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LO SGUARDO DI ERODOTO SULL’IDEA DELLA FRONTIERA…

Lezione N.: 
14

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sguardo di Erodoto 2006         8-9-10  febbraio  2006

LO SGUARDO DI ERODOTO

SULL’IDEA DELLA FRONTIERA…

     Sappiamo che nelle vene di Erodoto scorre sangue misto (euro-asiatico): suo padre, probabilmente, è un cittadino della regione della Caria, un asiatico, e sua madre, probabilmente è greca; quindi Erodoto risulta essere un greco di confine, un tipo di persona prodotto da incroci razziali e culturali, la cui visione del mondo è influenzata da concetti quali la frontiera, la distanza, la diversità e la varietà.

     C’è una parola greca che Erodoto usa spesso: la parola oros. Che cosa significa la parola “oros”? La parola “oros”, in greco, significa “confine”. C’è stato un momento della storia della civiltà in cui il “confine” è un concetto molto concreto e naturale, legato alla geografia, infatti in greco la parola “oros” significa prima di tutto “monte”. “Oroi” sono i “monti” e non c’è confine (naturale) più evidente di una (concreta e massiccia, spesso difficilmente valicabile) “catena montuosa”.

     La lingua di Erodoto rende metaforico, allegorico (ci siamo misurati con le “forme allegoriche” qualche settimana fa), rende figurato, rende simbolico il termine “oros”.Che cosa significa rendere figurato, rendere simbolico il termine “oros”? Forse è più facile capire questa idea utilizzando la lingua latina: l’espressione latina “cum finis - il confine” contiene un’idea umanistica. Nell’espressione “cum finis” incontriamo l’idea del “condividere la fine – cum finis – dell’identificare il limite”: se vogliamo vivere insieme (tanto nelle piccole quanto nelle grandi dimensioni) bisogna anche “porre dei limiti, stabilire dei confini”, bisogna “condividere dei limiti”, è necessario “aderire all’idea che ci siano dei confini riconosciuti”. La parola “confine” è una parola molto evocativa, e bisogna rallentare subito il passo perché è bene che ciascuno segua le sue riflessioni, faccia le proprie analisi e costruisca il catalogo dei propri pensieri.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura

La parola “confine”  ci mette davanti ad un ventaglio di parole significative: limite (in latino “limes”), termine, estremità, demarcazione, sbarramento, barriera, frontiera…

Quale di queste parole metteresti per prima nella lista ?…

Hai mai attraversato un vero confine, una vera frontiera ?

Scrivi quattro righe in proposito…

     Ebbene noi dobbiamo ad Erodoto, per la prima volta nella storia della cultura, la definizione del “confine”, “oros-oros”, inteso come “frontiera”. Nel senso che la “frontiera” non è solo uno sbarramento, una barriera materiale ma è anche una condizione della mente. Questa condizione della mente – abbiamo detto alla fine dell’itinerario della scorsa settimana – la si percepisce soprattutto nei “villaggi di frontiera”: vi siete mai trovati a passare in un “villaggio di frontiera”? I romanzi – in particolare i romanzi dell’800 – ci portano spesso nei “villaggi di frontiera”. Vogliamo andare subito a verificare che cosa si prova, che cosa si percepisce nei villaggi di frontiera e oltre i villaggi di frontiera a mano a mano che ci si avvicina al confine? A volte bastano quattro righe, e allora leggiamo un frammento tratto da un romanzo (poco conosciuto?) dell’800.

LEGERE MULTUM….

Leone Tolstòj, Guerra e pace (1864)

Oltre i villaggi di frontiera – via via che ci si avvicinava al confine – la terra si fa deserta e la gente sempre più rara. Si crea come un vuoto, e questa vacuità fa aumentare il mistero di questi luoghi. Ci si rende conto che nelle zone di frontiera – quando sono davvero zone di frontiera – regna il silenzio.

     Devo dire che: due anni e mezzo fa, durante la mia terza lettura di Guerra e pace – seguendo il consiglio della Scuola e applicando il metodo del LEGERE MULTUM (dieci minuti al giorno per quattro pagine al giorno) – quando sono arrivato a questo punto e ho incontrato queste tre frasi, anche se era appena trascorso un minuto dall’inizio della lettura, sono stato costretto a fermarmi sull’ultima parola della terza frase: la parola “silenzio”: questo frammento con la sua carica di seduzione risultava esaustivo perché fortemente evocativo. Lì, su questa parola, “silenzio” (chissà, mi sono chiesto, come suona, in russo, nella lingua originale di Tolstòj, questa parola?), ha preso forma il catalogo dei pensieri e alcuni di questi pensieri – dopo aver fatto l’analisi logica, e aver operato delle sintesi – sono diventati linguaggio e ho potuto iniziare una conversazione con me stesso (voi non parlate mai con voi stessi?), ma poi si è intromesso Tolstòj…         

     In quel punto del romanzo, lo scrittore, fa parlare un personaggio il quale sta pensando anche, e soprattutto, al confine come frontiera esistenziale. Siamo tutti in viaggio – ho cominciato a pensare, dopo aver interrotto la lettura, con la stessa preoccupazione del personaggio che Tolstòj mette in scena in questo momento nel suo romanzo – verso un confine estremo, verso un’ultima frontiera esistenziale; siamo tutti abitanti di un “villaggio di frontiera”; e una sottile inquietudine (come spesso mi succede, ma non credo di essere il solo a vivere quest’esperienza…) ha cominciato a serpeggiare nella mia mente, a fasi alterne, per tutta la giornata. A sera ho ripreso in mano il romanzo di Tolstòj: ero debitore nei confronti di quel libro di qualche minuto ancora, e di due o tre pagine ancora. Ho riletto queste tre frasi, che mi avevano spinto a riflettere, che mi avevano invitato ad investire in intelligenza, e ho capito che il “vuoto”, che si percepisce andando verso il confine, lo stavo riempiendo con la lettura. Ho capito che il “silenzio”, che regna nello spazio attiguo alla frontiera, si stava trasformando in una voce: la voce della scrittura…

     E Tolstòj, nelle pieghe della mia mente, stava sussurrando: «Sì, siamo tutti abitanti di un villaggio di frontiera, un villaggio che possiede due strutture fondamentali: la lettura e la scrittura. L’atto della lettura e l’atto della scrittura – mi sussurrava Tolstòj – ci conducono oltre il villaggio di frontiera e ci permettono, mentre ci avviciniamo al confine, di dare un senso al “vuoto” (e ben venga il vuoto) e di dare un senso al “silenzio” (e ben venga il silenzio)». «Ma lo sai tu – mi domandava Tolstòj – che cos’è il confine?». E conoscendo i miei pensieri ha aggiunto: «E smettila poi di pensare sempre (basta pensarci ogni tanto) al confine estremo, all’ultima frontiera, io – ha proseguito – mi riferisco al “confine” come “condizione della mente”, quella condizione alla quale allude anche Erodoto ne Le Storie”.

