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LO SGUARDO DI ERODOTO SUL PENSIERO DEI LIBRI DEI VEDA E DELLE UPANISHAD…

Lezione N.: 
12

Prof. Giuseppe Nibbi             Lo sguardo di Erodoto 2006               25-26-27  gennaio  2006

LO SGUARDO DI ERODOTO

SUL PENSIERO DEI LIBRI DEI VEDA E DELLE UPANISHAD…

     La scorsa settimana, strada facendo, abbiamo incontrato ancora una volta il tema dell’Età assiale della storia e abbiamo cercato di capire di che cosa si tratta. L’Età assiale della storia rappresenta, nel VI secolo a.C, il punto di partenza, certo e documentato, della Storia del Pensiero Umano. Secondo gli studiosi, il testo de Le Storie di Erodoto “allude” all’Età assiale della storia ed è un’allusione di prima mano perché anche Erodoto vive a ridosso di quest’età. Nella scrittura e nel racconto di Erodoto troviamo, per la prima volta, una riflessione sulle più antiche civiltà umane, e troviamo una serie di parole-chiave e di idee significative le quali ci confermano che, 2500 anni fa, la Storia della cultura è nata, si è sviluppata e sta dando i suoi frutti. Questa affermazione ci porta a dire – come ci suggeriscono gli studiosi – che la nostra età mentale, la nostra età culturale, corrisponde a 2500 anni: tutti noi, dal punto di vista intellettuale, abbiamo 2500 anni di età.

     Di conseguenza, nello stesso modo in cui siamo in rapporto con la nostra vita biologica quando diciamo: “io mi ricordo quando ero bambino, mi ricordo quando ero adolescente, quando ero giovane, mi ricordo quando la primavera scorsa…” ebbene allo stesso modo dobbiamo imparare ad esercitare la “memoria” sull’arco di tempo che corrisponde alla nostra età intellettuale, alla nostra età culturale. Possiamo giocare con le parole (e “giocare” è una cosa seria, presuppone il massimo rispetto delle regole) dicendo che: siamo stati bambini durante l’Età assiale, adolescenti nell’Età antica, giovani nel Medioevo, adulti nell’Età moderna e siamo nati biologicamente nell’Età contemporanea avendo a disposizione tutto questo patrimonio: l’Intelletto universale.

     Che senso ha la vita? Ci stiamo chiedendo – insieme ad Erodoto – da 2500 anni. Il primo elemento che dà un senso “materiale” alla vita è quello di studiare la nostra storia intellettuale, di curare la nostra memoria culturale. Le Storie di Erodoto sono come un cesto nel quale troviamo raccolti (a diversi livelli) i primi frutti della prima fase della Storia della cultura, quella che gli studiosi hanno chiamato, appunto: l’Età assiale della storia.

     Erodoto “allude” alle prime grandi civiltà umane, come quella egizia sviluppatasi nella valle del Nilo e quella sumerica sviluppatasi alla confluenza del Tigri e dell’Eufrate. Inoltre, ne Le Storie di Erodoto troviamo un riferimento alla civiltà indiana sviluppatasi nella valle dell’Indo e – ci dicono gli antichisti – anche un’eco, seppur lontana, della civiltà cinese sviluppatasi nella valle del Fiume Giallo. Erodoto, con le sue “allusioni”, ci fa capire che queste civiltà – sumerica, egizia, indiana, cinese – portano l’homo sapiens fuori dall’età della pietra, fuori dalla preistoria. In seno a queste civiltà si formano le parole-chiave originarie e le idee-significative primordiali che danno il via allo sviluppo della Storia del Pensiero Umano.

     Il testo de Le Storie di Erodoto “allude” a questa partenza, a questa spinta iniziale, e l’opera di Erodoto risulta importante soprattutto in funzione di questa allusione. Un Percorso di didattica della lettura e della scrittura deve far riflettere con attenzione sul fatto che Le Storie di Erodoto si presentano anche come il deposito, il magazzino, il ripostiglio delle parole-chiave originarie e delle idee-significative primordiali. La conoscenza delle parole originarie e la comprensione delle idee primarie ci permettono di imparare a leggere la storia dell’infanzia della nostra mente e di imparare a scrivere la nostra autobiografia esistenziale accompagnandola con la nostra autobiografia intellettuale.

     Le Storie di Erodoto sono anche il terreno su cui possiamo dedicarci all’archeologia del sapere e su quest’area – data dal testo dell’opera di Erodoto – noi siamo invitati a scavare, portare alla luce, indagare.

     Erodoto nasce in Asia, sulle estreme coste occidentali dell’Asia, ed è quindi capace di cogliere il richiamo delle parole-chiave e delle idee-significative che prendono “forma” in questo straordinario e meraviglioso (deinòs) continente. Il continente asiatico ci lascia in eredità il pensiero di grandi civiltà, tra queste spiccano quella indiana e quella cinese. Il testo de Le Storie di Erodoto “allude” anche – con diverse gradazioni – a questi due grandi apparati culturali: l’indiano e il cinese.

     Gli antichisti, gli studiosi di filologia, gli specialisti di linguistica comparata hanno rinvenuto – studiando il modo in cui Erodoto usa le parole e combina la sua scrittura – alcuni elementi che riguardano la cultura indiana e  anche la cultura cinese. Gli specialisti ritengono che Erodoto non conosca in tutta la loro complessità le idee e i concetti delle grandi culture indiana e cinese, tuttavia sono convinti del fatto che Erodoto – curioso di tutte le novità – ne ascolti (sebbene senza una precisa consapevolezza) l’eco e lo riporti nella sua scrittura sotto forma di allusioni. Questo discorso – e gli studi dai quali questo discorso è nato – è molto complicato ed è terreno di ricerca per superspecialisti; però dobbiamo domandarci: perché, per quale ragione, noi, cittadini che animiamo la Scuola pubblica degli Adulti, non dovremmo per lo meno affacciarci su questo terreno culturale, su questo spazio intellettuale? Riusciremo probabilmente a vedere solo pochi oggetti e di questi oggetti culturali certamente capiremo poco, però siamo sicuramente in grado di prendere atto che esiste una questione, un tema importante nella Storia della cultura: il tema del rapporto tra l’opera di Erodoto e i grandi paesaggi intellettuali dell’Età assiale della storia.

     L’opera di Erodoto è importante per quello che racconta ma soprattutto è importante perché raccoglie per la prima volta – sebbene in modo incompleto e superficiale – il catalogo delle parole-chiave e delle idee significative dell’Età assiale della storia. A quello che Erodoto racconta si accede attraverso la lettura del testo (anche con il minimo degli strumenti), ma per entrare in contatto con il catalogo delle parole-chiave e delle idee significative dell’Età assiale della storia è necessario un percorso di  studio, è necessario attivare la ricerca, è necessario mettere in funzione l’osservazione e avviare la riflessione.

     Perché è importante la conoscenza e la comprensione del catalogo delle parole-chiave e delle idee significative dell’Età assiale della storia? Perché questo catalogo (è “in principio”) è alla base della struttura mentale, dell’intelaiatura di pensiero dell’homo sapiens sapiens. Il reticolo di fondo del nostro intelletto è formato dal catalogo delle parole-chiave e delle idee significative dell’Età assiale della storia, ci dicono gli esperti, e il primo di questi “esperti” è, seppur inconsapevolmente, Erodoto, il quale oggi risulta essere “il padre della Storia” proprio per questo motivo.

