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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ UMANISTICA VIENE ISTITUITO IL GIUBILEO PER LUCRARE INDULGENZE ...

Lezione N.: 
10

Prof. Giuseppe Nibbi    La sapienza poetica e filosofica dell’età umanistica   9-10-11  dicembre  2015

Bonifacio VIII

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ UMANISTICA

VIENE ISTITUITO IL GIUBILEO PER LUCRARE INDULGENZE ...

 

   Questo è il decimo itinerario del nostro viaggio di studio sul “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età umanistica” [l’ultima Lezione prima della vacanza natalizia e l’ultima dell’anno 2015] e ci troviamo ancora nei pressi delle ultime propaggini di uno scenario al quale è stato dato il nome di “paesaggio intellettuale dell’averroismo latino”: la scorsa settimana, osservandolo, abbiamo incontrato il personaggio-chiave che anima questo significativo spazio culturale, Sigieri di Brabante, il cui pensiero ha contribuito a creare i presupposti che in questa prima parte del nostro viaggio stiamo individuando e che determinano la nascita dell’Umanesimo. I germi di questa importante corrente, l’Umanesimo, vanno ricercati [come abbiamo studiato in queste settimane], prima di tutto, nella Scuola di Oxford di Roberto Grossatesta e di Ruggero Bacone dove - attraverso lo studio delle Opere di Aristotele [con il Grande Commento alle Opere di Aristotele di Averroè] - cresce l’interesse per “il mondo della natura fisica” e si consolida il concetto di “esperienza” [l’episteme], e dove prende campo la pratica della “sperimentazione” [l’epistemologia] e diventa centrale il tema “dell’interpretazione dei fenomeni” [l’ermeneutica]. Quindi la Filosofia scolastica - con l’inizio dell’autunno del Medioevo, dalla seconda metà del XIII secolo - cambia pelle e la tradizionale questione, tutta teorica, del rapporto tra la Fede e la Ragione [l’argomento dominante - come abbiamo studiato durante il viaggio dello scorso anno scolastico - della primavera e dell’estate del Medioevo] passa in secondo piano per lasciare il posto al tema “dell’unità del sapere”: un procedimento che ha come obiettivo primario quello di far interagire la Fede, la Ragione e l’esperienza e poi quello di far cooperare culture diverse, e questo metodo genera un originale respiro universale [che - come abbiamo studiato - si dilata da Oriente verso Occidente e viceversa] e favorisce lo sviluppo, nell’ambito delle Scuole che si occupano di Storia del Pensiero Umano, di un atteggiamento “ecumenico” capace di stimolare nuovi investimenti in intelligenza e [come abbiamo detto più volte] il termine “ecumenismo” [inteso come fecondo interscambio intellettuale] precorre la nascita dell’Umanesimo. In che modo il pensiero di Sigieri di Brabante - che, a Parigi presso la Facoltà delle Arti, ha guidato il movimento d’opinione degli Averroisti latini - ha anticipato l’Umanesimo?

   Sappiamo [perché lo abbiamo studiato la scorsa settimana] che tutte le proposizioni contenute nelle Opere di Sigieri di Brabante mutuate dal pensiero di Averroè - il tema della creazione del mondo come atto di Necessità [Dio ha creato per Necessità perché Dio stesso è Necessità], il tema dell’eternità del mondo [il mondo è eterno come Dio perché esiste da principio], il tema della libertà condizionata [se tutto avviene per Necessità non c’è posto per il libero arbitro e per la provvidenza], il tema della mortalità dell’anima razionale [esiste un Intelletto universale immortale e unico per tutti e un’Anima del mondo immortale e unica per tutti mentre l’anima razionale individuale è solo un riflesso dell’Anima del mondo e, quindi, è mortale perché si spegne con il venir meno delle attività sensoriali e intellettuali], il tema della duplice verità [la verità, pur essendo di una sola sostanza, si esplicita in due forme diverse, quella filosofica e quella teologale] - ebbene, queste tesi, le tesi dell’averriosmo latino, vengono condannate dai tribunali religiosi, quello parigino e quello romano, ma innescano una intensa discussione [una feconda polemica intellettuale] che contribuisce alla nascita del movimento dell’Umanesimo.

   La sintesi più illuminante del pensiero dell’averroismo latino la troviamo in un’importante affermazione “già di carattere umanistico” di Averroè che Sigieri di Brabante utilizza come manifesto del movimento che si sviluppa intorno alle sue Opere: «Bisogna imparare, scrive Sigieri parafrasando Averroè, a leggere la Sacra Scrittura [il Corano, i Vangeli, la Bibbia] non in senso religioso e legalistico ma secondo l’autorità dei valori umanistici che il testo della Scrittura proclama come salvifici: l’uguaglianza, la giustizia, la pace, la solidarietà e la misericordia». Quindi, sostiene Sigieri con spirito laico mettendo in evidenza il respiro ecumenico del messaggio evangelico, la salvezza viene “necessariamente” dal rispetto dei valori universali piuttosto che dai rituali religiosi spesso ammantati di superstizione. Sigieri di Brabante smentisce - e per questo viene considerato eretico dal tribunale ecclesiastico parigino presieduto dal Vescovo Étienne Tempier - che la creazione del mondo sia avvenuta per un atto di Volontà da parte di Dio, e nel suo trattato intitolato De aeternitate mundi [L’eternità del mondo] Sigieri scrive: «Non possiamo affermare come verità teologale che Dio abbia creato il mondo per Volontà perché immediatamente, la verità filosofica, ci fa ragionare [sillogizzare, direbbe Dante] sul fatto che ogni atto di volontà è contingente ed è subordinato ad una necessità reale o fittizia che sia e, di conseguenza, la verità teologale deve attestare che Dio stesso è Necessità, che la Volontà divina è la Necessità stessa, e che la creazione del mondo avviene per un atto di Necessità. E dal Pensiero di Dio, per necessaria emanazione creatrice, è venuto il Logos, la Parola di Dio incarnata in Gesù Cristo, che, vero Dio e vero Uomo, ha predicato il Vangelo affermando che la salvezza viene “necessariamente” dal rispetto dei valori universali - l’uguaglianza, la giustizia, la pace, la solidarietà e la misericordia - piuttosto che dai rituali religiosi spesso ammantati di superstizione». Sigieri di Brabante sostiene che la volontà è soggetta alla Necessità e, quindi, Dio stesso è Necessità e crea per Necessità, mentre le autorità ecclesiastiche custodi dell’ortodossia sostengono che è la Volontà a generare la necessità e, quindi, Dio ha creato il mondo con un atto di Volontà.

   Intorno a questa questione - è la Necessità a guidare la volontà o è la Volontà a generare [a governare] la necessità? - nasce una polemica che investe non solo il movimento dell’Umanesimo ma attraversa tutta la Storia del Pensiero Umano e anche la Storia della Letteratura. E proprio nella Storia della Letteratura il dibattito intorno al rapporto tra la Volontà e la Necessità si è concentrato, in tempi moderni e nel genere letterario del romanzo [in primo luogo nei testi dei grandi romanzi dell’800], soprattutto sul tema concreto, e sempre di grande attualità, dell’imparare a distinguere “le effettive necessità” e, quindi, sul dovere della coscienza individuale di orientare la propria volontà verso le reali necessità umane e non su bisogni fittizi camuffati da necessità.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Qual è per voi una effettiva necessità su cui orientare oggi la volontà personale e quella collettiva?  ...

Scrivete quattro righe in proposito perché è necessario investire in intelligenza     …

 

   Abbiamo detto che nella Storia della Letteratura il tema del contrastante rapporto tra la Volontà e la Necessità emerge spesso nei testi dei grandi romanzi dell’800 [quelli di Tolstòj, di Balzac, di Victor Hugo, di Stendhal, tanto per fare alcuni nomi] e non possiamo fare a meno di citare un’opera che risulta essere una delle più significative in relazione a questo tema: il romanzo Delitto e castigo [Prestuplenie i nakazanie] di Fëdor Dostoevskij che è considerato un romanziere-filosofo per eccellenza, e che abbiamo incontrato molte volte in questi anni in diversi contesti.