     Voi forse state dubitando del fatto che Tolstòj si degni di conversare con me, ma io ho capito quello che voleva dirmi e che mi stava suggerendo: «Il confine – ha proseguito Tolstòj – è il prossimo frammento, è la prossima frase che incontrerai (come ti è successo questa mattina) sul sentiero della lettura e ne rimarrai affascinato, e la mente farà spazio ai pensieri e il cuore farà spazio all’inquietudine (perché no? Se la conosci la esorcizzi meglio…), e il frastuono della vita si farà più rarefatto… Si creerà come un vuoto, e questa vacuità farà aumentare il mistero dell’esistenza, e regnerà intorno a te il silenzio necessario perché tu possa ascoltare una voce, la voce della scrittura…».

     Se leggete Guerra e pace ogni tanto Tolstòj si metterà sicuramente a conversare con voi (ve l’ho detto anche in rima): ma lasciamo perdere e riflettiamo. Che cosa c’insegna Tolstòj, sulla scia di Erodoto, in quelle quattro righe (bastano quattro righe) del suo romanzo? Ci spiega che siamo tutti abitanti di un “villaggio di frontiera” nel momento in cui leggiamo e in cui scriviamo, e il “confine” – secondo Tolstòj che s’incammina sulla scia di Erodoto – è la “prossima frase che ci seduce leggendo”, il “confine” è il “testo che ci soddisfa scrivendo” (e lo è anche se ci soddisfa poco, perché, troppo spesso, siamo giudici troppo severi con noi stessi, in quanto scrivani). La parola “frontiera” – soprattutto nei romanzi – è strettamente collegata alla parola mistero e alla parola silenzio. Ed è attraverso queste parole che la “frontiera” è diventata – oltre ad un oggetto concreto – anche una condizione della mente. Questo mistero e questo silenzio attrae e intriga.

     Perché è intrigante l’idea di “frontiera”? Perché la “frontiera” – in quanto condizione della mente – è un’idea che genera un pensiero legato ad una tentazione, ad un desiderio, ad un interesse: quello di scoprire che cosa ci sia di là, che cosa ci sia dall’altra parte. Quali sono le sensazioni che si provano nel varcare una frontiera? Che cosa si sente? Che cosa si pensa? Quali emozioni si vivono? Senza dubbio ci s’immagina che, dall’altra parte della “frontiera”, vi sia qualcosa di diverso: ma “di diverso” in che senso?  Forse non c’è niente di propriamente nuovo, di propriamente diverso di là dalla frontiera e, in fin dei conti il massimo desiderio al contatto con la frontiera – quello che più tenta e attrae – è di per sé modesto: il massimo desiderio sta nella pura e semplice azione di varcare la “frontiera”. La “frontiera” è anche un significativo “paesaggio della mente” e quindi l’idea di varcare la frontiera diventa un prepotente bisogno psicologico.

     Erodoto, per primo, durante l’Età assiale della storia, esprime l’idea che “il varcare la frontiera” corrisponda a uno straordinario bisogno psicologico con il quale l’essere umano manifesta la sua esigenza di conoscere e di capire. Se l’atto di varcare la frontiera – allude Erodoto – non è vissuto come una cerimonia, come un rito, ecco che la “frontiera” rimane inesorabilmente soltanto una barriera materiale da oltrepassare (magari in fuga). Se il varcare la frontiera – allude Erodoto – è di per sé un atto ideale e sublime (sono due aggettivi romantici, e gli intellettuali “romantici”, in particolare Schiller, hanno amato Erodoto), ecco che la “frontiera” diventa prima di tutto uno strumento di collegamento. 

     E qui Le Storie di Erodoto c’insegnano un concetto fondamentale, e anche contraddittorio (aporetico), su cui noi contemporanei (in particolare noi, cittadini degli Stati europei, che abbiamo assistito ad un superamento delle frontiere) dobbiamo riflettere: l’abbattere le frontiere è un atto di grande civiltà, ma non basta. Perché non basta? Erodoto usa la parola “oros” per definire il “confine”, e poi utilizza anche un termine molto significativo che si concretizza nella parola ghéfyra. Erodoto, con la parola ghéfyra, definisce il termine “frontiera”, ma la parola greca gefura-ghéfyra significa prima di tutto “ponte”. Ancora una volta – nel contesto dell’Età assiale della storia – assistiamo all’incontro tra la natura e la cultura: spesso i confini (oroi) si identificano con i fiumi e la frontiera (ghéfyra) si concretizza in un ponte.

     La parola ghéfyra, che nel vocabolario di Erodoto traduce contemporaneamente il ponte e la frontiera, mette insieme due elementi contrapposti. In questa parola l’idea della frontiera, dell’oggetto che blocca, s’identifica con l’idea del ponte, dell’oggetto che crea un collegamento. In questa parola si manifestano due esigenze contrapposte che hanno preso forma nella mente dell’homo sapiens sapiens nel corso dell’Età assiale della storia: l’esigenza (col prevalere dell’agricoltura e dell’allevamento, con la rivoluzione del Neolitico) di perimetrare lo spazio costruendo strumenti di recinzione (confini) e l’esigenza di comunicare oltre lo spazio recintato costruendo strumenti di collegamento.

     Incontrando la parola greca ghéfyra – che ha, contemporaneamente, il significato di ponte e di frontiera – noi dobbiamo riflettere sul fatto che l’atto (positivo) di abbattere le frontiere non basta, è necessario soprattutto rinforzare le unioni, i rapporti, i legami, le connessioni. Il confine e la frontiera possono avere un senso se diventano strumenti utili (ponti) per rinforzare i collegamenti, le unioni, i rapporti, i legami, le connessioni. 

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Per noi i ponti costituiscono soprattutto uno strumento di collegamento…  C’è un ponte (o forse più di uno) a cui è legata la tua esperienza di vita? 

Scrivi quattro righe in proposito…

     E ora leggiamo una pagina tratta da un romanzo che s’intitola proprio Ponti. L’autore di questo romanzo si chiama Ivo Andrić (1892-1975). Ivo Andrić è uno scrittore, poeta e saggista serbo che nel 1961 ha ricevuto il premio Nobel per la Letteratura.

LEGERE MULTUM….

Ivo Andrić,  Ponti  (1963)

Di tutto ciò che l’essere umano, spinto dal suo istinto vitale, costruisce ed erige, nulla è più bello e più prezioso per me dei ponti. I ponti sono più importanti delle case, più sacri perché più utili dei templi. Appartengono a tutti e sono uguali per tutti, sempre costruiti sensatamente nel punto in cui si incrocia la maggior parte delle necessità umane, più duraturi di tutte le altre costruzioni Diventano tutti uno solo e tutti degni della nostra attenzione, perché indicano il posto in cui l’essere umano ha incontrato l’ostacolo e non si è arrestato, lo ha superato e scavalcato come meglio ha potuto, secondo le sue concezioni, il suo gusto e le condizioni circostanti.

... continua la lettura ...

     I ponti sui fiumi spesso – come i valichi montani – corrispondono alla “frontiera”. Non possiamo fare a meno in un Percorso di didattica della lettura e della scrittura, dopo aver incontrato Ivo Andrić (1892-1975) di consigliare la lettura del suo romanzo più conosciuto Il ponte sulla Drina (1942-1943), che è un ampio affresco delle vicende svoltesi dal 1500 fino alla prima guerra mondiale attorno al ponte di Višegrad. Il ponte sulla Drina di Višegrad è senz’altro uno dei più famosi ponti della Storia della Letteratura proprio perché di lì passa un famoso confine, di lì passa una celebre frontiera: su questo ponte dobbiamo passare anche noi – come lettori – per capire meglio (direbbe Erodoto, alludendo) la nostra storia.