     E allora noi, a questo punto, ci rendiamo conto di quanto sia importante mettere a fuoco il catalogo delle parole-chiave e delle idee significative dell’Età assiale della storia. Come si fa ad investire in intelligenza se non si conosce il proprio patrimonio intellettuale?

     E dobbiamo, quindi, a questo proposito, ribadire ancora una volta l’importanza dell’opera di Erodoto. L’opera di Erodoto è importante perché ci rivela – attraverso il catalogo delle parole-chiave e delle idee significative dell’Età assiale della storia – il nostro patrimonio intellettuale di partenza. E – secondo la natura del nostro Percorso – è necessario prendere coscienza del nostro patrimonio intellettuale di partenza in funzione della didattica della lettura e della scrittura.

     Il primo grande paesaggio intellettuale dell’Età assiale della storia che incontriamo in rapporto all’opera di Erodoto riguarda l’India, riguarda il pensiero indiano.

     Quali parole-chiave e quali idee significative del pensiero indiano fanno parte del nostro patrimonio intellettuale di partenza? Seguiamo il sorriso “allusivo” di Erodoto sulla scia dell’India… 

     Erodoto, ne Le Storie, parla dell’India. Non sappiamo se Erodoto – considerate le difficoltà di spostamento dei suoi tempi – sia mai stato in India, vale a dire fino alle sponde del fiume Indo. Dobbiamo ricordare che due secoli dopo (anche con il contributo di Alessandro Magno) il viaggio di “formazione” verso l’India, il pellegrinaggio per motivi di studio verso le Scuole indiane, comincia a diventare, per gli intellettuali d’occidente, una consuetudine. Anche se non lo si può escludere con certezza – dopotutto è andato in luoghi talmente distanti dalla Grecia – sembra improbabile che Erodoto sia stato in India, nel cuore dell’India (nella valle dell’Indo): perché? Perché quello che scrive, nel III libro de Le Storie, riguarda una raccolta di usi particolari legati solo a determinate tribù (per esempio: il cannibalismo terapeutico, la raccolta dell’oro nel deserto con l’uso dei cammelli). Erodoto, parlando dell’India, documenta una serie di fenomeni, di situazioni, di particolarità, come, per esempio, il gran numero di tribù presenti sul territorio indiano e soprattutto la grande quantità di popolazione: gli Indiani sono sempre stati molto numerosi. 

     Tuttavia ne Le Storie – ci dicono gli esperti – si può cogliere una traccia di quello che è – al tempo di Erodoto – il pensiero indiano che si è sviluppato durante l’Età assiale (più di 2500 anni fa) nella valle dell’Indo. A Erodoto la diversità e l’originalità di quel mondo e di quel pensiero non sarebbero sfuggite se le avesse conosciute direttamente. Si sente nel testo del III libro de Le Storie l’eco di alcuni concetti basilari del pensiero indiano delle origini: la pratica della non violenza, la consuetudine vegetariana e l’idea della bontà del Nulla. Il testo del III libro de Le Storie di Erodoto “allude” al pensiero indiano delle origini e voi sapete che l’allusione è un meccanismo intellettuale virtuoso perché rimanda ad una precisazione e indirizza verso l’apprendimento.

     Erodoto ne Le Storie ci ha lasciato la descrizione di venti province, dette satrapìe, del più vasto impero del mondo, la Persia, di cui l’India – scrive Erodoto – è appunto la satrapìa più popolosa. “Gli Indiani, il popolo di gran lunga più numeroso di tutti gli uomini che noi conosciamo…” afferma Erodoto nel III libro de Le Storie al capitolo 94, e poi passa a parlare dell’India, della sua posizione, della sua società e dei suoi costumi. Leggiamo, a questo proposito, una serie di frammenti.

LEGERE MULTUM….

Erodoto, Le Storie III  98-99, 100-101

Del territorio dell’India, la parte volta verso levante è sabbiosa; infatti di tutte le popolazioni che noi conosciamo, di quelle almeno sulle quali si narra qualcosa di sicuro, gli Indiani sono i primi degli uomini dell’Asia che abitano verso l’aurora e il sol levante, poiché la terra posta ad oriente degli Indiani è disabitata a causa della sabbia. Ci sono molte stirpi di Indiani, dissimili per lingua fra loro, e alcuni sono nomadi, altri no. Alcuni abitano nelle paludi dei fiumi e si cibano di pesci crudi che prendono da imbarcazioni di canne . Questi Indiani portano vesti di giunco; dopo che hanno raccolto dal fiume il giunco e l’hanno battuto, allora, intrecciatelo a mo’ di stuoia, lo indossano come una corazza.

Altri Indiani che abitano ad oriente di questi sono nomadi, si cibano di carni crude e sono chiamati Padei. Si dice che abbiano questi costumi: se uno dei cittadini cade ammalato, sia uomo o donna, l’uomo lo uccidono i suoi amici più intimi dicendo che egli, consunto dalla malattia, rovina loro le carni: quello nega di esser malato, ma essi, non essendo della sua stessa opinione, lo uccidono e banchettano delle sue carni. Parimenti se è ammalata una donna le donne a lei più amiche fanno lo stesso che agli uomini (cannibalismo terapeutico). Se poi uno raggiunge la vecchiaia, lo uccidono e lo mangiano. Ma non molti di loro ci arrivano, dato che in precedenza uccidono tutti quelli che cadono ammalati.

Altri Indiani invece hanno questi costumi: non uccidono alcun essere vivente (la pratica della non-violenza) né seminano alcunché né hanno l’abitudine di possedere case; ma mangiano erba (la consuetudine vegetariana). Chi di loro cada ammalato, se ne va a giacere nel deserto (eremos-éremos), e nessuno si dà pensiero di lui, né quando è morto né mentre è malato (il pensiero della bontà del Nulla).

L’accoppiamento di tutti questi Indiani di cui ho parlato si svolge pubblicamente come per le bestie, e il colore della pelle lo hanno tutti uguale, simile a quello degli Etiopi. Lo sperma che essi emettono unendosi alle donne non è bianco come negli altri uomini, ma nero al pari della loro pelle, ed anche gli Etiopi emettono uno sperma simile (una nota di colore…).

     Avete sicuramente individuato la parola che Erodoto usa – nel greco ionico del suo tempo – per definire il termine “deserto”. In greco la parola “deserto” si traduce: éremos e .questa parola (un’altra interessante parola greca che impariamo) suona alle nostre orecchie in modo molto evocativo. Sappiamo che nella cultura indiana di 2500 anni fa l’atto del “ritirarsi nel deserto, di abitare un eremo” presuppone già una scelta di carattere ascetico, spirituale. Sappiamo che il deserto, nella cultura indiana delle origini, non rappresenta solo un ambiente geografico esterno e materiale ma raffigura soprattutto un luogo dell’interiorità, un posto spirituale. L’espressione “ritirarsi nel deserto, abitare un eremo” – secondo il pensiero indiano delle origini – è affine all’espressione: “fare il deserto dentro di sé, fare il vuoto e riempirlo di Nulla perché il molteplice al di fuori di noi è un’illusione che procura uno stato di malessere”.

     Queste affermazioni rimangono un gioco di parole se non osserviamo – almeno nei suoi aspetti più evidenti – il paesaggio intellettuale che raffigura la cultura indiana durante l’Età assiale della storia, di cui troviamo una traccia ne Le Storie di Erodoto.

