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LO SGUARDO DI ERODOTO SUL DISCORSO (AUTOBIGRAFICO) DI BENARES…

Lezione N.: 
13

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sguardo di Erodoto 2006         1-2-3  febbraio  2006

          LO SGUARDO DI ERODOTO

SUL DISCORSO (AUTOBIGRAFICO) DI BENARES…

     Da tre mesi e mezzo siamo in viaggio su questo Percorso e nei nostri gruppi il numero dei lettori de Le Storie di Erodoto sta gradualmente crescendo: lo si capisce dalle (brevi) conversazioni e dalla lettura dei numerosi testi scritti che ogni settimana entrano nella biblioteca itinerante. Leggendo l’opera di Erodoto capita spesso di imbattersi in termini come dolore, sofferenza, inquietudine, e capita di imbattersi in situazioni (sono numerosissime) in cui Erodoto descrive un clima di dolore, di sofferenza, di inquietudine. Questi termini e questo clima, nel vocabolario di Erodoto, corrispondono alla parola greca páthos.

     Il páthos, nel testo de Le Storie, è una situazione che conduce Erodoto (abbiamo già espresso questo concetto qualche settimana fa) ad assumere un atteggiamento di pensosa partecipazione per le vicende degli esseri umani, Erodoto considera gli esseri umani contemporaneamente protagonisti e vittime della Storia ed è il primo a teorizzare questa idea in Occidente, ma questo concetto ha già una sua storia.

     E ancora una volta questi termini – dolore, sofferenza, inquietudine – che corrispondono alla parola greca páthos, rimandano, attraverso Le Storie di Erodoto, al pensiero indiano delle origini e al tema dell’Età assiale della storia con il suo patrimonio di parole-chiave e di idee-significative che abbiamo ricevuto in eredità. L’Età assiale della storia rappresenta, nel VI secolo a.C, il punto di partenza, certo e documentato, della Storia del Pensiero Umano.

     Secondo gli studiosi il testo de Le Storie di Erodoto “allude” all’Età assiale della storia ed è un’allusione di prima mano perché anche Erodoto vive a ridosso di quest’età. Nella scrittura e nel racconto di Erodoto troviamo, per la prima volta, una riflessione sulle più antiche civiltà umane, e troviamo una serie di parole-chiave e di idee significative le quali ci confermano che, 2500 anni fa, la Storia della cultura è nata, si è sviluppata e sta dando i suoi frutti.

     Erodoto, con le sue “allusioni”, ci fa capire che le antiche civiltà – sumerica, egizia, indiana, cinese – portano l’homo sapiens fuori dall’età della pietra, fuori dalla preistoria. In seno a queste civiltà si formano le parole-chiave originarie e le idee-significative primordiali che danno il via allo sviluppo della Storia del Pensiero Umano. Il testo de Le Storie di Erodoto “allude” a questa partenza, a questa spinta iniziale, e l’opera di Erodoto risulta importante soprattutto in funzione di questa allusione.

     Un Percorso di didattica della lettura e della scrittura deve far riflettere con attenzione sul fatto che Le Storie di Erodoto si presentano anche come il deposito, il magazzino, il ripostiglio delle parole-chiave originarie e delle idee-significative primordiali. La conoscenza delle parole originarie e la comprensione delle idee primarie ci permettono di imparare a leggere la storia dell’infanzia della nostra mente e di imparare a scrivere la nostra autobiografia esistenziale accompagnandola con la nostra autobiografia intellettuale.

     Le Storie di Erodoto sono anche il terreno su cui possiamo dedicarci all’archeologia del sapere e su quest’area – data dal testo dell’opera di Erodoto – noi dobbiamo scavare, portare alla luce, indagare, ricercare, approfondire, investigare, esplorare, scrutare, esaminare, trovare per avere voglia di continuare a scavare.

     Siamo ancora in India dove la scorsa settimana abbiamo incontrato le parole-chiave e le idee-significative contenute nella letteratura dei libri dei Veda (i libri della Sapienza) in particolare contenute nei trattati filosofici chiamati Upanishad (i Dialoghi). Con la complicità dello scrittore, poeta e filosofo, Rabindranath Tagore, abbiamo imparato la parola-chiave che – secondo il pensiero indiano – emerge per prima dalla natura umana e che viene rimandata alla natura dell’Essere: la parola desiderio, brama, Brahma. La parola “desiderio” si confonde con la parola Brahma che definisce l’Essere supremo, il quale, sebbene o proprio perché è Uno e Impersonale, possiede, come caratteristica principale, quella di “desiderare” di moltiplicarsi. La parola “desiderio” si confonde poi con la parola atman, l’anima, la quale, essendo una goccia, una scintilla, un sospiro dell’Essere (Brahman o Brahma), “desidera” tornare a tuffarsi, a bruciare, a respirare nell’Unità dell’Essere.

     Il termine “desiderio”, con l’idea contraddittoria (aporetica) che contiene, è la parola centrale del pensiero delle Upanishad indiane ed è anche una delle principali parole-chiave delle opere di Tagore. Tagore, come filosofo e come esegeta delle Upanishad, sviluppa una significativa riflessione sul tema contraddittorio (aporetico) del “desiderio”. Per un verso il desiderio si presenta come brama, come voglia di moltiplicarsi, di rompere l’unità assoluta e per l’altro verso il desiderio si presenta come aspirazione a ricomporre l’unità assoluta dell’Essere: in questa contraddizione (aporìa) la persona vive in bilico, in continuo equilibrio instabile tra la gioia e il dolore.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura

La parola “desiderio” rimanda ad un catalogo di parole significative: brama, voglia, cupidigia, smania, frenesia, struggimento, aspirazione, avidità, sete, passione… Quale di queste parole metteresti per prima e quale per ultima in quest’elenco?…

Desidèri passati, desidèri presenti, desidèri futuri: la parola “desiderio” coincide con l’autobiografia di tutti gli esseri umani, scrivi quattro righe in proposito…

     Secondo il pensiero indiano delle origini, è il “desiderio” che fa vivere l’essere umano in bilico, in continuo equilibrio instabile tra la gioia e il dolore. Per riflettere ulteriormente su questo concetto – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – ci dobbiamo spostare, in compagnia di Erodoto, nella valle del Gange in una città che si chiama Benares.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Utilizzando l’atlante puoi andare, su una carta dell’ India, ad osservare dove si trova la città di Benares… Benares (in lingua hindi Varanasi) si trova nella regione dell’ Uttar Pradesh, sulla riva sinistra del Gange, è una città sacra per eccellenza e ci sono circa 1500 templi…

Fai una visita a Benares utilizzando l’ enciclopedia, o una guida dell’ India che puoi trovare il biblioteca o la rete, buon viaggio e se vuoi puoi prendere qualche appunto di viaggio, bastano quattro righe…

     A Benares – nella Benares di 2500 anni fa – dobbiamo incontrare una persona, un uomo contemporaneo di Erodoto (nel senso che quando quest’uomo è morto, Erodoto nasceva). Questa persona si chiama Gotamo Siddharta, e un giorno, a Benares, in un parco, ha tenuto un discorso, un famoso discorso, che ha lasciato il segno nell’Età assiale della storia tanto che – ci dicono gli studiosi – un’eco di questo discorso deve anche essere arrivato alle orecchie di Erodoto sebbene in vita sua non abbia mai saputo dell’esistenza di questa persona (la scopre oggi).