   Delitto e castigo è il primo grande romanzo di Fëdor Dostoévskij [1821-1881], un testo che - come tutta la produzione dostoevskijana - andrebbe non solo letto ma anche [al ritmo di quattro pagine al giorno, col metodo del LEGERE MULTUM…] periodicamente riletto. In questo romanzo giungono a maturazione alcune delle tematiche su cui Dostoévskij, come scrittore e come filosofo, aveva cominciato a riflettere e il tema maggiormente in evidenza in questo testo riguarda il complesso rapporto tra la Volontà e la Necessità, e questa tematica costituisce la chiave fondamentale per leggere quest’opera e per capirne il senso. In questo romanzo s’incontrano tutta una serie di personaggi già sperimentati in altri contesti - nei romanzi Umiliati e offesi [1861] e Memorie dal sottosuolo [1864] - che vengono analizzati psicologicamente con il massimo rigore e la massima precisione, e questa straordinaria descrizione di caratteri e di ambienti contrassegna la scrittura di Dostoévskij che si avvale sempre di una trama molto semplice e lineare nella quale tiene insieme decine di personaggi in un susseguirsi di significativi avvenimenti.

   Il protagonista di Delitto e castigo [1866] si chiama Raskòl’nikov ed è un giovane squattrinato il quale, in preda ad una irrefrenabile mania di grandezza e desideroso di arricchirsi - infatuato dall’idea di imporre la propria volontà alle sue necessità - uccide una vecchia usuraia e l’innocente sorella di lei testimone del delitto. Il pretesto per l’omicidio viene, quindi, dalla convinzione che un uomo nato per essere superiore e, quindi, per imporre la sua volontà - come il Re dei Re, ma qui aleggia la figura di Napoleone - abbia il dovere di eliminare ogni ostacolo che si frapponga tra lui e la gloria - specialmente se si tratta di uno squallido individuo - e abbia il diritto di far coincidere le proprie necessità con la sua volontà, come se fosse Dio. La vecchia usuraia è un elemento inutile per la società, e può essere eliminata perché Raskòl’nikov possa arricchirsi e possa dimostrare quanto vale. Il fatto è - racconta Dostoévskij - che Raskòl’nikov non riesce però a trarre alcun profitto da quei maledetti soldi, e a lui non resta che prendere coscienza del male che ha commesso senza cercare giustificazioni “ideali”: a lui non resta che pentirsi, confessare tutto e riscattarsi attraverso l’accettazione del necessario castigo che merita in modo da far nascere nei suoi confronti il sentimento dell’indulgenza. La redenzione di Raskòl’nikov passa attraverso il riconoscimento del severo senso di giustizia del commissario Porfirij Petrovic e, soprattutto, attraverso il riconoscimento della bontà da lui scoperta nell’animo di una giovane prostituta, Sònja.

   Dostoévskij utilizza tutti i personaggi del romanzo per far emerge il dilemma se sia la Necessità a guidare la volontà [Sònja deve prostituirsi suo malgrado, per necessità] oppure sia la Volontà a generare la necessità [come nel caso di Raskòl’nikov] e tutte le figure che l’autore mette in scena - tutte figure straordinarie e autonome - servono a far comprendere, per contrasto, il personaggio di Raskòlnikov: il gusto della lettura di Dostoevskij lo si prova soprattutto nel raffinato gioco della descrizione dei caratteri e, per questo, i suoi personaggi sono tutti dei protagonisti. La figura di Sònja è una fonte di bontà e di purezza in un mondo sordido e, attingendo a questa fonte, Raskòl’nikov si avvia necessariamente sulla strada della confessione sottomettendo al principio della Necessità il presunto fine di imporre la propria volontà: se la volontà delittuosa è tragicamente e paradossalmente superflua [non procura mai nessun vantaggio commettere un delitto, afferma Dostoevskij] il castigo è il necessario strumento della volontà di riscatto.

   Dùnja, la sorella di Raskòl’nikov, è una donna fedele e coraggiosa che volontariamente si sacrifica per le necessità della famiglia. Il commissario Porfirij Petrovic è pragmatico e razionale, e la disputa [il Dialogo platonico] che sostiene con Raskòl’nikov sul tema del presunto “diritto della volontà a commettere omicidi per soddisfare le proprie necessità” è un capolavoro letterario. La figura di Porfirij Petrovic è diventata l’ideale modello letterario di un particolare commissario di polizia [ce ne saranno poi tutta una serie di personaggi simili nella letteratura del ‘900]: calmo, colto, saggio, benevolo, il necessario rappresentante della voce amplificata della coscienza. Dostoevskij affida a Porfirij Petrovic una serie di affermazioni filosofiche ed educative di carattere [potremmo dire] aristotelico-averroista: «Il vero giudice è la tua coscienza, afferma Porfirij, perché rappresenta il principio supremo di Necessità, il fondamento su cui scorre il fiume della vita: abbandonati al fiume della vita, ti condurrà in qualche posto dove Necessità e Giustizia s’incontrano».

   La vita di per sé, scrive Dostoevskij, è un bene governato dalla Necessità: sono gli esseri umani che, con la loro Volontà protesa al male, la rendono atroce [demoniaca]  e in Delitto e castigo lo scrittore descrive, in modo efficacissimo, gli “uomini del sottosuolo”, individui gretti e spregiudicati, arroganti e violenti che rappresentano la disumanità in cui anche Raskòl’nikov è caduto. Con la confessione e il pentimento finale Raskòl’nikov rinuncia ad essere un superuomo che vuole imporre la sua Volontà per essere semplicemente un uomo fedele al principio di Necessità dal quale scaturiscono i valori umanistici dell’uguaglianza, della giustizia, della pace, della solidarietà, della misericordia e, quindi, dopo aver conosciuto gli abissi di perdizione del “sottosuolo”, il protagonista sceglie di rinascere attraverso il castigo che sarà certamente severo ma necessario.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Tra tutti i castighi che vi sono stati inflitti qual è quello di cui conservate un ricordo più vivo?…   E qual è il castigo che avete comminato con maggior convinzione?… 

Scrivete quattro righe in proposito…

 

   Le pagine che ora leggiamo - quando Raskòl’nikov confessa a Sònja di essere un assassinio - sono fondamentali per capire la logica aberrante che lo ha portato a dare una giustificazione al suo delitto. E poi in queste pagine possiamo cogliere senza difficoltà l’attenzione di Dostoévskij nei confronti della Storia della Filosofia: Raskòl’nikov allude al fatto di aver studiato il pensiero dell’averroismo latino, così come abbiamo fatto noi, ma non ne ha tratto insegnamento. Mentre Sònja - in modo maieutico - lo redime facendolo riflettere sui valori umanistici universali ai quali bisogna sempre essere fedeli in nome di quel bene necessario che è la vita: i valori - l’uguaglianza, la giustizia, la pace, la solidarietà, la misericordia - che Dostoévskij esalta in tutti i suoi romanzi.

 

LEGERE MULTUM….

Fëdor Dostoévskij, Delitto e castigo

Raskòl’nikov con una calma apparente – È successo proprio così! – disse – Ecco: io volevo diventare un Napoleone, e perciò ho ucciso. Ora capisci?

– Nno – mormorò Sònja – peròparla che capirò!

– Sono sicuro che capirai!  Fece una pausa e rifletté a lungo.

– Il nocciolo della faccenda è tutto qui. Un giorno rivolsi a me questa domanda: se al mio posto, per esempio, ci fosse stato Napoleone e per cominciare la sua carriera non avesse avuto a portata di mano né Tolone, né l’Egitto, né il passaggio del Monte Bianco, e invece di tutte queste cose belle e monumentali gli fosse capitata semplicemente una ridicola vecchietta, vedova di un archivista, e se per di più avesse dovuto ucciderla, per poterle rubare tutti i suoi soldi (per la carriera, capisci?), ebbene, lo avrebbe fatto, se non ci fosse stata altra via d’uscita? Non si sarebbe sentito urtato, al pensiero di un’azione così poco monumentale ee così delittuosa? Be’, ti dirò che con questa domanda io mi sono tormentato un bel pezzo, tanto che mi vergognai terribilmente, quando alla fine intuii (quasi all’improvviso), che non solo non si sarebbe sentito urtato, ma non gli sarebbe nemmeno venuto in testa che la cosa non fosse abbastanza monumentaleanzi, non avrebbe assolutamente capito che cosa ci fosse da sentirsi urtati. E se non avesse avuto nessun’altra strada, l’avrebbe strozzata senza darle neppure il tempo di fiatare, senza nessuna esitazione! Allora anch’ionon esitai piùe la strozzai, seguendo un esempio così autorevole Ed è successo proprio così! Ti viene da ridere? E la cosa più ridicola è che, forse, è successo proprio cosìio sono stato tentato di imporre la mia volontà alla necessità, e pensare che avevo studiato che è la Necessità che sovrasta la volontàLo sai che Dio stesso ha creato per Necessità?Ma paragonarsi a Dio adesso è la cosa più blasfema che si possa faree in relazione a un delitto poie nel momento in cui comincio a credere che sia necessario far seguire al delitto il castigo

Sònja non aveva nessuna voglia di ridere.