     Ma prima di procedere in questo senso è necessario suggerire una riflessione e proporre la costruzione di una trama intellettuale.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

In greco la parola “deserto” si traduce: eremos-éremos e questa parola – insieme all’espressione “ritirarsi nel deserto, abitare un eremo” – suona alle nostre orecchie in modo molto evocativo… Quale altra parola vi fa venire in mente la parola “eremo” ?… 

C’è un luogo solitario, una dimora isolata, che rappresenta per voi un eremo per eccellenza ?…

Scrivete quattro righe in proposito…   

     Erodoto percepisce solamente un’eco, una traccia, un indizio del pensiero indiano delle origini. Il pensiero indiano delle origini è uno degli “apparati culturali” – sviluppatisi durante l’Età assiale della storia – che sta alla base della struttura mentale, dell’intelaiatura di pensiero dell’homo sapiens sapiens e quindi di tutti noi. Il reticolo di fondo del nostro intelletto – ci dicono gli esperti – è condizionato anche dalle parole-chiave e dalle idee significative provenienti dal pensiero indiano delle origini. Non si può investire in intelligenza se non si conosce il proprio patrimonio intellettuale: il pensiero indiano delle origini fa parte del nostro patrimonio intellettuale.

     Erodoto, su questo tema, “allude” e l’allusione presuppone sempre una precisazione. Di che cosa parliamo – anche Erodoto è curioso a questo punto – quando parliamo di cultura indiana delle origini, quando parliamo della cultura che si è sviluppata nella valle dell’Indo e nell’alta valle del Gange, durante l’Età assiale della storia? Il pensiero indiano, in origine, è contenuto nei libri dei Veda (in sanscrito il termine Veda significa: il sapere, la scienza, la sapienza). I libri dei Veda (i libri della Sapienza) costituiscono uno straordinario apparato letterario e sono i generatori culturali dell’Induismo e del Buddismo, ma non solo: attraverso le migrazioni, le parole-chiave e le idee-significative contenute nei libri dei Veda viaggiano verso il bacino del Mediterraneo contribuendo allo sviluppo del pensiero Orfico e della cultura occidentale, per questo motivo in Erodoto si coglie l’eco del pensiero vedico (sapienziale) indiano.

      Quali sono le parole-chiave e le idee-significative dei libri dei Veda che, viaggiando verso il bacino del Mediterraneo, hanno contribuito allo sviluppo del pensiero Orfico, del teatro tragico, della filosofia greca e successivamente della piattaforma culturale del Cristianesimo? Il pensiero indiano delle origini ci lascia in eredità due significative parole-chiave (in sanscrito): atman e Brahman o Brahma (senza la “n” finale). Il punto centrale della cultura dei libri dei Veda è il concetto dell’anima, in sanscrito “atman”. L’atman è come una scintilla, come una goccia, come un sospiro dell’Essere supremo: il Brahman o Brahma. Quindi: una goccia, una scintilla, un sospiro dell’Essere supremo è presente in ogni persona e questa goccia, questa scintilla, questo sospiro dell’Essere supremo  presente in ogni persona viene chiamata “anima”: questa idea diventerà – passando attraverso la cultura “orfica” – (qualche millennio dopo), con le dovute differenze, un concetto “cristiano”.

     La frantumazione dell’Essere ha dato vita alla molteplicità delle cose, ma questo fatto – secondo il pensiero indiano – è un male perché è stato causato da un incidente – da un “peccato originale” – provocato dall’egoismo umano, l’Uomo ha detto: “Io sono io, questo è mio, voglio che tutto diventi mio” e l’Essere si è frantumato (è andato in mille pezzi). Questa situazione crea nell’essere umano una dolorosa inquietudine. La persona è profondamente inquieta, perché l’anima, l’atman, sente il desiderio di ritornare a casa, di ritornare ad essere tutt’uno con l’Essere, con il Brahman o Brahma. L’anima, l’atman, aspira a rituffarsi nella quiete dell’Essere.

     La persona – secondo i libri dei Veda – deve prendere coscienza e deve operare per favorire il ritorno dell’atman (dell’anima) nella sua sede, nella sua casa naturale. Questo ritorno all’Essere avviene attraverso la teoria della reincarnazione o della metempsicosi, la trasmigrazione delle anime, come la definisce Pitagora, nato nell’isola di Samo intorno al 570 a.C, trasferitosi a Crotone e poi a Metaponto (dove probabilmente è morto), il quale è tra i primi a elaborare questi concetti, provenienti dal pensiero indiano, nel bacino del Mediterraneo. Secondo la teoria della reincarnazione, l’anima, alla morte dell’individuo, lascia il corpo ed entra, dopo breve tempo, in un altro corpo, cercando di migliorare via via la sua posizione in funzione dell’ascesa, del suo ritorno all’Essere.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

In chi o in che cosa voi vi vorreste reincarnare? 

Basta una parola per rispondere…

     L’insieme delle scritture dette Veda (il sapere, la scienza, la sapienza) è stato composto lungo un periodo che va, circa, dal 1800 all’800 a.C, prima ancora della letteratura dell’Antico Testamento e della letteratura omerica. 12RT… 3. I Veda sono stati scritti utilizzando diversi stili e diversi generi letterari: le formule liturgiche, la poesia, la saggistica filosofica. I testi dei libri dei Veda scritti in poesia sono stati raggruppati insieme in una grande raccolta intitolata Sambita (che significa: collezioni poetiche) e contengono quella che viene chiamata la dottrina vedica (la dottrina della sapienza). Ma i testi dei libri dei Veda che interessano di più gli studiosi sono le raccolte scritte in prosa di carattere filosofico, queste raccolte sono state chiamate: Upanishad. Il termine Upanishad significa letteralmente “seduta segreta, dialogo confidenziale”. Le Upanishad sono composte da 108 resoconti di colloqui tra un maestro e un discepolo sulle grandi tematiche esistenziali. Le Upanishad costituiscono il patrimonio più ricco della tradizione filosofica indiana e uno dei patrimoni più significativi della Storia del Pensiero Umano. Il tema che vi domina è quello della conoscenza: è la conoscenza che dà il senso alla vita e l’azione del conoscere costituisce la via di liberazione, la strada della salvezza.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Quale di queste parole: apprendimento, consapevolezza, informazione, competenza, esperienza…  avvicinereste, oggi, per prima, alla parola “conoscenza”? 

Riflettete e scrivete…

     Ma procediamo con ordine nell’osservazione del vasto e complesso paesaggio intellettuale che abbiamo di fronte. Le popolazioni che abitavano la valle dell’Indo – come hanno rivelato gli scavi recentemente fatti a Harapp e a Mohenio Daro – avevano raggiunto un alto livello di organizzazione sociale, anche di tipo urbano (le città) fin dal terzo millennio a.C, presso a poco in sincronia con gli Egizi, i Sumeri e i Cinesi della valle del Fiume Giallo.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Utilizzando l’atlante, l’enciclopedia e la rete fate un’ incursione culturale nella valle dell’ Indo in particolare nei pressi delle località di Harapp e di Mohenio Daro.