     Chi è Gotamo Siddharta e perché la sua riflessione è importante nella Storia del Pensiero Umano? La vita di questo personaggio ci è stata tramandata in racconti leggendari, ispirati a un’ammirazione per le sue qualità di Maestro che spesso raggiunge le forme del culto religioso. È difficile discernere in queste agiografie (storie della vita dei Santi) i dati sicuramente storici. Di storico si può dire che Gotamo Siddharta nasce nel clan dei Sakya, a Kapilavatsu, una località del Nepal, verso l’anno 563 a.C. e conduce un vita agiata fino all’età di 29 anni quando, sposato e padre di un figlio, decide di lasciare la famiglia e di intraprendere la vita dello Yogin (del monaco), che consiste in dure pratiche ascetiche e nella applicazione delle tecniche Yoga secondo la dottrina dei libri dei Veda (dei libri della Sapienza indiana).

     Che cosa ha spinto Gotamo Siddharta a farsi monaco secondo la rigida disciplina della dottrina vedica (sapienziale)? La sua vocazione prende forma dopo un’improvvisa intuizione sul carattere universale del dolore. Gotamo Siddharta inizia uno stremante eremitaggio durante il quale viene chiamato Sakiamuni, l’asceta, il monaco della famiglia dei Sakya. Dopo sei anni di rigorosa vita monacale si persuade però che non è questa la via per uscire dal cerchio delle reincarnazioni, non è questa la strada per tornare ad essere tutt’uno col Brahman e per liberarsi dalla condizione del dolore che, nella vita, supera di gran lunga la condizione della gioia.

     I racconti sulla vita di Gotamo Siddharta narrano che, un pomeriggio, al tramonto, mentre stava seduto a riflettere sotto il fico sacro (anche gli alberi possono essere un tempio) nei pressi di Bodh Gaya, ebbe un’illuminazione, fu illuminato da un’idea. In sanscrito il termine “illuminato” si traduce bodhy, da cui Buddha, che è il nome più comune con cui noi conosciamo questo personaggio della Storia del Pensiero Umano. Questa illuminazione, questa idea, chiarisce a Gotamo Saddharta le cause del dolore universale e la via per uscirne. Dopo un po’ di tempo passato a predicare e a mettere a punto il suo progetto di salvezza, annuncia pubblicamente la sua scoperta in un discorso, tenuto nel Parco dei Cervi, a Benares. Per tutta la vita Gotamo Siddharta, l’Illuminato di Benares, si dedica a predicare le sue “quattro verità” e ad organizzare la vita monastica dei suoi seguaci. Muore intorno all’anno 480 a.C nello stesso periodo di tempo in cui ad Alicarnasso nasce Erodoto.

     Buddha, l’Illuminato di Benares, non ha lasciato nulla di scritto. Sono stati i suoi discepoli a trascrivere e a sviluppare il suo insegnamento, dando vita a un insieme di testi sacri che sono stati ordinati in un canone (in un catalogo) dal concilio di Pataliputra, nel 215 a.C. Secondo questa distribuzione, gli scritti sacri del buddismo si distinguono in tre “canestri - pitaka”.

     Il Canestro dei sermoni (Suttapitaka) che riporta la parola attribuita a Gotamo Siddharta, attribuita al maestro.

     Il Canestro della disciplina (Vinayapitaka), che contiene le regole della vita monastica.

     Il Canestro della dottrina (Abbidhammapitaka), che raccoglie scritti di commento, di esegesi, sulla parola del maestro e sulle regole della vita monastica.

     Il buddismo, come l’induismo, è rimasto una tradizione viva che ha prodotto, lungo i secoli, un patrimonio immenso di scrittura, di dottrine, di letteratura. Il pensiero di Gotamo Siddharta, dell’Illuminato di Benares, nasce e si sviluppa sulla scia delle Upanishad, e va collocato dentro un processo sociale e culturale di transizione verso l’autonomia della coscienza dell’essere umano. Le idee di Gotamo Siddharta fanno transitare il pensiero indiano dal primato dei dogmi, rivelati da Brahman e custoditi dal clero, al primato della ragione laica, decisa a restituire all’essere umano in quanto tale il peso del suo destino e del suo itinerario di salvezza. Il pensiero di Gotamo Siddharta è, sulla linea della ragione, molto più radicale che non la filosofia delle Upanishad.

     Gotamo Siddharta è uno dei personaggi (incontreremo i più importanti sulla scia delle “allusioni” di Erodoto) veramente singolari della Storia del Pensiero Umano delle origini perché riesce a rendere universale, valido cioè per ogni persona, lo sbocco di un suo personale e tormentoso itinerario. Gotamo Siddharta supera la via di liberazione che propongono le Upanishad e respinge come illusoria l’idea dell’esistenza di un Essere al di fuori del tempo e dello spazio, e proclama che per l’essere umano è evidente solo una situazione molto concreta (razionale). Ma leggiamo direttamente un frammento.

LEGERE MULTUM….

Canestro dei sermoni (Suttapitaka)

Non pensate, o discepoli, i pensieri che pensa il profano: “il mondo è eterno o il mondo non è eterno; il mondo è finito o il mondo è infinito”. Se davvero volete pensare ecco che cosa dovete pensare: questo è il dolore, questa è l’origine del dolore; questa è la sensazione del dolore.

     Il pensiero di Gotamo Siddharta conduce paradossalmente ad una religione non religiosa, dato che, in modo esplicito, non ha altra attenzione che per l’essere umano e non attribuisce nessuna importanza ai problemi che non riguardano la persona nella sua esigenza di liberarsi dalla catena del dolore – il patos-páthos, secondo il vocabolario di Erodoto – che tutti imprigiona.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

 La parola “dolore” è legata ad un catalogo di significative parole-chiave: sofferenza, afflizione, pena, disperazione, cordoglio, patimento, spasimo, tormento, doglia, dispiacere… Quale di queste parole metteresti per prima e quale per ultima in quest’elenco?…

     Tutto il pensiero indiano è concorde su un punto: la vita è un male da cui conviene liberarsi, ma in nessun’altra tradizione di pensiero su questa affermazione, che suona in modo molto severo, è stata svolta una riflessione con tanto rigore razionale e con tanta acutezza di scandagli psicologici come nelle opere che sono scaturite dal pensiero di Gotamo Siddharta. L’esperienza e la predicazione dell’Illuminato di Benares si svolgono in un ambiente culturale dominato da violente spinte irrazionali che conducono molti pensatori a seguire la via dell’ascetismo con delle regole monastiche crudeli e disumane. Sappiamo che Gotamo Siddharta ha sperimentato per sei anni questo tipo di ascetismo monastico, ma, dopo l’illuminazione, diventa la voce della ragione umana che riprende fiducia in se stessa al punto da respingere ogni altro strumento per aprire alla persona il varco della liberazione dal male del vivere.