– È meglio che tu mi parli chiaramentesenza esempi – gli disse, con un filo di voce.

Raskòl’nikov si girò verso di lei, la guardò con tristezza e le prese le mani.

– Hai ragione anche questa volta, Sònja. Sono tutte sciocchezze, forse sono soltanto chiacchiere! Vedi: tu sai che mia madre non possiede quasi nulla. Mia sorella ha avuto un’educazione ma è condannata a girare da un posto all’altro facendo l’istitutrice. Tutte le loro speranze erano riposte in me. Io studiavo, ma non potevo mantenermi all’università e sono stato costretto a lasciarla per un certo tempo. Ma anche se le cose fossero andate avanti così, fra dieci, dodici anni (se le circostanze fossero state favorevoli) avrei potuto sperare di diventare un insegnante o un impiegato qualunque, con mille rubli di stipendio – pareva che le dicesse delle cose imparate a memoria. – Ma intanto mia madre si sarebbe consumata per gli affanni e i dispiaceri, e io non sarei riuscito comunque a darle la tranquillità, e mia sorellabe’, a mia sorella poteva capitare anche di peggio! E poi, perché dover rinunciare sempre a tutto, doversi voltare sempre dall’altra parte, dover dimenticare la mamma e dover sopportare umilmente, per esempio, un affronto alla propria sorella? Per quale scopo? Per mettere su, dopo aver seppellito loro, un’altra famiglia, con moglie e figli, e lasciare poi anche quelli senza un soldo e senza un pezzo di pane? E allora decisi che, dopo essermi impadronito del denaro della vecchia, lo avrei adoperato per i primi anni, senza tormentare più mia madre, per mantenermi all’università e per i primi passi dopo l’università; e così avrei fatto tutto con larghezza, con una base, in modo da crearmi una nuova carriera e prendere una strada nuova, indipendente Be’ecco tutto Si capisce che, a uccidere la vecchia, ho fatto male E ora basta!

Arrivò alla fine del suo racconto quasi spossato e chinò la testa.

– Oh, non è questo! Non è così! – esclamò Sònja, angosciata.

– Lo vedi anche tu che non è così! Eppure ti ho raccontato tutto sinceramente, è la verità!

– Ma quale verità! Oh, Signore!

– Ho ucciso soltanto un pidocchio, Sònja, inutile, schifoso, nocivo.

– Un essere umano, lo chiami un pidocchio!

– Ma sì, lo so anch’io che non è un pidocchio – rispose lui, guardandola in modo strano. – Del resto, io dico degli spropositi, Sònja – aggiunse – è già un bel pezzo che dico degli spropositi Non è affatto così; hai detto bene. Ci sono tutt’altri motivi! È un bel pezzo che non parlo con nessuno, Sònjae ho un gran mal di testa.

I suoi occhi ardevano di un fuoco febbrile. Cominciava quasi a delirare; c’era un sorriso inquieto sulle sue labbra. Attraverso quello stato di eccitazione traspariva ormai una tremenda spossatezza. Sònja capì che si stava torturando. Anche a lei cominciava a girare la testa; le sembrava di capire qualcosa, ma

– No, Sònja, non è così! – ricominciò Raskòl’nikov, alzando la testa di scatto, come se un improvviso mutamento nel corso dei suoi pensieri lo avesse rianimato. – Non è così! O megliosupponi che io sia permaloso, invidioso, cattivo, ignobile, vendicativoe magari anche incline alla pazzia. Ti ho detto che non potevo mantenermi all’università. Ma lo sai che, invece, avrei anche potuto arrivarci? Mia madre mi avrebbe mandato il denaro sufficiente per pagarmi gli studi, e per le scarpe, i vestiti e il pane me li sarei guadagnati anche da me, di sicuro! Le lezioni capitavano; mi offrivano mezzo rublo l’una. Ma io mi arrabbiai e non volli. Allora, come un ragno, mi ficcai nel mio cantuccio. Tu sei stata nel mio canile, l’hai visto Ma lo sai, Sònja, che i soffitti bassi e le stanze strette opprimono l’anima e il cervello! Oh, come odiavo quel canile! Eppure, non volevo uscire di lì. Non volevo apposta! Non uscivo per giornate intere e non volevo lavorare, e non volevo nemmeno mangiare, stavo sempre sdraiato, passavo così anche un giorno intero; non chiedevo nulla apposta, per la rabbia! Di notte non c’era lume, stavo sdraiato al buio, ma non volevo guadagnare per comprarmi le candele. Bisognava studiare e io avevo venduto tutti i libri; e sulla mia tavola, sugli appunti, sui quaderni, anche ora c’è un dito di polvere. Preferivo stare sdraiato e pensare. Pensavo sempre E facevo sempre certi sogni, sogni strani, non ti so dire che sogni! Però, allora cominciò anche a sembrarmiNo, non va bene! Non lo racconto bene nemmeno ora! Vedi, io mi domandavo sempre: perché sono così stupido? Perché, se gli altri sono stupidi e se ormai so con certezza che sono stupidi, non cerco di essere più intelligente di loro? Poi riconobbi, Sònja, che, a voler aspettare che tutti diventino intelligenti, sarebbe una cosa troppo lungaE poi riconobbi che questo non accadrà mai, che gli uomini non cambieranno, e non c’è nessuno che li possa cambiare, né la Volontà e neppure la Necessità, e non vale la pena di affaticarsi. Sì, è così! È la loro leggeÈ una legge, Sonja! È così! Io adesso so che chi è forte di mente e di spirito, è un dominatore! Chi osa molto, ha sempre ragione. Chi è capace di sputare su qualcosa di grande, diventa un legislatore, e chi più di tutti osa, più di tutti ha ragione! Così è andata finora e così sarà sempre! Solo un cieco non lo vede!   Raskòl’nikov, nel dire questo, benché guardasse Sònja, non si preoccupava più se lei capisse o no. Aveva la febbre. Era in preda a una specie di cupo entusiasmo (effettivamente, non parlava con nessuno da troppo tempo!). Sònja capì che questo cupo catechismo era diventato la sua fede e la sua legge.  – Allora compresi, Sònja – continuò Raskòl’nikov con fervore – che il potere spetta soltanto a chi osa chinarsi per prenderlo. C’è una sola cosa da fare, una sola: basta osare! E allora, per la prima volta in vita mia, mi venne un’idea che nessuno aveva mai avuto prima di me! Nessuno! A un tratto mi apparve chiaro che nessuno finora, vedendo tutte queste assurdità, aveva osato prendere il tutto bellamente per la coda e scaraventare tutto al diavolo! Ioio ho voluto osare, e ho uccisoho voluto soltanto osare, Sònja, ecco la vera ragione! 

– Stai zitto! – gridò Sonja, giungendo le mani. – Ti sei allontanato da Dio, dalla Necessità divina come hai detto tu, e Dio ti ha colpito, abbandonandoti al diavolo!

Taci tu, Sònja – disse Raskòl’nikov in tono cupo. – E credi davvero che sia andato là come un imbecille? Ci sono andato con molto cervello, ed è proprio questo che mi ha rovinato!E se per tanti giorni mi sono tormentato chiedendomi: Napoleone ci andrebbe o no?, è perché sentivo chiaramente di non essere un NapoleoneHo sopportato la tortura di tutte queste chiacchiere, Sònja, e mi è venuto il desiderio di liberarmi da tutto quel peso: ho voluto uccidere senza casistica, Sònja, uccidere per me stesso, per me solo! Non ho ucciso per aiutare mia madre, sciocchezze! Non ho ucciso per avere i mezzi e il potere e per diventare un benefattore dell’umanità. Sciocchezze! Ho ucciso e basta; ho ucciso per me stesso, per me solo, non per necessità; quanto a sapere se poi avrei beneficato qualcuno, o se invece, per tutta la vita, come un ragno, avrei acchiappato tutti nella mia ragnatela e avrei succhiato a tutti il sangue, a me in quel momento non importava proprio nulla!E soprattutto, non era il denaro che mi occorreva, Sònja, quando ho ucciso; non era tanto il denaro, quanto un’altra cosaTutto questo, ora, lo soCapiscimi bene: avevo bisogno di sapere se io ero un pidocchio come tutti o un uomo! Sarei stato capace di scavalcare l’ostacolo o no? Ero un essere pavido, o avevo il diritto

– Di uccidere? Se avevi il diritto di uccidere? – esclamò Sonja, battendo le mani. 

