”: per il partito dei mercanti non è più il tempo di dedicarsi né alla divinazione né di dedicarsi all’agricoltura. Catone il Censore invece rivendica l’esistenza di una mitologia romana, di un mondo delle origini ancorato alla cultura agricola latina, un mondo “aborigeno” in possesso di una sua peculiarità sebbene influenzato dalla sapienza orfico-dionisiaca che già dal VI secolo a.C., con le migrazioni dall’Ellade, aveva condizionato tutte le popolazioni che si affacciavano sul Mar Mediterraneo: quindi, paradossalmente, Catone il Censore mentre da una parte fa professione di anti-ellenismo dall’altra ragiona proprio come i Greci sul tema della ricerca delle proprie origini.
REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Che cosa vi fa venire in mente il termine “aborigeno [ab origine]”?…
Scrivete quattro righe in proposito…
Come facciamo a sapere che Catone il Censore rivendica l’esistenza di una mitologia romana, di un mondo delle origini ancorato alla cultura agricola latina, un modo “aborigeno” in possesso di una sua peculiarità sebbene influenzato dalla sapienza orfico-dionisiaca? Possiamo fare chiarezza su questo tema in virtù del testo dei frammenti che possediamo dell’opera intitolata Origini. Prima di leggere il testo di uno dei frammenti delle Origini di Catone il Censore dobbiamo fare su di esso una riflessione di carattere filologico perché siamo sul sentiero di un Percorso di didattica della lettura e della scrittura.
Catone il Censore nel testo di uno dei frammenti della sua opera intitolata Origini afferma che la civiltà romana ha un inizio ben preciso. All’inizio [ab origine] della civiltà romana ci sono degli antenati che hanno fondato due arti molto importanti tra loro collegate: la divinazione e l’agricoltura. Queste due arti Catone il Censore le chiama “primordia” e questa parola è composta dal termine “primus” che significa “primo” e dal verbo “ordiri”. Catone il Censore per dire “iniziare” utilizza il termine “ordiri” che significa “avviare una successione ordinata, una fila” e come ogni “fila” che si rispetti – vuole affermare Catone il Censore – anche quella degli eventi deve avere un inizio capace di prefigurare e assecondare quanto si sarebbe disposto via via in successione, fino al risultato finale. Quindi all’inizio – secondo Catone – non c’è nessun diluvio, nessun cataclisma che intervenga a interrompere quella serie ordinata di cose legate all’arte della divinizzazione e dell’agricoltura.
Il verbo latino “ordiri” significa anche “tessere, lavorare un ordito” e significa anche “cominciare a parlare, a raccontare”, ed ecco che allora i “primordia [divinazione e agricoltura]” appaiono come l’avvio di un grande “textus”, un bel tessuto, un lungo racconto, l’eco della voce di un dio.
REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quanti tipi di tessuto conoscete e quanti tipi di tessuto sapete riconoscere?…
Fate l’elenco, metteteli in fila [ordiri] per iscritto i tipi di tessuto che conoscete e che riconoscete senza guardare l’etichetta…
Qual è il dio che Catone il Censore cita e pone alle origini della civiltà romana? Se leggiamo il frammento che abbiamo in REPERTORIO … conosceremo anche questo particolare.
LEGERE MULTUM….
Marco Porcio Catone, Origini
Fu all’inizio [ab origine], sebbene in un tempo indefinito e lontano, che i nostri antenati cominciarono a comunicare con gli dèi immortali e impararono già in quei primi tempi il linguaggio divino per averne sempre la massima cura perché questo linguaggio era alla base di una relazione speciale, regolata sul beneficio degli uni e il contraccambio degli altri in una catena di reciprocità. Fu all’inizio [ab origine] che ai nostri antenati venne donato da un dio il modello da realizzare per vivere al meglio su questa terra, vale a dire il modello di una persona perbene destinata ad abitare nei campi e ad averne la massima cura e rispetto. Fu così che i nostri antenati dettero inizio [ordiri] alle due arti più importanti [primordia]: la divinizzazione e l’agricoltura. All’inizio, prima ancora che mari e terre e cieli, dessero forma al mondo c’era già un dio di nome Janus che sorvegliava tutto quanto passava …
Catone il Censore scrive che Janus [in italiano Giano] è il dio delle origini secondo la tradizione religiosa dei Romani.
L’antica religione romana, quella evocata da Catone il Censore – non perché lui fosse particolarmente religioso ma per motivi di stabilità e di ordine sociale –, ha la caratteristica di essere semplice e pratica – di guardare in basso – e rispecchia l’indole di questo popolo. L’antica religione romana risente dell’influsso della cultura orfico-dionisiaca di provenienza ellenica e gli dèi della cultura latina arcaica non hanno sembianze umane, ma si manifestano nei fenomeni della Natura, non hanno le stesse qualità morali o gli stessi vizi degli uomini: queste caratteristiche le avranno invece gli dèi olimpici i quali sono divinità nuove che avranno la loro sede in città [nelle acropoli delle polis] mentre le più antiche divinità orfiche – così come le arcaiche divinità latine – avevano la loro sede in campagna in ambiente naturale. Il pantheon greco degli dèi olimpici prende forma in un momento successivo rispetto alla cultura orfica e verrà poi romanizzato e, al tempo dell’Impero, gli dèi dell’Olimpo prenderanno nomi latini e si trasferiranno a Roma e questo è uno dei segni dell’avvenuta integrazione tra cultura greca e cultura latina.
