Prof. Giuseppe Nibbi Lo sguardo di Erodoto 2006 15-16-17 febbraio 2006
LO SGUARDO DI ERODOTO
SULLE PAROLE-CHIAVE DEGLI ALBORI…
Molte volte sul nostro Percorso abbiamo incontrato una parola fondamentale: la parola “memoria”. Questa parola, tanto nel pensiero indiano e cinese (su cui abbiamo riflettuto in queste ultime settimane) quanto nel pensiero egizio e mesopotamico (su cui rifletteremo prossimamente) e anche nel pensiero ionico di Erodoto, rappresenta lo strumento con cui l’umanità può conoscere se stessa e, più precisamente, costituisce il mezzo con cui gli esseri umani possono rievocare la loro storia culturale. La parola “memoria” è direttamente collegata alla parola “storia”. E allora possiamo affermare che: la Storia è “memoria”? Chissà quante altre definizioni che riguardano la Storia (sempre accompagnate da un punto interrogativo) incontreremo strada facendo: definizioni su cui riflettere per far crescere il catalogo dei nostri pensieri.
Erodoto nella sua opera allude al fatto che prima ancora del pensiero indiano e cinese (che abbiamo incontrato in queste ultime settimane) e del pensiero mesopotamico ed egizio (che incontreremo prossimamente), possiamo rinvenire, nella Storia della Cultura, uno strato più profondo. In questo strato più profondo si trovano le parole-chiave e le idee-significative più antiche: le “parole” e le “idee” cosiddette degli “albori”, “parole” e “idee” più antiche di quelle coniate dal pensiero indiano, cinese, egizio, mesopotamico, ionico.
Il primo ragionamento che, su questo tema, gli studiosi (gli antichisti, gli antropologi) hanno fatto è che se queste parole degli albori e se queste idee più antiche si sono riprodotte in tutti gli apparati di pensiero che abbiamo citato, in tutti gli apparati delle culture dell’Età assiale della storia, questo significa che il primo fondamentale meccanismo propulsore della Storia della Cultura e del Pensiero è “la memoria” e il testo de Le Storie di Erodoto contiene questo ragionamento.
E allora: su che cosa siamo invitati a riflettere quando affermiamo che la Storia è “memoria”? Quando si afferma che la Storia è “memoria” – in un Percorso di didattica della lettura e della scrittura – è necessario porre l’attenzione, prima di tutto, sul piano più antico della Storia del Pensiero Umano e ci si deve domandare: quali parole-chiave e quali idee-significative contiene lo strato più profondo della Storia della Cultura, prima ancora dell’Età assiale della storia? Qual è la prima parola significativa degli albori che possiamo citare? Qual è la prima parola-chiave che la Storia del Pensiero Umano ci mette di fronte?
Questa operazione intellettuale, che – sulla scia de Le Storie di Erodoto – il Percorso di didattica della lettura e della scrittura propone, è molto importante perché mette in condizione il cittadino di compiere un’indagine (istorìa) e di venire a contatto con la memoria culturale della specie umana in modo da potenziare la memoria del singolo individuo. Il singolo individuo, il cittadino contemporaneo, deve conoscere la trafila intellettuale attraverso cui si sviluppa la memoria della specie umana, perché, senza conoscere la trafila intellettuale attraverso cui si sviluppa la memoria della specie umana, l’orizzonte della memoria individuale rimane ristretto. Senza conoscere la trafila intellettuale attraverso cui si sviluppa la memoria della specie umana la memoria personale si accorcia ed è destinata ad accorciarsi sempre di più.