– Eeh, Sònja! – gridò Raskòl’nikov, irritato, e voleva ribattere qualcosa, ma si interruppe e la guardò con timore. – Non mi interrompere, Sònja! Volevo dimostrarti solo una cosa: che il diavolo allora mi trascinò, e soltanto dopo mi spiegò che non avevo il diritto di andarci, perché ero proprio un pidocchio come tutti! Mi ha preso in giro, e io ora sono venuto da te! Accoglimi!Ascoltami: quando sono andato dalla vecchia quel giorno, ci sono andato solo per provareSappilo! 

– E per provare: l’hai uccisa! 

– Sì, ma come l’ho uccisa? Si uccide in quel modo? Si va così a uccidere, come ci sono andato io? Ho forse ucciso quella vecchia? Invece ho ucciso me stesso, non quella vecchia! Mi sono accoppato con un colpo solo, e per sempre!E quella vecchia l’ha uccisa il diavolo, non ioBasta Sònja! Lasciami stare – gridò a un tratto, con un’angoscia spasmodica – lasciami stare! Sii indulgente.

 

   Dostoévskij invita ad essere indulgenti nei confronti di quelle persone che riconoscono le loro colpe e accettano il giusto castigo come un necessario strumento di redenzione.

   E il termine “indulgenza” si presenta sul nostro cammino in modo appropriato visto che si è appena aperto, l’8 dicembre come voi sapete, il “Giubileo della Misericordia” e contemporaneamente, sul nostro Percorso di studio, si apre il primo Giubileo della Storia della Chiesa: quello del 1300, proclamato da papa Bonifacio VIII. Il Giubileo del 1300 viene proclamato [così prescrive la Bolla papale, ve la leggo]: «…con la concessione dell’indulgenza plenaria a quanti giungeranno pellegrini a Roma ed adempiranno alle prescritte pratiche rituali». Il Giubileo del 1300 è stato uno straordinario avvenimento - una sorta di paesaggio intellettuale che, come una nube, cala sullo scenario storico, politico, sociale, culturale dell’autunno del Medioevo -, un evento eccezionale in occasione del quale le aspirazioni religiose [ed escatologiche] si sono sposate con finalità di tipo materiale ed economico e soprattutto con l’intento politico [una mossa magistrale] di tornare a fare della “Roma papale” il centro dell’Universo.

   Abbiamo appena ascoltato Sigieri di Brabante affermare, a nome di tutto il movimento della Scolastica: «…Gesù Cristo - il Logos, la Parola di Dio incarnata, vero Dio e vero Uomo - ha predicato il Vangelo affermando che la salvezza viene “necessariamente” dal rispetto dei valori universali - l’uguaglianza, la giustizia, la pace, la solidarietà, la misericordia - piuttosto che dai rituali religiosi spesso ammantati di superstizione» e la Chiesa di Roma - che nel corso del XIII secolo ha gradualmente perso prestigio - per rilanciare la sua potenza punta invece proprio sui grandi rituali, ma procediamo con ordine.

   Sul finire del XIII secolo, nel 1294, viene eletto papa - dopo tutta una serie di figure piuttosto scialbe - un membro della famiglia dei conti Caetani di Anagni, che prende il nome di Bonifacio VIII e i Libri di storia ci dicono che è stato: «…l’ultimo grande pontefice del Medioevo che ha voluto assicurare al Papato la supremazia politica sul mondo intero». Certo che, se questa è la prerogativa per fare di un papa un grande pontefice, qualche problema di coerenza con il messaggio del Vangelo sorge inevitabilmente. Ma chi è Bonifacio VIII?

   Papa Bonifacio VIII è Benedetto Caetani, membro di una famiglia dell’alta nobiltà romana, ed è nato ad Anagni intorno al 1235. Anagni è un’antichissima cittadina del Lazio con più di ventimila abitanti in provincia di Frosinone, a circa settanta chilometri da Roma, ed è l’antica Anagnia, la capitale del popolo italico degli Ernici poi sottomessi dai Romani nel IV secolo a.C., e si erge su di una collina tra i monti Ernici e la Valle del Sacco in quella zona chiamata Ciociaria. La leggenda la annovera tra “le città saturnie”, le cinque città della Ciociaria fondate dal dio Saturno [Anagni, Alatri, Arpino, Atina e Ferentino detta anche Antino]. Anagni è nota come “la città dei Papi” per aver dato i natali a quattro pontefici [Innocenzo III, Alessandro IV, Gregorio IX e Bonifacio VIII] e per essere stata residenza e sede papale soprattutto durante il pontificato di Bonifacio VIII. Nel centro medievale di Anagni - fatto di edifici eleganti ed austeri, di chiese romaniche tra cui la Cattedrale, con la splendida cripta i cui affreschi costituiscono uno dei più interessanti cicli pittorici del Duecento italiano - si distingue il duecentesco palazzo di Bonifacio VIII.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con la guida del Lazio e navigando in rete fate una visita ad Anagni, la città dei papi e “dello schiaffo” [perché dello schiaffo? Tra poco se ne parla]…  

 

   Benedetto Caetani entra da giovanissimo nelle curia pontificia dove riceve una solida educazione orientata alla carriera diplomatica. Nel 1281 Martino IV, che abbiamo lasciato in Purgatorio a digiunare e a rimpiangere le anguille di Bolsena e la vernaccia, lo nomina cardinale;  successivamente Benedetto Caetani si distingue, per conto dei papi Onorio IV e Niccolò IV, in delicate missioni diplomatiche in Francia e in Inghilterra, e poi diventa segretario di Stato durante il pontificato [uno dei più singolari della Storia della Chiesa] di Celestino V, il monaco Pietro da Morrone, “colui che, come scrive Dante, fece per viltate il gran rifiuto”: Benedetto Caetani  contribuisce in modo determinante [fornendogli le giustificazioni canoniche] alla tormentata scelta di Celestino V che, sentendosi inadeguato, il 13 dicembre 1294 rinuncia al trono dopo cinque mesi di pontificato, e il 24 dicembre, dopo un breve conclave, Benedetto Caetani viene eletto papa lui stesso e prende il nome di Bonifacio VIII.

   Viene eletto con il favore degli Angioini ma con l’opposizione dei circoli nobiliari rivali, capeggiati dalla famiglia Colonna: Giacomo e Pietro Colonna, membri del collegio cardinalizio, contestano la validità della sua elezione e gli rifiutano l’obbedienza ma il Caetani è una persona molto energica che non si lascia intimorire. Con grande energia e molta perspicacia Bonifacio VIII, che è un profondo conoscitore del diritto canonico ed è sorretto da una lucida volontà d’azione, affronta il delicato problema dei rapporti con le varie monarchie nazionali che rivendicano libertà d’azione nel campo civile e pretendono anche il potere di controllo sul corpo ecclesiastico che godeva di grande autonomia [la “libertas ecclesiae”] e aveva acquisito molti privilegi [l’esenzione dal servizio militare, dalle tasse, dalla giurisdizione civile]. Quindi sorgono difficoltà e contrasti con Giacomo II d’Aragona, con il re di Germania Adolfo di Nassau, con il re d’Inghilterra e d’Ungheria e soprattutto lo scontro si fa duro con Filippo IV il Bello, re di Francia, che intende imporre anche ai membri del clero il pagamento delle imposte per finanziare la guerra contro gli Inglesi. Bonifacio VIII invita da prima nel 1301 il re di Francia a recedere dalla sua decisione con una bolla intitolata Ausculta fili ma non viene ascoltato da quel “figlio birichino” che è Filippo il Bello, e allora nel 1302 decide di firmare una seconda bolla, Unam Sanctam, in cui solennemente propugna una teoria integralista della società cristiana, intesa come unico corpo [il corpo mistico] di cui Cristo è capo e il pontefice vicario e, quindi, al pontefice spettano “entrambe le spade, la temporale e la spirituale” e, di conseguenza, il papa ha il primato sui regnanti della terra e ha il potere di intervenire su tutto e su tutti. Nello scrivere la bolla Unam Sanctam Bonifacio VIII si avvale della collaborazione di un intellettuale di prestigio, di un insigne maestro della Scolastica che si chiama Egidio Romano e, difatti, la struttura dottrinale dell’enciclica Unam Sanctam è veramente poderosa.