Le antiche divinità romane, così come le arcaiche divinità orfiche, non avevano un aspetto antropomorfo [una completa forma umana] ma erano forze misteriose, indeterminate, che presiedevano all’agricoltura, alla guerra, alla casa e allo Stato. La divinità principale – ce lo ha comunicato poco fa Catone il Censore – è Janus [Giano] e l’etimologia del suo nome ci conduce su un terreno di grande praticità: il nome Janus deriva da “ianua, la porta”. A Janus, in quanto porta d’ingresso nel tempo e nello spazio, è dedicato januarius [gennaio]: il primo mese dell’anno. Quando sentite il nome di Giano voi, certamente, pensate subito ad un attributo che lo accompagna: Giano “bifronte”: difatti questa divinità viene raffigurata con due facce contrapposte per indicare i due atti dell’uscita e dell’entrata. Il tempio di Giano rimaneva aperto in tempo di guerra perché si pensava [questo pensiero è comune a tutti i popoli dell’Età assiale della storia] che il dio uscisse dalla città insieme con l’esercito e, viceversa, le porte del tempio di Giano venivano chiuse in tempo di pace e quindi per dire “ è tempo di pace” i poeti latini useranno la metafora: “è tempo in cui le porte del tempio di Giano son chiuse”.
A proposito di poeti latini, siccome noi non possediamo il testo dell’opera di Catone il Censore dove lo scrittore, probabilmente, descriveva le caratteristiche del dio Janus, per saperne di più su questa figura mitica dobbiamo imbastire una ricerca filologica indagando dentro al patrimonio della Letteratura latina e investigando nei testi delle opere che nascono nel contesto e sotto l’influsso della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale”: così si chiama il territorio che stiamo attraversando.
Il nome del dio Janus ci porta davanti ad un paesaggio intellettuale dove ci sta aspettando, come ogni anno da un quarto di secolo a questa parte, un nostro collaboratore affezionato che viene considerato, da molte studiose e da molti studiosi di filologia, il più importante poeta della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale”. Noi non vogliamo creare delle graduatorie, è lui stesso che ce lo chiede, specialmente da quando – dopo aver fatto l’ultima esperienza della sua vita in esilio lontano da Roma – ha cominciato a coltivare l’umiltà, una virtù che non conosceva.
Il personaggio di cui stiamo parlando – lo avete già capito – si chiama Publio Ovidio Nasone [43 a.C.-17 d.C.] il quale è vissuto due secoli dopo rispetto a Catone il Censore in un tempo in cui la Repubblica ha cessato di esistere e lo Stato romano, con Cesare Ottaviano Augusto, si è costituito in Impero. In questi due secoli – gli ultimi due secoli prima della nascita di Cristo – il processo di integrazione tra la cultura greca e la cultura latina si è completato e dobbiamo affermare che la cultura latina ne ha tratto vantaggio: Catone il Censore – con la sua mentalità nazionalistica – teme che la cultura greca possa scardinare le Tradizioni della civiltà latina; invece è successo che la cultura greca ha funzionato come elemento corroborante per la cultura, la filosofia e la Letteratura latina e l’opera di Ovidio è un elemento illuminante da questo punto di vista e adesso ce ne renderemo conto e, finalmente, in questo viaggio incontreremo Ovidio nel suo habitat naturale quello della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale” e diremo delle cose su di lui [il paesaggio intellettuale dove abita Ovidio è vastissimo] che non abbiamo mai detto prima. E allora procediamo con ordine e torniamo alla figura di Janus nel momento in cui Catone il Censore, nel II secolo a.C., ce la presenta nell’opera intitolata Origini. La nostra riflessione non può che iniziare con un interrogativo.
Il dio Janus [Giano] è un’antica figura mitica tipicamente latina oppure è un prodotto di contaminazione culturale? Anche Catone il Censore sa che il dio Janus è una figura che rispecchia sì il carattere degli “aborigeni” latini ma risente soprattutto dell’influsso ellenico e, quindi, possiede l’impronta della cultura orfica: difatti la figura mitica di Janus [il dio della “ianua”, della porta] nasce – secondo la visione del mondo che hanno maturato gli antichi latini – da un’interpretazione della stessa figura di Orfeo, perché i racconti mitici che vedono come protagonista il personaggio di Orfeo, dal VI secolo a.C., si sono diffusi in tutto il bacino del Mediterraneo – soprattutto quella straordinaria allegoria che è la favola di Orfeo ed Euridice – e questi racconti hanno contribuito a contaminare le Tradizioni dei popoli italici dando luogo a narrazioni contenenti nuove forme allegoriche.
Qual è il nesso tra la figura di Orfeo e la figura del dio Janus? La relazione tra Orfeo e Janus sta nel fatto che entrambi questi personaggi – e forse lo avete capito per conto vostro – sovrintendono all’azione dell’entrare e dell’uscire.
REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Entrare e uscire sono due azioni che a volte mettono alla prova…
Scrivete quattro righe in proposito…
È abbastanza facile capire la relazione culturale che esiste tra la figura ellenica di Orfeo e quella latina del dio Janus ma Ovidio – per questo ci ha dato appuntamento –ci può essere d’aiuto anche in questo caso.
La descrizione più poetica del mito di Orfeo – la cui conoscenza ci permette di capire il nesso che esiste tra Orfeo e Giano – la troviamo proprio nell’opera più famosa di Ovidio, Le Metamorfosi, un’opera in versi [quante volte l’abbiamo incontrata! Ora la citiamo appena], un’opera scritta in latino ma con un titolo in greco [“metamorfosi” in greco significa “trasformazioni”]. Quest’opera – come sapete – narra una sorta di storia del cosmo, dal caos originario fino all’esaltazione della grandezza di Roma attraverso la sequenza di circa 250 favole che narrano episodi di trasformazione contenuti nella mitologia greca: c’è chi – o per sfuggire agli dèi o per beneficio degli dèi – si trasforma da essere umano in una pianta o in un animale o in una statua o in un’altra diversa forma inanimata; sono famosissime le trasformazioni di Zeus in chiave adulterina.