Buona ricerca, e se trovate notizie utili – in biblioteca, sull’enciclopedia, sulla rete – riportatele per iscritto, bastano quattro righe…  

     Anche la società indiana dell’epoca – come tutte le società dell’Età assiale – era organizzata in caste. I popoli indoeuropei primitivi, come sostiene il più illustre specialista in materia, Georges Dumézil, riponevano il fondamento, tanto della società come dell’universo, nella collaborazione permanente di tre funzioni. La prima funzione è quella della sovranità, nel suo doppio aspetto magico e giuridico, religioso e politico: il re è mago, giudice, sacerdote e amministratore. La seconda funzione è quella della forza fisica e della potenza guerriera. La terza funzione è quella della fecondità degli uomini, degli animali e dei campi.

     Nella società indiana le tre funzioni sono svolte da tre caste rigidamente differenziate (la casta è la classe a cui si appartiene per nascita), più una quarta classe formata dalla massa indifferenziata della plebe, dei nulla tenenti al servizio delle altre classi. In India c’è la casta dei sacerdoti (brahmana, o brahmani), la casta dei nobili (ksatrya, i guerrieri), la casta dei produttori, i contadini, i commercianti, gli impiegati (vaisya) e infine la classe della plebe (i sudra). Tra le due prime caste (sacerdoti-brahmani e guerrieri-ksatrya) c’era una stretta collaborazione: «il sacerdozio non è nulla senza l’imperio; l’imperio non è nulla senza il sacerdozio» si legge nei Veda.

     I testi dei libri dei Veda sono stati scritti soprattutto dai brahmani della classe sacerdotale, ma nel periodo delle Upanishad (degli scritti filosofici in prosa) incontriamo, fra i pensatori più fecondi, anche molti sudra e molte donne.

     La gran parte dei libri vedici consiste in dissertazioni, in trattati, riguardanti l’esecuzione dei riti sacri (la liturgia, Yajurveda). I riti sacri, come la parola rivelata, sono, secondo la dottrina vedica – secondo l’Induismo – dotati di un’efficacia infallibile, se vengono eseguiti bene. Questa fiducia nella potenza meccanica dell’esecuzione del rito trae origine da consuetudini magiche, ma, ad un certo punto, nella riflessione filosofica dei pensatori indiani (tanto brahmani quanto sudra) prevale l’intuizione metafisica che va oltre il rito, va oltre le parole pronunciate, tanto che lo stesso termine Brahman indica: sia la parola sacra sia il Principio invisibile che nessuna parola può tradurre.

     Durante il periodo più antico della Storia del pensiero indiano – quello che viene chiamato il periodo di formazione della “dottrina vedica” – nel grande territorio dei libri dei Veda si aggirano soltanto i Brahmani (i sacerdoti), impegnati, con monopolio ereditario, a memorizzare le parole sacre e a tessere attorno ad esse commenti e commenti di commenti. Il loro potere di casta nella società indiana (un potere che dura ancora oggi, dopo quattromila anni) non è di ordine politico o economico (possono anche essere poverissimi) ma deriva dal loro ruolo che li lega per la vita e per la morte – come dice il loro stesso nome Brahmani – contemporaneamente  al Brahman, parola sacra, e al Brahman, Principio eterno che sta al di là di ogni parola. I Brahmani sono insieme i sacerdoti e i metafisici.

     I testi dei libri dei Veda sono di difficile lettura tuttavia è interessante – e anche Erodoto è curioso – conoscere per lo meno qualche frammento di quello che i pensatori indiani hanno prodotto. Per avere un’idea dell’enigmatica profondità in cui si addentra la riflessione filosofica indiana delle origini e di quali sono i temi costanti del pensiero indiano merita leggere due inni vedici, scritti quando ancora nulla era stato scritto né della letteratura dell’Antico Testamento né della letteratura dei poemi omerici. Il primo inno tende a sollevarci oltre il tempo e lo spazio, ma con i suoi interrogativi ci fa rimanere saldamente ancorati con i piedi per terra.

LEGERE MULTUM….

Inni vedici

Allora non c’era il non essere, non c’era l’essere; non c’era l’atmosfera

né il cielo che è al di sopra. Che cosa si muoveva? Dove? Sotto la protezione di chi? Che cosa era l’acqua del mare inscandagliabile, profonda? Allora non c’era la morte, né l’immortalità; non c’era il contrassegno della notte e del giorno.

Senza produrre vento respirava, per propria forza, quell’Uno (Brahman);

oltre di lui non c’era nient’altro. Tenebra ricoperta da tenebra era in principio;

tutto questo universo era un ondeggiamento indistinto. Quel principio vitale,

ch’era serrato dal vuoto, generò se stesso come l’Uno (Brahman) mediante la potenza del proprio calore. Il desiderio nel principio sopravvenne a lui,

il che fu la prima manifestazione della mente.

I saggi trovarono la connessione dell’essere nel non essere cercando con riflessione

nel loro cuore. Chi veramente sa, chi può qui spiegare da dove è originata,

da dove viene questa creazione? Gli dèi sono posteriori alla creazione di questo mondo; perciò chi sa dove essa è avvenuta?

Come è avvenuta questa creazione, se l’ha prodotta o se no, colui che di questo mondo è il sorvegliatore nel cielo supremo, egli certo lo sa, oppure non lo sa?

     Questa è una grande pagina ricca di suggestioni filosofiche (esistenzialiste), colpisce questo ricorso agli interrogativi e il non dare per scontato il fatto di come avvenga e se avvenga la creazione. Colpisce lo spirito di ricerca che anima questi scrivani. A questo proposito leggiamo un secondo inno vedico, in cui gli interrogativi del precedente assumono un orientamento più religioso, senza perdere però la tensione filosofica.

LEGERE MULTUM….

Inni vedici

In principio l’embrione d’oro si sviluppò: nato, divenne Signore unico delle cose.

Egli mantiene la terra e il cielo come sono:

a quale dio dobbiamo rendere la nostra offerta?

Colui che dona soffio e vigore, agli ordini del quale tutti si conformano, anche gli dèi; la cui ombra è immortalità e morte:

a quale dio dobbiamo rendere la nostra offerta?

Colui che con la sua potenza è divenuto il solo re delle cose animate,

di ciò che respira e dorme, colui che comanda ai bipedi e ai quadrupedi:

a quale dio dobbiamo rendere la nostra offerta?

Colui verso il quale rivolgono lo sguardo per implorare aiuto le due armate,

prone al suolo, tremanti nell’anima, colui che illumina il sol levante:

a quale dio dobbiamo rendere la nostra offerta?

Quando eruppero le grandi acque, generatrici di Agnis (il fuoco sprigionato

dal fulmine) portando l’universo come embrione, allora si sviluppò l’Uno (Brahma):

qual è questo dio a cui dobbiamo rendere la nostra offerta?

Colui che con la sua potenza ha abbracciato con lo sguardo le Acque,

portatrici di energia, generatrici di sacrificio, colui che fra gli dèi è stato il dio unico:

a quale dio dobbiamo rendere la nostra offerta?