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Per conoscer meglio Ivo Andrić è certamente utile mettersi in ricerca utilizzando l’enciclopedia o la biblioteca o la rete… 

Dove si trova Višegrad? È una località tra la Bosnia Erzegovina e la Serbia: potete individuarla con l’ausilio dell’atlante.

Se trovi qualcosa d’interessante scrivi quattro righe in proposito…

     Erodoto, a questo punto, “allude” e c’invita a tirare delle conclusioni, e per noi le conclusioni coincidono sempre con nuovi interrogativi. Che cos’è la Storia? La Storia è anche l’arte di “varcare la frontiera”? Chissà quante altre definizioni che riguardano la Storia (sempre però accompagnate da un punto interrogativo) incontreremo strada facendo: definizioni su cui riflettere per far crescere il catalogo dei nostri pensieri. Erodoto “allude”, e allora qual è, nel corso della Storia, la più grande “frontiera” che sia mai  stata costruita? La più gigantesca frontiera che sia stata costruita è la Grande Muraglia cinese. Ed è attraverso questa idea che Erodoto c’invita a guardare verso la Cina.

     Secondo gli studiosi – e ormai per noi questa è un’idea acquisita – il testo de Le Storie di Erodoto “allude” all’Età assiale della storia ed è un’allusione di prima mano perché anche Erodoto vive a ridosso di quest’età. Nella scrittura e nel racconto di Erodoto troviamo, per la prima volta, una riflessione sulle più antiche civiltà umane, e troviamo una serie di parole-chiave e di idee significative le quali ci confermano che, 2500 anni fa, la Storia della cultura è nata, si è sviluppata e sta dando i suoi frutti. Erodoto “allude” alle prime grandi civiltà umane, come quella egizia sviluppatasi nella valle del Nilo e quella sumerica sviluppatasi alla confluenza del Tigri e dell’Eufrate. Nelle ultime due settimane, nel testo de Le Storie di Erodoto, abbiamo trovato un riferimento alla civiltà indiana sviluppatasi nella valle dell’Indo e, seguendo questo riferimento, abbiamo studiato gli aspetti salienti della cultura indiana. Inoltre – ci dicono gli antichisti – nel testo dell’opera di Erodoto troviamo anche un’eco, seppur lontana, della civiltà cinese sviluppatasi nella valle del Fiume Giallo (Hoang-Ho).

     Erodoto nasce in Asia, sulle estreme coste occidentali dell’Asia, ed è quindi capace di raccogliere l’afflato, il soffio, l’ispirazione delle parole-chiave e delle idee-significative che prendono “forma” in questo straordinario continente, e la Cina occupa una buona parte di questo continente. Quando Erodoto nel testo de Le Storie usa la parola omoioths-omoiòtes che significa corrispondenza, somiglianza, oppure quando usa la parola armonia - armonia nel senso di concordanza, di consonanza, di equilibrio, o quando usa la parola Logos - Logos per indicare “la legge di natura” ecco che la nostra mente corre al pensiero cinese delle origini.

     Perché? Quali sono le caratteristiche fondamentali del pensiero cinese delle origini? La Cina, e più precisamente la regione bagnata dal Fiume Giallo (Hoang-Ho), è stata uno dei più importanti centri dell’evoluzione della specie umana e sull’atlante geografico, su una carta della Cina, potete seguire il corso di questo grande fiume. Le ricerche archeologiche ci rivelano che già cinquecento o seicentomila anni fa, la valle del fiume Giallo era abitata dalla specie homo, ed esiste un importante documento fossile: l’homo pekinensis, detto più comunemente sinanthropus (uomo della Cina). In contemporaneità con quella indiana, con quella egizia e sumerica – e cioè attorno al terzo millennio a.C. – fiorisce, nella regione cinese attraversata dal fiume Giallo, una civiltà di alto livello, a giudicare dai reperti venuti alla luce di recente.   

     I ritrovamenti archeologici danno una precisa fisionomia alla cultura cinese delle origini  e mettono in evidenza due elementi fondamentali: la razionalità di carattere molto pratico e il senso morale centrato più sul gruppo che sull’individuo. Nel pensiero cinese dell’Età assiale la razionalità tende a combaciare con la tecnologia (in Cina si fanno molte invenzioni utili) e il ben-essere sociale viene considerato più importante del benessere individuale.

     I miti cinesi si distinguono dalle contemporanee mitologie egizie, mesopotamiche e indiane.  I miti cinesi narrano le origini dell’impero (di un organismo umano) attraverso una vasta rete di racconti leggendari fatti risalire addirittura al quinto millennio a.C.

     Le leggende descrivono l’origine dell’impero come una serena età dell’oro, promossa e tutelata non da divinità ultraterrene (a volte anche crudeli) ma da imperatori virtuosi e geniali, come il capostipite Fu-Hsi, che avrebbe inventato l’alfabeto, considerato la prima grande invenzione della civiltà o come il suo successore , ingegnere idraulico che avrebbe domato le disastrose inondazioni e programmato le canalizzazioni.

     Questo umanesimo tutto terreno, senza inquietudini mistiche, è basato su un’idea che possiamo considerare l’idea madre della saggezza cinese. In che cosa consiste l’idea madre della saggezza cinese? Tra le vicende dell’essere umano e quelle del cosmo fisico c’è una correlazione, un rapporto, un legame, un collegamento così stretto che, come i terremoti o le tempeste turbano la società, così i comportamenti umani, nel bene e nel male, si riflettono sul corso stesso della natura. Se ci comportiamo male provochiamo anche un disordine, non solo nella società, ma anche nella natura. Se ci comportiamo in modo malvagio partecipiamo a costruire le cause delle alluvioni, dei terremoti, delle tempeste, del degrado ambientale con tutte le conseguenze che comporta. Questa simmetria dinamica tra il mondo mentale del soggetto umano e il mondo esteriore è governata da un principio universale. Questo principio universale viene chiamato: Tao  I Greci avrebbero detto Logos e noi potremmo tradurre con l’espressione: la legge della natura. Il Tao – la legge della natura – è dotato di una sua energia vitale, chiamata Te.

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Il termine Te ha anche dato il nome alla famosa bevanda: il te … Che cosa ti ricorda il te?

Scrivi quattro righe in proposito…

     Non c’è aspetto della civiltà classica cinese che non rifletta questa reciprocità, questo scambio, tra il mondo mentale della persona e il cosmo fisico. L’alfabeto cinese, ad esempio, consiste in raffigurazioni stilizzate degli oggetti (se ne contano a migliaia): la creazione dell’alfabeto cinese è una straordinaria operazione intellettuale che ha come obiettivo quello di costruire combinazioni simboliche in modo  da esprimere concetti astratti. Il rapporto tra la cosa e il segno che la raffigura non è solo convenzionale, ma è vitale, nel senso che al segno si attribuisce la stessa potenza dell’oggetto raffigurato. Su questa corrispondenza tra le cose e i loro segni si è sviluppata una tipica tradizione magica e divinatoria, il cui testo sacro per eccellenza è il più antico libro della Cina, intitolato I-Ching (il Libro).