Abbiamo detto che la “memoria” rappresenta il fondamentale meccanismo propulsore della Storia della Cultura e della Storia del Pensiero: che cosa contribuisce a sviluppare il sistema della “memoria”? La “memoria” – secondo l’antropologia culturale – si sviluppa, prima di tutto, attraverso un elemento primario, necessario e indispensabile: la paura. E la parola “paura” è la prima parola-chiave che la Storia del Pensiero Umano ci pone di fronte. Se i nostri antenati non avessero “avuto paura” e non avessero “imparato a gestire la paura”, ebbene, si sarebbero esposti pericolosamente e si sarebbero estinti, e noi, questa sera, non saremmo qui a parlare di loro, con le nostre “paure”. Il fondamentale meccanismo propulsore della Storia della Cultura e del Pensiero, la “memoria”, si sviluppa, prima di tutto, attraverso la paura di perdere la memoria. Erodoto “allude” a questo fatto e sembra intuire che nello strato più profondo della nostra Cultura – come ci avverte l’antropologia culturale – c’è, prima di tutto, la parola-chiave: paura.
Erodoto usa molto spesso la parola “paura”. Ne Le Storie, per definire lo stato d’animo della “paura” – il più antico stato d’animo che noi conosciamo, dicono gli antropologi – Erodoto adopera due termini: la parola fobos-fobos e la parola deos-dèos, nel senso del “timore di essere puniti da un dio”.
REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura
Con queste due parole Erodoto descrive lo spavento, il terrore, l’orrore, il panico, la fifa, lo sgomento, lo sbigottimento, l’angoscia…
Il tema della “paura”, o meglio il tema delle “paure”, ci porterebbe a percorrere un sentiero collaterale lungo da far paura.
Noi ci soffermiamo brevemente – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – davanti ad uno dei tanti paesaggi intellettuali che s’incontrano sul “sentiero delle paure”, ci soffermiamo davanti al meraviglioso scenario delle “fiabe di paura”, e così possiamo cogliere l’occasione per leggere un frammento, certamente familiare alle nostre orecchie.
LEGERE MULTUM….
Giovannin senza paura, da Fiabe Italiane a cura di Italo Calvino (1956)
C’era una volta un ragazzetto chiamato Giovannin senza paura, perché non aveva paura di niente. Girava per il mondo e capitò a una locanda a chiedere alloggio. – Qui posto non ce n’è, – disse il padrone, – ma se non hai paura ti mando in un palazzo. –Perché dovrei aver paura? – Perché ci si sente, e nessuno ne è potuto uscire altro che morto. La mattina ci va la Compagnia con la bara a prendere chi ha avuto il coraggio di passarci la notte. Figuratevi Giovannino! Si portò un lume, una bottiglia e una salciccia, e andò. A mezzanotte mangiava seduto a tavola, quando dalla cappa del camino sentì una voce: – Butto? E Giovannino rispose: – E butta! Dal camino cascò giù una gamba d’uomo.
... continua la lettura ...
Italo Calvino, nel 1956, è stato incaricato dalla casa editrice Einaudi di cercare, di selezionare e di trascrivere le più significative Fiabe italiane.
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Il primo racconto, nell’antologia intitolata Fiabe italiane a cura di Italo Calvino, s’intitola Giovannin senza paura… Dopo la lettura di questo testo, secondo te: chi è il protagonista di questa fiaba?… Chi è l’avversario del protagonista?… E chi vince alla fine?…
Il tema delle “paure” (delle nostre paure passate presenti e future) non lascia indifferente nessuno: scrivi quattro righe in proposito…
I nostri antenati, fra i ventimila e gli ottomila anni avanti Cristo, hanno graffito e hanno dipinto nelle caverne: sono i segni più antichi della nostra cultura che noi possediamo e che abbiamo potuto leggere: due esempi famosi sono le immagini delle caverne di Lescaux in Francia e di Altamira in Spagna.