     Non in tutte le loro parti i libri dei Veda (i libri della Sapienza) hanno questa impronta filosofica, per lo più essi propongono narrazioni mitologiche e discussioni sulla celebrazione dei riti. Ma quali elementi fondamentali – quali parole-chiave e idee significative – emergono dalla letteratura vedica (sapienziale)?  In principio, prima della creazione – ci raccontano i libri dei Veda – c’era solo il non-essere raffigurato come un’infinita voragine di acque, come caos, come abisso. Al di là di questo abisso c’è l’Essere, e c’è senza che se ne sappia il perché. Nell’Essere germoglia il desiderio: questo è il famoso tema del kama indiano, che corrisponde all’eros dei greci (di cui abbiamo più volte parlato), noi diremmo amore nel senso di attrazione. Il desiderio produce, nell’Essere – ci raccontano i libri dei Veda – come una spaccatura. L’Essere si spacca in due come un guscio d’uovo e a volte, infatti, l’Essere viene raffigurato come un uovo che galleggia sulle acque: metà del guscio è il cielo, l’altra metà la terra. L’Essere, mosso dal desiderio di moltiplicarsi, passa – ci raccontano i libri dei Veda – dal suo stato di immobilità impersonale (Uno e neutro) allo stato di individuo determinato e questo passaggio avviene con la pronuncia di una parola strategica per eccellenza: aham che vuoi dire io o mio. Questo passaggio è, nel pensiero vedico, quel che nell’Antico Testamento è il peccato originale. La salvezza si ottiene ritornando al di là dell’individualità personale per immergersi nell’assoluto impersonale, nell’Essere, dove la coscienza individuale si dissolve come una goccia nell’Oceano. L’essere umano, nato dopo la scissione dell’unità originaria – ci raccontano i libri dei Veda – è composto di due elementi: l’atman, che è una propaggine del Brahman o del Brahma, e la natura materiale: e noi diciamo che l’essere umano è composto di anima e di corpo. La morte è la fine di questa unione.

     La dottrina vedica elabora la credenza della trasmigrazione delle anime (samsara in sanscrito) e cioè del passaggio dell’anima da un corpo ad un altro in occasione della morte fisica. L’anima è indistruttibile perché è un’emanazione del Brahman o del Brahma, e quando si scioglie il suo vincolo con un corpo, si incarna nuovamente: o in senso ascendente, se la sua vita è stata conforme alle prescrizioni divine o in senso discendente nel caso opposto e può anche incarnarsi in un moscerino. Il samsara, la trasmigrazione, è diventato un caposaldo del pensiero indiano in tutte le sue ramificazioni. I Brahmani, nel concetto della trasmigrazione delle anime, trovano una comoda legittimazione delle proprie qualità di casta superiore e trovano una giustificazione per la divisione gerarchica della società da loro dominata: ognuno si trova nella casta meritata durante l’esistenza precedente e nulla può cambiare.

     Ma questa dottrina può anche rappresentare un varco aperto nella rigida egemonia della casta brahmanica, infatti: se quel che conta è la condotta della vita, allora l’osservanza morale (fare un’opera di bene) vale di più dell’osservanza rituale (assistere a una cerimonia religiosa), e allora anche i membri delle caste inferiori, anche i sudra, che sono esclusi dal rito, possono, compiendo opere di bene, percorrere le vie della liberazione. E difatti, fin dai primi secoli dell’ultimo millennio a.C., per opera di Brahmani più illuminati e di membri di altre caste, il pensiero indiano si libera dalle maglie delle discussioni sul culto per mettere in primo piano la ricerca filosofica, l’approfondimento morale e la riflessione ascetica. Possiamo dire che c’è una lenta emancipazione dei laici nei confronti del chiuso mondo sacerdotale, e c’è un’emancipazione della ragione nei confronti dei dogmi inalterabili e nei confronti delle parole sacre da ripetere con fiducia magica.

     Questa rivoluzione culturale raggiunge il suo culmine nell’Età assiale, attorno al VI secolo a.C, e produce le più alte espressioni, dal punto di vista filosofico, con le Upanishad. Le Upanishad (gli scritti filosofici in prosa contenuti nei libri dei Veda) criticano con grande determinazione i riti e il culto fine a se stesso. Le formule magiche della liturgia vengono paragonate a barche mal sicure a cui si affidano degli sciocchi già sopraffatti dall’ignoranza e dalla superstizione. Gli scrivani delle Upanishad insinuano ironicamente che il vero fondamento dei riti sia la cupidigia e l’avidità dei sacerdoti.

     Comunque, tutto sommato, nelle Upanishad la critica è marginale, il loro vero pregio è lo slancio riflessivo da cui, si può dire, è nata una volta per sempre la filosofia dell’India. Il tema di fondo delle Upanishad è quello già posto dagli inni vedici che abbiamo letto: in principio che cosa c’era? L’Essere o il Nulla? Gli scrivani delle Upanishad superano lo stato di incertezza in cui restavano gli anonimi autori degli inni vedici. Leggiamo un frammento significativo.

LEGERE MULTUM….

Upanishad

All’inizio, mio caro, null’altro v’era che l’Essere unico e senza secondo.

Altri in verità dicono: “All’inizio v’era il non-essere, uno e senza secondo; da questo non-essere nacque l’Essere”. Ma davvero, o caro, come potrebbe essere così? Come dal non-essere l’Essere potrebbe nascere? In verità è l’Essere che esisteva al principio delle cose, l’Essere solo e senza secondo. Allora l’Essere pensò: possa io diventare molti, possa io generare. E così produsse il calore. Il calore pensò: possa io diventare molti, possa io generare. E produsse le acque.

     L’Essere che – secondo gli scrivani delle Upanishad – è fin da principio, viene chiamato Brahman ma anche, in forma neutra, Brahma. La variante grammaticale non è una cosa da poco: essa indica che l’Essere delle Upanishad, quando viene chiamato Brahma, è impersonale e allora, in questo caso, l’Essere non si identifica con Dio. In ogni caso, dell’Essere – che venga chiamato Brahman (per indicare un oggetto “divino”) o Brahma (per indicare un oggetto “impersonale”) – nulla si può dire se non che è. Lo si chiama sat, “ciò che è”, o tat, “la cosa”. «Il suo nome segreto – si legge nelle Upanishad è realtà delle realtà». L’essere umano di lui può solo sapere ciò che non è e non quel che è. «Tu sai che Brahma è, non sai che cos’è. È l’essere antico, inaccessibile a tutti i sensi, l’Essere sprofondato nell’ignoto, l’Essere avvolto dall’ombra, abitatore dell’abisso. Inconoscibile in sé, Brahman è colui in cui sono tessuti il cielo, la terra e l’atmosfera, perfino lo spirito e tutti i sensi». «Il mondo intero viene da lui e vibra nel suo soffio». «Si muove ed è immobile, è lontano e tuttavia è vicino, è in tutto e tuttavia è al di fuori di tutto. È il braciere ed è le scintille che schizzano dal braciere e vi ricadono, è il mare ed è le onde del mare, diverse e identiche al mare».

     (Come lettori siamo, prima di tutto, affascinati dalle metafore poetiche) L’uso dei due termini, Brahman e Brahma, mette in evidenza il fatto che le Upanishad contengono una straordinaria contraddizione (“aporia”, direbbe Erodoto) sulla natura del Principio supremo. Il Principio supremo è un Essere di natura personale e divina, è Dio che viene identificato con la parola Brahman? Oppure il Principio supremo è un Essere impersonale e necessario, è la componente primaria dell’Universo, della stessa natura dell’Universo, che viene identificato con la parola Brahma? Se il Principio supremo è un Essere di natura personale e divina, se è Dio, che viene identificato con la parola Brahman, allora le Upanishad sembrano coltivare l’idea del panteismo, cioè l’idea della totale identificazione tra Dio e il mondo.

