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NEL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO IMPERIALE C’È L’IDEA CHE: «NULLA DI CIÒ CHE È UMANO POSSA ESSERE ESTRANEO ALL’ESSERE UMANO» ...

Lezione N.: 
13

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale   1-2-3  febbraio 2012

NEL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO IMPERIALE

C’È L’IDEA CHE: «NULLA DI CIÒ CHE È UMANO POSSA ESSERE ESTRANEO ALL’ESSERE UMANO» ...

     Stiamo attraversando [sotto la neve] il territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale” e, strada facendo in questi mesi, abbiamo preso contatto e abbiamo osservato due grandi paesaggi intellettuali, e stiamo studiando e riflettendo sugli argomenti in essi contenuti.

     Il primo paesaggio è costituito da uno spesso strato leggendario, antico e misterioso, che, come ben sapete, è stato chiamato il “mondo di Janus” o lo spazio della “cultura ianuaria”. Questo spazio è costituito da elementi autoctoni frutto della cultura dei popoli aborigeni che, nel corso dell’Età assiale, più di 2500 anni fa, abitavano la valle del Tevere e da elementi di importazione che arrivano dalla cultura orfico-dionisiaca di origine ellenica propagatisi in tutta l’area mediterranea attraverso le migrazioni: il mitico “mondo di Janus” è lo spazio più arcaico in cui avviene l’integrazione tra la cultura latina e la cultura greca.

     Il secondo paesaggio intellettuale con cui abbiamo preso contatto, e che stiamo ancora studiando, riguarda il primo importante fenomeno con cui ha inizio la Letteratura latina: il genere letterario con cui la Letteratura latina ha ufficialmente inizio è il teatro. E, a questo proposito, abbiamo incontrato tre importanti personaggi, tre famosi autori di teatro: Plauto, Stazio e Terenzio. E abbiamo affermato, in modo metaforico, che l’opera di questi tre personaggi – Tito Maccio Plauto, Cecilio Stazio e Publio Terenzio Afro – porta la “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale” a venir fuori dall’acquitrino del “mitico mondo di Janus” e a collocarsi su un territorio più elevato da dove la “cultura ianuaria [aborigena]” può essere osservata e interpretata.

     Sappiamo che nel corso dei secoli la critica letteraria ha discusso a lungo per stabilire chi fosse il più grande tra Plauto, Stazio e Terenzio. Si sono formate, a questo proposito, differenti correnti di pensiero ma a noi – che percorriamo le strade dell’Alfabetizzazione culturale e funzionale – non interessa fare le graduatorie perché da ciascuno di questi personaggi abbiamo ereditato qualcosa di utile e di bello ed è giusto che ne facciamo tesoro.

     La scorsa settimana abbiamo capito che il teatro a Roma, tra il III e il II secolo a.C., da avvenimento popolare che viene rappresentato sulle piazze spesso in mezzo al frastuono del mercato, diventa un fenomeno elitario, un evento di nicchia e questo fatto dipende anche dall’influsso della nuova commedia greca che propone un teatro più raffinato negli intrecci, nella caratterizzazione dei personaggi e nell’uso della lingua. I testi teatrali diventano più impegnati: la contaminazione culturale prevede si faccia sempre più riferimento a investimenti in intelligenza più sofisticati e le allusioni mitiche, satiriche, nei confronti del “mondo di Janus”, nel quale domina la prevaricazione, assumono una valenza di carattere politico e diventano vere e proprie strutture narrative. Abbiamo anche capito, la scorsa settimana, che significato abbia questa affermazione incontrando Terenzio. Terenzio vuole costruire una simmetria scenica che favorisca maggiormente la riflessione e, quindi, con Terenzio, ad un’azione teatrale movimentata – come è quella di Plauto – ne subentra una più statica: la commedia, che si era già trasformata con Cecilio Stazio, con Terenzio cambia forma e diventa un genere più pensoso, più malinconico dove l’ironia è di natura drammatica. Questo fa sì che il teatro, da semplice spettacolo popolare, diventa un intrattenimento d’elite con meno doppi sensi, con pochissime espressioni scurrili, e il meccanismo dell’allusione nei confronti dei temi politici e sociali più scottanti viene, quindi, ad intrecciarsi con la stessa struttura narrativa.