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È sicuramente un’esperienza significativa andare alla ricerca delle prime due primordiali pinacoteche della Storia della Cultura: le grotte di Lescaux in Francia e di di Altamira in Spagna… Utilizzando l’enciclopedia, le guide della Francia e della Spagna, la biblioteca e la rete di internet puoi fare un viaggio negli strati più profondi della Storia del Pensiero Umano e se trovi notizie e immagini interessanti le puoi raccogliere per la biblioteca itinerante, buon viaggio…
Noi possediamo poche notizie di queste prime produzioni artistiche. Forse queste caverne erano dei santuari-sotterranei. Le pitture di Lescaux e di Altamira, che vengono considerate le più antiche pitture del mondo sono dipinte con colori vegetali e minerali. Il lavoro è stato eseguito alla luce delle torce e i soggetti che vengono rappresentati sono gli animali. Le immagini vengono dipinte una accanto all’altra o sovrapposte disordinatamente. Questo ci fa capire che questi nostri antenati vivono ancora in uno stato di caos cioè di non-ordine naturale e sociale. Lo stile di questa pittura è stato definito “realistico”: questi artisti delle origini ricordano “a memoria” tutti i particolari degli animali che raffigurano e si capisce che ne hanno paura e contemporaneamente ne hanno bisogno. Quei nostri antenati avevano “bisogno” di cacciare per vivere ed erano convinti che la rappresentazione più fedele possibile degli animali fosse un modo per possederli già un po’. Non solo avevano “paura” di questi animali che vivevano allo stato selvaggio ma avevano anche “paura” di lasciarseli scappare.
Alla parola “paura”, come potete capire, è strettamente legata la parola “bisogno”. Difatti la prima coppia di parole-chiave della Storia del Pensiero Umano è formata dai termini “paura e bisogno”. Queste sono le prime due parole che troviamo nello strato più profondo della Storia della nostra cultura. E allora: su che cosa siamo invitati a riflettere quando affermiamo che la Storia è “memoria”? I nostri antenati hanno “paura di perdere la memoria” perché hanno “bisogno della memoria per esistere”.
I primi oggetti di memoria dei nostri antenati sono in relazione ai ritmi e ai cicli dell’esperienza quotidiana. La memoria, mentre si lega all’idea di “ritmo” e di “ciclo”, diventa un supporto fondamentale per l’acquisizione delle competenze necessarie alla sopravvivenza. Difatti la seconda coppia di parole-chiave presente nello strato più profondo della Storia del Pensiero Umano è formata dai termini “ritmo e ciclo”. La prima rivoluzione culturale del genere umano si chiama “rivoluzione del Neolitico (della pietra nuova, della pietra ben lavorata)”, e s’identifica con la rivoluzione agricola: un passaggio che dura centinaia e centinaia di anni. Gli esseri umani passano dalla caccia ad un modo di vita legato all’agricoltura e cambia radicalmente lo stile di vita. Questo modo richiede insediamenti fissi (i recinti) e dipende dalle stagioni che si presentano con la caratterista di essere regolari e costanti, ritmiche e cicliche. Si forma quindi, nella mente dei nostri antenati, l’idea di ritmo e di ciclo perché si prende atto – mediante l’osservazione e la “memoria” – che la vita del Cosmo e della persona è soggetta a ritmi e cicli che devono essere rispettati. Nasce il gusto per dare un ordine (Cosmos) al “non-ordine” (Kaos). Via via che la Storia progredisce le dimensioni del Cosmos vengono date soprattutto dalla rete (mitos-archis) delle memorie. Dalla rete della memoria scaturiscono i riti: e il rito è un’azione che serve, prima di tutto, per rafforzare (per rievocare) la memoria. L’insieme dei riti, una rete di riti, dà vita alla “cerimonia”. E le cerimonie sono i grandi contenitori della “memoria”. Dalla memoria cerimoniale scaturisce il “racconto”, e che cos’è il “racconto” se non la massima espressione della “memoria”? Può esistere il racconto senza la memoria? E può esistere la memoria senza il racconto?
La terza coppia di parole-chiave presente nello strato più profondo della Storia del Pensiero Umano è formata dai termini “rete e rito”.