     Ma il linguaggio filosofico indiano è sfumato, è poetico, è contraddittorio, e dobbiamo guardarci dal chiuderlo in definizioni a senso unico. Dove la tendenza panteistica sembra affermarsi in modo decisivo è nel rapporto tra Brahman, l’Essere di natura personale e divina, nascosto sotto il mondo visibile, e l’atman, l’anima. Cos’è l’atman, che cos’è l’anima per il pensiero indiano delle Upanishad? Se l’anima è l’onda rispetto al mare, se è la scintilla rispetto al braciere, se è il sospiro rispetto al soffio vitale: questo significa che Dio e anima sono la stessa cosa? I testi dei libri dei Veda (la Sapienza) – come i testi di tutti i grandi apparati culturali dell’Età assiale – contengono un pensiero eterogeneo, spesso contraddittorio e in questo, in questa continua necessità di interpretazione e di esegesi (di lettura attenta), sta anche il loro fascino e la loro bellezza.

     Come intendono distinguere, gli scrivani delle Upanishad, il concetto dell’Essere universale dal concetto dell’anima individuale? Il testo delle Upanishad, a tal riguardo, tende (con una raffinata riflessione intellettuale) a distinguere in ogni essere umano: l’io dal sé. Nella persona l’io è l’elemento esteriore legato al divenire delle cose, alla casta a cui appartiene, agli interessi che la muovono, mentre il sé costituisce la sua realtà più profonda, il mondo interiore, che non ha niente a che fare col mondo esterno, con la casta o con gli avvenimenti della società. L’io – scrivono i saggi delle Upanishad – è un’illusione dovuta all’ignoranza e quindi di reale, nell’essere umano, c’è solo il sé, l’atman, l’anima. Quando l’essere umano dice “io” commette il peccato della separazione di cui parla l’antico inno vedico, e quando invece si raccoglie nella sua interiorità scopre di essere una sola-cosa con Brahman (l’Essere divino) o con Brahma (l’Essere impersonale) così come la scintilla è una sola cosa col braciere, il sospiro è una sola cosa col soffio vitale, l’onda è una sola cosa col mare e il mare contiene tutte le onde e in ogni onda abita l’intera vita del mare. Sul versante delle cose materiali, l’essere umano è un io, sul versante del Brahman o del Brahma, la persona è un solo Sé (La sua essenza interiore). L’atman, l’anima, vivifica l’individuo quando egli riconosce in sé il tutto: Tat tvam asi, tu sei questo tutto, e, in questa significativa formula troviamo sintetizzata la sapienza delle Upanishad. L’atman (l’anima) è il Brahman (l’Essere divino) o il Brahma (l’Essere impersonale) e viceversa, ogni individuo ha dunque in sé l’universo intero.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Il pensiero indiano emergente dai libri dei Veda c’invita a riflettere su grandi temi esistenziali: è l’universo ad essere dentro di noi e tutto ciò che ci circonda è illusione ?

Oppure siamo noi ad essere dentro all’universo e le illusioni sono dentro di noi ?…

Molto più semplicemente: qual è, oggi, il vostro universo ? Che cosa e chi ne fa parte ?

Scrivete quattro righe in proposito…

     Leggiamo un altro frammento in cui la poesia ruba spazio alla filosofia.

LEGERE MULTUM….

Upanishad

Questa mia anima, atman, all’interno del cuore è più piccola che un granello di riso o un chicco d’orzoquesta mia anima all’interno del cuore è più grande della terra, più grande dell’atmosfera, più grande del cielo più grande di questi mondiIn verità, come il mondo spaziale si estende, così si estende lo spazio del cuore. In esso sono contenuti cielo e terra, fuoco e vento, sole e luna folgore e stelle, ciò che si possiede e ciò che non si possiede. Ogni cosa è contenuta in esso.               

     Come si vede, anche il mondo materiale è compenetrato dall’atman, che è dunque, insieme, sia il principio primo, Brahman o Brahma, sia l’anima dell’individuo, sia l’anima dell’universo fisico. L’universo, se considerato nella molteplicità delle cose di cui è composto – secondo il pensiero indiano – è un’illusione (maya). Il vero peccato, secondo le Upanishad, è l’ignoranza, e l’ignoranza consiste nel considerare l’io, l’esteriorità, come se fosse davvero reale, mentre di reale c’è solo il Sé, l’interiorità della persona. La salvezza è nella conoscenza e cioè nel riconoscere che l’io è illusorio ed è illusoria anche la natura, con le sue vicende di nascita e di morte. Chi ha la conoscenza non dà importanza al proprio nascere o al proprio morire. È l’io che muore, non il Sé. L’atman (l’anima) è prima della nascita ed è dopo la morte. L’atman (l’anima) – secondo gli scrivani delle Upanishad – è l’unico principio reale, il corpo ha un’esistenza puramente mentale come quella che le cose hanno mentre le sogniamo.

     L’universo intero, con tutte le sue vicende, comprese le più drammatiche, diventa allora come una pura e semplice apparizione mentale. Leggiamo ancora un frammento…

LEGERE MULTUM….

Upanishad

Non nasce e non muore il Saggio, non egli da qualche cosa ebbe origine come una qualche cosa; innato, perpetuo, eterno, questo Antico (l’atman) non viene ucciso quando il corpo è ucciso. Se l’uccisore pensa di uccidere, se l’ucciso ritiene di essere ucciso, ambedue costoro sono privi di discernimento: non costui uccide né viene ucciso. Più piccolo del piccolissimo, più grande del grande, l’atman di ogni essere risiede nella parte più celata.

      La liberazione dall’ignoranza avviene attraverso un assoggettamento dei sensi alla giusta conoscenza per mezzo di una disciplina: lo Yoga, che in questi ultimi tempi ha conosciuto una straordinaria diffusione anche in occidente. Ma lo Yoga (il termine significa “giogo”, soggiogamento dei sensi alla conoscenza) praticato dai discepoli delle Upanishad non comporta soltanto una tecnica di posizioni corporali e di controllo del respiro, lo Yoga è una disciplina che mira a far entrare la persona in contatto con l’Essere, col Brahman o col Brahma. Lo Yoga consiste in un contatto intuitivo («la verità è nel lampo») col sé riconosciuto come Brahman o come Brahma. È un contatto che spezza il velo illusorio del tempo (il velo di Maya) per introdurre nell’eternità, la quale non è la durata dopo la morte, ma è una diversa durata che è già interna alla persona ma che la persona, prigioniera dei confini dell’io, normalmente non percepisce perché travolta dalla danza delle cose. “Nell’intuizione dell’eterno è la salvezza”, si legge nelle Upanishad. Come tutto il pensiero indiano, quello delle Upanishad è mosso da un bisogno globale di uscire dalla prigionia del tempo e della storia per raggiungere il grande oceano del Brahman o del Brahma dove tutte le acque sono tranquille. Leggiamo ancora un frammento.

LEGERE MULTUM….

Upanishad

Così come quando i vasi sono distrutti lo spazio che era in quei vasi fa una sola cosa con lo spazio totale, così l’essere umano che spezza i suoi limiti non fa che una sola cosa con l’Atman  (l’anima).