     Il tema spinoso [come la pianta del biancospino che fiorisce copiosa nel “mondo di Janus”, e che, sotto forma di corona, cinge il capo delle spose romane] della “questione femminile” – che emerge, in principio, dal mitico “mondo di Janus” – continua ad essere dominante anche nelle opere di Terenzio ed entra decisamente nella narrazione senza doppi sensi [come quelli di Stazio] o giochi di parole [come quelli di Plauto]: in quasi tutte le commedie di Terenzio, abbiamo detto una settimana fa, lo stupro – che nella società romana del tempo è quasi considerato come se fosse uno strumento di seduzione secondo lo stampo mitico ereditato dal “mondo di Janus” [sono un dio e vado a caccia di ninfe] – viene raccontato con un’ironia di natura drammatica che, pur stimolando il sorriso, lo fa apparire come un gesto da condannare che inficia anche l’eventuale successiva azione di pacificazione riparatrice tra l’uomo e la donna coinvolti. Abbiamo fatto un esempio leggendo un frammento tratto dalla commedia intitolata L’Eunuco, vi ricordate? In questa commedia si racconta che il giovane Cherea s’innamora della bellissima Panfila, che è una schiava che viene tenuta segregata, affidata all’etera Taide e alla serva Pizia – poi si scoprirà invece che Panfila è una libera cittadina – e per poterla avere, prima di altri, Cherea penetra nella casa di Taide travestito da eunuco, con uno stratagemma, e la “seduce” usandole violenza. La vicenda si conclude col matrimonio riparatore dei due, ma Terenzio fa riflettere gli spettatori sul fatto che questa relazione, inficiata dalla violenza, non ha un buon inizio: il tema dello stupro presentato, ambiguamente, come se fosse uno strumento di seduzione [ti violento e poi ti concedo il matrimonio riparatore] è stato forse archiviato o si presenta ancora [per giunta, senza matrimonio riparatore ma con conseguenze ancor più gravi] come un argomento d’attualità?

     Abbiamo detto che, per il suo ingegno e per la sua cultura, Terenzio – ex giovanissimo schiavo cartaginese – a Roma, dopo essere stato educato e affrancato dal suo padrone di cui ha preso il nome, entra subito a far parte del ceto intellettuale della città diventando amico soprattutto di Gaio Lelio e di Scipione l’Emiliano, che sono i fondatori del primo importante Circolo culturale romano. Che cos’è il Circolo degli Scipioni e perché viene fondato?

     Diciamo subito che il Circolo degli Scipioni viene fondato, anche e soprattutto, come strumento nel corso della lotta per il potere che, dal II secolo a.C., investe le Istituzioni della Repubblica romana la quale – come sappiamo – sta cambiando pelle: da Nazione unitaria fondata su un’economia prettamente agraria [Catone il Censore – come punto di riferimento del partito agrario – ci ha spiegato bene qualche mese fa questo aspetto dell’antica Repubblica] sta diventando uno Stato plurinazionale dove comincia a dominare l’economia mercantile. Il tema che riguarda il “Circolo degli Scipioni” trova la sua collocazione in un paesaggio culturale dove emergono molti argomenti che non possono sfuggire alla nostra attenzione: cerchiamo, quindi, di procedere con ordine.

     La conquista del bacino del Mediterraneo diffonde ulteriormente la conoscenza della cultura greca nella classe più colta della società romana – la classe intellettuale nasce in seno alla borghesia mercantile che comincia a mandare i suoi rampolli a studiare ad Atene – e ci si rende conto, a Roma, che la cultura greca non è più rappresentata dall’antico mondo mitico di natura orfico-dionisiaca che ha condizionato nei secoli precedenti la “cultura ianuaria” su cui si è fondata l’antica civiltà latina di stampo agrario. La conferma di ciò avviene con l’arrivo a Roma di due personaggi: lo storico greco Polibio – che abbiamo evocato quasi all’inizio del nostro viaggio dicendo che lo avremmo incontrato strada facendo e fra poco lo incontreremo – e il filosofo greco Panezio, che abbiamo già incontrato nei nostri viaggi sul territorio dell’Ellenismo e che questa sera rincontreremo. L’arrivo a Roma dello storico greco Polibio, anche lui come ostaggio dopo la guerra di conquista dell’Ellade e, in seguito, del filosofo Panezio di Rodi è un fatto determinante, perché vivono entrambi in stretta familiarità nella casa degli Scipioni creando le condizioni per una vera e propria rivoluzione culturale a Roma.

     Scipione l’Emiliano, Gaio Lelio, Gaio Lucilio, Rutilio Rufo e altri formano un gruppo culturale filo-ellenico che si struttura in Circolo con sede nell’ampia casa degli Scipioni. Già sappiamo che a questo Circolo si oppone fermamente Catone il Censore il quale – e abbiamo già studiato il suo pensiero – è contrario a ogni innovazione in difesa della severa tradizione di stampo agrario degli antenati: il pensiero di Catone il Censore si può sintetizzare nella parola-chiave “fidelitas [fedeltà]” che è diventata, nel tempo, l’emblema di tutti i conservatorismi.

     Con questa annotazione – abbiamo detto la scorsa settimana – siamo ritornate e siamo ritornati al punto da dove eravamo partiti alcuni mesi fa quando [ricordate?] abbiamo detto: “Adesso facciamo qualche passo indietro per studiare le origini della Letteratura latina”, ora questo itinerario lo abbiamo completato e siamo ancora una volta nel II secolo a.C. dove, a Roma, in Senato e nella società, si fronteggiano tre raggruppamenti politici: il “partito degli agrari” di cui Catone il Censore è il portavoce, il “movimento dei mercanti illuminati” che fa riferimento al Circolo degli Scipioni e il concentramento eterogeneo delle famiglie dei cosiddetti “mercanti spregiudicati [simplices mercatores]” che si ritrovano uniti quando devono difendere una parola-chiave che si presenta piuttosto come una parola d’ordine: “lucrum” che significa “profitto”. Diciamo subito che sono questi mercanti spregiudicati che, dal II secolo a.C., importano dall’Asia a Roma – a scopo di lucro – i cosiddetti “spettacoli circensi” che cominciano ad occupare tutte le piazze [da prima con semplici recinti provvisori, poi verranno costruite delle enormi arene] e a scalzare il teatro: al popolo piacciono molto questi spettacoli che prevedono l’uso di saltimbanchi ma anche la lotta con e tra gli animali e, meraviglia delle meraviglie, i duelli tra gladiatori. Passa molto facilmente tra la gente ignorante lo slogan che il teatro è inutile finzione mentre lo spettacolo circense – dove scorre il sangue e la violenza è vera – rappresenta semplicemente o spregiudicatamente [in latino le due parole si equivalgono] la realtà.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Molte sono le arene romane che – in Europa e in tutto il bacino del Mediterraneo – sono rimaste a testimonianza degli “spettacoli circensi”...