     La cultura cinese fin dalle origini è basata sulla convinzione che esista un’unità fondamentale tra lo spirito e la natura. E l’unità fondamentale tra le leggi dello spirito e quelle della natura ha la sua più alta espressione visibile nella persona dell’imperatore, la cui autorità non scende dagli dèi ma, per così dire, sale dalle armoniose ramificazioni dell’universo. Il corrispettivo alfabetico dell’imperatore è un segno composto di tre linee orizzontali parallele tagliate da una linea trasversale e significa che i tre regni – infernale, terreno e celeste – sono soggetti al potere del Figlio del cielo, incarnazione del Tao, del principio universale che governa tanto il mondo dello spirito quanto il mondo della natura. Il palazzo dell’imperatore è quadrato come di forma quadrata è ritenuta la terra. Il palazzo dell’imperatore ha nove stanze quadrate quante sono le province della Cina, le nove stanze sono costruite in modo che possano servire da sala del trono per ciascuno dei dodici mesi dell’anno; il tetto che ricopre il palazzo dell’imperatore e il lago che lo circonda sono rotondi perché rotonda è la volta del cielo. Un complicato calendario, costruito sulla legge delle corrispondenze, regola i movimenti dell’imperatore all’interno del palazzo (Cfr. il film L’ultimo imperatore).

     La convinzione che ogni cosa e ogni sua modificazione sono interne a un sistema di corrispondenze ha modellato l’intera cultura cinese, compresa la cultura medica, il cui metodo dell’agopuntura – che risale ad un’età antichissima – ha sempre risvegliato molto interesse. All’immagine dell’universo come sistema di correlazioni con al centro il Tao (la legge di natura) va aggiunta la dottrina sulle due forze che agiscono nell’intero organismo cosmico e in ogni sua parte, anche minima: lo Yin, che corrisponde al versante ombroso delle montagne, all’inverno, al freddo, al principio femminino, e lo Yang che corrisponde al versante assolato delle montagne, all’estate, al caldo, al principio maschile. I due principi toccano il culmine della loro separatezza rispettivamente nell’inverno e nell’estate, ma nella realtà non sono mai separati, perché è dal diverso dosaggio tra la loro contrapposizione e la loro compenetrazione che traggono forma e movimento tutte le cose (questa dottrina ci ricorda il concetto di “Apollo e Dioniso” nella cultura greca).

     Tutta la sapienza cinese delle origini è scritta nei cinque libri canonici (I-Ching). Questa operazione culturale di raccolta e di scrittura avviene circa 2500 anni fa, durante l’Età assiale della storia, sotto il patrocinio della dinastia Chou che governa la Cina dal 1122 a.C. al 256 d.C. I cinque libri canonici del pensiero cinese s’intitolano: Il libro delle mutazioni (I-Ching), ed è l’antico testo di arte divinatoria di cui abbiamo detto,  Il libro delle storie (Shu-Ching), Il libro delle canzoni (Shi-Ching), Il canone dei riti (Li-chi), Le primavere e gli autunni (Chun-tsiu). Secondo la tradizione, l’ultimo libro, Le primavere e gli autunni (Chun-tsiu), sarebbe opera di Confucio, a cui si dovrebbe anche il riordinamento definitivo di tutti gli altri libri, e Confucio (che tutti abbiamo sentito nominare) sta sul nostro percorso e lo incontreremo.

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L’intera cultura cinese è dominata dall’idea della corrispondenza… La parola “corrispondenza” è legata ad un catalogo di parole significative: uguaglianza, somiglianza, simmetria, correlazione, riscontro, fedeltà, interdipendenza, equilibrio…

Quale di queste parole metteresti per prima?…

     Attorno ai Ching, ai Libri, si è sviluppata una tradizione esegetica (d’interpretazione e di commento) che è rimasta privilegio di una categoria di scrivani (Confucio è uno di essi), detti letterati, che sono i soli a conoscere la lingua arcaica, ormai incomprensibile al popolo, e sono loro che educano alle future mansioni i giovani nobili destinati a responsabilità di governo.

     Nel VII secolo a.C. l’unità dell’impero cinese si allenta: comincia un processo di disgregazione dello Stato determinato da una catena di sanguinose guerre civili e i letterati si disperdono nelle varie province che diventano tanti staterelli. I letterati, in questi piccoli Stati, danno vita a Scuole vere e proprie, tanto che, nella storiografia cinese, questo viene chiamato Il periodo delle Cento scuole. Gli orientamenti culturali dominanti nelle Scuole sono due: il taoismo e il confucianesimo. Il taoismo s’ispira a un’esigenza di disimpegno dagli affanni della vita sociale in nome di una ricerca interiore del Tao, del principio universale, della legge della Natura. Il confucianesimo presenta invece l’esigenza di opporsi al caos sociale, determinato dalla disgregazione dell’impero, e si propone di riportare le tradizioni all’ordine antico, e cioè al rigore morale e al rispetto delle gerarchie familiari e politiche. 

     Quali sono le parole-chiave e le idee-significative che caratterizzano questi due orientamenti fondamentali del pensiero cinese delle origini? Intanto questi due orientamenti – il taoismo e il confucianesimo – sono legati a due celebri personaggi. Nel taoismo emerge una figura (che tutti abbiamo sentito nominare): Lao-tse.  Tutti gli studiosi oggi concordano nel dire che Lao-tse è un personaggio creato quasi per intero dall’immaginazione degli appartenenti ad un movimento culturale che, nel VI secolo a.C, 2500 anni fa, utilizza la tradizionale dottrina del Tao per contestare, per polemizzare contro il pensiero di Confucio. Il confucianesimo si è già sviluppato, è diventato la dottrina dominante e i taoisti – i seguaci di Lao-tse – si oppongono nei confronti dell’ideologia confuciana che si identifica col potere politico, ritenendo che il pensiero di Confucio si sia allontanato dalla tradizione originaria del “vero Tao”. Uno storico cinese del I secolo d.C. ha scritto: «Di Lao-tse si può assicurare soltanto, che, avendo amato l’oscurità più di ogni altra cosa, cancellò deliberatamente ogni traccia della sua vita».

     Secondo la tradizione Lao-tse sarebbe nato attorno al 570 a.C. e sarebbe morto vecchissimo, addirittura, secondo alcuni, a 200 anni. Chi ha costruito, dal punto di vista letterario, il personaggio di Lao-tse? A fare di Lao-tse un contemporaneo di Confucio – come se fosse una persona realmente esistita – è stato un letterato del IV secolo a.C, il cui nome ha una doppia pronuncia: Zhuang-zi nella versione più moderna e Chuang-tzu in quella più antica. La nascita e la morte di questo scrittore vengono collocate tradizionalmente tra il 369 e il 286 a.C  ma queste date sono ipotetiche perché della vita di questo personaggio non sappiamo quasi nulla. Zhuang-zi [Chuang-tzu] è autore di un libro che porta il suo stesso nome e che viene ritenuto il capolavoro letterario della Cina antica. Secondo Zhuang-zi [Chuang-tzu], i due grandi saggi della Cina si sarebbero incontrati più volte, sempre per iniziativa di Confucio che puntualmente restava sconfitto dall’enigmatica e scontrosa sapienza di Lao-tse.

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In biblioteca puoi leggere qualche pagina del libro di Zhuang-zi [Chuang-tzu] e puoi trascriverne qualche frammento che ritieni interessante…

     Leggiamo tre frammenti tratti dal libro di Zhuang-zi [Chuang-tzu].