     L’India, per Erodoto, rappresenta uno dei suoi tanti incontri con la diversità, rappresenta la scoperta di uno dei tanti mondi, diversi da quello greco, che c’erano al di là della polis. Gli intellettuali del ‘900 raccontano spesso il loro incontro con l’India e lo descrivono – a partire anche da una serie di contraddizioni – come un incontro straordinario e affascinante, come una grande lezione di umiltà. Noi ascoltiamo molti intellettuali, scrittrici e scrittori del ‘900 (Friedrich Nietzsche, Hermann Hesse) affermare che:

     “l’India insegna a essere umili,  si ritorna da quel viaggio vergognandosi di non avere letto abbastanza e di essere ignoranti, si scopre che una cultura estranea non si svela a comando e che, per conoscerla, occorre una lunga e solida preparazione, dopodiché si capisce che non si tratta di una cultura estranea, ma di uno strato profondo della nostra cultura, della cultura universale”…

     E allora molti intellettuali, scrittrici e scrittori del ‘900 si sono messi in ricerca (seguendo l’esempio di Erodoto) e quasi tutti (magari in un negozio di libri usati) hanno scoperto il Compendio di filosofia indiana di Paul Deussen, edito nel 1914. Il professor Deussen, è un famoso indianista amico di Nietzsche, e ha spiegato per primo la sostanza della filosofia indiana, ed è tra i primi ad aver studiato il concetto dell’Età assiale della storia. Dopo aver compiuto il nostro (seppur breve e virtuale) viaggio nel pensiero indiano delle origini possiamo capire meglio le parole del professor Deussen anche quando parla della pigrizia mentale europea nei confronti dell’India e soprattutto quando ci conferma che Erodoto viaggia insieme a noi. Leggiamo da:

LEGERE MULTUM….

Paul Deussen, Compendio di filosofia indiana (1914)

Per il pensiero indiano il mondo è maya, è illusione. Tutto è illusorio, con una sola eccezione: il mio sé, il mio atman L’essere umano sente di essere il tutto. Non può desiderare nulla perché ha tutto quello che si può avere. Sentendosi il tutto, non reca danno a niente e a nessuno, in quanto nessuno danneggia se stesso.

La pigrizia europea cerca di evitare lo studio della filosofia indiana. Forse anche perché, essendo nata quattromila anni fa senza mai smettere di svilupparsi, è diventata un mondo talmente vasto da scoraggiare gli incauti desiderosi di comprenderla e approfondirla. Inoltre nel pensiero indiano la sfera dell’incomprensibile è sconfinata, popolata di fenomeni stupefacenti, violenti e contraddittori. Tutto passa con la massima naturalezza nel proprio opposto; il confine tra la vita quotidiana e l’esperienza mistica è fluido e inafferrabile; una cosa diventa un’altra o, addirittura, una cosa è eternamente l’altra; l’Essere si trasforma in Nulla, si dissolve, per tramutarsi nel cosmo in una celeste onnipresenza, in una via divina che svanisce negli abissi del non essere. Il pensiero indiano è popolato da un’infinità di dèi, miti e credenze; da centinaia di scuole, orientamenti e tendenze d’ogni genere; da decine di vie alla salvezza, sentieri di virtù, pratiche di purificazione e regole d’ascesi.

Il territorio del pensiero indiano è talmente vasto che in esso c’è posto per tutto e tutti nella reciproca accettazione, concordia e tolleranza. Impossibile dire quanti siano i testi sacri del pensiero indiano raccolti nella letteratura dei libri dei Veda: uno solo di essi, il Mahabharata, conta circa duecentoventimila versi di sedici sillabe: otto volte l’Iliade e l’Odissea messe insieme.

Dalla letteratura vedica (sapienziale) deriva un lungo catalogo di manuali dedicati alla disciplina yoga: manuali per la buona salute fisica e per una corretta respirazione, corredati da numerosi esercizi. Anche ne Le Storie di Erodoto, dove, a detta di molti filologi, possiamo cogliere più di un’eco delle Scuole indiane, troviamo, per una decina di volte l’affermazione che “il respiro (anàpneusis) è il modo primario con cui l’essere umano comunica con il mondo”.

Per lo yoga – la disciplina attraverso la quale s’intuisce l’Essere – l’attività del respirare è la più importante per la persona, in quanto è la via per mezzo della quale l’individuo comunica con il mondo. Dalla qualità del nostro respiro dipende infatti la qualità della nostra vita, ossia la capacità di essere sani, forti e intelligenti. Purtroppo, la maggior parte delle persone, soprattutto in Occidente, respira in modo sbagliato, dal che nascono malattie, infermità, deperimenti, depressioni e ignoranza. La parte che interessa maggiormente sono gli esercizi destinati a sviluppare le facoltà creative, settore in cui le persone incontrano le maggiori difficoltà. “Sdràiati sul pavimento o sul letto,” prescrivono i manuali yoga, “rilassati e senza tendere i muscoli, posa leggermente le mani sul plesso solare e respira ritmicamente. Quando il ritmo si sarà stabilizzato, fa sì (esprimendone mentalmente il desiderio) che ogni inspirazione apporti una maggiore quantità di prana, ossia di forza vitale, dalla fonte cosmica e la trasmetta al tuo sistema nervoso, concentrando il prana nel plesso solare. A ogni inspirazione fa sì che il prana, ossia la forza vitale, si diffonda per tutto il corpo”.

     Il professor Paul Deussen contribuisce anche a far conoscere in Occidente non solo il pensiero indiano delle origini ma anche un personaggio suo contemporaneo: Rabindranath Tagore (1861-1941). 12RT… 6. Tagore è uno scrittore, un poeta, un compositore, un pittore, un filosofo indiano che è stato paragonato a Goethe e a Jean-Jacques Rousseau. Tagore (insieme a Gandhi) con le sue opere – anche perché le ha tradotte personalmente in inglese – è riuscito a far capire la grande spiritualità del suo Paese in tutto il mondo, quando l’India era ancora una colonia nelle mani della corona britannica (della compagnia delle Indie).  A Tagore nel 1913 è stato conferito il Nobel per la letteratura e tra le sue opere più importanti ricordiamo le due raccolte di poesie intitolate: Gitanjali e Il Giardiniere.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Potete fare una ricerca su Tagore utilizzando la biblioteca (dove trovate le sue opere), l’enciclopedia (dove trovate le notizie sulla sua vita) e la rete (a Tagore sono dedicati molti siti)…

     In funzione della didattica della lettura e delle scrittura è utile leggere anche l’opera in prosa di Tagore e soprattutto – tanto per entrare nello spirito dell’India quanto per incontrare questo personaggio – è (sarebbe) interessante leggere la sua autobiografia intitolata  Shoron - Ricordi , pubblicata nel 1923. Leggiamo un frammento – molto evocativo, per noi (e anche per Erodoto) – tratto da:

LEGERE MULTUM….

Rabindranath Tagore, Shoron - Ricordi  (1923)

Da bambino venivo chiamato il piccolo Rabi, ed ero discendente da una principesca famiglia di brahmani bengalesi, e mi distinguevo per l’obbedienza ai genitori, i buoni voti a scuola e una devozione esemplare. Ricordo con gioia che la mattina, ancora al buio, mio padre, con delicatezza, mi svegliava per farmi studiare a memoria le declinazioni sanscrite. Poi al sorgere il sole, mio padre ed io, dopo aver recitato gli inni sapienziali, finivamo di bere il latte mattutino, dopodiché ci rivolgevamo nuovamente all’Essere supremo cantando le Upanishad.

Quest’uomo adulto oggi, cinquant’anni dopo, attraverso lo specchio della scrittura, cerca di immaginare come fosse la figura materiale del piccolo Rabi che all’alba, mezzo addormentato, guardava sorgere il sole cantando le Upanishad insieme a suo padre, ma il velo della nostalgia si posa su queste immagini materiali desiderate rendendole vaghe, indistinte, illusorie, mentre il sentimento spirituale del piccolo Rabi è rimasto intatto, come realtà ben distinta, nell’animo di un uomo ormai maturo che è stato, una volta, un bambino. 