La quarta coppia di parole-chiave presente nello strato più profondo della Storia del Pensiero Umano è formata dai termini “cerimonia e racconto”. Erodoto “allude”. Che cos’è la Storia? La Storia è anche l’arte di “raccontare”? Chissà quante altre definizioni che riguardano la Storia (sempre accompagnate da un punto interrogativo) incontreremo strada facendo: definizioni su cui riflettere per far crescere il catalogo dei nostri pensieri…
A questo punto è necessario ricapitolare. Nello strato più profondo della nostra cultura troviamo quattro coppie di parole-chiave e di idee-significative: paura-bisogno, ritmo-ciclo, rete-rito, cerimonia-racconto. Erodoto, inconsapevolmente, ne Le Storie, indica le parole degli albori della Storia del Pensiero Umano; e questo fatto rende Erodoto il più antico antropologo della Storia della Cultura. Erodoto – e non importa se inconsapevolmente – collega queste parole originarie al concetto della “memoria”.
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Sarà anche una richiesta pedante da parte della Scuola ma le quattro coppie di parole-chiave più antiche della Storia del Pensiero Umano (per la prossima settimana) vanno imparate a memoria…
Erodoto “allude”, e inizia la sua narrazione, dà il via (l’incipit) alla sua opera, con una frase di spiegazione sui motivi che l’hanno indotto a scrivere il suo libro. Leggiamo, ancora una volta (abbiamo detto qualche settimana fa che ci saremmo ritornati sopra) l’inizio de Le Storie.
LEGERE MULTUM….
Erodoto, Le Storie (Incipit)
Questa è l’esposizione delle ricerche (istoriai) di Erodoto di Alicarnasso perché le imprese degli esseri umani col tempo non siano dimenticate, né le gesta grandi e meravigliose così dei Greci come dei Barbari rimangano senza gloria, e, inoltre per mostrare per qual motivo vennero a guerra fra loro.
In questa frase, in queste quattro righe, sta la chiave del libro. Innanzitutto Erodoto c’informa di aver condotto delle ricerche, delle indagini. Oggi sappiamo che si è dedicato a queste indagini (istoriai) per l’intero arco (sessant’anni) della sua vita, una vita – per quei tempi – relativamente lunga. Per quale ragione Erodoto si è dedicato a questa attività piuttosto scomoda? Come mai, da giovane, ha preso una decisione del genere? E le indagini che ha svolto in giro per il mondo le ha compiute su suggerimento o per conto di qualcuno? Per chi lavora Erodoto? Oggi potremmo dire: per quale agenzia lavora? Lavora forse per una persona facoltosa? Per un consiglio di anziani? Per un oracolo? A chi e a che cosa servono le sue indagini, le sue ricerche, le sue Istoriai? O forse Erodoto lavora per se stesso, divorato dalla febbre del conoscere, incalzato dall’ansia di capire?
Erodoto ammette di essere ossessionato dalla memoria. Sa che la memoria è uno strumento fondamentale ma è anche qualcosa di fragile, di instabile, addirittura di illusorio: la parola “memoria” vive spesso a contatto con la parola “sogno” (ònar). Erodoto sa che i dati contenuti nella memoria possono svanire senza lasciare traccia. Tutta la sua generazione, tutte le persone di quel mondo sono ossessionati dalla stessa paura (fobia), quella di perdere la memoria. Senza memoria non si vive: ma la memoria, pur innalzando l’essere umano al di sopra dell’animale e determinando la conformazione della sua anima (stiamo citando Platone), è inafferrabile e traditrice. È questo a rendere l’essere umano così insicuro di sé? Quante volte ci capita di dire: «Aspetta un momento: era il…». «Ma si! È stato nel … Aspetta, quando è stato?… ». Non ricordiamo più, e dietro a questo non ricordare si spalanca la zona dell’ignoranza, e l’ignoranza è una forma di non esistenza.
L’individuo contemporaneo non si preoccupa della sua memoria attorniato com’è dalla memoria immagazzinata, ha tutto a portata di mano: enciclopedie, manuali, dizionari, compendi, biblioteche, musei, archivi, cassette audio e cassette video, Internet. L’individuo contemporaneo ha a disposizione riserve inesauribili di parole, di suoni e di immagini conservate in case, magazzini, cantine e soffitte, e il fatto drammatico e paradossale è che questa sovrabbondanza crea come un intasamento che rende – secondo gli esperti – più labile la memoria personale.