   Egidio Romano è stato discepolo di Tommaso d’Aquino alla Facoltà delle Arti di Parigi, dove ha poi insegnato teologia, incorrendo anche lui nella condanna del Vescovo Étienne Tempier, prima di diventare generale degli agostiniani e arcivescovo di Bourges nel 1295. Egli  è stato anche il precettore di Filippo il Bello per il quale ha scritto il trattato De regimine principum [Su come deve governare un principe] dove parafrasa l’Etica Nicomachea di Aristotele. Alla stesura dell’enciclica Unam Sanctam partecipano anche Giacomo da Viterbo, l’allievo prediletto di Egidio Romano, e  il cardinale francescano Matteo d’Acquasparta. Questa enciclica avrebbe anche potuto essere uno strumento di conciliazione e di dialogo, ma Bonifacio VIII [è lui che comanda] porta l’ideologia teocratica, espressa nei secoli precedenti da Gregorio VII e da Innocenzo III, alle estreme conseguenze e vuole imporre d’autorità il concetto di “plenitudo potestatis ” [il pieno potere del papa] e la proclamazione del Giubileo del 1300 fa da preambolo all’esaltazione della politica basata sul principio della Teocrazia.

   Ma il contesto storico non è più disponibile ad accogliere una posizione di questo tipo perché ormai prevalgono, con lo sgretolamento dell’Impero, interessi nazionali e lo Stato nazionale contrappone l’autorità delle sue Istituzioni all’autoritarismo universalistico ecclesiastico per cui il re di Francia Filippo il Bello reagisce e da alleato del papa diventa suo avversario: invia una delegazione di suoi ambasciatori guidata dal giurista Guglielmo di Nogaret che - interpretando una serie di articoli del diritto canonico - chiede al papa di convocare un concilio che giudichi il suo operato visto che anche all’interno della Chiesa sono molti coloro che, a cominciare dai francescani spirituali contro i quali Bonifacio VIII indìce una vera e propria crociata, non condividono la politica teocratica papale. Bonifacio VIII non tratta e scaccia in malo modo gli ambasciatori francesi e allora Filippo il Bello riunisce gli oppositori del pontefice che a Roma si sono già organizzati intorno alla famiglia dei Colonna. Nel 1303 i Colonna, gli storici nemici dei Caetani, forti dell’appoggio del re di Francia, raggiungono Bonifacio VIII nella sua residenza di Anagni dove si era rifugiato e lo fanno prigioniero.

   L’episodio dello schiaffo [lo schiaffo di Anagni] che Sciarra Colonna [o Guglielmo di Nogaret] avrebbe dato, in tale occasione, a Bonifacio VIII è leggendario [portava male toccare in malo modo il corpo di un papa, perché il corpo papale aveva comunque il valore di una reliquia], ma l’umiliazione che il pontefice teocratico ha dovuto subire è un fatto molto significativo e, difatti,  poco più di un mese dopo Bonifacio VIII - dopo essere tornato orgogliosamente a Roma - muore dal dispiacere l’11 ottobre 1303.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Dispiace sempre prendere uno schiaffo, materiale o morale che sia, e dispiace anche dare uno schiaffo

Scrivete quattro righe in proposito

 

   La storiografia contemporanea ha attenuato il giudizio fortemente negativo che in passato è stato dato sull’operato di Bonifacio VIII, certamente non è “uno stinco di Santo” ma la fama di corruzione e di simonia che questo papa si è guadagnato dipende anche dalle abili mosse propagandistiche dei suoi nemici. Sull’accusa di simonia - per cui Dante colloca all’Inferno Bonifacio VIII ancor prima che lui muoia - pesa il fatto che il Giubileo del 1300 ha avuto un obiettivo speculativo: “le indulgenze” diventano una merce da vendere e da acquistare e inizia da questo momento un florido e turpe commercio.

   Bonifacio VIII viene collocato da Dante nel Canto XIX dell’Inferno [nella terza bolgia dell’ottavo cerchio] come responsabile del peccato di simonia, in compagnia di altri due papi Niccolò III Orsini e Clemente V. Il peccato di “simonia” contempla la volontà deliberata di comprare e di vendere le cose spirituali, e il nome di questo peccato deriva del personaggio di Simon Mago [o Simone di Samaria] descritto in un episodio raccontato in forma apologetico-pastorale dagli Atti degli Apostoli [che, come sapete, è il primo Catechismo della Chiesa di Roma redatto nella sua forma definitiva da papa Clemente Romano all’inizio del II secolo] nel quale il Mago Simone propone a Pietro e a Giovanni di vendergli il potere di elargire lo Spirito Santo: cosa che poi lui avrebbe fatto a pagamento.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Andate a leggere questo significativo episodio – come risponde Pietro, sdegnato, a Simon Mago - nel capitolo 8 degli Atti degli Apostoli dal versetto 9 al 25…

 

   Il Canto XIX dell’Inferno è il cosiddetto “Canto dei papi simoniaci” in cui Dante scaglia la sua sapienza-poetica, con grande sgomento e severità, contro le colpe di cupidigia e di dominio di certi papi, ma bisogna tenere conto del fatto che nei confronti di Bonifacio VIII Dante è particolarmente contrariato per il comportamento “truffaldino” che questo papa ha tenuto nei confronti del Comune di Firenze nel momento in cui Dante fa parte del Consiglio dei Cento, un organismo di governo della città. Alla fine del 1200 a Firenze comandano i Guelfi i quali a loro volta si sono divisi in due fazioni capeggiate da due casate che si contendono il potere: i Cerchi [che sono ricchi mercanti] detti la fazione dei Bianchi e i Donati [che sono nobili ma non ricchi] detti la fazione dei Neri. Nel maggio del 1300 [si festeggiava Calendimaggio] scoppiano una serie di sanguinosi tumulti fra i Bianchi e i Neri e il governo, che è in mano dei Bianchi, per calmare gli animi, bandisce dalla città i capi più facinorosi delle due fazioni, ma tacitamente, qualche giorno dopo, i Bianchi rientrano in città mentre i Neri riparano a Roma e chiedono aiuto a Bonifacio VIII che non vedeva l’ora di acquisire il predominio su Firenze. Bonifacio VIII manda a Firenze, come suo legato, Carlo di Valois, fratello del re di Francia Filippo il Bello [con il quale Bonifacio andava ancora d’accordo] perché faccia da paciere, e i Fiorentini accettano questo compromesso [si fidano del papa], ma, appena insediato in città, Carlo di Valois getta la maschera, si schiera con i Neri e caccia in esilio tutti i dirigenti della fazione dei Bianchi tra i quali Dante che, come sapete, non potrà più rientrare a Firenze e morirà esule a Ravenna.

   Come può Dante - che sta peregrinando in esilio [e fa esperienza di “come sa di sale lo scender e il salir per l’altrui scale”] - non covare un comprensibile rancore nei confronti di Bonifacio VIII? Collocarlo all’Inferno era il minimo che potesse fare però Dante non vuole si pensi che la sua possa essere considerata una posizione soggettiva ma vuole esprimere un giudizio più generale e, quindi, non si scaglia tanto contro l’uomo - considerato da Dante come “accorto, di vasta mente e di pronta dottrina” e non semplicemente come un volgare peccatore - ma Dante, da difensore delle Istituzioni comunali, condanna piuttosto la politica teocratica di papa Bonifacio VIII incentrata su un vizio per il quale la Chiesa [la bella donna] è stata fatta decadere dall’alto ufficio di guidare le coscienze a quello infimo di voler dominare sui re e sugli Stati per acquisire oro e argento rinunciando ad insegnare la via che porta ad acquisire la virtù. Dante è tanto preso da questa passione civile che colloca Bonifacio VIII all’Inferno quando è ancora vivo e lui, con licenza poetica, anticipa la condanna [assumendosi una responsabilità piuttosto elevata!] e, per far questo, inventa artisticamente un’efficace situazione equivoca: parla con un dannato, che è il papa simoniaco Niccolò III Orsini, morto improvvisamente di apoplessia nel 1280, il quale pensa che Dante sia Bonifacio VIII giunto prima del tempo alla sua destinazione infernale.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

La Scuola consiglia di leggere, e di rileggere il Canto XIX dell’Inferno usufruendo delle note e dei commenti che corredano il testo della Divina Commedia che conservate nella vostra biblioteca domestica…

 

   E adesso leggiamo insieme i versi dal 31 al 63 di questo Canto, il XIX dell’Inferno - sono i versi in cui si consuma l’equivoco necessario a collocare Bonifacio VIII all’Inferno prima del tempo - corredati da un commento perché la poesia di Dante non sempre è immediatamente comprensibile.