     Anche per le Upanishad la via della liberazione è la conoscenza, così come la fonte del dolore è l’ignoranza, ma la ragione per i maestri delle Upanishad trova il suo senso nel negare se stessa fino a dissolversi nel misticismo. Per Gotamo Siddharta la ragione spiega che tutti gli atti compiuti dell’essere umano derivano dal desiderio e il desiderio deriva dall’ignoranza. Su questo ragionamento si sviluppa il discorso di Benares, nel quale Gotamo Siddharta proclama le Quattro auguste verità.

LEGERE MULTUM….

Canestro dei sermoni (Suttapitaka)

Questa, fratelli e sorelle, è l’augusta (prima) verità circa il dolore: nascita è dolore, vecchiezza è dolore, malattia è dolore; dolore è l’unione con ciò che dispiace, dolore è la separazione da ciò che piace, non ottenere ciò che si desidera è dolore; in breve, i cinque diversi aggregati che determinano l’attaccamento all’esistenza sono dolore.

Questa, fratelli e sorelle, è l’augusta (seconda) verità circa l’origine del dolore: è la sete che conduce di rinascita in rinascita, che si associa con la gioia e il desiderio e trova qua e là il suo appagamento, cioè la sete di piaceri sessuali, la sete di rinascita, la sete di annichilimento.

Questa, fratelli e sorelle, è l’augusta (terza) verità circa l’estinzione del dolore: l’eliminazione di questa sete mediante il totale annientamento della passione; abbandonarla, privarsi di lei, sciogliersi da lei, non concederle alcun luogo.

Questa, fratelli e sorelle, è l’augusta (quarta) verità circa la via che conduce all’estinzione del dolore; è questa la santa via composta di otto parti. Essa ha questi nomi: rettitudine nel modo di pensare, rettitudine nella decisione, rettitudine nella parola, rettitudine nell’azione, rettitudine nella vita, rettitudine nello sforzo, rettitudine nel ricordo, rettitudine nella concentrazione.

     La prima verità è una constatazione che coglie il dolore nelle sue manifestazioni più immediate, che rientrano fatalmente nell’esperienza di ogni persona. Per Gotamo Siddharta le manifestazioni del dolore non sono, come per lo più vengono ritenute, aspetti negativi di un valore positivo, che sarebbe la vita, ma i “dolori” sono l’essenza stessa della vita, la quale dunque è di per sé un male. La singolare tesi di Gotamo Siddharta è che alla radice di questo male c’è l’illusione che l’io sia reale: il nostro io non è reale, è solo un insieme di sensazioni. Gotamo Siddharta, della tradizione delle Upanishad, respinge la dottrina dell’atman (dell’anima) – esiste prima di tutto il corpo – e conserva invece la dottrina dell’illusorietà dell’io: l’io è una rappresentazione generata dalle percezioni che il corpo ha degli oggetti, sono le percezioni che determinano il nostro attaccamento o la nostra repulsione verso le cose e le nostre paure di perderle. L’essere umano s’illude che il flusso delle percezioni sia l’io, mentre l’individuo – dice Gotamo Siddharta – è solo un fascio di sensazioni ed è paragonabile a un fascio di canne: se noi togliamo, una dopo l’altra, ogni canna, non resta nulla, così se da quel fascio di sensazioni, che è l’individuo umano, noi togliamo una dopo l’altra le sensazioni, non resta nulla, e l’inesistenza dell’io si fa comprensibile.

     La seconda verità è che la vita di ciascun individuo è il risultato di una brama (ecco il tema del “desiderio”) che sta prima della sua nascita perché è una caratteristica della specie, anzi di tutti gli esseri viventi. Da questa brama originale, da questo desiderio primordiale scaturisce il flusso delle reincarnazioni, il samsara (e qui Gotamo Siddharta si ricollega all’intera tradizione dei libri dei Veda): questa brama, questo desiderio si fa strada in ogni individuo sotto forma di passione. Gotamo Siddharta non distingue le passioni buone dalle passioni cattive: che si tratti del desiderio dei piaceri della carne, del potere, della ricchezza, del successo o del desiderio di una vita eterna o del desiderio di annientamento, o del desiderio di fare delle opere buone, in tutti i casi trionfa l’illusione che l’io sia reale. Ogni atto (l’atto conseguente al desiderare) che asseconda questa illusione – come insegnano anche le Upanishad – lascia nell’individuo un’incrostazione impura, la cui accumulazione (karman) determina una nuova rinascita. Il male dell’essere umano non ha sanzioni trascendenti, ma si sconta all’interno della catena delle generazioni. Un dio giudice – secondo Gotamo Siddharta – non è dunque necessario.

     La terza verità è che, se la vita è un male e se la vita nasce dal desiderio, la liberazione consiste nella estinzione del desiderio. L’estinzione del desiderio non si ha attraverso pratiche ascetiche, digiuni, macerazioni, ma attraverso la conoscenza del suo fondamento irreale. Chi raggiunge l’oggetto della sua passione si accorge che esso è inconsistente e che ne vuole subito un altro e, se non prende coscienza di questa situazione, il desiderio che lo muove lo sospinge ancora inesorabilmente sul sentiero della ricerca illusoria. Gotamo Siddharta pensa che sia necessario anticipare, mediante le pratiche della contemplazione attiva, la consapevolezza della vanità che esiste negli oggetti desiderati. Bisogna imparare, attraverso lo studio e la contemplazione, a collocarsi, in beata pace, fuori del cerchio delle passioni da cui nasce il dolore.

La quarta verità riguarda la via (marga) da seguire per realizzare l’uscita definitiva dalla catena delle reincarnazioni. A questo proposito Gotamo Siddharta detta otto norme (gli “otto sentieri”) che il monachesimo, nato dalla sua predicazione, si dedica ancora da venticinque secoli a commentare.

     Noi qui dobbiamo semplificare molto la questione attenendoci ai concetti delle origini che possiamo leggere in questo frammento tratto dal discorso di Benares. Il taglio di questa parabola è simile a quello che troviamo (500 anni dopo) nel cosiddetto “Discorso della montagna” della Letteratura dei Vangeli (Matteo cap.5-9).

LEGERE MULTUM….