Avete visitato qualcuna di queste arene?...  

Scrivete quattro righe in proposito...   

     Il programma del Circolo degli Scipioni realizza la necessità di ampliare il modo di pensare e di modificare la mentalità romana attraverso la cultura greca e attraverso i valori di quelle civiltà che hanno prodotto quel grande movimento intellettuale che è l’Ellenismo. Se per i “mercanti spregiudicati [simplices mercatores]” la parola d’ordine è “lucrum [profitto]”, se per Catone il Censore la parola-chiave è “fidelitas [fedeltà]”, nel Circolo degli Scipioni prende forma un concetto che si riassume nel termine “humanitas”.

     Sappiamo che anche Terenzio frequenta il Circolo degli Scipioni e viene invitato a far emergere nelle sue commedie il concetto significativo dell’humanitas che è legato ad un valore che la cultura greca chiama “paideia paideia”, un termine che possiamo tradurre con le parole “educazione, istruzione, formazione intellettuale” perché è l’educazione, l’istruzione, la formazione intellettuale che rende gli individui degli “esseri umani”. Questa parola-chiave, “humanitas”, inizialmente serve per mitigare il concetto di “imperium” [come dire: dovremmo comandare con indulgenza e con magnanimità, ma il condizionale è d’obbligo] poi, gradualmente acquisterà una sua autonomia fino a diventare uno dei termini trainanti di tutta la cultura dell’età di mezzo e, a suo tempo, studieremo questa trafila che rende la parola “humanitas” una delle più significative della Storia del Pensiero Umano. Adesso il concetto di “humanitas” lo stiamo vedendo all’atto della sua origine e questo momento originario lo dobbiamo mettere a fuoco in modo più preciso, ancora con la collaborazione dell’opera di Terenzio.

     I personaggi delle commedie di Terenzio vengono presentati secondo le regole della verosimiglianza psicologica e spesso vengono analizzati nel loro carattere con umana partecipazione: Terenzio tende a conferire delicatezza, sensibilità morale e tratti di grande lealtà a certi suoi personaggi. La tolleranza, la comprensione reciproca, l’approfondimento dei rapporti umani, che certi personaggi di Terenzio rivelano, non solo aderiscono al modello greco di Menandro, ma corrispondono soprattutto a quella misura di “humanitas” elaborata nell’ambiente ellenizzante del Circolo degli Scipioni.

     Il concetto di “humanitas”, dal punto di vista letterario, si sintetizza per la prima volta in modo esplicito in un celebre verso della commedia di Terenzio intitolata Il punitore di se stesso. Il protagonista della commedia è il vecchio Menedemo, che si auto-punisce con una dura vita da contadino per aver spinto il figlio Clinia ad arruolarsi come soldato mercenario, non approvando il suo amore per la bella ma povera Antìfila. L’autopunizione del vecchio nasce da un senso di colpa e ha il valore del voto fatto perché il figlio sopravviva alla guerra. Clinia difatti ritorna sano e salvo e può così sposare la fanciulla amata che è riconosciuta come figlia da Cremete, un amico di Menedemo [anche qui c’è il racconto di uno stupro]. Intrecciata a questa narrazione c’è anche la storia d’amore esemplare del figlio di Cremete per la cortigiana Bacchide.

     Ma quello che c’interessa di questa commedia è il momento in cui Terenzio fa dire ad uno dei personaggi questa battuta: «Homo sum, humani nihil a me alienum puto [Io sono un essere umano, e nulla di ciò che è umano ritengo a me estraneo]». Questo verso di letteratura teatrale è diventato famoso e segna un’epoca. Questo verso, tanto per fare un esempio, ha colpito profondamente, nel IV secolo, Agostino di Tagaste o di Ippona [Sant’Agostino, lo incontreremo a suo tempo] che fa diventare questa affermazione l’emblema di un particolare atteggiamento interiore: da questo atteggiamento comincia a prendere forma il territorio dell’età di mezzo? Questo verso di Terenzio tratto dal testo della commedia Il punitore di se stesso – che è stato oggetto di riflessione nei secoli – ha lasciato il segno nella Storia del Pensiero Umano e questo segno lo dobbiamo cogliere.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Qual è stata l’ultima volta che vi siete inflitte, che vi siete inflitti un’autopunizione?...

Scrivete quattro righe in proposito...