 

LEGERE MULTUM….

Dante Alighieri, Inferno  Canto XIX  31-63

Nella terza bolgia dell’ottavo cerchio Dante e Virgilio si trovano di fronte a questa scena: ogni peccatore è conficcato a testa in giù in una buca, lasciando emergere solo le gambe fino alle cosce, mentre le piante dei piedi sono accese da delle sottili fiammelle e i peccatori scalciano con forza, mentre le fiammelle lambiscono i loro piedi come fa il fuoco sulle cose unte. Dante nota che uno dei dannati sembra lamentarsi più degli altri e ha le fiammelle sui piedi di un colore più acceso, e chiede a Virgilio chi sia.

«Chi è colui, maestro, che si cruccia 
guizzando più che li altri suoi consorti»,

diss’io, «e cui più roggia fiamma succia?».       

        
Io dissi: «Maestro, chi è quel dannato che soffre e scalcia più degli altri suoi compagni di pena, e che è consumato da una fiamma più rossa?»

Ed elli a me: «Se tu vuo’ ch’i’ ti porti 
là giù per quella ripa che più giace, 
da lui saprai di sé e de’ suoi torti».                               

E lui a me: «Se tu vuoi che io ti porti laggiù, scendendo lungo la parete meno ripida, saprai da lui stesso chi è e quale colpa ha commesso».

E io: «Tanto m’è bel, quanto a te piace: 
tu se’ segnore, e sai ch’i’ non mi parto 
dal tuo volere, e sai quel che si tace».                         

E io: «Ciò che a te piace per me va benissimo: tu sei la mia guida e sai che la mia volontà è conforme alla tua e sai anche ciò che non dico».

Allor venimmo in su l’argine quarto: 
volgemmo e discendemmo a mano stanca 
là giù nel fondo foracchiato e arto.                                 

Allora giungemmo sul quarto argine: ci girammo e scendemmo verso sinistra, fino al fondo della Bolgia pieno di buchi e stretto.

Lo buon maestro ancor de la sua anca 
non mi dipuose, sì mi giunse al rotto 
di quel che si piangeva con la zanca.                           

Il buon maestro non mi fece scendere dal suo fianco, finché non mi portò alla buca dove quel dannato si lamentava con le sue gambe.

«O qual che se’, che ’l di sù tien di sotto, 
anima trista come pal commessa»
comincia’ io a dir, «se puoi, fa motto».                         

Io iniziai a dire: «Chiunque tu sia, tu che sei capovolto, anima triste come un palo conficcato nel terreno, se puoi, parlami»

Io stava come ’l frate che confessa 
lo perfido assassin, che, poi ch’è fitto, 
richiama lui, per che la morte cessa.

Io stavo lì come il frate che confessa il perfido assassino, il quale, dopo essere stato messo nella buca, lo chiama per ritardare l’esecuzione.

Ed el gridò: «Se’ tu già costì ritto, 
se’ tu già costì ritto, Bonifazio? 
Di parecchi anni mi mentì lo scritto.                              

E quello urlò: «Sei già lì in piedi, sei già lì in piedi, Bonifacio? Il libro del futuro mi ha mentito di diversi anni. Quindi il dannato risponde scambiandolo per papa Bonifacio VIII.

Se’ tu sì tosto di quell’aver sazio 
per lo qual non temesti tòrre a ’nganno 
la bella donna, e poi di farne strazio?».                       

Ti sei già saziato - dice il dannato a Dante credendolo Bonifacio VIII - di quelle ricchezze per le quali non avesti scrupoli a prendere con l’inganno la bella donna (la Chiesa) e poi farne scempio?»

Tal mi fec’io, quai son color che stanno, 
per non intender ciò ch’è lor risposto, 
quasi scornati, e risponder non sanno.                       

Io divenni allora come quelli che non capiscono cosa è stato loro risposto, per cui sono confusi e non sanno cosa ribattere.

Allor Virgilio disse: «Dilli tosto: 
‘Non son colui, non son colui che credi’»
e io rispuosi come a me fu imposto.

Allora Virgilio disse: «Digli subito: “Non sono colui che tu credi”»; e io risposi come mi fu ordinato.

 

   A questo punto il dannato storce dolorosamente i piedi, quindi si presenta come il papa Niccolò III, appartenente alla nobile famiglia degli Orsini, che fu assai avido nell’arricchire i suoi famigliari, al punto che è finito all’Inferno. Sotto di lui nella stessa buca sono conficcati gli altri simoniaci, tutti appiattiti nella roccia, e anche lui verrà spinto più in basso quando arriverà realmente colui per il quale ha scambiato Dante, cioè Bonifacio VIII.

   Ma il Giubileo del 1300 - a parte l’immorale commercio delle indulgenze - è stato, nel suo complesso, un grande evento che è diventato un modello nella Storia della Chiesa tanto che l’8 dicembre, solennità dell’Immacolata Concezione, si è appena aperto un Giubileo che si concluderà il 20 novembre 2016, con la solennità di Cristo Re.

   Il tema del Giubileo di quest’anno è stato preso dal versetto 4 del capitolo 2 della Lettera agli Efesini di Paolo di Tarso dove si legge: «Dio [è] ricco di misericordia» con un particolare richiamo al testo del Vangelo secondo Luca che è chiamato “l’evangelista della misericordia” [Dante Alighieri definisce Luca come scriba mansuetudinis Christi,” il narratore della mitezza di Cristo] e sono molto conosciute, infatti, “le parabole della misericordia” presenti nel testo secondo Luca [la pecora smarrita, la dracma perduta, il padre misericordioso], ed è doveroso ricordare che i primi due capitoli del Vangelo secondo Luca [il cosiddetto Vangelo Deutero-lucano] sono opera della Scuola ellenistico-clementina, diretta da papa Clemente Romano, il primo papa storico della Chiesa di Roma, e riportano il racconto più ampio della nascita di Gesù e costituiscono un’introduzione a tutta la Letteratura dei Vangeli [un tema che abbiamo studiato].

   L’odierno Giubileo avviene in occasione del cinquantesimo anniversario della chiusura del Concilio Ecumenico Vaticano II, nel 1965, e acquista per questo un significato particolare che dovrebbe spingere la Chiesa a continuare l’opera iniziata con il Vaticano II che, negli ultimi decenni, ha subito un rallentamento.

   Bonifacio VIII aveva previsto un Giubileo ogni secolo, poi, dal 1475 - per permettere a ogni generazione di vivere almeno un Anno Santo - il Giubileo ordinario fu cadenzato con il ritmo dei 25 anni, e un Giubileo straordinario, invece, viene indetto in occasione di un avvenimento di particolare importanza: i Giubilei celebrati fino ad oggi sono 26 e ogni Giubileo ha caratteristiche proprie [sarebbe interessante strada facendo - nel corso dei viaggi futuri - puntare l’attenzione sul significato e le caratteristiche dei vari Giubilei] ma l’avvenimento giubilare cristiano ha una sua “struttura di base” che ha preso forma nel 1300: in che cosa consiste? Ci sono alcuni elementi da osservare e da studiare, e noi questo esercizio adesso lo facciamo anche in funzione della celebrazione del Natale.

   Il primo elemento relativo alla “struttura di base” del Giubileo è di natura filologica [e voi sapete - ce lo ha insegnato Ruggero Bacone - che la filologia conduce alla filosofia e alla teologia] e riguarda la trivalenza del significato della parola “Giubileo” perché intorno al senso di questa parola viene a crearsi un curioso effetto sonoro: “jobel jobil jobal”, e queste tre parole ebraiche ci fanno capire che il concetto di Giubileo trova la sua collocazione nella Letteratura dell’Antico Testamento, e il cristianesimo dal 1300 ha fatto proprio questo concetto interpretandolo nell’ottica evangelica. Riflettiamo.