Nessuna, o quasi nessuna delle istituzioni e degli strumenti che abbiamo elencato esisteva ai tempi di Erodoto. La persona – ai tempi di Erodoto – sa soltanto ciò che la sua memoria riesce a trattenere. Alcuni eletti imparano a scrivere su rotoli di papiro e tavolette d’argilla: la cultura è sempre stata un’occupazione aristocratica e minoritaria. Nel mondo di Erodoto – nell’Età assiale della storia, 2500 anni fa – l’unico (o quasi l’unico) depositario della memoria è l’essere umano. Se si vuole conoscere ciò che è stato memorizzato, bisogna consultare le persone. Se questa persona vive lontano dobbiamo metterci in cammino, raggiungerla e una volta trovata, sederci ad ascoltare ciò che ha da dirci. Ascoltare, memorizzare, magari annotare: è così che nasce un reportage, un servizio, un articolo, un resoconto, una cronaca, una relazione, un racconto…
Erodoto quindi, viaggia per il mondo, incontra altri esseri umani e ascolta quello che hanno da dirgli: essi raccontano chi sono, narrano la propria storia. Ma come fanno a sapere chi sono? Sanno chi sono (anche noi…) per averlo sentito dire da altri, in primo luogo dai propri antenati e allo stesso modo trasmettono agli altri la propria conoscenza. La conoscenza assume la forma del racconto. Ci si siede attorno al fuoco e si racconta. Il primo progresso intellettuale dell’Umanità è il passaggio dalla paura al racconto (non è una sostituzione, perché la funzione della “paura” continua ed essere necessaria), e diciamolo con le parole originali di Erodoto: il primo progresso intellettuale dell’Umanità è il passaggio dal fobos, la paura, al logos-logos, il racconto. E il binario su cui corre questo passaggio è la “memoria”, o meglio, è la paura (la funzione della “paura” è sempre stata necessaria) di perdere la memoria.
In seguito quei racconti (logoi-logoi) verranno chiamati miti e leggende, ma nel momento in cui li si narra o li si ascolta, si è convinti che si tratti della pura verità, della realtà più assoluta. La gente ascolta, il fuoco arde, qualcuno aggiunge altra legna. La luce e il calore del fuoco ravvivano il pensiero (logos), stimolano l’immaginazione (eurixia). Lo scorrere di racconti è quasi inconcepibile senza un fuoco, una lucerna o una candela che rischiarino la casa. La luce del fuoco attira e unisce il gruppo, libera energie positive. Fuoco e comunità, fuoco e memoria, fuoco e storia…e il fuoco, oltre ad essere uno degli elementi materiali che favoriscono la sopravvivenza e lo sviluppo umano, entra come metafora nella Storia del Pensiero. Il “fuoco”, nella lingua ionica di Erodoto, “piros” è la metafora del “sapere”, in greco, “sophos”. Le parole piros (il fuoco) e sophos (il sapere), nella Storia della Cultura, sono sempre state vicine. Nel linguaggio del genere letterario della tragedia: piros è il “fuoco che brucia” e sophos è il “fuoco (del sapere) che illumina”. Il “fuoco” rappresenta lo spirito inquieto di chi è curioso, di chi tende a conoscere, a capire, ad applicarsi, a cercare.