     Dobbiamo procedere con ordine, tassello per tassello e, quindi, ora predisponiamoci a studiare la trafila che porta alla comparsa, a Roma, del concetto di “humanitas”.

     Ma prima, anche questa sera, non possiamo fare a meno di incontrare un personaggio da romanzo: di un romanzo che s’intitola Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di cui – dopo averne presentato le caratteristiche e incontrato l’autore – abbiamo già letto qualche pagina. Il personaggio di cui stiamo parlando – come tutte e tutti noi sappiamo – si chiama Francesco Ingravallo, detto Ciccio, molisano di origine, commissario di Pubblica Sicurezza nella fascistissima Roma del 1927 e l’autore che lo ha creato, lo scrittore Carlo Emilio Gadda, ha voluto che il commissario Ingravallo fosse una persona alla quale “nulla di ciò che è umano, sia estraneo”, anche le inclinazioni peggiori dell’individuo. Noi, la scorsa settimana, abbiamo avuto prova di ciò quando abbiamo accompagnato don Ciccio, invitato a pranzo, a casa dei Balducci in via Merulana e lì siamo venuti a conoscenza della sue riflessioni. Ora torniamo in via Merulana perché, proprio nel palazzo dei Balducci, è successo qualcosa di grave.

     Leggiamo tenendo sempre un occhio puntato sul linguaggio – prodotto di una raffinata contaminazione lessicale – utilizzato da Carlo Emilio Gadda: un linguaggio simile a quello creato dagli scrittori di teatro della Letteratura latina degli albori.

LEGERE MULTUM….

Carlo Emilio Gadda,  Quer pasticciaccio brutto de via Merulana

Quando i due agenti gli dissero: «Se so’ sparati a via Merulana: ar ducentodicinnove: su le scale: ner palazzo de li pescicani …», un fiotto di sangue incuriosito, forse angosciato, gli inondò il ventricolo di destra. «Ducentodiciannove?» non poté fare a meno di chiedere: pure, in tono distratto. E ricadde subito in quella tale specie di sonnolenza lontana, ch’era, in lui, la maschera del senso d’ufficio. Intanto gli entrò nella stanza il capo della investigativa. Aveva il Messaggero ancora indelibato e un petalo, un solo petalo bianco all’occhiello. «Sciure ‘e màndurlo, il primo della stagione,» pensò Ingravallo interrogando il superiore con gli occhi. «Ci andate voi, Ingravallo, a via Merulana? Vedete nu poco. Na fesseria, m’hanno detto. E stamattina, con chell’ata storia della marchesa di viale Liegi e poi ‘o pasticcio ccà vicino, alle Botteghe Oscure: e poi chillo buchè ‘e violette: ‘e ddoje cugnate e ‘e ttre nepote: e poi avimmo de pelà la coda dell’affare nuosto: e poi, e poi,» si portò una mano alla fronte, «mo ce vo, chella scocciatura d’ ‘o sottosegretario. Fin a ‘ncoppa a ‘a capa, ve dico. Sicché faciteme ‘o favore, jàtece vuje».

... continua la lettura ...

     Dobbiamo procedere con ordine, tassello per tassello [come sta facendo anche don Ciccio nel corso della sua indagine] e, quindi, ora predisponiamoci a studiare la trafila che porta alla comparsa, a Roma, del concetto di “humanitas”. L’elaborazione di questo concetto è frutto del processo di integrazione culturale e di contaminazione intellettuale tra la cultura greca e la mentalità latina che si va formando nell’ambito del Circolo degli Scipioni. Nell’elaborazione del concetto di “humanitas” è stata fondamentale la presenza a Roma, ospiti degli Scipioni, di due personaggi-chiave: dello storico greco Polibio e del filosofo Panezio di Rodi. Chi sono questi due personaggi e che cosa rappresentano?

     Polibio è considerato lo storico più importante del periodo ellenistico ed è nato a Megalopoli nel 205 o nel 204 a.C.. Megalopoli – dove si possono visitare gli scavi dell’antica polis ellenica – è una cittadina che si trova nel cuore del Peloponneso, nella regione dell’Arcadia meridionale, al centro di una piana attraversata dal fiume Elissòn.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con la guida della Grecia, e collegandovi alla rete, fate un’escursione a Megalopoli, buon viaggio...

     Polibio è il figlio del capo della Lega achea: un’alleanza tra città elleniche fondata per cercare di resistere contro gli invasori Romani. Quindi Polibio, da giovane, ha preso parte alle lotte combattute dalla sua patria contro i Romani. Dopo la battaglia di Pidna [nel 168 a.C.] – che determina la completa sottomissione dell’Ellade a Roma – Polibio è tra i mille ostaggi greci [ragazze e ragazzi appartenenti alle famiglie altolocate] deportati in Italia come deterrente a qualsiasi tipo di ribellione [o di ritardo nel pagamento dei tributi] nei confronti dei Romani.