LEGERE MULTUM….

Zhuang-zi [Chuang-tzu]  (IV secolo a.C.)

Una volta Zhuang-zi sognò che era una farfalla svolazzante e soddisfatta della sua sorte e ignara di essere Zhuang-zi. Bruscamente si risvegliò e si accorse con stupore di essere Zhuang-zi. Non seppe più allora se era Zhou che sognava di essere una farfalla, o una farfalla che sognava di essere Zhou. Tra lui e la farfalla vi era una differenza. Questo è ciò che chiamano la metamorfosi degli esseri.

 

La vita umana è limitata; il desiderio di esistere è illimitato. Colui che consuma la propria vita limitata per inseguire l’illimitato desiderio di vivere giunge all’esaurimento; esauritosi, vuol desiderare ancora e muore così di esaurimento. Chi fa il bene attira a sé la fama: chi fa il male si vota al castigo. Solo colui che ha per regola la moderazione può conservare il proprio corpo, vivere intera la propria vita, adempiere ai doveri verso i propri genitori e giungere al limite naturale dell’esistenza.

 

Se io discuto con te e tu hai la meglio su di me invece che io su di te, hai forse necessariamente ragione e io necessariamente torto? E se io ho la meglio su di te, ho io necessariamente ragione e tu necessariamente torto? Ha uno ragione e l’altro torto, oppure abbiamo ragione entrambi o entrambi torto? Né io né te possiamo saperlo, e un terzo sarebbe nella stessa oscurità. Chi può decidere senza errore? Se interroghiamo qualcuno che è del tuo parere, come potrà decidere, se è del tuo parere? Se è d’accordo con me, come potrà decidere, se è d’accordo con me? Lo stesso accadrà se si tratta di qualcuno che è insieme d’accordo con me e con te, o se è di un parere differente da entrambi. Allora né io, né te, né un terzo possiamo decidere. Dovremmo attendere un quarto?

     Questo terzo brano ci fa venire in mente Erodoto quando afferma che “il mondo non è facilmente giudicabile”.

     Ma per avvicinarsi – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – al libro di Zhuang-zi [Chuang-tzu], in modo da leggerne qualche pagina, è necessario prendere in considerazione le parole e le idee fondamentali del pensiero taoista e la figura – probabilmente immaginaria – di Lao-tse. Il nome di Lao-tse è legato a uno dei libri più significativi della Storia del Pensiero, il Tao-te-ching: il libro (ching) della potenza (te) del Tao. Lao-tse lo avrebbe dettato su pressante richiesta del portinaio della Barriera orientale (della Grande Muraglia), Yin-Hsi, mentre, lasciata la corte imperiale dove era stato archivista, fuggiva dal paese per seguire la Via, per andare verso il Tao (la legge suprema che regola la natura e gli eventi umani).

     È necessario – attraversando il territorio del pensiero cinese delle origini – esporre alcuni principi contenuti nel Tao-te-ching (il Libro della potenza del Tao). Questi principi ci consentono di avere sùbito un’idea della profondità raggiunta dal pensiero umano durante l’Età assiale della storia. L’anima della Cina, è vero, si rispecchia meglio nell’umanesimo di Confucio (di cui ci occuperemo), ma non potrebbe esistere l’umanesimo di Confucio senza la riflessione alternativa di Lao-tse contenuta nel Tao-te-ching (il Libro della potenza del Tao). Il Tao-te-ching (il Libro della potenza del Tao) è composto da 81 capitoletti. Ogni capitoletto è un aforisma, una massima, una parabola che mette in evidenza l’indefinibilità del Tao, che fa risaltare la fatalità della legge suprema che regola la natura e gli eventi umani. Il Tao – secondo i taoisti – non è, come pensano i confuciani, l’armonia che deriva dall’osservanza dei riti e delle norme di comportamento privato e pubblico, il Tao non è un’armonia prodotta dall’essere umano: l’armonia del Tao, l’armonia della legge di natura, esiste fin da principio e sta oltre la sfera pubblica della vita, oltre il velo delle vicende naturali. Se l’essere umano – si legge nel Tao-te-ching – è convinto di essere necessario all’andamento dell’universo, e si affanna negli affari e si angustia nella ricerca dei beni e dei poteri materiali, non capirà mai nulla del Principio che nessuno può dominare, anzi che nessuno può nominare.

     Leggiamo due frammenti dal Libro della potenza del Tao.

LEGERE MULTUM….

Tao-te-ching

Vi è qualcosa di indefinibile nata prima del cielo e della terra tanto silenziosa e senza forma, assoluta e immutabile gira e non fa danni, può essere la madre del cielo e della terra, non so il suo nome, sforzandomi lo chiamo Tao.

     La conoscenza del Tao (della legge suprema che regola la natura e gli eventi umani) può aversi solo con una intuizione, con una illuminazione razionale che penetri oltre tutte le rappresentazioni e tutti i concetti, e che perciò si riconosce in niente di ciò che può essere espresso in parole, anche se nella cultura del pensiero cinese delle origini (così come nella cultura indiana delle origini) le parole orali e scritte non mancano.

LEGERE MULTUM….

Tao-te-ching

Il Tao di cui si può parlare non è l’eterno Tao, il nome che può essere nominato non è l’eterno nome, il senza nome è il principio del cielo e della terra.

     Il Tao non è un principio spirituale che si contrappone al mondo della materia, perché il Tao (la legge suprema che regola la natura e gli eventi umani) sta prima della materia e dello spirito. E il Tao non è neppure l’Essere supremo a cui tende, pur nella sua impotenza, l’intelletto umano, perché il Tao (la legge suprema che regola la natura e gli eventi umani) sta prima della divisione del soggetto e dell’oggetto, sta prima della divisione del mondo mentale e del mondo reale.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura

In biblioteca puoi leggere qualche pagina del testo del Tao-te-ching (il Libro della potenza del Tao) e puoi trascriverne qualche frammento che ritieni interessante…

     Leggiamo i primi due capitoletti del Tao-te-ching (il Libro della potenza del Tao).

LEGERE MULTUM….

Tao-te-ching

La Via (il Tao) veramente Via non è una via costante. I Termini (i nomi) veramente Termini non sono termini costanti. Il termine Non-essere indica l’inizio del cielo e della terra; il temine Essere indica la madre delle diecimila cose. Così, è grazie al costante alternarsi del Non-essere e dell’Essere che si vedranno dell’uno il prodigio, dell’altro i confini. Questi due, sebbene abbiano un’origine comune, sono designati con termini diversi. Ciò che essi hanno in comune, io lo chiamo il Mistero, il Mistero Supremo, la porta di tutti i prodigi.

 

Tutti nel mondo riconoscono il bello come bello; in questo modo si ammette il brutto. Tutti riconoscono il bene come bene; in questo modo si ammette il male. Difatti: l’Essere e il Non-essere si generano l’un l’altro; il difficile e il facile si completano l’un l’altro; il lungo e il corto si formano l’un l’altro; l’alto e il basso si invertono l’un l’altro; i suoni e la voce si armonizzano l’un l’altro; il prima e il dopo si seguono l’un l’altro [ nella Via tutto è relativo].