Canestro dei sermoni (Suttapitaka)

Fratelli e sorelle non seguite le illusioni nel modo di pensare, di decidere e di parlare. Non pensate, né decidete, né parlate, se non a partire dalla certezza che l’io non esiste e che anche gli oggetti sono illusioni. Non riponete fiducia nei riti sacri, nelle pratiche religiose, nelle discussioni sui grandi problemi dell’aldilà. Le vostre parole sono giuste perché non dite mai “io” o “mio”; le vostre azioni sono giuste, perché in voi è morto ogni interesse personale; il vostro comportamento è ineccepibile perché voi vi astenete da ogni traffico di denaro, da ogni uso delle armi, da ogni offesa alla vita, fosse pure quella di un moscerino, da ogni bevanda eccitante. E questa astinenza la vivete nella gioia e non nelle esasperate ascetiche in uso fra i monaci. Il vostro sforzo è retto, lontano dagli eccessi, volto a mantenere costantemente un sereno dominio sulla gioia e sulla paura. La sorgente vera di questo sforzo non è tanto la volontà ma la concentrazione, cioè una contemplazione che esclude da sé tutto ciò che è illusorio, come dire l’intero mondo degli oggetti, per accogliere in sé il vuoto, vera realtà dell’universo, il Nirvana che non è né il puro non-esistere né il puro esistere: chi vi entra contempla, come dal di fuori, la serie dei mondi e delle incarnazioni che si succedono sulla spinta inesausta della sete di vita.

     Secondo la letteratura delle Upanishad la liberazione si ha dissolvendosi come gocce d’acqua nell’oceano del Brahman, secondo il pensiero di Gotamo Siddharta la liberazione consiste nell’estinzione definitiva della vita. Il Nirvana, il vuoto cosmico, la vera realtà dell’universo alla quale l’individuo deve approdare, non è né il puro non-esistere né il puro esistere e Gotamo Siddharta non volle dire di più e considerò la curiosità a tale riguardo come una peccaminosa persistenza della volontà di vivere.   

     Il pensiero indiano delle origini, attraverso la riflessione di  Gotamo Siddharta, lascia in eredità alla Storia del Pensiero Umano due parole-chiave di grande importanza: illusione e vanità (filotimìa).

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

La parola “illusione” porta con sé un catalogo di significative parole-chiave: miraggio, inganno, sogno, chimera, lusinga, apparenza. Abbiamo capito che dobbiamo essere consapevoli della natura irreale delle illusioni: perché non provi, per iscritto (bastano quattro righe), a farti una bella illusione?

La parola “vanità” è legata ad un catalogo di parole-chiave molto interessanti: leggerezza, inutilità, inconsistenza, futilità, ambizione, ostentazione.

Quale di queste parole, oggi, scriveresti vicino alla parola vanità?

     Un intellettuale europeo che si chiama Hermann Hesse – tutti lo abbiamo sentito nominare – ci ricorda che le parole-chiave provenienti dal pensiero indiano delle origini: il desiderio, il dolore, l’illusione e la vanità, orientano e stimolano all’autobiografia. Questa considerazione nasce dalla sua esperienza personale: Hermann Hesse è uno dei tanti intellettuali europei – forse il più importante – che all’inizio del ‘900 ha compiuto un pellegrinaggio in Oriente, e Il pellegrinaggio in Oriente è anche il titolo di uno dei suoi romanzi pubblicato nel 1932.

     Hermann Hesse (1877-1962) è figlio di un pastore protestante e vuole seguire la vocazione del padre e anche del nonno che, per anni, è stato missionario in India.  Hermann, da bambino, comincia a conoscere l’India soprattutto attraverso i racconti del nonno. L’immagine che emerge da questi racconti non è quella “avventurosa e “favolosa” del Libro della giungla o di Sandokan, ma il nonno di Hermann mette in evidenza soprattutto la “spiritualità” di questo paese attraverso la narrazione dei grandi miti contenuti nei libri dei Veda (della Sapienza) di cui è un buon conoscitore. Ma il giovane Hermann abbandona presto gli studi teologici per insofferenza verso la dura disciplina del collegio e sceglie di praticare i lavori più disparati (il lavoro che gradisce di più è quello di commesso in una libreria), fino a quando riesce a mantenersi anche con il provento dei suoi libri. Hermann Hesse è stato un convinto pacifista fin da bambino e diventa militante nella Croce Rossa durante la prima guerra mondiale. Lascia la Germania per la Svizzera nel 1919 nel pieno di una profonda crisi esistenziale che lo coglie di fronte agli orrori della guerra e si cura con la psicoanalisi. Una tappa fondamentale della sua vita è stato il viaggio in India compiuto nel 1911.

     Probabilmente avrete anche letto qualcuno dei suoi famosi romanzi: Peter Camenzind (1904), Demian (1919), Siddharta (1922), Il lupo della steppa (1927), Narciso e Boccadoro (1930), Il pellegrinaggio in Oriente (1932), Il gioco delle perle di vetro (1943).

     Il racconto più famoso di Hermann Hesse è Siddharta (1922), che racconta la storia di un giovane brahmino che abbandona la vita ascetica – che pratica fin dalla più tenera età – per cercare di realizzarsi nella soddisfazione dei sensi, ma la sua maturazione spirituale comincia proprio a contatto con la realtà della vita quando si rende conto concretamente che è un’illusione cercare la felicità nei beni materiali. Questa presa di coscienza lo porta ad un ritorno pieno e consapevole ai valori dell’ascetismo.

     Ne Il lupo della steppa lo scrittore critica la società borghese e la logica capitalistica che tendono a mutilare l’individuo, soffocandone la sensibilità, l’istinto di apertura verso gli altri, e soprattutto la spiritualità.

     Il romanzo Il gioco delle perle di vetro è il racconto di una utopica comunità (la Repubblica di Platone) del futuro, composta da asceti, artisti e scienziati, in cui si tenta di realizzare una sintesi tra diverse istanze culturali (tra le parole-chiave e idee significative dell’Età assiale della storia…), dalla musica barocca, alla sapienza cinese, alla mistica indiana, senza tralasciare però la maturazione interiore e personale: il protagonista cerca, infatti, di unire l’arte e la scienza alla vita.

     Hermann Hesse scrive con un linguaggio piano e semplice, derivato dalle principali esperienze della narrativa romantica tanto titanica quanto galante, e i suoi romanzi hanno sempre dato voce ai bisogni e allo spirito ribelle non solo dei giovani ma di tutte le persone che vogliono dedicarsi alla riflessione.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Puoi trovare facilmente le opere di Hermann Hesse in biblioteca: prova a leggerne qualche pagina e se trovi una frase penetrante, che ti piace e che stimola il pensiero: scrivila per la “biblioteca itinerante”

     E adesso leggiamo due pagine tratte dal romanzo Siddharta. Il testo di questo romanzo – sebbene contenga un notevole tasso di poeticità – non è di facile lettura e io penso che, dopo aver percorso gli itinerari nel territorio del pensiero indiano delle origini in compagnia di Erodoto, la sua comprensione sia più chiara in funzione del piacere del testo.