     A Roma Polibio – che ha studiato ed è un giovane intellettuale ben preparato – si fa strada: conosce Paolo Emilio il quale cercava un “grammaticus” greco per educare i suoi figli e quindi Polibio diventa il maestro dei giovani Scipioni, in particolare dell’Emiliano. Polibio si stabilisce a casa degli Scipioni [che diventa la sede del primo importante Circolo culturale della città] e, attraverso la sua attività di istruzione [la “paideia paideia”], diviene il formatore di una nuova generazione di Romani che cominciano ad avere una coscienza molto simile a quella greca: se nella sua casa colonica fuori le mura Catone il Censore coltiva una mentalità contro-ellenistica, nella borghese casa cittadina degli Scipioni matura la mentalità filo-ellenistica. In casa degli Scipioni, proprio per la presenza di Polibio, cominciano a passare, per dialogare e per discutere, tutti gli uomini più illustri del tempo.

     Polibio segue Scipione l’Emiliano in molte sue spedizioni, è presente alla distruzione di Cartagine [nel 146 a.C.], alla presa di Numanzia e a tutte le altre “imprese” che hanno reso famoso Scipione l’Emiliano. Dopo la distruzione di Corinto [nel 146 a.C.] Polibio viene mandato dal Senato in Grecia per contribuire alla pacificazione e all’ordinamento della nuova provincia; in questa occasione, probabilmente, riemerge in lui lo spirito patriottico ma non può far altro che darsi molto da fare per rendere meno dura la sorte dei suoi connazionali. Polibio muore a causa di una caduta da cavallo, verso il 125 a.C., c’è chi parla del 122 a.C..

     Polibio, come scrittore, rappresenta un momento fondamentale nel processo di integrazione tra la cultura greca e la cultura romana. L’opera di Polibio è determinante nella nascita e nello sviluppo della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale” perché lui comincia a narrare la storia romana scrivendo in lingua greca: in un certo senso fa un’operazione simile a quella che farà più di un secolo e mezzo dopo Paolo di Tarso quando con le sue Lettere, scritte in greco, comincia a dare un assetto dottrinario alla notizia [alla buona notizia] della risurrezione di Gesù che era stata data, inizialmente, in lingua aramaica, una lingua incomprensibile a tutti sul territorio dell’Ellenismo.

     Polibio, come scrittore di Storia, si rifà a Tucidide [460-400 a.C.] – il più grande storico dell’antichità [che più volte abbiamo incontrato nei nostri viaggi], l’autore della celebre Storia della guerra del Peloponneso – e, quindi, utilizza un metodo rigorosamente scientifico che consiste nella diligente ricerca dei fatti e soprattutto delle cause dei fatti medesimi.

     Polibio scrive con due intenti. Il primo intento è di carattere universale, perché espone in modo sincronico le vicende di tutti i popoli allora conosciuti, allo scopo di porre in rilievo il progressivo affermarsi della potenza romana. Il secondo intento è di carattere pragmatico: Polibio espone i fatti in modo realistico e preciso perché la sua lezione – visto che possiede una profonda competenza militare e politica – possa riuscire utile agli uomini di Stato per governare in modo più giusto.

     Che cosa ha scritto Polibio? Polibio ha scritto un’opera che s’intitola Le Puniche, formata da 40 libri, di cui ci sono pervenuti i primi cinque, e molti frammenti dei rimanenti. Polibio si propone di scrivere la storia di un periodo importante della Repubblica romana, quando – come egli stesso scrive – Roma riesce ad assoggettare quasi tutta la terra: il periodo che va dall’inizio della seconda Guerra punica fino alla distruzione di Cartagine e di Corinto [dal 221 al 146 a.C.].

     Polibio contribuisce a trasformare la mentalità di una parte dei cittadini romani appartenenti al ceto mercantile [i mercanti illuminati] ma, nel corso di questa esperienza di interscambio culturale, cambia anche lui perché, in perfetto stile ellenistico, si integra perfettamente nel mondo romano che diventa il suo mondo, un mondo che lui, ideologicamente, ha contribuito a creare: che significato ha questa affermazione? Polibio introduce nell’ambiente romano il concetto del Logos secondo la filosofia ellenistica [secondo il pensiero delle Scuole epicurea, stoica e scettica]: il Logos [che in greco significa “parola, pensiero, ragione”] è la Ragione universale che predispone le cose secondo un ordine prestabilito, dando luogo a ciò che chiamiamo il “destino”. L’introduzione di questo concetto serve a Polibio per nobilitare la mentalità di dominio dei Romani: se Roma si è affermata è perché ci sono delle ragioni universali, radicate nella natura stessa dell’uomo e nelle disposizioni della Provvidenza divina che scaturisce dall’oscuro Fato dei Greci. Quindi Polibio teorizza che il fine unico della storia è l’imperium dei Romani, che abbraccia l’Ecumene, tutto il mondo abitato. La parola “fine” in latino diventa “fortuna”, e la Fortuna [con la F maiuscola] è il modo imprevedibile con cui la Provvidenza regola le vicende umane. I popoli fortunati – scrive Polibio – sono in realtà popoli eletti, come lo è il popolo romano, il cui dominio sul mondo non è questione di pura forza ma è il risultato di una superiorità “fatale”.

     Polibio – pensando ad Aristotele – esalta anche l’ordinamento politico di Roma che è, secondo lui, l’ideale combinazione dei tre tipi di costituzioni conosciute: la monarchia rappresentata dai consoli, l’oligarchia rappresentata dal Senato e la democrazia rappresentata dal popolo quando vota per eleggere i comizi. Con Polibio nasce l’idea del “fatale destino” di Roma: il principio che Roma deve dominare il mondo perché così vuole la Provvidenza o la Fortuna.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Voi avete un portafortuna?...   