     Il Tao-te-ching (il Libro della potenza del Tao) inizia affermando che anche la Via (anche il Tao), anche la legge della natura, è soggetta al relativismo, e di fronte a questa affermazione, ancora una volta, il nostro pensiero va ad Erodoto, il quale “allude”…

     Il tema fondamentale del pensiero cinese delle origini è quello dell’interpretazione del Tao, della definizione del Tao nonostante si affermi che il Tao non è definibile e neppure nominabile. Gli antichi commentatori chiamano il Tao – appena questo concetto fa il suo ingresso nella sfera della ragione – col nome di Wou, che può essere tradotto con il termine “nulla”. Il Tao viene considerato come “l’essere privo di ogni determinazione” e dunque si presenta simile al non-essere. Tutte le cose sussistono in virtù tanto dell’essere quanto del non-essere. Nascendo, le cose emergono dal Tao, morendo vi ritornano: vita e morte sono una medesima cosa. Ritroviamo lo stesso ragionamento nel pensiero greco, ad esempio in Eraclito e in Parmenide, due personaggi che abbiamo incontrato molte volte e che incontreremo ancora nei nostri Percorsi. Il pensiero di Eraclito e di Parmenide – che sono contemporanei di Erodoto e di cui Erodoto subisce l’influenza intellettuale, soprattutto di Eraclito (che vive nell’ambito della cultura del razionalismo ionico) – oscilla tra la priorità dell’Uno e la priorità del molteplice. C’è un momento – tanto nel pensiero di Eraclito e di Parmenide quanto nel pensiero del taoismo cinese – in cui si mette al primo posto l’Uno, e le cose molteplici si risolvono e si annullano nell’Essere e tutta la realtà è contenuta nell’unità dell’Essere. C’è un altro momento – tanto nel pensiero di Eraclito e di Parmenide quanto nel pensiero del taoismo cinese – in cui si mette al primo posto la molteplicità e dove l’Essere si ramifica nel molteplice e perde la prerogativa di essere Uno e assume le caratteristiche del Non-essere.

     Un antico commentatore cinese del Tao-te-ching (il Libro della potenza del Tao) descrive questo concetto sotto forma di metafora.

LEGERE MULTUM….

Commentari al Tao-te-ching

Non c’è ghiaccio separato dall’acqua, né l’acqua costituente il ghiaccio è separata dal ghiaccio, né essa è un’altra entità. Similmente, essendo tutte le cose costituite dal Tao, il Tao, necessariamente, non è separato da tutte le cose e non esiste come altra entità. Se il Tao trascendesse tutte le cose, sarebbe un vuoto, e allora non potrebbe essere chiamato principio cosmico.

     Dunque il Tao non esiste al di fuori delle cose e nemmeno si identifica con le cose molteplici e mutevoli: «Il Tao è inafferrabile! – si legge nel Tao-te-chingsembra esistente ed è elusivo! Io non so di chi sia figlio».

     Molti commentatori considerano il Tao non un principio reale, ma un principio logico che regola dall’interno le contraddizioni della realtà, tutte riconducibili all’eterno gioco dell’essere e del non-essere, ambedue necessari all’ordine dell’universo.

LEGERE MULTUM….

Tao-te-ching

Trenta raggi convergono in un mozzo: nel non essere sta l’uso del carro. Si modella l’argilla per fare i vasi: nel non essere sta l’uso del vaso. Si forano porte e finestre per fare una casa. Perciò l’essere costituisce l’oggetto, il non essere costituisce l’utilità.

     Il bello della logica cinese – dal punto di vista della didattica della lettura e della scrittura – è che raramente si stacca dalle immagini suggerite dall’osservazione quotidiana delle cose e della natura. La logica cinese è fedele all’idea che ciò che si muove nell’intelletto si muove anche nelle cose sensibili: non dimentichiamo che, alle sorgenti del pensiero cinese, c’è la danza cosmica tra i due principi, quello femminile e quello maschile, lo Yin e lo Yang.

     E così si esprime il Tao-te-ching.

LEGERE MULTUM….

Tao-te-ching

Siccome lo Yin e lo Yang ruotano costantemente niente è stabile, tutto è sottoposto all’alternanza delle due fasi. Al culmine dell’espansione (Yang) fa seguito necessariamente l’inizio della contrazione, e reciprocamente. Nessun estremo si sostiene. Giunto allo zenith, il sole discende. Quando è piena, la luna comincia a calare. Su di una ruota che gira, il punto che è salito in alto ridiscende subito per poi risalire, giro dopo giro. Il cosmo è in equilibrio ma questo equilibrio non è stabile, è un equilibrio per compensazioni alterne.

     Nell’antico pensiero della Cina – durante l’Età assiale della storia – è come se Confucio – che incontreremo – rappresentasse lo yang, il momento dell’integrazione del cittadino nelle regole della vita associata, ed è come se Lao-tse rappresentasse lo yin, il momento del rifiuto della razionalità sociale in nome di una sapienza radicata nel non-essere dell’essere, nel vuoto del pieno, nel mozzo della ruota.

     Alla drammatica crisi delle istituzioni feudali, le due “scuole” – taoista e confuciana –rispondono in modo diverso, anche se meno contraddittorio di quanto potrebbe sembrare. Nel progetto etico-politico del taoismo c’è una parola-chiave, la parola “disimpegno”. Il “disimpegno” taoista non consiste nel lasciarsi andare – il “disimpegno” non corrisponde alla fannullaggine – perché per “disimpegnarsi” bisogna impegnarsi molto. Il disimpegno più assoluto per non essere coinvolti – a tutti i livelli – nella “scalata sociale” comporta un impegno notevole. Per il taoismo la risposta è netta: l’impegno nella scalata sociale è una fuga dalla sapienza del Tao.

     Le cose vanno male nel mondo perché ci si dimentica il Tao, perché ci si discosta dalle leggi di natura (e qui il pensiero corre a Rousseau). Il Tao-te-ching ci spiega che si cominciò a parlare di giustizia, appunto perché ci fu l’ingiustizia, si cominciò a parlare di virtù appunto perché non ci fu più virtù. È necessario quindi: non l’impegno verso l’azione ma l’impegno verso la non-azione: questa è la legge del Tao. Il disimpegno taoista è basato sulla convinzione che la natura provvede spontaneamente a se stessa: basta non disturbarla. Per “non disturbare” la natura è necessario un disimpegno che comporta un impegno notevole. La natura – leggiamo nel Tao-te-ching – si esprime con rettitudine e diventa benigna attraverso i sentimenti spontanei del popolo (e qui il nostro pensiero corre al “romanticismo”), mentre la natura si corrompe e diventa maligna quando l’individuo s’impegna per dare la scalata alla società. I pensatori taoisti si scagliano contro l’attivismo dei politici che spesso non ha come obiettivo il bene pubblico ma l’interesse privato e si scagliano contro i letterati che sciorinano un falso sapere, un sapere alienante.

LEGERE MULTUM….

Tao-te-ching

Quando la sua politica fosse inattiva il suo popolo sarebbe semplice, quando la sua politica fosse attiva il suo popolo sarebbe scaltro.

Quelli che praticavano bene il Tao nell’antichità non indottrinavano il popolo ma lo facevano ignorante delle dottrine. Se il popolo è difficile a governare è perché è troppo indottrinato.