   La parola “Giubileo” potrebbe derivare dalla voce ebraica “jobel” ma anche dalla voce “jobil” o dalla voce “jobal”. La parola ebraica “jobel” significa “ariete”, e poiché con le corna dell’ariete si facevano strumenti a fiato, l’anno cosiddetto “giubilare”, in Israele, veniva annunciato col suono del corno: un suono d’allegrezza ovvero di giubilo. La parola “jobil”, invece, significa “richiamo” e, infatti, il suono del corno richiamava gl’Israeliti “al pensiero del Signore”, riconducendoli sulla via dell’obbedienza alla Legge [alla torah, la Legge uguale per tutti] e, infine, la parola “jobal” vuol dire “remissione” e l’anno giubilare era quello che avrebbe dovuto rimettere gl’Israeliti “nelle condizioni di cinquant’anni prima”.

   Per capire questo occorre leggere il XXV capitolo del Libro del Levitico: un esercizio che potete fare facilmente perché tutte e tutti voi possedete una Bibbia. Nel capitolo XXV del Libro del Levitico si parla della istituzione dell’anno giubilare, da parte di Mosè, il grande legislatore: «Conterai sette settimane d’anni, cioè sette volte sette, che fanno quarantanove anni. Al decimo giorno del settimo mese, farai squillare la tromba [jobel] chiamando la gente di tutto il paese [jobil]. Dichiarerai santo il cinquantesimo anno e proclamerai la remissione [jobal] per tutti gli abitanti». I tre vocaboli “jobel, jobil, jobal” si completano per cui il suono del corno d’ariete [jobel] richiama tutta la gente [jobil] in vista della remissione [jobal] di tutti i debiti contratti durante il cinquantennio e: «In quest’anno del Giubileo, prescrive il Levitico, ciascuno tornerà in possesso del suo». Ciò deriva dal principio che la terra è di Dio e non può essere acquistata per sempre: «Le terre non si potranno vendere per sempre, dice il Signore nel Levitico, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri ed inquilini». Ogni tribù, ogni famiglia aveva avuto in concessione dal Signore la propria terra, che non poteva essere totalmente alienata. Chi, costretto dal bisogno, vendeva, aveva sempre il diritto del riscatto per sé e per il parente più prossimo, secondo il calcolo degli anni che lo dividevano dal Giubileo, perché chi comprava sapeva di entrare in possesso soltanto per cinquant’anni: «Se il fratello caduto in miseria non trova la somma del riscatto ciò che è stato venduto rimarrà in mano del compratore fino all’anno del Giubileo. Al Giubileo, il compratore uscirà e l’altro rientrerà in possesso del suo patrimonio». Fra le cose vendibili e riscattabili c’era anche la libertà personale, di coloro che cadevano in servitù, ma non mai in schiavitù: «Essi sono miei servi, che io ho fatto uscire dall’Egitto, dice nel Levitico il Dio d’Israele, e non debbono essere venduti come si vendono gli schiavi». Nel popolo d’Israele tutti dovevano essere fratelli: «E se tuo fratello, che è presso di te, cade in miseria e si vende a te, non farlo lavorare come schiavo, ma sia presso di te come bracciante od inquilino. Ti servirà fino all’anno del Giubileo; allora se ne andrà da te insieme con i suoi figli, tornerà nella sua famiglia e rientrerà nella proprietà dei suoi padri». E, quindi, l’anno giubilare era atteso con desiderio da tutti coloro che per bisogno erano stati costretti a vendere il proprio campo, la propria casa, e addirittura la propria persona. I termini “jobel, jobil, jobal” risuonavano per proclamare un anno felice: un anno di tregua per la terra, per gli animali e di perdono e di pace per gli esseri umani [per le persone di buona volontà].

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quale dei tre vocaboli - jobel, jobil, jobal - secondo voi suona meglio e mettereste per primo?…  Scrivetelo…

 

   Questo primo elemento [l’elemento filologico] della “struttura di base” del Giubileo contiene un primo rimando al clima natalizio descritto dalla Letteratura dei Vangeli: i termini “jobel, jobil, jobal” - che risuonano per proclamare un tempo di tregua per la terra, per gli animali e di perdono e di pace per gli esseri umani - richiamano il coro degli Angeli che appaiono d’incanto sulla grotta di Betlemme cantando con giubilo: «Gloria a Dio nell’alto dei Cieli e pace in terra alle persone di buona volontà».

   Un secondo elemento relativo alla “struttura di base” del Giubileo è invece di natura sociologica e questa componente si è andata formando da prima dell’anno Mille con l’esperienza del “peregrinare” [spostarsi, girovagare, vagabondare, errare, viaggiare].La cristianità occidentale - facendo riferimento alla Letteratura dei Vangeli, a cominciare dall’Epistolario di Paolo di Tarso - ha riflettuto sulle questioni materiali e civili legate al concetto del “Giubileo” e le ha tradotte in senso spirituale. Con il cristianesimo “il debito maggiore da rimettere [che ha un’eco nella preghiera del Padre Nostro]” diventa “il peccato” e la perdita più grave è quella della “Grazia divina”, quindi, “rimettere i debiti” vuol dire “perdonare i peccati”, a cominciare da quello di superbia, che aveva fatto perdere ai progenitori la vera Terra Promessa, cioè il Paradiso Terrestre. Per essere riammessi nel Paradiso celeste, i cristiani devono riscattare, con la penitenza, i loro debiti, cioè i loro peccati, e ottenere il perdono delle colpe con un Giubileo spirituale di cui quello ebraico, tutto materiale, è una prefigurazione. Perciò già da tempo [dall’anno Mille] si era pensato di inserire nella dottrina della Chiesa la nozione di un Giubileo da tradurre in forma liturgica nel quale sarebbero state rimesse le colpe e le pene a chi si fosse sottoposto a speciali penitenze per “lucrare le indulgenze”, e il progetto viene concretamente realizzato da  Bonifacio VIII più sotto la spinta di motivazioni politiche che religiose.

   Prima che nel 1300 Bonifacio VIII realizzasse concretamente con motivazioni politiche più che religiose il progetto del Giubileo, da tre secoli [inizialmente sotto traccia e poi in modo sempre più esplicito] era sorto un fenomeno spontaneo: quello dei pellegrini, singole persone in cammino sulla via dell’esodo, che si mettevano in movimento [peregrinavano] per acquistare meriti e per lucrare indulgenze. Come nella vita civile ci sono mercati da conquistare così nella vita religiosa esistono santuari da visitare e, quindi, bisogna uscire dalla propria città [“per-egere”, significa “camminare attraverso i campi”], bisogna abbandonare la propria casa, salutare i “dolci amici” [per citare Dante] e partire senza la sicurezza del ritorno: chi vuole “lucrare” materialmente o spiritualmente deve rischiare, e il concetto del “lucro” è largamente accettato in tutti i sensi perché il mercante va verso i centri di vendita per lucrare fiorini d’oro e il pellegrino va verso i centri di preghiera per lucrare indulgenze. Non si tratta più del suono della tromba [jobel], né del richiamo alla legge di Dio [jobil] o della remissione dei debiti materiali [jobal]: il Giubileo cristiano, prima ancora di essere istituito ufficialmente, viene concepito come un avventuroso viaggio, ricco d’indulgenze perché pieno di pericoli, lungo strade maltenute, malguardate, incerte e minacciate.

   Le strade che i Romani avevano tracciato per il passaggio delle legioni, soprattutto quelle secondarie che sono più protette, come la via Clodia che comincia ad essere chiamata Romea o Francigena, sono pur sempre percorse dai guerrieri però solo nei mesi primaverili, mentre in tutte le stagioni vengono utilizzate dai mercanti e dai pellegrini perché i loro viaggi richiedono più mesi e non sono piacevoli: il sole e la pioggia, il fango e la polvere, i pedaggi, la peste e i briganti sono gl’implacabili compagni di viaggio ma, nonostante ciò, le strade vengono assiduamente percorse “a scopo di lucro”, e nelle deliberazioni comunali riguardanti la manutenzione stradale si parla sempre di “peregrini et mercatores” [pellegrini e mercanti] ai quali chiedere un contributo.