Scrivete quattro righe in proposito...

     Polibio scrive che il “fatale destino” di Roma continuerà a brillare se la Città [l’Urbe] saprà spargere i semi dell’humanitas in tutta l’Ecumene. Ma l’humanitas è un concetto che i Romani hanno ereditato dalla cultura greca. Polibio non lo dice ma certamente lo pensa e di questo fatto è sicuramente orgoglioso perché ritiene che l’essenza del “fatale destino” di Roma dipenda dalla “sapienza poetica ellenistica” e se i Romani hanno sottomesso militarmente la Grecia tuttavia intellettualmente non l’hanno sopravanzata.

     Abbiamo letto poco fa che anche don Ciccio Ingravallo nel Pasticciaccio fa una riflessione sull’intervento del “destino” nella vita umana, scrive Gadda: «Perché Ingravallo, similmente a certi nostri filosofi, attribuiva un’anima, anzi un’animaccia porca, a quel sistema di forze e di probabilità che circonda ogni creatura umana, e che si suol chiamare destino».

     Prima di incontrare Panezio di Rodi: il secondo personaggio che a Roma, ospite degli Scipioni, favorisce l’integrazione tra la cultura greca e quella latina, andiamo a constatare come proseguono le indagini del commissario Ingravallo.

LEGERE MULTUM….

Carlo Emilio Gadda,  Quer pasticciaccio brutto de via Merulana

Il ducentodiciannove, cinque piani a strada più l’attico e le due scale A e B, con alcuni uffici sulla B, al mezzanino, era un porto di mare. Le scale, agiate tutte e due, l’una più buia dell’altra. La A più tranquilla della consorella: tutti signori autentici da quella parte, du côté de chez madame.

Dai congiunti e accavallati referti della portinaia e d’altre inquiline delle più precipiti a favola, che Ingravallo interrogò di fuori senza scrivere, indi nell’atrio da basso, dietro al portone e al portello piantonati dal brigadiere, poi da un agente, si poté alfìn ricostruire l’accaduto. E appurare un’altra circostanza, e alquanto curiosa, per vero. Il delinquente era stato audacemente rincorso. «Ah!» fece Ingravallo. «»: troppo audacemente, forse. Perché a rincorrerlo, o a fingere di rincorrerlo giù per le scale e nell’andito, prima ancora del signor Bottafavi der quarto piano che poi l’aveva inseguito anche lui, col revolver, primo di tutti era stato un giovane, «sì, un giovanotto», «no, un giovanotto: un maschietto …», «che maschietto! tanto alto, era»: pareva il garzone d’un pizzicarolo, co la parannanza tutta intorcinata intorno a la vita, ciaveva li carzoni sportivi però, coi calzettoni verdi. «Che verdi!»

... continua la lettura ...

     È evidente che don Ciccio ha un debole per la signora Liliana. Noi continueremo, ancora per qualche pagina, a seguirlo nella sua indagine e a sperimentare la non semplice lettura di un linguaggio che ricorda quello del teatro romano delle origini: il linguaggio della “contaminatio”.

     Ora – a proposito di “contaminazione intellettuale” dovuta al movimento delle idee da oriente verso occidente – dobbiamo incontrare Panezio di Rodi che, a Roma, ospite degli Scipioni, favorisce, insieme a Polibio, l’integrazione tra la cultura greca e quella latina: Panezio è il filosofo stoico [il pensiero della Scuola stoica noi lo abbiamo studiato nel viaggio di due anni fa e chi volesse leggersi o rileggersi le Lezioni dell’anno 2009-2010 lo può fare collegandosi ai nostri siti: www.inantibagno.it o www.scuolantibagno.net], Panezio è il filosofo stoico di cultura ellenistica che mette a punto il primo nucleo del concetto dell’humanitas latina.

    Panezio è nato a Rodi intorno al 185 a.C..

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Visto che avete tra le mani la guida della Grecia – o la tastiera per collegarvi alla rete – fate un’incursione [è terra di Cavalieri, i Cavalieri di San Giovanni] e un’escursione sull’isola di Rodi: chissà se cominciano a fiorire le mimose [poi toccherà ai fiori di ibisco, poi alle buganvillee, alle rose e ai gelsomini] che ingentiliscono la città murata di Ròdos, buon viaggio...

     La tradizione dice che Panezio, in gioventù, sia stato sacerdote del dio Positone, poi sembra abbia abbandonato la carriera religiosa e si sia impegnato nello studio dapprima a Pergamo, una città dove c’era una ricca Biblioteca, e poi ad Atene. Panezio, ad Atene, ha frequentato molte Scuole, tra cui l’Accademia platonica e il Liceo aristotelico in modo da avere un’ampia gamma di vedute. Poi Panezio – ci racconta Diogene Laerzio [è un po’ che non incontravamo Diogene Laerzio, uno dei nostri più assidui informatori] – ha incontrato Diogene di Seleucia che era uno dei più autorevoli rappresentanti della Scuola stoica e, quindi, Panezio ha continuato i suoi studi nella Scuola del Portico [“stoà” significa “portico” in greco].