Le Metamorfosi è uno di quei capolavori che ha determinato il completamento dell’integrazione tra la cultura greca e la cultura latina e nel famoso Libro X de Le Metamorfosi Ovidio ci racconta, in perfetta forma letteraria, la favola di Orfeo ed Euridice. Tutti conoscono il contenuto di questa favola: ve la ricordate? Orfeo è un sublime cantautore, è il figlio del dio Apollo e della musa Calliope [Calliope in greco significa “dalla bella voce”]. Cantando le sue poesie Orfeo fa innamorare la bellissima Euridice la quale però ben presto muore e allora Orfeo compie un’azione straordinaria: riesce ad entrare in un territorio precluso ai viventi perché Orfeo è uno che sa entrare. Orfeo, incantando i guardiani infernali e affascinando la regina dell’Oltretomba con il suo canto, riesce a varcare la porta dell’Ade e potrebbe riportare la sua Euridice alla vita terrena se lui – mentre lei lo segue sulla via del ritorno nel mondo dei vivi – non cedesse alla tentazione di voltarsi per guardarla, infrangendo un divieto impostogli da Persefone la regina degl’Inferi, e così Orfeo, a causa di questa infrazione, perde definitivamente l’amata, che viene risucchiata nell’Ade, ed è costretto a uscire da solo.
La capacità che ha Orfeo di entrare e di uscire persino dalla porta degli Inferi è motivo d’ispirazione per chi ha creato la figura di Janus, il dio latino della porta. La figura del dio Janus, inoltre, viene anche pensata in modo che non possa cadere nel grave errore che ha commesso Orfeo: Janus, infatti, sarà bifronte e saprà guardare indietro [nel passato] e avanti [nel futuro]. Dobbiamo aggiungere, sulla scia di questa nostra riflessione, il fatto che Janus sa ben guardare avanti e sa ben guardare indietro, mentre Orfeo sa, soprattutto, guardare in alto.
Quindi, nel momento in cui affermiamo che le figure di Orfeo e di Janus hanno tratti comuni, dobbiamo necessariamente mettere in evidenza che esiste anche una fondamentale differenza tra l’antica cultura ellenica di carattere orfico e l’antica cultura latina detta “ianuaria [è chiaro che questo termine deriva da Janus]”: Orfeo guarda in alto, guarda il cielo ed è il depositario del concetto dell’immortalità dell’anima e dell’idea della risurrezione spirituale dell’essere umano mentre Janus guarda in basso, guarda la terra e osserva da entrambi i lati [quello dell’entrare e quello dell’uscire] i cicli della Natura che regolano materialmente la tutta vita agreste.
Ma noi non abbiamo fissato un appuntamento con Ovidio perché ci parli del mito di Orfeo ma proprio perché ci faccia conoscere meglio – sulla scia del tema che stiamo trattando – chi è il dio Janus. Catone il Censore, alla metà del II secolo a.C., temeva che le tradizioni romane si sarebbero perse a causa dell’invadenza della cultura greca, in realtà invece la cultura greca – con l’ausilio delle sue forme letterarie – ha contribuito a far sì che gli autori latini valorizzassero le antiche tradizioni romane.
Come è avvenuta questa operazione culturale di mantenimento e di valorizzazione di quelle che Catone il Censore chiamava antiche Tradizioni? Agli albori delle antiche Tradizioni romane c’è la cosiddetta “cultura ianuaria” e noi sappiamo che questa dicitura fa riferimento al nome del dio Janus. Che cosa ha da comunicarci – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – Ovidio sulla “cultura ianuaria”?
Prima di rispondere a questa domanda dobbiamo rinfrescarci la memoria sulla vita e sull’opera di questo personaggio per poter ribadire un concetto cardine del tema che stiamo affrontando: Catone il Censore [che abbiamo imparato a conoscere in queste settimane] e Publio Ovidio Nasone rappresentano il punto di partenza e quello di arrivo della fase più significativa del processo d’integrazione tra la cultura greca e la cultura latina. Nei due secoli [gli ultimi due secoli dell’era prima di Cristo, i secoli del primo Ellenismo] che intercorrono tra le opere di Catone il Censore e le opere di Ovidio si determinano tutta una serie di situazioni – storiche, politiche, culturali – che portano al passaggio da un atteggiamento in cui prevale ancora la diffidenza verso i Greci ad una posizione di completa fiducia e di identificazione con i valori della cultura ellenica. Noi abbiamo conosciuto Catone il Censore e con lui abbiamo respirato l’aria effervescente che tira a Roma alla metà del II secolo a.C. – naturalmente ci dobbiamo tornare in questa Roma in cui nasce la nuova Repubblica di stampo mercantile perché abbiamo incontrato solo Catone il Censore che rappresenta l’ideologia agraria anti-ellenistica ma dobbiamo studiare anche l’altra faccia della medaglia, il primo movimento filo-ellenistico romano –; ora però facciamo una visita a Roma all’inizio del primo millennio in compagnia di Ovidio in modo da determinare i confini di uno spazio che contiene un periodo [gli ultimi due secoli prima dell’era cristiana] molto creativo per la Cultura e per la Letteratura latina.
Molte e molti di voi già sanno che Publio Ovidio Nasone è nato a Sulmona – e la Scuola ha consigliato più di una volta di fare una visita a questa città abruzzese dove si conserva la memoria dello scrittore – in una ricca famiglia appartenente al ceto equestre. A dodici anni Ovidio, insieme al fratello, viene inviato a Roma perché possa frequentare le più importanti Scuole di retorica del tempo [non si parla più di cacciare i rètori dalla città] e Ovidio frequenta le due Scuole di retorica più rinomate: quella di Arellio Fusco e quella di Porcio Latrone e poi, come tutti i giovani di buona famiglia dell’epoca, va a completare la sua formazione ad Atene e in seguito – sempre per motivi di studio – viaggia e visita l’Asia Minore, l’Egitto e la Sicilia. Quando torna a Roma – secondo il volere dei suoi genitori – Ovidio inizia la carriera pubblica ma la politica non fa per lui e si limita a ricoprire magistrature minori senza nessuna ambizione: è un mondo corrotto che lo disgusta e Ovidio, invece, ama la Letteratura, ama la poesia e vuole dedicarsi interamente agli studi filologici. Ovidio fin da giovanissimo si dedica a comporre versi e si mette ben presto in evidenza per la facilità con cui riesce a farlo: come era di moda allora – una moda che arriva da Atene e da Alessandria – i suoi versi li recita in pubblico e, in breve tempo, riscuote un grande successo. Per il suo talento Ovidio viene subito invitato ad entrare nel circolo letterario più importante di Roma quello di Marco Valerio Messalla Corvino.
REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Questo personaggio, Marco Valerio Messalla Corvino, merita di essere conosciuto: utilizzando l’enciclopedia e la rete potete fare una ricerca in proposito…
Nel circolo letterario di Messalla Corvino, Ovidio frequenta i migliori poeti di questo periodo: Orazio, Properzio, Tibullo e conosce, anche se solo di sfuggita, Virgilio. La prima opera che Ovidio compone è una tragedia che s’intitola Medea – il riferimento alla cultura greca ormai è esplicito – ma il testo di quest’opera è andato perduto. Poi la pubblicazione delle sue prime elegie amorose, intitolate Amores e Heroides, gli procura un successo strepitoso: Ovidio a trent’anni diventa il poeta prediletto degli ambienti mondani ed è l’interprete della vita elegante e disimpegnata della città perché, con la fine delle cosiddette “guerre civili” e con tutto il potere nelle mani di Augusto, Roma può godere di un periodo di pace e la porta del tempio di Giano viene solennemente chiusa dall’Imperatore con una imponente cerimonia della quale anche Ovidio è protagonista come cantore dell’armonia, della concordia, della prosperità e dell’amore erotico. Difatti, poco dopo, Ovidio pubblica uno dei suoi capolavori Ars amandi [L’arte di amare] un’opera erotica che fa scandalo ma che rivela tutta la sensibilità e il senso dell’umorismo che Ovidio possiede.
Alla morte di Messalla Corvino, nel 3 d.C., qualcosa cambia in Ovidio perché la sua produzione letteraria si trasforma completamente e nascono due opere di poesia meno frivola e molto più impegnata: Le Metamorfosi e i Fasti. In questo periodo Ovidio si sposa con una signora che si chiama Fabia con la quale aveva da tempo una buona relazione affettiva.
Voi già sapete [ma ci può essere chi non lo sa o chi ha dimenticato] che, da un giorno all’altro, la vita di Ovidio cambia radicalmente nell’8 d.C. quando Augusto, d’autorità, lo spedisce in esilio a Tomi, presso l’odierna città di Costanza in Romania sulla costa del Mar Nero non distante dalla foce del Danubio. Tomi è un posto inospitale – siamo sul confine orientale dell’impero, il più pericoloso – lontanissimo da Roma e dalla vita agiata che Ovidio conduceva nella capitale. I motivi di questo provvedimento – che era un soggiorno obbligato più che un vero e proprio esilio perché non c’è mai stato un processo – non sono mai stati accertati con precisione: Ovidio nelle sue Lettere da Tomi attribuisce la causa a “duo crimina, carmen et error [due colpe, una poesia e un errore]”.
Si è ipotizzato per molto tempo che il carmen [il componimento poetico] incriminato potesse essere Ars amandi ma questa ipotesi non è sostenibile perché quest’opera al tempo dell’esilio era già stata pubblicata da molti anni, se mai è proprio Le Metamorfosi a contenere un concetto inviso ad Augusto che vorrebbe cristallizzare tutto mentre tutto si trasforma: può darsi che Augusto abbia letto in quest’opera una satira contro di lui, e lui era molto suscettibile e molto geloso del grande successo pubblico di Ovidio che nei sondaggi veniva preferito all’imperatore dalla maggioranza dei Romani.
Mentre invece per quanto riguarda l’error, cioè l’errore che è costato ad Ovidio l’allontanamento da Roma, si pensa che il poeta sia stato coinvolto in un grave scandalo sul quale è stato fatto calare il silenzio: la congiura contro Augusto organizzata da sua nipote Giulia Minore che era una ragazzina inviperita contro il nonno il quale aveva già esiliato sull’isola di Ventotene, nel 2 a.C., sua madre Giulia Maggiore la quale si era ribellata contro il padre.
REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Sull’isola di Ventotene – chiamata Pandataria dai Romani e di proprietà di Augusto – ci sono i resti della villa in cui fu reclusa Giulia Maggiore, fate una visita all’isola di Ventotene con una guida del Lazio e sulla rete…
Anche Giulia Minore – come Ovidio e un certo numero di persone – viene allontanata da Roma e morirà nel 28 d.C. in esilio, ma di questo affare non sappiamo nulla: ufficialmente Giulia Maggiore e Giulia Minore vengono accusate di “immoralità” ma su Ovidio non pesano accuse.
A Roma i libri di Ovidio vengono tolti dalle biblioteche, e a Tomi Ovidio scrive ancora delle opere importanti: i Tristia, le Lettere dal Ponto e il poemetto intitolato Ibis che abbiamo studiato nel Percorso di due anni fa. Tutti i tentativi che la moglie Fabia fa per far ottenere la grazia al marito vengono respinti da Augusto e anche il successore Tiberio non toglie il divieto: Ovidio muore in esilio a Tomi, probabilmente, nel 17 d.C..
REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Molte e molti di voi hanno letto l’illuminante romanzo intitolato “Dio è nato in esilio” scritto da Vintila Horia: se non lo avete ancora letto cercatelo in biblioteca e leggetelo o rileggetelo…
Abbiamo incontrato Ovidio perché vogliamo osservare una delle sue opere che, in questi anni, non abbiamo ancora avuto occasione di studiare e ora è venuto il momento perché il contenuto di quest’opera ci serve per riflettere sul tema che stiamo trattando.
Abbiamo detto che agli albori delle antiche Tradizioni romane c’è la cosiddetta “cultura ianuaria” e noi sappiamo che questa dicitura fa riferimento al nome del dio Janus. Che cosa ha da comunicarci – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – Ovidio sulla “cultura ianuaria”? Da Catone il Censore non abbiamo potuto sapere nulla in proposito perché – come abbiamo potuto constatare – della sua opera intitolata Origines ci sono giunti solo dei frammenti. Catone il Censore si sbagliava quando temeva che le antiche Tradizioni romane sarebbero state dimenticate a causa dell’invadenza della cultura greca perché, in realtà, il processo di integrazione intellettuale tra il mondo greco e il mondo latino – sorretto da un cospicuo investimento in intelligenza – ha contribuito a rinforzare la memoria.