LEGERE MULTUM….

Hermann Hesse, Siddartha (1922)

Nell’ombra della casa, sulle rive soleggiate del fiume presso le barche, nell’ombra del bosco di Sal, all’ombra del fico crebbe Siddharta, il bel figlio del Brahmino, il giovane falco, insieme all’amico suo, Govinda, anch’egli figlio di Brahmino. Sulla riva del fiume, nei bagni, nelle sacre abluzioni, nei sacrifici votivi il sole bruniva le sue spalle lucenti. Ombre attraversavano i suoi occhi neri nel boschetto di mango, durante i giochi infantili, al canto di sua madre, durante i santi sacrifici, alle lezioni di suo padre, così dotto, durante le conversazioni dei saggi. Già da tempo Siddharta prendeva parte alle conversazioni dei saggi, si esercitava con Govinda nell’arte oratoria, nonché nell’esercizio delle facoltà di osservazione e nella pratica della concentrazione interiore. Già egli sapeva come si pronuncia impercettibilmente l’Om, la parola suprema, sapeva assorbirla in se stesso pronunciandola silenziosamente nell’atto di inspirare, sapeva emetterla silenziosamente nell’atto di espirare, con l’anima raccolta, la fronte raggiante dello splendore che emana da uno spirito luminoso. Già egli sapeva, nelle profondità del proprio essere, riconoscere l’Atman, indistruttibile, uno con la totalità del mondo.

... continua la lettura ...

     Come il Gange desidera la foce, e attraverso la foce desidera di morire e di trasfigurarsi nella bontà e nella grandezza dell’Oceano, così Siddartha insegue la pienezza di sé nell’Assoluto, nell’Atman. Siddartha può sembrare un eroe, ma in realtà Hermann Hesse ne fa un “anti-eroe”, un personaggio che può identificarsi con qualunque essere umano.Una persona che cerca e che si cerca; un maestro e un apostolo involontario, che si rifiuta d’insegnare la saggezza se non in quattro punti, che «d’ogni verità anche il contrario è vero», e che «non c’è santo o peccatore che non sia peccatore e santo», e che «il tempo non esiste», e «che tutto è in ogni cosa, e che tutto è amore».

     La maggior parte dei commentatori sostiene che il romanzo Siddharta corrisponde ad una autobiografia dell’anima. E noi sappiamo che Hermann Hesse sostiene che le parole-chiave provenienti dal pensiero indiano delle origini: il desiderio, il dolore, l’illusione e la vanità, orientano e stimolano all’autobiografia. Lo stesso discorso di Benares è il racconto di un personale itinerario di formazione, e quindi l’elemento autobiografico è alla base di questa riflessione sulla condizione umana.

     Ma noi stiamo sempre percorrendo un sentiero intitolato il sorriso di Erodoto e non ci siamo dimenticati di lui, anzi la parola “autobiografia” rimette subito Erodoto al centro della nostra attenzione. A proposito della parola “autobiografia”, tutti gli studiosi si lamentano del fatto che Erodoto, nella sua opera, ne Le Storie, racconta moltissime cose ma è avarissimo di riferimenti autobiografici. Di lui, della sua vita privata, non ci dice proprio nulla: sembra che voglia rispettare sistematicamente una legge sulla segretezza dei dati personali che però nessuna assemblea legislativa (bulé) di nessuna polis aveva mai presentato allora. Ma noi sappiamo che Erodoto “allude”. Erodoto, da come scrive, sembra una persona aperta e curiosa del mondo, sempre piena di domande e disposta a percorrere migliaia di chilometri per trovare le risposte.

     Ma chi è Erodoto: che persona è stato nella sua vita reale? Sapete già che non è facile rispondere a questa domanda perché, anche esaminando le fonti, ci accorgiamo che della vita di Erodoto si conosce ben poco e che anche quel poco che conosciamo non è del tutto sicuro.

     La scorsa settimana abbiamo incontrato Rabindranath Tagore che ha scritto (ne abbiamo anche letto una pagina) una significativa autobiografia. Rabindranath Tagore è coetaneo di Marcel Proust (1871-1922), il quale – come sapete – è autore di un vasto ciclo narrativo: ha scritto dal 1913 un’enorme autobiografia in sette parti (sono dieci libri) intitolata Alla ricerca del tempo perduto, e la pubblicazione di quest’opera è terminata postuma nel 1929. Tagore in Oriente guardando verso Occidente e Proust in Occidente guardando (anche involontariamente) verso Oriente, analizzano minutamente ogni particolare della loro infanzia, mentre Erodoto invece, al pari di altri grandi della sua epoca – Socrate, Pericle, Sofocle – della sua infanzia non ci dice niente. Come mai? Forse non si usava al suo tempo parlare esplicitamente di se stessi e soprattutto di se stessi da piccoli? Oppure non lo si riteneva importante? Erodoto, ne Le Storie, di sé stesso racconta solo di essere nato ad Alicarnasso. Alicarnasso (noi siamo sbarcati a Bodrum 2500 anni dopo) al tempo di Erodoto si stende su un golfo dolce e armonioso come un anfiteatro (oggi l’esigenza di creare un porto turistico ha modificato un po’ l’ambiente). È il paese del sole, del caldo, della luce, degli olivi e delle viti. Viene istintivamente da pensare che chiunque sia nato in un posto simile debba per forza avere il cuore buono, la mente aperta, il corpo sano e un’indubbia serenità di spirito.

     I biografi sono abbastanza concordi nel sostenere che Erodoto nacque tra il 490 e il 480 a.C., forse nel 484. Sappiamo che sono anni fondamentali per la cultura del mondo: nel 480 a.C. scompare Gotamo Siddharta, l’Illuminato di Benares, che, questa sera, abbiamo avuto il piacere d’incontrare. L’anno seguente, nel 479 a.C, nel principato cinese di Lu, muore Confucio, che avremo il piacere d’incontrare prossimamente. Cinquant’anni dopo nascerà Platone che tutti gli anni ci aspetta al varco in qualche paesaggio del nostro percorso. In questo periodo – siamo nell’Età assiale della storia – l’Asia è il centro del mondo. Per quanto riguarda i greci, la parte più creativa della loro società – gli ioni – risiede anch’essa sul territorio asiatico. L’Europa ancora non esiste o, per meglio dire, esiste solo come mito: è il nome di una bella fanciulla, figlia del re fenicio Agenore, che Zeus, assunte le sembianze di un toro bianco, rapirà e possiederà dopo averla portata a Creta.