Le Upanishad sono canti filosofici di tremila anni fa, ma sempre vivi e presenti nella vita spirituale dell’India. Ora, da uomo adulto, me ne rendo conto meglio e, mentre vedo mentalmente, seppur in modo vago e frammentario, il piccolo Rabi che salutava l’aurora con le strofe delle Upanishad, capisco chiaramente come, nel mondo, si faccia fatica a comprendere un paese dove i bambini iniziano la giornata intonando versetti filosofici

     (Noi ci siamo ridotti a far vedere, ai bambini, cartoni animati – farciti di spot – fin dal mattino…) Questa bella riflessione è anche una critica (sebbene molto velata ma molto severa) contro il colonialismo occidentale (l’India fino al 1948 sarà una colonia britannica) che ha esclusivamente una visione materiale del mondo e quindi illusoria. Una visione, quella del colonialismo occidentale – sostiene Tagore – che non è in grado di cogliere la vera realtà delle cose che è di natura spirituale.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Probabilmente voi, da bambine da bambini, all’alba, non recitavate gli Inni vedici e non cantavate le Upanishad come faceva il piccolo Rabi, ma certamente avete molti ricordi legati al risveglio mattutino della vostra infanzia: scrivete quattro righe in proposito…

     E ora concludiamo leggendo due frammenti poetici tratti dalla raccolta intitolata Il Giardiniere (1913). In linea con il pensiero vedico (sapienziale) delle origini, Tagore definisce l’Essere, il Principio supremo (il Brahman o il Brahma) con una metafora, con la figura del Giardiniere. C’è un Giardiniere supremo la cui benefica attività si manifesta in ciascun essere umano il quale deve prendere coscienza e deve imparare ad essere il Giardiniere del proprio giardino spirituale: la vita si carica di senso solo se la persona si dedica alla cura – solo se la persona “desidera” dedicarsi alla cura – del proprio giardino spirituale. Nei versi di Tagore la Natura – con il suo alone di suggestione e di incanto – è in primo piano come pretesto per descrivere situazioni profonde e appassionate dell’anima (dell’atman), legate alla gioia e al dolore ma soprattutto legate alla parola-chiave che – secondo il pensiero indiano – emerge per prima dalla natura umana e che viene rimandata alla natura dell’Essere: la parola desiderio, brama, Brahma. La parola “desiderio” si confonde con la parola Brahma che definisce l’Essere supremo, il quale, proprio perché è Uno e Impersonale, possiede come caratteristica principale, quella di “desiderare” di moltiplicarsi.

      La parola “desiderio” si confonde poi con la parola atman, l’anima, la quale, essendo una goccia, una scintilla, un sospiro dell’Essere (Brahman o Brahma), “desidera” tornare a tuffarsi, a bruciare, a respirare nell’Unità dell’Essere. L’Essere desidera moltiplicarsi e si frantuma in tante anime è ogni anima desidera ristabilire l’unità con l’Essere: ecco l’immagine della condizione contraddittoria e inquietante che, come esseri umani, sperimentiamo quotidianamente. Il termine “desiderio”, con l’idea che contiene, è la parola centrale del pensiero delle Upanishad indiane ed è anche una delle principali parole-chiave delle opere di Tagore. Tagore, come filosofo e come esegeta delle Upanishad, sviluppa una significativa riflessione sul tema, contraddittorio (aporetico), del “desiderio”. Per un verso il desiderio si presenta come brama, come voglia di moltiplicarsi, di rompere l’unità assoluta e per l’altro verso il desiderio si presenta come aspirazione a tornare ad essere tutt’uno con l’Essere, a ricomporre l’unità assoluta: in questa contraddizione (aporìa) l’essere umano vive in bilico, in continuo equilibrio instabile tra la gioia e il dolore. E ora leggiamo i due frammenti poetici tratti dalla raccolta intitolata Il Giardiniere

LEGERE MULTUM….

Rabindranath Tagore, Il Giardiniere  LXXXIV  LXXXV  (1913)

Sopra le risaie verdi e gialle passano le ombre delle nubi autunnali

inseguite dal sole rapido e incalzante.

Le api dimenticano di succhiare il miele; ebbre di luce, ronzano in una danza vibrante.

Le anatre, sulle isolette del fiume, starnazzano allegre senza motivo e senza sosta. Nessuno torni a casa stamattina, fratelli, nessuno vada a lavorare.

Prendiamo d’assalto il blu terso del cielo, deprediamo lo spazio nella corsa.

Le risate vagano nell’aria come spuma scintillante sulle onde del mare.

Fratelli, con canzoni leggere sperperiamo il nostro mattino, a cantare.

 

Chi sei tu, lettore, che leggi le mie poesie tra un centinaio d’anni?

Non posso inviarti un solo fiore dalla ricchezza di questa primavera,

non posso inviarti una sola striatura d’oro dalle nubi lontane cent’anni.

Ma tu, adesso, apri le porte e guardati intorno.

Dal tuo giardino in fiore puoi cogliere tutti i ricordi fragranti perché

il Giardiniere non ha mai smesso di curare nessuno dei fiori

apparentemente svaniti un centinaio d’anni avanti.

Nella gioia del tuo cuore possa tu sentire ora l’esultanza che cantò il mio cuore

in un mattino di primavera: una voce lieta attraversa un centinaio d’anni

una voce allegra attraversa sempre, del tempo e dello spazio, ogni frontiera.

     La cura del proprio giardino spirituale, il desiderio di prendersi cura del proprio giardino spirituale produce un alleggerimento, favorisce un allontanamento del dolore, della sofferenza, dell’inquietudine. Questi termini dolore, sofferenza, inquietudine li troviamo anche nel vocabolario di Erodoto e corrispondono alla parola greca patos-páthos. E ancora una volta questi termini, che corrispondono alla parola greca patos-páthos, rimandano, attraverso Le Storie di Erodoto, al pensiero indiano delle origini e al tema dell’Età assiale della storia con il suo patrimonio di parole-chiave e di idee-significative che abbiamo ricevuto in eredità.

     Rimaniamo quindi ancora in India. Erodoto si è incuriosito e “allude”, e con la sua “voce allegra che attraversa sempre ogni frontiera del tempo e dello spazio (per usare le parole di Tagore)” c’invita a seguirlo nella valle del Gange in una città che si chiama Benares.

     Che cosa dobbiamo andare a fare a Benares? Dobbiamo andare ad incontrare una persona, un uomo contemporaneo di Erodoto (nel senso che quando quest’uomo è morto, Erodoto nasceva). Chi è quest’uomo, chi è questa persona? Questa persona si chiama Gotamo Siddharta, è uno studioso delle Upanishad, e un giorno, a Benares, in un parco, ha tenuto un discorso, un famoso discorso, che ha lasciato il segno nell’Età assiale della storia tanto che – ci dicono gli studiosi – un’eco di questo discorso deve anche essere arrivato alle orecchie di Erodoto sebbene in vita sua, Erodoto, non ha mai saputo dell’esistenza di questa persona e di questo discorso. Sapete che cosa ha detto Gotamo Siddharta, a Benares, nel suo celebre discorso? Accorrete, il viaggio continua e la Scuola è qui…

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Gennaio 27, 2006