L’opera di Ovidio che questa sera dobbiamo studiare s’intitola Fasti. Prima di occuparci del testo dei Fasti è obbligatorio – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – fare il punto sulla cronologia delle opere di Ovidio.
La produzione poetica di Ovidio è molto vasta e ci è giunta quasi completa: le studiose e gli studiosi di filologia l’hanno ripartita in quattro periodi.
Del primo periodo, che è stato chiamato “giovanile” [dal 25 al 13 a.C.], è gli Amores un’opera composta di 49 elegie, circa 4500 versi dedicati a una donna che si chiama Corinna, poi le Heroides [le Eroine] un’opera composta da 21 lettere d’amore – sono quasi sempre amori sfortunati – di donne famose ai loro amanti [abbiamo letto qualche anno fa la lettera di Elena a Paride che la pianta in asso].
Il secondo periodo [dal 13 a.C. al 3 d.C.], chiamato “delle opere erotiche”, comprende Ars amandi, 2300 versi sui modi per accendere l’amore, poi i trattatelli Rimedia amoris sui modi per liberarsi dall’amore, e Medicamina faciei femineae [Medicamenti del volto femminile] della quale restano solo 50 distici: quest’opera tratta della cosmesi per rendere più bello il volto femminile.
Del terzo periodo [dal 3 all’8 d.C.], chiamato “della maturità”, è il poema Le Metamorfosi in 15 libri per complessivi dodicimila esametri e il poema Fasti che avrebbe dovuto essere composto da 12 libri ma Ovidio s’interruppe al sesto.
Nel quarto periodo [dall’8 al 17 d.C.], quello “dell’esilio”, Ovidio compone i Tristia [Tristezze], 50 elegie per complessivi 3500 versi in cinque libri, le Epistulae ex Ponto [Lettere dal Mar Nero] 46 composizioni indirizzate alla moglie e agli amici in 4 libri e il poemetto Ibis in 322 distici che sono un elenco molto raffinato di invettive e di imprecazioni contro un nemico non meglio identificato che abita a Roma e crede di avere un potere assoluto: noi ne abbiamo letto un frammento nel corso del nostro primo viaggio sul territorio dell’Ellenismo.
REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Se il titolo di qualcuna di queste opere vi incuriosisce particolarmente potete andare in biblioteca richiederne il testo e poi lo potete sfogliare e leggerne qualche riga qua e là…
I libri sono “oggetti” e, in un primo momento si guardano, si toccano, si annusano, poi, leggendone qualche riga qua e là si assaggiano e si ascoltano...
L’opera di Ovidio su cui adesso puntiamo l’attenzione s’intitola Fasti e il contenuto di quest’opera ci serve per riflettere sul tema che stiamo trattando. Il poema intitolato Fasti, che Ovidio scrive tra il 3 e l’8 d.C., è una specie di calendario poetico in distici elegiaci che riporta le feste e le cerimonie romane distribuite mese per mese e analizzate spiegandone le origini, l’etimologia, gli usi e i riti corrispondenti e, quindi, nel testo dei Fasti troviamo anche la descrizione del dio Janus e di altre figure mitiche interessanti.
È stato lo stesso Ovidio a suggerire ad Augusto che il recupero dei valori della religione e delle antiche tradizioni romane sarebbe stato utile a consolidare il suo potere politico. Ovidio inserisce nel suo racconto – sullo stile de Le Metamorfosi – vivaci episodi narrativi e descrittivi facendo grande sfoggio di erudizione tanto sui temi mitici appartenenti alla cultura ellenistico-alessandrina quanto sui temi ritenuti patrimonio dell’antica tradizione latina. I libri che Ovidio ha composto riguardano i primi sei mesi dell’anno, ma non ha portato a compimento il progetto iniziale che prevedeva dodici libri perché le vicende dolorose dell’esilio lo costringono, nell’anno 8 d.C., a interrompere il suo lavoro.
Il testo dei Fasti è molto significativo perché Ovidio rivisita l’antica mitologia latina con uno spirito nuovo – molto probabilmente conosce il testo delle Origini di Catone il Censore, un testo che per lui è ormai arcaico –. Ovidio si esprime secondo i modi dell’elegia ellenistica e la sua ispirazione è completamente di natura intellettuale per cui imprime spessore letterario all’antica tradizione latina rimuovendo con cura qualsiasi riferimento di carattere religioso o nazionalistico; Ovidio riflette in termini filosofici e con spirito ecumenico: per Ovidio fare cultura significa innescare procedimenti di integrazione tra la sapienza ellenistica, che lui considera un modello, e la civiltà latina che lui sente come propria e che lui vuole valorizzare sottraendola al provincialismo in po’ xenofobo di impronta catoniana.
REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
La parola “fasto” che al plurale – come viene utilizzata da Ovidio – richiama: imprese gloriose, azioni eroiche, avvenimenti memorabili, cronache indimenticabili…
Il termine “fasto” al singolare fa riferimento alle parole: abbondanza, ricchezza, grandezza, sfarzo, splendore, lusso, magnificenza, suntuosità, ostentazione, opulenza…
Voi quale di queste parole mettereste per prima accanto alla parola “fasto”?…
Scrivetela …
Che cosa scrive Ovidio nel primo Libro dei Fasti a proposito del dio Janus? Il testo di Ovidio ci permette di capire quale visione delle origini [ab origine] avessero gli “aborigeni” latini. È chiaro che Ovidio con la sua mirabile sintesi poetica e con la sua significativa riflessione filosofica e filologica trasfigura e introduce i contenuti delle antiche Tradizioni latine dentro le forme letterarie di stampo ellenistico vere e proprie della mitologia.