Pratica il non agire occupati del non fare gusta quello che non ha gusto, anche senza affacciarsi alla finestra si conosce il mondo, è senza affacciarsi alla finestra che si conosce il Tao, spesso tanto più lontano si va meno si conosce il mondo.

     Da queste parole capiamo che il taoismo invita l’individuo ad impegnarsi nella contemplazione, invita l’individuo a vivere a contatto con la natura, lo invita a porsi in equilibrio con le leggi della natura e lo esorta ad evitare gli impegni che lo vincolano alla conquista della ricchezza, del potere, del successo, impegni che non possono garantire il raggiungimento della serenità d’animo: il vero valore da perseguire. Ma questo sprofondamento dell’individuo nella contemplazione del Tao, se poteva assicurare la serenità dell’animo, non poteva essere la risposta adatta alla profonda crisi politica, sociale e morale della Cina del VI secolo. Sostituendo il non-agire all’agire, il non-sapere al sapere, l’inerzia all’attiva partecipazione alla vita politica, si lasciava libero corso al degrado del paese.

     Venuta meno l’autorità centrale della dinastia Chou, cominciò a formarsi una moltitudine di staterelli rissosi e governati da apparati feudali spesso molto corrotti. Nel totale dissesto delle tradizioni su cui si reggeva, da età immemorabile, l’etica pubblica e privata, le classi sociali perdevano la coscienza del proprio ruolo. Occorreva quindi riprendere in mano il filo delle tradizioni per ricostruire il tessuto della razionalità del vivere comune, nella quale fossero ben determinati i ruoli del singolo all’interno degli organismi sociali, dalla famiglia alla corte. Questa ricostruzione della razionalità politica fu opera di Confucio, che infatti è stato di volta in volta considerato sia un innovatore che un restauratore. Chi è Confucio e in che cosa consiste il suo pensiero?

     Kong-fou-tseu, detto Confucio dalla forma latinizzata Confucius, introdotta dai gesuiti nel XVI secolo,  nasce nel 551 a.C. in un villaggio di Lu, uno dei regni in cui si era da più di un secolo disgregato l’impero cinese. La madre lo educa rigorosamente alle tradizioni. Confucio detiene fin da giovane cariche pubbliche fino a diventare nel 505 a.C. governatore della capitale di Lu e successivamente ministro dei lavori pubblici, della giustizia e infine cancelliere del regno. Per sottrarsi alle calunnie e agli intrighi della corte – altri dicono perché era diventato insopportabile per la sua pedanteria – lascia la sua città e per tredici anni,  insieme ad alcuni discepoli, viaggia come pellegrino negli altri regni dell’impero, esponendo la sua riforma morale e politica. Tornato in patria a Lu, dedica gli ultimi tre anni della sua vita  (muore nel 479 a. C.) all’insegnamento, con grande successo: i suoi discepoli furono anche tremila.

     Confucio non ha lasciato nulla di scritto, ma la tradizione lo vuole compilatore di libri storici, e dell’ultimo dei cinque libri canonici intitolato Le primavere e gli autunni. L’insegnamento di Confucio ha dato vita a una lunga tradizione culturale che si concretizza nella cosiddetta Scuola dei letterati. I letterati confuciani hanno fatto del confucianesimo l’ideologia dominante della Cina. Nel VII secolo d.C. un collegio di letterati compie una revisione e un riordinamento delle opere confuciane. Da allora, ai cinque libri canonici della Cina, si sono aggiunti i quattro classici libri confuciani: I Discorsi o Dialoghi di Confucio,  La Pietà Filiale, Il Grande Studio, L’Invariabile Mezzo, e i Discorsi o Dialoghi di Meng-tzu (Mencio).

     Meng-tzu (372-289 a.C) elabora, duecento anni dopo, i Discorsi o Dialoghi di Confucio sotto una nuova forma.

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In biblioteca puoi leggere qualche pagina del testo delle Opere di Confucio e puoi trascriverne qualche frammento che ritieni interessante…

     Confucio con il suo pensiero rinnova la società cinese recuperando le tradizioni e riempiendole di un nuovo spirito. Confucio diceva di sé e del suo pensiero: «Io commento, io chiarisco le opere antiche, ma non invento nulla di nuovo». Confucio con il suo insegnamento trasfigura le origini preistoriche dell’Impero facendo degli imperatori non degli dèi capricciosi e crudeli ma degli esseri umani saggi e virtuosi. Secondo Confucio tocca alla nobiltà, ormai spogliata di molti suoi privilegi, ridar vita alla virtù che, nei tempi mitici, splendeva alla corte degli imperatori. Poco conta però la nobiltà di sangue – ecco l’innovazione confuciana – ma conta la nobiltà d’animo, nobili non si nasce, nobili si diventa: un contadino saggio e virtuoso è nobile, un feudatario capriccioso e crudele è ignobile.

     Confucio si tiene fuori dagli arditi ragionamenti dei taoisti, il suo pensiero coltiva idee pratiche e politiche. Per i taoisti il Tao è una via che non si può nominare, che non può esser tradotta da nessuna logica, da nessuna regola. Per Confucio invece il Tao è l’insieme ordinato dei nomi e cioè dei ruoli che ogni nome esprime e che si trovano codificati, secondo la tradizione, nei “libri canonici”. Per cui la società funziona bene se ognuno “onora il proprio nome” cioè se “svolge bene il proprio ruolo” e se ogni ruolo, anche il più umile, viene valorizzato…perché è dal bene comune che deriva il bene dei singoli. «Quando un principe si comporta da principe, un ministro da ministro, un padre da padre, un figlio da figlio, il paese è governato» così si legge nei Dialoghi di Confucio.

     Confucio intende affrontare il problema del buon governo e del ben-essere della società impegnandosi a “rettificare ogni nome”, vale a dire assumendosi la responsabilità di “delineare bene le regole di ogni ruolo”. Per questo Confucio si dedica a commentare con scrupolo i libri canonici (I Ching), per cercare, nella tradizione, le norme che regolano ogni ruolo, in modo che ciascun cittadino possa assolvere alle proprie mansioni con rettitudine. Confucio diventa – secondo la tradizione – scrittore di libri storici e di fronte a questa affermazione il nostro pensiero corre ad Erodoto che “allude” sorridendo…

     Anche l’ultimo dei cinque libri canonici (I Ching), intitolato Le primavere e gli autunni, che viene, secondo la tradizione, attribuito a Confucio, è un libro storico, è un libro di annali in cui, cronologicamente, si racconta, rasentando molto il mito e la leggenda, la storia più remota della Cina e dei primi imperatori. La storia è, per Confucio, lo specchio in cui l’umanità può conoscere se stessa o, più precisamente, può comprendere il vero senso dei nomi, la vera utilità dei ruoli. La “rettificazione dei nomi”, vale a dire “che ognuno svolga il proprio ruolo con rettitudine” è la chiave di volta della dottrina confuciana.

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Svolgere il proprio ruolo: quando, dove, come e perché pensi di aver svolto il tuo ruolo con rettitudine ? Ne è valsa la pena oppure non ne è valsa la pena?

Svolgi il tuo ruolo di scrivana, di scrivano, con rettitudine, bastano quattro righe…

     Leggiamo, a questo proposito, un frammento da I Dialoghi di Confucio.

LEGERE MULTUM….