Erodoto ha, molto probabilmente, incontrato il concetto del “fuoco” in quanto piros (che brucia) e sophos (che illumina) in una Scuola eraclitea, difatti nella Ionia, quando lui è un adolescente ci sono molte Scuole eraclitee, che si basano sui princìpi del filosofo Eraclito di Efeso. Chi non ha sentito nominare Eraclito? Eraclito (544-469 a.C.) è contemporaneo di Erodoto, anche se più anziano di lui. Eraclito considera il “fuoco” come la sostanza primigenia, l’inizio di ogni materia: come il fuoco, dice Eraclito, tutto è in perpetuo movimento, come il fuoco tutto si spegne per infiammarsi nuovamente. Tutto scorre – dice Eraclito – e nello scorrere tutto si trasforma. La stessa cosa accade alla memoria: alcune immagini si spengono, sostituite da nuove immagini che si accendono, con la differenza che le nuove non sono più uguali a quelle di prima: come “non ci si bagna due volte nello stesso fiume”, così è impossibile che una nuova immagine sia identica alla precedente. Questo deve aver imparato Erodoto da adolescente alla Scuola di Eraclito.
Ma chi è Eraclito di Efeso? Diogene Laerzio, che è vissuto intorno alla metà del III secolo d.C. e che possiamo definire un “poligrafo”, un grande giornalista, scrive un’opera famosa intitolata Le vite dei filosofi e in quest’opera naturalmente parla anche di Eraclito: è lui a darci le prime informazioni su questo significativo personaggio. Diogene Laerzio scrive che: “Eraclito di Efeso aveva un carattere asociale, fu molto altero e guardava tutti con fiero disprezzo. Fu chiamato a fare le Leggi della Polis ma si rifiutò perché la Città era dominata da una cattiva costituzione (dominava la borghesia degli affari e tutto era in funzione del mercato a Efeso)”. Eraclito – scrive Diogene Laerzio – si comportò di conseguenza alle sue idee, in modo alternativo: s’appartò dall’umano consorzio, trascorreva la sua vita sui monti, cibandosi di erbe e di verdure”. I famosi Frammenti di Eraclito sono ciò che rimane della sua opera, di un grande discorso che assume la forma del trattato a cui (dai grammatici alessandrini) è stato dato il titolo di Peri’ Physeos - Sulla Natura. Questo trattato (questo discorso) era diviso in tre grandi capitoli: sul Tutto, sulla Politica, sulla Teologia. Nei suoi testi Eraclito dimostra la sua potenza lapidaria di scrittore: ciò significa che in ogni affermazione vorrebbe sintetizzare un ragionamento. Per questo motivo, i Frammenti di questa affascinante opera in prosa, sono diventati uno straordinario poema, una straordinaria opera di poesia. Ma Eraclito, che si è meritato il soprannome di ò Skoteinòs, l’Oscuro, spesso tanto oscuro non è, per esempio, quando dice che: “Bisogna spegnere la violenza (cercare le cause della violenza) piuttosto che spegnere l’incendio”. È anche chiaro il frammento in cui scrive che: “Il popolo deve combattere per la legge come per le mura della Città”. Più che un oscuro pessimista, Eraclito pare essere, in queste sue affermazioni, un sociologo propositivo.
Eraclito è nato a Efeso da ricca e nobile famiglia intorno al 544 a.C e si dà per scomparso intorno al 469 a.C. I presupposti del suo pensiero sono assai noti: Eraclito afferma che “Tutto diviene e nulla è…”, quindi la vita, la Realtà, si traduce in un continuo divenire. Su che cosa si basa questo “divenire”? Scrive Eraclito in un altro famoso frammento: “Il divenire si basa sulla guerra”. Questa parola, in greco, pòlemos, guerra, risulta una metafora che possiamo tradurre con l’espressione: “successione dei contrari”. Il “divenire” si basa sulla “successione dei contrari”. La Realtà, tutte le cose, sono generate dal contrasto, dalla tensione tra la posizione precedente e quella seguente. Queste idee ci suggeriscono che siamo alle origini della formulazione del concetto della “dialettica”: a primavera quando, probabilmente, incontreremo Georg Hegel incontreremo anche questo termine: dialettica. Il simbolo del “divenire” – per Eraclito – è il Fuoco.