Leggiamo dal primo Libro dei Fasti questo brano: facciamo conoscenza con Janus.
LEGERE MULTUM….
Publio Ovidio Nasone, Fasti
All’inizio lui c’era già, prima ancora che mari e terre e cieli figurassero il mondo.
Anche lui senza volto, come quel caos confuso e senza misura che pesava inerte
nel nulla, e aveva forma di sfera. Poi, quando acqua e terra e fuoco non vollero
più stare insieme e iniziarono a essere il mare, la terra e il cielo,
parti distinte del cosmo, allora tornò a un aspetto finalmente degno di un dio.
Eppure gli rimase qualcosa di strano, un piccolo segno della dismessa sfericità.
Non sembrava avere né davanti né dietro, sulla testa mostrava due volti,
posti l’uno nel verso contrario dell’altro. Dove un dio avrebbe avuto normalmente
la nuca, lui aveva un altro viso. Questo fatto non era motivo di confusione,
al contrario era segno che lui vigilava sullo spazio nel quale regnava, perché
poteva vedere sia davanti che dietro, e adesso che il mondo si era fatto ordinato
il suo sguardo fissava lo spazio: non sarebbe tornato a confondersi ancora.
Restava immobile, fermo, a fare il guardiano dei punti più a rischio, dove
la distinzione poteva sfuggire, dove il qui aveva inizio e il là terminava.
Era il dio di tutti i «passaggi» e si chiamava Janus, come iani sono detti i passaggi
e ianua è la porta. Così il dio Janus sorvegliava tutto quanto passava, da qui a là,
da davanti a dietro, da fuori a dentro, e viceversa. Reggendo in mano, davanti
alla porta, un bastone di viandante e una chiave, sarà sempre il dio dell’uscita
e dell’entrata, dell’andare e venire, di chi partirà e di chi troverà la via del ritorno.
Per questo quando un esercito romano uscirà per fare la guerra le porte del tempio
di Janus staranno aperte finché i soldati, salvi e trionfanti, non saranno rientrati a casa.
«A casa»: così si dirà per indicare lo stato di pace. Ma ad uscire ed entrare
non sono solo persone e cose. Janus vedeva entrare la bella stagione, uscire l’inverno,
entrare un anno nuovo e uscire il giorno al tramonto. Il tempo andava e veniva,
in silenzio, un flusso continuo. Il dio guardava passare anche i mesi, senza che
si fermassero mai, da bruma a bruma, da solstizio d’inverno a solstizio d’inverno.
E adesso che c’era il cielo, che il sole andava e tornava, che passavano i giorni
e le notti, lui vigilava sul tempo nel quale regnava. Diceva: «Il vecchio anno finisce qui
e proprio qui il nuovo comincia» e il tempo acquistava un corso ordinato.
E così il mese che segue alla bruma, quello in cui un sole nuovo inizia il cammino,
si chiamerà per sempre Ianuarius. Nel suo primo giorno, alle Kalendae, tutti
si scambieranno gli auguri, per buon auspicio, e offriranno al dio miele, datteri e fichi secchi,
perché la dolcezza passi a tutte le cose, sperando che il tempo a venire p
ossa essere dolce come al suo inizio. Il dio, però, non stava li soltanto a guardare,
a sorvegliare il cammino del tempo, ne aveva anche la conoscenza, più a lungo
e prima di tutti, perché riusciva a vedere tutto il passato e tutto il futuro, quanto era trascorso
e quanto doveva ancora arrivare. Agli esseri umani questa visione non sarà data.
Per loro le cose funzioneranno in modo più complicato. Ciascun essere umano, infatti,
nel suo cammino lungo la vita - perché anche gli umani, ahinoi, verranno
ed andranno - si lascerà man mano il tempo passato dietro le spalle e avrà quello futuro davanti.
All’avvenire potrà andare incontro, oppure potrà stare fermo
ad aspettare che arrivi, questione di indole e di coraggio. Ma quando si tratterà
di volerlo conoscere sarà come averlo di dietro, nascosto: non potrà vederlo
e non saprà che cosa lo aspetta. Il futuro gli starà «dietro», alle spalle. E quanto
al passato, benché gli stia davanti agli occhi, l’essere umano non avrà lunga vista,
né sempre buona. A saperne di più a volte lo aiuteranno i sogni, facendo vedere avvenimenti futuri
o svelando circostanze passate e sfuggite allo sguardo, altre volte gli dèi,
inviando segni e messaggi, sotto forme diverse, attraverso voci, visioni,
voli di uccelli, oracoli o profezie. Ma sogni e divinità parleranno un linguaggio particolare,
ambiguo se non oscuro: per decifrarlo ci vorranno mediatori speciali,
interpreti esperti, arguti indovini o sacerdoti sapienti. Il dio Janus, invece, grazie
ai due volti, poteva vedere e sapere quello che c’era «dietro», per lui era nei fatti come averlo «davanti».
Per questo lo conosceva. Per questo era signore dello spazio
e del tempo. Quando il mondo ebbe inizio e Janus tornò ad avere l’aspetto di un dio, poco a poco,
si narra, apparvero ovunque le fonti, i laghi, i fiumi, le valli e i monti coperti di boschi.
Apparvero pesci nell’acqua, animali sui prati e nelle foreste,
uccelli nell’aria. Solo in ultimo fece il suo ingresso l’essere umano. Forse fu
in quel momento che Janus si guardò intorno e scelse la sua dimora, una collina coperta allora di querce e farnetti.
«Da quassù, - si disse, - potrò godermi ogni cosa, basta solo aspettare».