     Chi sono i genitori di Erodoto? Chi sono i suoi fratelli e le sue sorelle? Com’è fatta la sua casa? Le risposte a queste domande sono immerse nelle nebbie dell’incertezza. Alicarnasso – quando nasce Erodoto – è una polis greca, è una colonia ellenica fondata sul territorio asiatico della Caria, vicino al confine (a nord) con la Ionia. La polis di Alicarnasso è soggetta alla Persia, e l’Impero persiano, in questo momento, sta dominando su gran parte del territorio asiatico di occidente. Il padre di Erodoto, secondo le fonti (i grammatici alessandrini) che noi possediamo, si chiama Lyxes. Questo nome non è greco e gli antichisti pensano che il padre di Erodoto fosse appunto un caro, un abitante originario della regione della Caria. La madre di Erodoto, invece – secondo le fonti (i grammatici alessandrini) – è quasi sicuramente greca. Erodoto nasce di sangue misto (euro-asiatico), è quindi un greco di confine: un tipo di persona prodotto da incroci razziali e culturali, la cui visione del mondo è influenzata da concetti quali la frontiera, la distanza, la diversità e la varietà.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Se tu fossi chiamata/chiamato a scegliere: quale di queste quattro parole – la frontiera, la distanza, la diversità, la varietà – metteresti per prima ?

Scrivila…

     Che tipo di bambino è, il piccolo Erodoto? Sorride a tutti e dà volentieri la manina, oppure è schivo e si nasconde tra le gonne della mamma? È uno strazio di bambino che piange e protesta in continuazione, oppure è un bambino gioioso? Obbedisce e fa il bravo, o sfianca tutti chiedendo dalla mattina alla sera: “Da dove viene il sole? Perché non posso toccarlo? Perché si nasconde nel mare? Non ha paura di affogare?”

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

E tu che bambina, che bambino eri, che cosa si racconta di te ? Eri socievole o schiva/schivo? Eri scorbutica/scorbutico o gioiosa/gioioso ? Riservata/riservato o curiosa/curioso?

Questo è il momento – sulla scia di Erodoto, padre della Storia – di raccogliere, ricordando le fonti, alcuni frammenti (si comincia con quattro righe) della tua storia delle origini…

     E a scuola com’è Erodoto? Accanto a chi sta di banco? Ha ricevuto degli elogi? Quante volte è stato messo in castigo, in punizione? Quanto tempo gli ci è voluto per imparare a scrivere con lo stilo sulle tavolette d’argilla? Arriva spesso in ritardo? In classe si agita in continuazione? È bravo e suggerisce ai compagni in difficoltà? In qualche materia zoppica e ha bisogno di copiare da qualcuno più bravo di lui? Fa la spia, oppure è solidale? E i giocattoli? Come si divertiva un bambino ellenico di duemilacinquecento anni fa? Facendo correre – in gara con gli altri bambini – una ruota intagliata nel legno spingendola con un bastoncino senza farla cadere? Costruendo castelli di sabbia in riva al mare? Tuffandosi, di nascosto, dai moli, dalle banchine, dagli approdi, dagli attracchi nelle acque calme del porto?

     Tuffandosi nelle acque della baia quando il vento da sud est (ànemos) faceva gonfiare le onde impetuose? Arrampicandosi sugli alberi? Fabbricando le bamboline, gli uccellini, i pesci, i cavallini d’argilla che oggi troviamo conservati nei musei presso i siti archeologici? Qual è – a proposito di scuola e di giochi – il ricordo che resterà impresso per tutta la vita nella mente di Erodoto?

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

E per te, a proposito di scuola e di giochi: qual è il ricordo più vivo che ti è rimasto impresso ? Concretizzalo con la scrittura, possono bastare anche quattro righe…

     Per il piccolo Rabi Tagore, il momento più intenso è stata la preghiera mattutina accanto al padre, per il piccolo Marcel Proust è stata l’attesa al buio che la madre venisse a dargli il bacio della buonanotte. Chissà quale è stato, per Erodoto, l’evento, il momento più ambito della sua infanzia?

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

E per te quale è stato il momento più ambito della tua infanzia ? Basta anche una sola frase per rispondere a questa domanda, scrivi…

     Di che cosa si occupa il padre di Erodoto? Ad Alicarnasso c’è il porto, è uno scalo commerciale dei traffici tra l’Asia, il Medio Oriente e la Grecia vera e propria. Qui attraccano le navi dei mercanti fenici provenienti dalla Sicilia e dall’Italia, le navi greche in arrivo dal Pireo e da Argo, le navi egiziane provenienti dalla Libia e dal delta del Nilo. E se il padre di Erodoto fosse stato un mercante? Sarà stato lui a suscitare nel figlio la curiosità per il mondo?

     Forse sta via da casa per mesi e mesi e quando Erodoto chiede sue notizie, la madre risponde citando un nome, il nome di qualche città sconosciuta e misteriosa. Erodoto, forse, da bambino pensa che da qualche parte, lontano, possa esistere un mondo onnipotente capace di portargli via il padre ma, col favore degli dèi, capace anche di farlo tornare a casa in modo che possa raccontare le cose e la gente che ha visto e le avventure che ha vissuto. Sarà stata la disponibilità e la capacita nel “raccontare” a far sì che Erodoto percepisse quest’uomo come un padre meno assente? E soprattutto sarà stato questo modo di raccontare ad instillare nel giovane Erodoto il desiderio di conoscere da vicino le caratteristiche di quel mondo vario, strano e imprevedibile, difficilmente giudicabile che si raffigurava, fin da piccolo, attraverso le narrazioni del padre?

     Forse Erodoto riesce a cogliere e a interiorizzare, fin da bambino, l’idea che l’azione del “raccontare” è buona, è utile, è bella perché riduce le distanze, perché avvicina le persone. Dai pochi dati pervenutici (dai grammatici alessandrini) sappiamo che il piccolo Erodoto aveva uno zio poeta, di nome Paniassi, autore di numerosi poemi epici. Lo zio Paniassi – e qui arricchiamo la riflessione che abbiamo già fatto sulla “formazione culturale” di Erodoto – ha fatto conoscere al nipote, fin da bambino, la cultura ionica: le opere di Omero, di Callino, di Mimnermo (sono personaggi che conosciamo). Possiamo immaginare che questo zio lo portasse a spasso con sé, gli insegnasse il bello della poesia, i segreti della retorica e l’arte del racconto, perché Le Storie di Erodoto sono certo frutto del talento, ma sono anche un esempio di arte letteraria e di tecnica della scrittura.