   E così succede che, come abbiamo studiato in questi ultimi anni, lungo le strade di grande comunicazione sono sorti centri di accoglienza come le abbazie romanico-benedettine, con la loro torre campanaria, che segna l’itinerario con la vista e col suono: i viandanti scorgono da lontano quel segnale visivo che diventa auditivo col suono delle “squille”. E Dante [che è esperto in peregrinazioni] ne rende testimonianza all’inizio dell’VIII Canto del Purgatorio con due terzine famosissime che descrivono lo stato d’animo d’un viandante sull’ora del tramonto che ascolta il suono della “squilla” di lontano: «Era già l’ora che volge il disio / ai navicanti e ‘ntenerisce il core / lo dì c’han detto ai dolci amici addio; / e che lo novo peregrin d’amore / punge s’e’ ode squilla di lontano, / che paia il giorno pianger che si more.». Quando il giorno declina e i terrori della notte invadono l’anima del viandante il suono della “squilla” è di gran conforto, e nelle abbazie c’è una campana chiamata “la sperduta” perché viene fatta rintoccare a lungo sul far della notte in modo da rimettere sulla giusta via coloro che hanno smarrito l’orientamento.

   Bonaventura da Bagnoregio, che abbiamo incontrato a suo tempo, ordina ai suoi confratelli francescani di accompagnare la squilla serale con la recita di tre Ave Maria e, da quel giorno, il nome poco rassicurante di “sperduta” viene sostituito da quello più affabile di “squilla dell’Ave Maria”. Dante associa il “peregrinare” alla nostalgia e questo sentimento contiene anche la preoccupazione per le difficoltà da superare per giungere alla meta: e quali sono gli itinerari dei pellegrini medioevali?

   Tre sono gli itinerari principali da percorrere per “lucrare indulgenze”: quello di San Jacopo di Compostella [simboleggiato dalla bianca conchiglia], quello di Roma [simboleggiato dal Volto di Gesù, la Veronica] e quello di Terra Santa [simboleggiato dalla palma], ma gli itinerari diventano molti e i Santuari si moltiplicano. Quindi nel 1300 è a cominciare da questi due presupposti - il filologico e il sociologico - che prende corpo l’idea di istituzionalizzare il Giubileo, e Bonifacio VIII l’idea la realizza.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Voi in quale Santuario, e facendo quale itinerario, avete “lucrato indulgenze”?…

Scrivete quattro righe in proposito…

 

   Il Natale di Gesù di Nazareth è fonte di giubilo ma soprattutto modello di “peregrinazione”: Gesù nasce peregrinando [in un contesto di generale peregrinazione], e questo modulo evangelico propone di riflettere sul fatto che tutte e tutti noi, nascendo, non siamo le proprietarie e i padroni del pianeta ma siamo “pellegrine e pellegrini sulla terra” per “lucrare  indulgenze” [tanto con spirito religioso quanto con spirito laico] tenendo conto del fatto che non è la terra che appartiene agli umani ma sono gli umani che appartengono alla terra, e appartiene alla terra perfino quel “bambino figlio di Dio, deposto in una mangiatoia”, per cui, con le parole di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori noi cantiamo «Tu scendi dalle stelle o re del Cielo e vieni in [in terra] una grotta al freddo e al gelo».

   E ora celebriamo il Natale insieme ai personaggi creati da di Fëdor Dostoévskij che non rinuncia mai a mettere in evidenza il fatto che “il tasso di umanità” di una persona aumenta in ragione della consapevolezza che ha di essere pellegrina sulla terra: bisognosa e dispensatrice di indulgenza e di misericordia. Raskòl’nikov si costituisce, viene processato, non cerca attenuanti, riconosce le sue colpe e accetta una giusta punizione, e tutta una serie di persone testimoniano a suo favore perché ha compiuto anche delle buone azioni. Il commissario Porfirij Petrovic poi dichiara che l’imputato ha agito per Necessità e non dice nulla della sua presunta volontà di grandezza perché è convinto che Raskòl’nikov abbia compreso di aver agito irresponsabilmente, per cui, con tutte queste attenuanti, viene condannato soltanto a otto anni di lavori forzati in Siberia, e Sònja lo segue e la loro vicinanza diventa un rapporto affettivo che restituisce loro la speranza.

Il celebre editore [scrittore, giornalista, fondatore e direttore della rivista Russkij Vestnik, Il messaggero russo] Michail Nichiforovič Katkov vuole che Dostoévskij cambi questo finale perché gli sprezzanti lettori russi [la casta intellettuale] non apprezzano l’indulgenza e la misericordia ma preferiscono il rigore, la spietatezza, l’implacabilità [e lui deve vendere]. Dostoévskij sostiene una dura polemica e risponde provocatoriamente che lui non scrive per i lettori ma “per invocare indulgenza e misericordia da Dio” e che, quindi, non modificherà mai il finale di questo romanzo, e poi aggiunge che non lo cambierà proprio perché è Natale: difatti era il 21 dicembre 1865, esattamente centocinquant’anni fa. L’editore Katkov deve cedere, anche perché con la sua competenza capisce di avere in mano il manoscritto di un capolavoro.

   E allora [siccome la trama e il finale di questo romanzo sono universalmente conosciuti e lo si deve leggere non per sapere come va a finire ma per riflettere sui ragionamenti che quest’opera contiene sul piano dell’Umanesimo], secondo l’ammonimento di Dostoévskij, leggiamo le ultime righe [l‘Epilogo] di questo capolavoro: è Natale, è tempo di indulgenza!

 

LEGERE MULTUM….

Fëdor Dostoévskij, Delitto e castigo

Quella sera, tuttavia, a Raskòl’nikov non era possibile pensare a lungo ad una sola cosa, né concentrarsi in un solo pensiero; non riusciva a ragionare su nessun problema: poteva soltanto sentire Alla dialettica era subentrata la vita, e nella sua coscienza si preparava ormai qualcosa di completamente, oscuramente diverso.

Sotto il suo guanciale c’era il Vangelo. Lo prese macchinalmente. Quel libro apparteneva a Sònja, era lo stesso dal quale lei gli aveva letto i versetti sulla nascita di Gesù e sulla resurrezione di Lazzaro. Nei primi tempi della sua deportazione, egli pensava che Sònja lo avrebbe tormentato con la religione, che si sarebbe messa a parlargli del Vangelo e a imporgli di leggere dei libri. Invece, con sua grandissima sorpresa, lei non aveva affrontato nemmeno una volta quest’argomento, e nemmeno gli aveva mai offerto il Vangelo. Era stato lui a chiederglielo, poco prima della sua malattia, e lei gli aveva portato il libro senza una sola parola. Fino a quel momento, del resto, lui non l’aveva nemmeno aperto. Nemmeno adesso l’aprì; ma per la mente gli passò, rapido, questo pensiero: «Posso non avere le sue stesse convinzioni, ormai? O almeno, i suoi stessi sentimenti, le sue stesse aspirazioni, la sua indulgenza?…».

Anche lei fu molto agitata, tutto quel giorno, e di notte si sentì perfino male di nuovo. Ma era così felice da aver quasi paura della sua stessa felicità. Sette anni, soltanto sette anni! All’inizio della loro felicità, in quei primi momenti, tutt’e due erano pronti a considerare quei sette anni come sette giorniEgli ignorava perfino che quella nuova vita non gli veniva data così, gratuitamente; che avrebbe dovuto pagarla, e a caro prezzo: pagarla compiendo qualcosa di grande negli anni a venire.    Ma qui, ormai, comincia una nuova storia, la storia della rinascita di una persona, della sua graduale trasformazione, del suo lento passaggio da un mondo a un altro mondo, del suo incontro con una realtà nuova e fino a quel momento completamente ignorata. Potrebbe essere l’argomento di un nuovo racconto; ma il nostro, intanto, è finito.

 

   Mi piacerebbe che questa riflessione dostoévskijana dal carattere natalizio “sulla crescita intellettuale e spirituale della persona” trovasse la sua realizzazione nel nostro Percorso di Alfabetizzazione funzionale e culturale, ebbene: noi [tutte e tutti insieme] ci proviamo a perseguire questo obiettivo facendo continuare il nostro viaggio anche nell’anno che viene e, per questo, il viaggio continua: si torna a Scuola il 13, il 14 e il 15 di gennaio.

   Non resta che dire: «Pace in terra a tutte le persone che, necessariamente, non perdono mai la volontà, la buona volontà d’imparare» e con questo auspicio auguro a tutte e ai tutti voi un buon Natale di studio!...

 

 

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Dicembre 11, 2015