E da quel colle - Gianicolo lo chiameranno - si dispose
a guardare l’inizio del tempo e dello spazio di Roma. …
Credo non ci sia molto da dire di fronte alla bravura di Ovidio e persino Catone il Censore, se potesse, dovrebbe ammettere che Ovidio è bravo non solo perché è romano ma soprattutto perché ha studiato ad Atene e ha fatto tesoro di tutto ciò che, in campo letterario, nel corso di due secoli, è stato prodotto dal movimento della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale”. In questo brano ci sono molti elementi che dovremmo mettere in evidenza, come per esempio il fatto che Ovidio smonti l’idea che la “divinazione” – l’interpretazione dei segni divini da parte di figure specializzate – possa avere un valore di conoscenza della realtà terrena e ultraterrena: il vero sapiente è il poeta, il vero teologo è lo scrivano più che il sacerdote, e questo tema lo conosciamo bene perché abbiamo – anche nel viaggio delle scorso anno scolastico – frequentato la cultura beritica [biblica] che, in proposito, è assai esplicativa.
Puntiamo adesso l’attenzione su due frammenti.
Il primo frammento è in funzione della continuazione della riflessione sul tema dei miti latini delle origini: sul “mondo di Janus” e questa sera abbiamo imparato che Janus, il dio della porta, è in origine [ab origene] per i Romani. Janus è la “porta” che sta tra il mondo terreno e il mondo ultraterreno e si trova a fare da testimone – lui non è un “creatore” – in quel primigenio avvenimento mitico che chiamiamo la “creazione” e, a questo proposito Ovidio ha scritto: «Quando il mondo ebbe inizio e Janus tornò ad avere l’aspetto di un dio, poco a poco, si narra, apparvero ovunque le fonti, i laghi, i fiumi, le valli e i monti coperti di boschi». Come si presenta – secondo l’antica tradizione latina – il “mondo di Janus”? Questo mondo si presenta soprattutto in forma “acquatica [prima le fonti, i laghi e i fiumi]” e, prossimamente, lo osserveremo ancora questo mondo – che è mitologicamente animato – con l’ausilio delle opere di Catone il Censore, di Ovidio e di altri autori che, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, incontreremo strada facendo.
Il secondo frammento tratto dal brano dei Fasti di Ovidio che abbiamo letto e sul quale ora vogliamo riflettere è in funzione dell’incontro con la Letteratura contemporanea che non dobbiamo perdere mai di vista. Abbiamo letto: «Così il dio Janus sorvegliava tutto quanto passava, da qui a là, da davanti a dietro, da fuori a dentro, e viceversa. Reggendo in mano, davanti alla porta, un bastone di viandante e una chiave» Questa immagine mitica della figura di Janus, accompagnata da tre oggetti simbolici molto significativi: la porta, il bastone e la chiave, è stata anche utilizzata dalla iconografia del Cristianesimo quando ha dovuto rivestire di simboli i suoi personaggi principali, difatti, in relazione a questi oggetti, non è difficile pensare alle figure di Paolo e di Pietro, visto che abbiamo studiato da poco la Letteratura ellenistica di stampo evangelico e su questo territorio continueremo a fare incursioni.
La figura mitica del dio Janus è legata soprattutto a tre parole-chiave: la porta, il bastone e la chiave. Queste tre parole-chiave appartenenti al glossario della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale” hanno la caratteristica di mettere in risalto la materialità e la praticità tipica dei Romani ma daranno anche vita a efficaci metafore ideali e ci portano ad incontrare uno scrittore contemporaneo, molto noto, che ci ha dato appuntamento sul sentiero di questo itinerario: André Gide [1869-1951]. Guardando le date tra parentesi si osserva che quest’anno ricorre anche il sessantesimo anniversario della morte di questo scrittore e la Scuola ha anche il compito di salvaguardare la memoria, ma, a parte le commemorazioni, c’è un motivo didattico per cui incontriamo André Gide.
Intanto precisiamo che André Gide è nato a Parigi nel 1869 in una famiglia di religione protestante per cui possiede fin da bambino una conoscenza, soprattutto in chiave critica, della Letteratura biblica “utilizzata – sono parole di Gide – più per condizionare che per liberare”. Esordisce giovanissimo in letteratura aderendo alla corrente del simbolismo ma Parigi, alla fine dell’800, è un grande laboratorio culturale, un teatro di grandi polemiche artistiche e ideologiche all’interno del quale il giovane André acquisisce molte competenze intellettuali e soprattutto una grande squisitezza stilistica nello scrivere. La sua prima opera importante viene pubblicata nel 1897 e s’intitola I nutrimenti terrestri, poi pubblica L’immoralista [1902], La porta stretta [1909], I sotterranei del Vaticano [1914], La sinfonia pastorale [1919], I falsari [1925], Se il grano non muore [1926], Diario [1936-1945-1950]. Tutte le opere di André Gide – il quale nei suoi romanzi sperimenta anche nuove tecniche di espressione narrativa – andrebbero lette perché contengono un’analisi spietata, presentata sotto forma di confessione da parte dei personaggi dei suoi romanzi, che mette in evidenza tutta l’inquietudine che pervade il mondo della cultura europea nel momento di passaggio tra l’800 e il 900, un’analisi dolorosa che mette in evidenza l’ansietà di cui è vittima l’individuo a causa dell’ipocrisia del puritanesimo religioso, a causa dell’amore che viene vincolato sempre ai sensi di colpa, a causa dei nazionalismi esasperati che impediscono alla persona di impegnarsi in politica in senso umanitaristico e internazionalista. André Gide nel 1947 ha ricevuto il premio Nobel per la Letteratura ed è morto a Parigi nel febbraio del 1951, sessant’anni fa.
REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
La Scuola consiglia di iniziare a leggere le opere di André Gide dal romanzo che s’intitola “La porta stretta” [1909] perché nel testo di quest’opera le parole-chiave “porta, chiave e bastone” fanno da filo conduttore…
Questo romanzo lo trovate in biblioteca…
Ecco perché abbiamo scelto di puntare l’attenzione sul testo di questo romanzo: perché in esso le tre parole-chiave su cui abbiamo riflettuto: il bastone, la porta e la chiave – le prime parole significative del glossario del movimento della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale” – giocano un ruolo fondamentale, sono, infatti, tre simboli che possono essere attribuiti, di volta in volta, ai tre protagonisti di questo romanzo, un terzetto [un triangolo] formato da un uomo, Jérôme, e due donne, due sorelle, Alissa e Juliette, cugine di Jérôme. Jérôme è innamorato fin dall’infanzia della prima delle sue due cugine, Alissa, che vive auto-reclusa in un ardente fervore religioso, pur non essendo per nulla insensibile al fascino di Jérôme, ma preferisce sottomettere i suoi desideri piuttosto che sottrarsi alle ricorrenti crisi di esaltazione mistica che la travolgono e la inducono a rinunciare. Quando poi Alissa scopre che la sua giovane sorella Juliette è fortemente attratta dal cugino Jérôme subisce un grave trauma per cui medita dei gesti autolesionistici ma poi decide, eroicamente, di farsi da parte ma questo risulta essere comunque un gesto autolesionista.
Gide ne La porta stretta mette in scena un affascinante triangolo di esitazioni amorose e il bello è che – per ironia – lo scrittore ci fa riflettere sul fatto che Jérôme, Alissa e Juliette, mentre fanno a gara ad essere fedeli per non ferirsi reciprocamente, riescono davvero ad essere infedeli a se stessi: sono tutti e tre una “porta”, un oggetto dal quale preferiscono uscite piuttosto che entrare; sono tutti e tre un “bastone”, un oggetto che preferiscono usare per appoggiarsi alla sua rigidezza piuttosto che utilizzarlo per camminare e sono una “chiave”, un oggetto che si passano tra loro trasformato in croce, in lettera, in citazione evangelica e, alla fine, il bastone non regge, la chiave non apre e la porta – la porta materiale che dà il nome al dio Janus – rimane chiusa.
Ma c’è anche un’altra porta, simbolo nel simbolo, ed è l’evangelica “porta stretta”. È sufficiente – si domanda Gide – evocare l’evangelica “porta stretta” come se fosse un miraggio che rappresenta qualcosa di più dell’amore umano? Ma – si domanda André Gide – per passare attraverso l’evangelica “porta stretta” che dovremmo scegliere perché porta sulla via della salvezza è davvero necessario chiudere la porta all’amore umano? Alissa se lo impone questo miraggio e muore consunta dal dolore: si spezza così l’implacabile trama di seduzioni e di repulse.
Leggiamo alcune pagine da La porta stretta:
LEGERE MULTUM….
André Gide, La porta stretta
Una staccionata nuova chiudeva il cortile. Il cane, sentendomi passare, abbaiò. Più avanti, dove il viale finiva, svoltai a sinistra incontrando nuovamente il muro del giardino, e stavo per arrivare al punto del faggeto parallelo al viale da cui provenivo quando, passando davanti alla porticina dell’orto, mi venne all’improvviso l’idea di entrare in giardino di lì. La porta era chiusa, ma il chiavistello interno opponeva solo una debole resistenza che avrei vinto con una spallata …In quel momento sentii un rumore di passi; mi nascosi in una rientranza del muro.
Non potevo vedere chi usciva dal giardino; ma udii, sentii che era Alissa. Fece tre passi avanti e chiamò debolmente: - Jérôme, sei tu? …
Il cuore mi batteva all’impazzata, si fermò: dalla mia gola non usciva alcun suono; lei ripeté più forte: - Sei tu, Jérôme?
... continua la lettura ...
Molto probabilmente Catone il Censore, di fronte ad un personaggio femminile come Alissa, si sarebbe trovato a disagio lui che nelle donne – non solo nelle donne ma anche negli uomini – apprezza soprattutto la capacità di stare in silenzio, di non parlare a sproposito.
Abbiamo iniziato questo itinerario leggendo e riflettendo su un frammento tratto dall’opera Origini di Catone il Censore e ora, terminiamo il percorso di questa sera leggendo un altro frammento di quest’opera – sul quale torneremo a riflettere nel corso del prossimo itinerario – dedicato ad un personaggio mitico che si chiama Lara e anche Tacita: si tratta di una Ninfa o di una Linfa.
LEGERE MULTUM….
Marco Porcio Catone, Origini
Tacita vuol dire «che fa tacere». La Ninfa Lara è diventata una dea di nome Tacita che è stata sempre invocata da chi vuole comportarsi da persona perbene, visto che a Roma essere di poche parole è da considerarsi una grande virtù, per uomini e donne. «Parla per ultimo, taci per primo», afferma un noto precetto. In origine Tacita difendeva tutte le persone vittime della loro eccessiva loquacità, soprattutto le donne, sempre inclini, si sa, a parlar troppo e anche male. La storia di Lara, d’altronde, ha insegnato che le donne riescono a stare zitte solo se si strappa loro la lingua. La muta dea del silenzio aveva e ha ancora il potere di proteggere dalle parole degli altri, cucendo labbra di maldicenti, bloccando lingue di nemici pettegoli. Finire nella bocca degli altri è sempre stato per noi Romani un pericolo serio: si tratta di una questione di pubblica reputazione, di prestigio sociale e di onore. …
Il mondo di Janus – il mondo dei miti latini delle origini – è popolato di creature acquatiche come Ondina [ve la ricordate Ondina? L’abbiamo incontrata nelle settimane precedenti] e anche Lara – la quale diventa la dea Tacita mediante una storia di metamorfosi che ci racconta Ovidio nei Fasti – è una Linfa o Ninfa dell’acqua: qual è la sua storia e perché su questa storia dobbiamo riflettere? E chi sono le Ninfe o Linfe che abitano il mondo acquitrinoso di Janus?
A questi e ad altri interrogativi – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – cercheremo di rispondere la prossima settimana perché l’Alfabetizzazione culturale e funzionale è un bene comune [come il silenzio, non il silenzio ottenuto strappando le lingue!] e l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona, per questo la Scuola è qui.
Accorrete numerose e numerosi pensando che se vogliamo andare veloci, forse, è utile andare da soli ma se vogliamo andare lontano è bene andare tutti insieme: il viaggio – nel mitico mondo di Janus, il dio della porta, del bastone e della chiave – continua…