     Noi nasciamo con più o meno talenti ma, se non impariamo l’arte, i talenti non si sviluppano: scrittori non si nasce, si diventa cominciando con l’essere scrivani. Le fonti (i grammatici alessandrini) c’informano che Erodoto, ancora giovane, viene coinvolto in un’azione politica proprio dal padre Lyxes e dallo zio Paniassi. I due, infatti, partecipano alla rivolta contro Ligdami il tiranno di Alicarnasso, che riesce comunque, con le sue guardie, a domare l’insurrezione. I ribelli devono scappare e si rifugiano a Samo, un’isola montuosa a due giorni di navigazione da Alicarnasso verso nord-ovest.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Utilizzando l’atlante, l’enciclopedia, la rete e la guida della Grecia puoi fare una visita all’isola di Samo e ai suoi tre principali centri abitati: Sàmos, Kokàri e Karlovàssi …

Sàmos è il capoluogo dell’isola e il suo abitato viene denominato Vathì: sai di quante parti si compone il Vathì di Sàmos ? Vai a scoprire la forma di questa cittadina.

Dobbiamo ricordare che a Samo si sviluppa una delle più importanti Scuole di scultura dell’età arcaica e il capolavoro di questa Scuola è l’ Héra di Samo (la dèa Hèra è la sposa di Zeus) ed è conservato al museo del Louvre: hai mai visto questa statua ?

Inoltre dobbiamo ricordare che a Samo è nato Pitagora, l’astronomo Aristarco ed Epicuro.

Su l’isola di Samo conviene prendere qualche appunto, buon viaggio…

     Erodoto, in fuga, trascorre a Samo alcuni anni e forse è da qui che parte per i suoi viaggi nel mondo. Se Erodoto tornerà ad Alicarnasso, sarà solo per poco tempo e di nascosto. Ma perché dovrebbe tornare ad Alicarnasso? Forse, possiamo immaginare, per rivedere sua madre. Ma è anche presumibile che Erodoto ad Alicarnasso non abbia messo mai più piede. Siamo nella metà del V secolo quando Erodoto giunge ad Atene. La nave attracca al porto del Pirèo e da qui all’Acropoli ci sono otto chilometri da percorrere a cavallo, e più spesso a piedi. A quel tempo Atene è una metropoli internazionale, la più importante città del mondo. Erodoto è solo un provinciale, un non-ateniese, un meteco cioè uno straniero, e come tale destinato a venir trattato meglio di uno schiavo, ma non alla stregua dei veri cittadini ateniesi.

     Gli Ateniesi  si distinguono per essere una comunità molto sensibile alle questioni di razza, con un forte senso di superiorità e di esclusività, per non dire di arroganza.

     Ma, a quanto pare, Erodoto si adatta rapidamente alla nuova residenza. Ha poco più di trent’anni, è una persona aperta e socievole, un tipo molto simpatico. Tiene conferenze in cui racconta quello che ha visto nei suoi viaggi, organizza incontri con il pubblico dai quali, probabilmente, ricava di che vivere. Conosce persone importanti: Socrate, Sofocle, Pericle. Non è un’impresa difficile inserirsi lì: Atene è una piccola città di centomila abitanti, costruita in modo caotico in uno spazio ristretto. Ci sono due luoghi fondamentali che emergono e si distinguono: uno è il centro dei culti religiosi, l’Acropoli e l’altro è la sede degli incontri, dei comizi, del commercio, della politica e della vita sociale, l’Agorà, la piazza, dove, dal mattino alla sera, la gente vi si riunisce, parla, discute, tratta, manifesta. L’Agorà è sempre affollata e piena di vita ed Erodoto certamente la frequenta, anche se per poco tempo.

     Più o meno nel periodo del suo arrivo, le autorità ateniesi adottano la legge draconiana secondo la quale i diritti politici (i pieni diritti di cittadinanza) spettano solo a chi ha entrambi i genitori nati in Attica, ossia nella regione circostante ad Atene. Erodoto, quindi, non può avere la cittadinanza ateniese e allora decide di lasciare Atene e si mette in viaggio, poi quando decide di fermarsi va a stabilirsi nell’Italia meridionale, nella Mega Ellas, nella Magna Grecia, nella colonia greca di Turi. Il sito archeologico di Turi Antica è sullo stesso luogo del sito archeologico di Sibari, sulla costa ionica della Calabria. Il nome di Turi deriva dall’aggettivo greco Thoùrios che significa “impetuoso” e dava il nome ad una fonte, la fonte Thoùria, sempre attiva, che costituiva la ricchezza per quella zona. Turi è una colonia voluta da Pericle, fondata nel 444 a.C sul sito di Sibari, la ricca polis, fondata dagli Achei sulla costa della Calabria ionica, che era stata distrutta dai Crotoniati nel 510 a.C.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Utilizzando la “guida rossa del Tourig Club Italiano” della Calabria – che trovi in biblioteca - puoi fare un’escursione a Sibari e a Turi, buon viaggio…

     Erodoto nel V libro de Le Storie racconta il fatto della distruzione di Sibari da parte dei Crotoniati

LEGERE MULTUM….

Erodoto, Le Storie 44

In questo periodo di tempo, a quanto raccontano gli abitanti di Sibari, essi con il loro re Teli erano in procinto di muovere in armi contro Crotone, ma i Crotoniati, oltremodo spaventati, chiesero a Dorieo di aiutarli e ottennero ciò che chiedevano: Dorieo si unì a loro contro Sibari e, insieme con loro, la conquistò.

Orbene, secondo i Sirabiti, questo è quello che fecero Dorieo e i suoi compagni.

I Crotoniati, invece, sostengono che nessuno straniero s’uni a loro nella guerra contro Sibari tranne Callia, indovino di Elea

     Come al solito Erodoto – secondo il suo stile – riporta pareri contrastanti, ma soprattutto quello che ci colpisce di più è il fatto che, mentre sta scrivendo questo testo, Erodoto, con grande probabilità si trova proprio a Turi, e ci meraviglia che non colga l’occasione per raccontare la storia della fondazione di questa città a cui, secondo molti antichisti, avrebbe partecipato di persona. Ci sorprende che non abbia citato il celebre e famoso architetto Ippodamo di Mileto che, secondo la tradizione, ha fornito il piano regolatore (un piano regolatore all’avanguardia) alla polis di Turi. Forse Erodoto pensa che sia utile tenere fuori dalla Storia le proprie storie personali? Oppure Erodoto pensa che questi avvenimenti siano così recenti e così conosciuti che non valga la pena raccontarli? Essendo argomenti risaputi pensa che potrebbero annoiare i lettori?    

     Sul comportamento di Erodoto – dopo il suo volontario allontanamento da Atene – i pareri sono molto discordanti tra gli studiosi: qualcuno sostiene che Erodoto da Turi non si sia più mosso. Altri affermano che abbia visitato ancora la Grecia, facendo un’apparizione ad Atene. Qualcuno parla anche della Macedonia ma di veramente sicuro non c’è nulla.