Eraclito, sul concetto del Fuoco, dà due risposte diverse. Il Fuoco è l’ archè, il principio dell’Universo per la sua mobilità (avete osservato il fuoco? Non sta mai fermo, diviene in continuazione in forme nuove): è dal Fuoco che “si origina il Tutto”, che tutto trae origine. Ma il Fuoco rappresenta anche il simbolo del Logos, della Mente suprema, della Legge razionale che regola i rapporti tra gli uomini.
Frammenti di Eraclito sono molto affascinanti e hanno sempre attirato gli studiosi e continueranno ad attirarci (siamo anche noi degli “studiosi”). Il Frammento 27 è misterioso ma inequivocabile: “Dopo la morte, attendono gli esseri umani cose che essi non sperano e neppure immaginano”. Il Frammento 85 continua ad essere di grande attualità: “Difficile è la lotta contro il desiderio (di potere), poiché ciò che esso vuole lo compra a prezzo dell’anima”. Per conquistare e mantenere il “potere” spesso si è disposti a vendere l’anima. Il Frammento 45 continua a farci riflettere: “I confini dell’anima non li potrai mai trovare, per quanto tu percorra le sue vie: così profondo è il suo Logos”. Il ragionamento (il logos) intorno a questo tema è certamente assai complesso (profondo).
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I Frammenti di Eraclito li trovi in biblioteca: vale la pena leggerli, sono spesso “oscuri” ma, altrettanto spesso, fanno riflettere…
Questa sera – sulla scia di Erodoto – abbiamo messo in circolazione parole “pesanti” alla luce dell’idea di Eraclito sulla successione dei contrari: l’Essere e il Non-essere, l’Essere e il Divenire, l’Amore e l’Odio, la Passione e la Rassegnazione. Se Erodoto – come pensano gli studiosi – si è formato in una Scuola eraclitea significa che conosce benissimo queste parole a confronto e comprende benissimo “la legge dell’eterno scorrere”. Erodoto capisce che “la legge dell’eterno scorrere” possiede anche un carattere distruttivo ed individua nella “memoria” lo strumento adatto per opporsi alla natura distruttrice della “legge dell’eterno scorrere”. Erodoto scrive la sua opera affinché “le imprese degli esseri umani col tempo non siano dimenticate”. Dobbiamo renderci conto che ci vuole un bel coraggio – ai tempi di Erodoto – per dichiarare di stare facendo qualcosa in modo che “le imprese degli esseri umani non siano dimenticate”.
Come faceva Erodoto a conoscere l’esistenza delle “imprese degli esseri umani”? Omero aveva descritto la storia di una sola guerra (gli ultimi cinquanta giorni), quella di Troia, combattuta non da “esseri umani” ma da “eroi”, seguita dalle avventure di un viaggiatore solitario ed eroico, Ulisse. Ma “le imprese degli esseri umani” non erano mai state prese in considerazione da nessuno: siamo di fronte a un nuovo modo di pensare, a un nuovo concetto, a nuovi orizzonti.
Con questa frase – affinché “le imprese degli esseri umani col tempo non siano dimenticate” – Erodoto non si presenta come uno scriba legato solo alla sua polis. L’autore de Le Storie esordisce subito come un visionario del mondo, un creatore capace di pensare su scala planetaria: in una parola, come il primo globalista della storia. Naturalmente la mappa del mondo che Erodoto ha davanti o che cerca di immaginare è diversa da quella con cui abbiamo a che fare oggigiorno. Il suo è un mondo molto più piccolo del nostro, che ha il proprio centro nelle montuose e (allora) boscose terre intorno al mar Egeo. A occidente c’è la Grecia, a oriente la Persia.
E qui tocchiamo subito il nocciolo del problema: appena Erodoto cresce e comincia a capire qualcosa, si accorge che quel mondo è diviso in Oriente e Occidente e che le due zone sono in conflitto tra loro. E la domanda che subito viene in mente a qualsiasi individuo pensante, è: “Per quale ragione queste due zone sono in conflitto tra loro?”. Questa stessa domanda risuona nell’incipit, all’inizio de Le Storie di Erodoto: “Questa è l’esposizione delle ricerche di Erodoto di Alicarnasso perché le imprese degli esseri umani col tempo non siano dimenticate […] e inoltre per mostrare per qual motivo – Greci e Barbari – vennero a guerra fra loro”.