     Panezio si trasferisce a Roma – che nel II secolo a.C. era diventata la città più importante dell’Ecumene ellenistica – in età matura, ha appena compiuto quarant’anni ed è in possesso di un grande bagaglio culturale e, quindi, entra subito in contatto con le persone appassionate di “sapienza poetica ellenistica”: con i frequentatori del Circolo degli Scipioni dove incontra il suo conterraneo Polibio e i due diventano grandi amici.

     Anche Panezio decide di trasferirsi, come ospite di riguardo e con mansioni educative, a casa degli Scipioni, che, alla metà del II secolo a.C., diventa la residenza più importante della città. Panezio si trova davvero bene a Roma perché – in un momento in cui la “sapienza poetica ellenistica” sta prendendo campo anche lì – viene ammirato per la sua vasta cultura letteraria e filosofica e lui, con una certa consapevolezza, contribuisce a creare l’assetto ideologico della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale”. Diogene Laerzio scrive che: «Quando Panezio andava a passeggiare nel centro di Roma veniva attorniato da molti cittadini e lui li gratificava tenendo una conferenza sul valore della cultura greca e se qualche conservatore si fermava a criticare questa iniziativa [pensiamo subito, per esempio, a Catone il Censore] veniva subito allontanato dagli ascoltatori. I cittadini più autorevoli, quando aveva finito di parlare, coglievano l’occasione per invitarlo alle feste che si tenevano nelle loro eleganti case».

     Panezio, a Roma, diventa [se così si può dire] un personaggio alla moda [come era successo per Carneade] ma lui non si presta a questo gioco perché ha qualcosa d’importante da comunicare: di che cosa parla Panezio nelle sue conversazioni? Panezio spiega la “logica” e la “fisica” secondo i dettami della Scuola stoica [un argomento che abbiamo studiato nel viaggio dell’anno 2009-2010] e insegna l’esistenza del Logos che gli stoici chiamano Fuoco, Pneuma [Spirito], Anima del mondo. Il Logos – spiega Panezio – è la Ragione universale che determina l’andamento di tutte le cose secondo un fine ben preciso perché il Logos è Provvidenza e la ragione umana del singolo individuo è la sede dell’anima della persona: l’anima [di natura intellettuale] è una scintilla del Logos [del Pensiero universale], che, dopo la morte del corpo, si ricongiunge al Fuoco cosmico [per Panezio l’anima individuale non è immortale e lui non coltiva visioni ultraterrene].

     Panezio insegna soprattutto “l’etica stoica” secondo un programma che prescrive di imparare ad intessere rapporti interpersonali basati sul principio dell’uguaglianza perché tutti gli esseri umani sono uguali in quanto dotati di ragione [a Roma questa idea fa scalpore e crea  una divisione nell’opinione pubblica]. Panezio insegna a vivere secondo natura [a riconoscere la legge dell’Universo e ad adattarvisi], insegna a vivere secondo ragione e a vivere coerentemente con se stessi, e per raggiungere questi obiettivi prescrive delle regole e propone degli esercizi che possano portare ad assumere uno stile di vita che favorisca l’acquisizione di quattro virtù fondamentali: la saggezza [con lo studio], la fortezza [con il dominio delle passioni], la temperanza [con costumi sobri e frugali] e la giustizia [con il rispetto della legge uguale per tutti]. Questo programma – orientato al conseguimento della virtù e dell’equilibrio – prevede che la persona impari a governare pienamente le proprie passioni e a ben orientare le proprie ragioni.

     Panezio è il primo divulgatore del pensiero stoico di stampo greco nel mondo romano: comincia con lui un percorso culturale che porta alla nascita di un pensiero stoico di stampo latino e questo è un argomento che studieremo strada facendo perché è questa la direzione che porta verso i confini del territorio dell’età di mezzo, che sono ancora lontani perché tra età ellenistica ed età di mezzo si estende un vero e proprio “territorio di confine” di incerta e variabile perimetrazione.

     Le idee di Panezio, inizialmente, sconvolgono la mentalità romana non abituata alla speculazione filosofica, all’introspezione, all’esame di coscienza, alla riflessione, ma indirizzata verso la praticità. Panezio riesce a far conciliare i principi della paideia greca [lo studio] con lo spirito concreto dei Romani. L’humanitas latina nasce quindi dall’intreccio tra l’ideale intellettuale e contemplativo ellenico ed i valori pratici e materiali della tradizione romana. Panezio contribuisce a creare lo strato più antico dell’humanitas latina che costituisce il nucleo da cui poi prenderà le mosse quel grande movimento intellettuale che chiamiamo l’Umanesimo e che ha caratterizzato il pensiero dell’età di mezzo, un pensiero di cui si è nutrita fino ad oggi la nostra civiltà.

     Su questa operazione culturale c’informa Cicerone nel 44 a.C. nella sua opera intitolata De officiis [I doveri] – nei primi due libri di quest’opera Cicerone riassume quello che Panezio aveva scritto nella sua opera intitolata Del dovere, che è andata perduta –: leggiamo che cosa scrive Cicerone.