     Erodoto muore, forse, all’età di sessant’anni, ma dove nessuno lo sa. Trascorre gli ultimi anni a Turi, scrivendo il suo libro seduto all’ombra di un platano? Oppure lo detta a uno scriba, per via della vista indebolita all’ombra di una quercia? Ha degli appunti, o si basa solo sulla memoria? A quel tempo la gente aveva una memoria eccezionale, per cui non è escluso che qualcuno ricordasse perfettamente Creso e Babilonia, Dario e gli Sciti, i Persiani, le Termopili, Salamina e tutte le vicende di cui sono piene Le Storie.

     Può anche darsi che Erodoto sia morto sul ponte di una nave che solcava il Mediterraneo, o magari durante il cammino, dopo essersi seduto a riposare su una pietra, magari sotto un fico (per unire l’utile al dilettevole), da cui non si è più rialzato. Sta di fatto che venticinque secoli fa, in una data non meglio identificata e in un luogo sconosciuto, Erodoto ci abbandona.

     In questo itinerario abbiamo ricostruito sommariamente la biografia di Erodoto utilizzando le poche fonti (provenienti dai grammatici alessandrini) che possediamo e, anche pensando alla nostra biografia, siamo andati alla “ricerca di un tempo perduto”. Questa affermazione ci rimanda ancora – visto che questa sera, strada facendo, lo abbiamo tirato in ballo alcune volte – a Marcel Proust e alla sua “Ricerca”.

     Per concludere leggiamo un frammento di questa colossale opera autobiografica dove emerge il tema del rapporto tra la lettura e l’amicizia. “Nella lettura – scrive Proust – l’amicizia è di colpo ricondotta alla sua purezza originaria. Con i libri non ci sono convenevoli”…

     Erodoto ne Le Storie non dice nulla di sé, e i tratti del suo profilo – che siamo riusciti a ricomporre con i pochi riferimenti che possediamo – appartengono quasi esclusivamente all’immaginario piuttosto che alla realtà. Erodoto, come persona, risulta ed è sempre risultato uno sconosciuto, tuttavia non possiamo dire che non ci sia amico: Erodoto ci è amico attraverso la lettura, e noi lo riconosciamo come nostro compagno di viaggio attraverso il suo libro. Proust, in questa pagina, su questo argomento, intesse la sua riflessione.

LEGERE MULTUM….

Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto (1913-1929)

A volte l’amicizia che si nutre per le persone, è una cosa frivola, e la lettura è un’amicizia. Ma almeno è un’amicizia sincera, e il fatto che si rivolge a degli assenti, a dei morti, le conferisce qualcosa di disinteressato, di quasi commovente. Inoltre essa si è liberata di tutto ciò che rende sgradevoli le altre amicizie. Come infatti tutti noi, i viventi, non siamo che dei defunti non ancora entrati in funzione, tutte quelle cortesie, quei convenevoli da anticamera che chiamiamo deferenza, gratitudine, devozione, a cui mescoliamo tante menzogne, sono sterili e faticosi. Inoltre, sin dai primi rapporti di simpatia, di ammirazione, di riconoscenza, le prime parole che pronunciamo, le prime lettere che scriviamo, tessono intorno a noi i primi fili di una tela di abitudini, di un vero e proprio modo di essere, di cui non riusciamo più a liberarci nelle amicizie successive; senza considerare che, nel frattempo, le parole esagerate che abbiamo pronunciato restano come cambiali da pagare, e che pagheremo ancor più care nel corso della nostra vita, per il rimorso di averle lasciate andare in protesto. Nella lettura l’amicizia è di colpo ricondotta alla sua purezza originaria. Con i libri non ci sono convenevoli. Se trascorriamo la serata con loro è perché ne abbiamo veramente desiderio. E spesso li lasciamo con rimpianto. E quando li abbiamo lasciati, non abbiamo nessuno di quei pensieri che guastano le amicizie: “Che cosa avranno pensato di noi? Non avremo mancato di tatto? Saremo piaciuti?” E nemmeno la paura di essere dimenticati per un’altra o per un altro. Tutti i tormenti dell’amicizia cessano alle soglie di quell’amicizia pura e tranquilla che è la lettura. E nemmeno la deferenza: ridiamo di quel che dice Molière soltanto nella misura in cui ci diverte. Quando ci annoia, non abbiamo paura di avere l’aria annoiata, e quando ne abbiamo abbastanza di stare con lui, lo rimettiamo al suo posto decisamente come se non avesse genio, né celebrità. L’atmosfera di questa pura amicizia è il silenzio, più puro della parola. Infatti come noi parliamo per gli altri ma restiamo in silenzio per noi stessi, il silenzio non reca, come la parola, il segno dei nostri difetti, delle nostre contrazioni. Tra il pensiero dello scrittore e il nostro non si frappongono gli elementi irriducibili, refrattari al pensiero, dei nostri diversi egoismi. Il linguaggio stesso del libro è puro, se il libro merita questo nome, reso trasparente dal pensiero del suo autore che gli ha tolto tutto ciò che non gli appartiene sino a farne uno specchio fedele; e ogni frase rassomiglia alle altre, perché tutte sono dette con l’inflessione unica di una sola persona.

     Venticinque secoli fa, in una data non meglio identificata e in un luogo sconosciuto, Erodoto scompare. Erodoto è scomparso ma non ci ha lasciato soli: le idee-significative presenti nel suo libro conservano la sua presenza intellettuale tra noi, e così il viaggio continua. In quale direzione continua il nostro viaggio? Verso quali “parole”? Sappiamo che Erodoto nasce di sangue misto (euro-asiatico), è quindi un greco di confine: un tipo di persona prodotto da incroci razziali e culturali, la cui visione del mondo è influenzata da concetti quali la frontiera, la distanza, la diversità e la varietà.

     C’è una parola che Erodoto usa spesso: la parola oros. Che cosa significa la parola greca “oros”? La parola greca “oros”significa “confine”. E a quale riflessione c’invita Erodoto nei confronti della parola “confine”? La parola “confine”, ne Le Storie di Erodoto, non rappresenta solo una barriera materiale ma esprime anche una condizione della mente. Questa condizione della mente la si percepisce soprattutto nei “villaggi di frontiera”: vi siete mai trovati a passare in un “villaggio di frontiera”? I romanzi – in particolare i romanzi dell’800 – ci portano spesso nei “villaggi di frontiera”.

     Sapete quale villaggio di frontiera dobbiamo raggiungere, la prossima settimana? Dobbiamo raggiungere il villaggio di Višegrad (prima che diventi una città) e poi dobbiamo raggiungere il villaggio di Hsien-yang (prima che diventi una grande città). Sapete dove si trovano questi villaggi e sapete perché – in compagnia di Erodoto – li dobbiamo raggiungere?

     Accorrete, la Scuola è qui. E anche la Scuola, a suo modo, è un po’ come se fosse un villaggio di frontiera…

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Febbraio 3, 2006