Confucio, I Dialoghi

Se i nomi non vengono rettificati (se non si conoscono le regole per assolvere al proprio ruolo), le parole non sono in accordo con la realtà delle cose; se le parole non sono in accordo con la realtà delle cose, gli affari non possono essere portati onestamente a compimento, i riti e la musica non vengono coltivati; se i riti e la musica non vengono coltivati, le punizioni non vengono assegnate al modo giusto; se le punizioni non vengono assegnate al modo giusto, le persone non sanno come muovere le mani e i piedi. Perciò il saggio nomina solo ciò di cui può parlare, parla solo di ciò che sa fare: nelle parole del saggio deve rispecchiarsi la rettitudine.

     Attraverso questi ragionamenti, attraverso queste riflessioni il confucianesimo costruisce un vastissimo catalogo di regole e di prescrizioni che spesso finiscono per rasentare la pedanteria. Se ciascuno osserva tutte le prescrizioni date assicura il retto andamento e della società e della natura. In cinese il complesso delle prescrizioni, l’insieme delle regole da rispettare è detto semplicemente Li. Se per i taoisti l’individuo supera i propri squilibri dimenticando se stesso per identificarsi col Tao, per identificarsi con la legge della natura, per Confucio il superamento del disordine si raggiunge identificandosi con le regole della società. Anche la religione per Confucio vale se ne vengono rispettati minuziosamente i riti, specie quelli che esprimono il culto degli antenati.

     Per Confucio, molto più che per qualsiasi altro filosofo, l’essere umano è un “animale sociale”. La società esaltata da Confucio si deve rispecchiare in un ideale esclusivamente morale, che egli chiama jen, termine difficile da tradurre in concetti occidentali. La persona, se vuole contribuire al bene della società, deve tendere a realizzare lo jen. Possiamo paragonare lo jen all’ideale latino della humanitas o quello greco del kalos ka gathos, la fusione di bellezza e di bontà, o possiamo chiamare in causa, per definire lo jen, i concetti di benevolenza, decoro, simpatia umana. La persona che possiede lo jen, si legge ne I Dialoghi di Confucio: «Dal desiderio di affermare se stessa è portata ad affermare gli altri e solo sviluppando gli altri sviluppa se stessa». La regola centrale dello jen è letteralmente identica a una norma evangelica: «non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te; fa agli altri ciò che vuoi che sia fatto a te».

     Ma questa simmetria tra l’io e gli altri, nel confucianesimo, si riduce a uno scambio di gentilezza tra persone sagge e benevoli, dentro i limiti dell’equilibrio, e non comporta affatto lo “squilibrio” della carità evangelica, che suggerisce di rendere bene per male e di amare coloro che ci perseguitano. Ogni eccesso, anche quello della virtù, è in contrasto con la norma suprema dell’etica confuciana, quella del tsong-yong, il “giusto mezzo”, che ritroveremo anche in Aristotele. Per assicurare la serenità d’animo e per dissipare il disordine sociale è utile agire secondo il giusto mezzo, il tsong-yong. L’equilibrio confuciano ha alimentato il “carattere sociale” della Cina, almeno fino ai recenti rivolgimenti politici. Per assicurare la serenità d’animo e per dissipare il disordine sociale è conveniente cercare la giusta misura, cercare l’equilibrio, usare la moderazione, comportarsi con rettitudine.

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Dalla parola “rettitudine” derivano molte altre parole significative: onestà, probità, giustizia, lealtà, integrità, correttezza, moralità, serietà, incorruttibilità, irreprensibilità, chiarezza, semplicità, trasparenza, schiettezza, sincerità.

Quale di queste parole metteresti per prima accanto alla parola “rettitudine” ? 

Scrivila…

     Ma c’è un’altra parola fondamentale nel pensiero cinese di stampo confuciano, ed è la parola “memoria”, una parola che abbiamo già incontrato molte volte sul nostro Percorso. La memoria è, per Confucio, lo strumento con cui l’umanità può conoscere se stessa e, più precisamente, il mezzo con cui l’umanità può rievocare il vero senso dei nomi, può ricostruire la vera utilità dei ruoli. La parola “memoria” – per Confucio – è direttamente collegata alla parola “storia”. E allora possiamo affermare che: la Storia è “memoria”?

     Chissà quante altre definizioni che riguardano la Storia (sempre accompagnate da un punto interrogativo) incontreremo strada facendo: definizioni su cui riflettere per far crescere il catalogo dei nostri pensieri. Erodoto nella sua opera – perché è sempre sul sentiero di Erodoto che stiamo camminando – allude al fatto che prima ancora del pensiero indiano e cinese (che abbiamo incontrato in queste ultime settimane) e del pensiero mesopotamico ed egizio (che incontreremo ancora prossimamente), possiamo rinvenire uno strato più profondo. In questo strato più profondo ci sono le parole-chiave e le idee-significative più antiche: le parole e le idee degli “albori”. Il primo ragionamento che gli studiosi (gli antichisti, gli antropologi) hanno fatto è che se queste parole e queste idee più antiche ce le “ricordiamo”, questo significa che il primo fondamentale meccanismo propulsore della Storia della Cultura e del Pensiero è “la memoria”. Su che cosa siamo invitati a riflettere quando affermiamo che: la Storia è “memoria”? Prima di affrontare, la prossima settimana, questo tema – in compagnia di Erodoto – leggiamo alcuni frammenti significativi da I Dialoghi di Confucio.

LEGERE MULTUM….

Confucio, I Dialoghi

Confucio disse: – Se il saggio manca di memoria non è rispettato, la sua cultura non è solida. Egli considera essenziali la lealtà e la sincerità, non ha amici che non siano simili a lui, se sbaglia non teme di correggersi.

Confucio disse: – Il saggio non cerca la sazietà nel mangiare né la comodità nella dimora. Egli è accorto nel fare e prudente nel dire, segue chi è sulla Via per correggersi, segue chi è sulla Via della memoria. (Così) può dirsi amante del sapere.

Confucio disse: – Ricordo che a quindici anni la mia volontà fu rivolta allo studio, ricordo che a trenta fui fermo (nei propositi), ricordo che a quaranta non ebbi più incertezze, ricordo che a cinquanta compresi i decreti del Cielo, ricordo che a sessanta il mio orecchio divenne un organo obbediente (perché fu capace di ascoltare), ricordo che a settanta seguii i desideri del mio cuore senza uscire di squadra, senza perdere la memoria.

Confucio disse: – Il saggio è universale e non smemorato, l’uomo volgare è smemorato e non universale.

Confucio disse: – Dedicarsi a coltivare la memoria è incamminarsi sulla Via della rettitudine.

     Su che cosa siamo invitati a riflettere quando affermiamo che: la Storia è “memoria”? Sapete quali parole-chiave e quali idee-significative si trovano nello strato più profondo della Storia della Cultura e della Storia del Pensiero Umano? Sapete fin dove arriva, in profondità, la memoria? L’opera di Erodoto – il testo de Le Storie – ci aiuta a praticare l’immersione nei fondali più profondi della Storia del Pensiero Umano.

     E, in conclusione, parafrasando Confucio, possiamo dire che: “Incamminarsi sulla Via della Scuola è (o dovrebbe essere) uno dei modi possibili per dedicarsi a coltivare la propria memoria…”.

     E allora: non perdete la memoria: correte a Scuola! La Scuola è qui…

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Febbraio 10, 2006