LEGERE MULTUM….

Marco Tullio Cicerone, De officiis [I doveri]

Dice Panezio: «L’essere umano si distingue dall’animale anche nella guerra perché, mediante la ragione, egli discerne tra guerra ingiusta e guerra giusta, la quale deve essere sempre dichiarata dopo un ultimatum, e comporta il rispetto dei giuramenti e dei trattati, ma, mediante la ragione l’essere umano dovrebbe capire che la pace vale più di ogni altra cosa. I legami che fan vivere l’essere umano in società non sono soltanto istintivi perché sono soprattutto la ragione [ratio] e il linguaggio [oratio] che portano le persone a comunicare tra loro anche al di là dei confini etnici, idealmente fino all’unità del genere umano. Esiste una dipendenza reciproca degli umani tra di loro, i quali debbono conciliare i valori morali con quelli dell’utilità, la contemplazione con l’azione politica. È chiaro che il profitto e l’utilità che noi traiamo dalle cose materiali non avrebbero potuto essere raggiunti se non per mezzo delle braccia e del lavoro degli uomini ma, se ai lavoratori non venisse riconosciuta la giusta ricompensa, il profitto e l’utilità cesserebbero di essere delle prerogative umane». Questo afferma Panezio di Rodi e noi dobbiamo tenerne conto quando ragioniamo sui nostri doveri.

     Cicerone chiama lo stoicismo di Panezio [quando incontreremo Cicerone vedremo quale influenza ha lo stoicismo su di lui] “filosofia operativa” ed è proprio in questa chiave che i pensieri delle Scuole dell’Ellenismo greco [epicureismo, stoicismo, scetticismo] attecchiranno nella società romana che ha un temperamento pragmatico [operativo] piuttosto che contemplativo.

     Il merito di Panezio è quello di aver fatto riflettere – con le sue lezioni – gli intellettuali romani sulla necessità di conciliare tradizioni diverse in nome di una universale “humanitas”, un concetto che si dimostra indispensabile per avvalorare l’universalismo politico di Roma.

     Anche Panezio parte insieme a Scipione l’Emiliano per un viaggio in Oriente e ne approfitta per frequentare le Scuole filosofiche medio-orientali che insegnavano anche il pensiero della sapienza indiana [la cultura vedico-indo-ellenistica che abbiamo studiato nel viaggio di due anni fa, dell’anno 2009-2010]. Panezio però non ritorna a Roma con Scipione ma decide di fermarsi ad Atene, di restare a casa sua, e nel 129 a.C., alla morte di Antipatro, che dirigeva la Scuola stoica ateniese, viene nominato alla guida della Stoà e diventa scolarca della Scuola del Portico. Panezio muore a settantasei anni dopo aver scritto molte opere delle quali noi possediamo solo qualche frammento.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

L’humanitas – secondo Panezio – è uno stile di vita fondato su quattro virtù fondamentali: la saggezza [bisogna studiare], la fortezza [non bisogna lasciarsi sopraffare dalle passioni], la temperanza [con una vita sobria e frugale] e la giustizia [pensare che la legge è uguale per tutti]…

Scrivete una parola che corrisponda, secondo voi, ad ognuna di queste quattro virtù...

Bastano quattro parole per concretizzare una significativa riflessione...

     E ora, per concludere, torniamo a Terenzio perché è lui che ha dato inizio alla riflessione sul concetto di “humanitas” che risulta fondamentale nella Storia del Pensiero Umano, vi ha dato inizio con un celebre verso di una sua commedia [Il punitore di se stesso] in cui sottolinea che: «Tutto ciò che è umano non può essere estraneo all’essere umano».

     Torniamo a Terenzio, a quest’ora però solo per fare un annuncio. La scorsa settimana, in finale di itinerario, abbiamo detto che in una sera di primavera dell’anno 165 a.C. viene rappresentata per la prima volta la commedia di Terenzio intitolata Hècyra [La suocera]. Ad un certo punto gli spettatori, in piazza, cominciano a sbraitare, a fare tumulto e la recita viene interrotta – per motivi di ordine pubblico – e sostituita con uno spettacolo di saltimbanchi. Da questo momento le rappresentazioni teatrali non si tengono più in piazza ma in luoghi più raccolti.

     Qual è la ragione del totale fallimento della commedia di Terenzio in piazza, mentre quando viene rappresentata, qualche tempo dopo, nel Circolo degli Scipioni, di fronte ad un pubblico colto, dalla compagnia di Lucio Ambivio Turpione, riscuote un meritato successo?

     Sono belle domande alle quali cercheremo di rispondere la prossima settimana perché l’Alfabetizzazione culturale e funzionale è un bene comune e l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona, per questo la Scuola è qui. Accorrete numerose e numerosi pensando che se vogliamo andare veloci, forse, è utile andare da soli ma se vogliamo andare lontano è bene andare tutti insieme.

     Salutiamo Polibio di Megalopolis e Panezio di Rodi i quali ci ricordano che lo “studio [studium et cura, colonna dorsale dell’humanitas]” è l’esercizio più utile che si possa fare per imparare ad alimentare buone passioni e a controllarle con giuste ragioni.

     Il viaggio continua…

 

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Febbraio 3, 2012