Eccoci al punto: questa è una domanda che angoscia e tormenta l’Umanità da migliaia di anni e che, dai primordi fino a oggi, si ripresenta sempre uguale: perché gli esseri umani si combattono? Che cosa li spinge? Che mire hanno? Che cosa li guida? Che cosa hanno in mente? Quanti interrogativi! Ed Erodoto dedica la vita a cercare delle risposte, o meglio, a fare l’inventario delle possibili risposte. Nel cercare e nell’inventariare le risposte, Erodoto, alle questioni generali e astratte, preferisce di solito i fatti concreti, predilige gli eventi che si svolgono sotto i suoi occhi, gli eventi la cui memoria ancora vive o comunque sopravvive, sia pure sbiadita. Erodoto concentra la sua attenzione e le sue indagini su una serie di domande: “Perché la Grecia (oggi potremmo dire l’Europa) è in guerra contro la Persia (potremmo dire l’Asia)?”. “Perché il mondo occidentale (l’Europa) e quello orientale (l’Asia) combattono tra loro una battaglia all’ultimo sangue? È sempre stato così? Sarà sempre così?”.
Queste domande inquietanti lo coinvolgono ed Erodoto appare come una persona irrequieta che non riesce a stare ferma, sempre in movimento e che, dovunque arrivi (specialmente nei santuari), porta un clima di agitazione e inquietudine. Alla gente greca delle polis che, di solito, non ama uscire di casa per avventurarsi fuori dalle mura di cinta, un tipo come Erodoto fa l’effetto di essere uno strampalato, uno un po’ matto. Forse era così che i contemporanei vedevano Erodoto, ma lui non ne parla, e noi pensiamo che, uno come lui, non badasse a cose del genere, occupato com’era, prima nei preparativi del viaggio, poi a viaggiare (con fastidio) e, infine, a selezionare e riordinare i materiali riportati. Un viaggio non inizia nel momento in cui partiamo e non finisce nel momento in cui raggiungiamo la meta. In realtà comincia molto prima e non finisce mai, dato che il nastro dei ricordi continua a scorrerci dentro anche dopo che ci siamo fermati. È il virus del viaggio (come è stato chiamato): una malattia (speriamo rimanga l’unica) sostanzialmente incurabile.
Noi non sappiamo a quale titolo viaggiasse Erodoto. In qualità di mercante (l’occupazione preferita dai Greci)? Se Erodoto avesse viaggiato in qualità di mercante si sarebbe interessato ai prezzi, alle merci e ai mercati, ma non si occupa di questi problemi ne Le Storie. Ha viaggiato come diplomatico? Ma questa è una professione che a quel tempo non esisteva, e i diplomatici più accreditati erano i mercanti. Ha viaggiato come spia? Ma di quale Stato? E poi le spie erano direttamente collegate agli eserciti ed Erodoto si tiene alla larga dagli eserciti. Ha viaggiato come turista? I turisti viaggiano per riposarsi, mentre per Erodoto il viaggio è un lavoro fastidioso e faticoso.
E allora: chi è Erodoto come viaggiatore? Erodoto è il tipico viandante, come si dirà nell’Europa del Medioevo. Erodoto è la persona sempre in cammino perché l’essenza della vita stessa consiste nell’essere sempre in cammino. Ma questo suo camminare, questo suo errare, non è uno spensierato vagabondaggio di luogo in luogo: i viaggi di Erodoto sono mirati – così come hanno una meta i pellegrinaggi dei viandanti del Medioevo (Roma, Gerusalemme, Santiago de Compostela) – servono a conoscere il mondo e i suoi abitanti e poi a descriverli. Erodoto vuole descrivere “le gesta grandi e meravigliose così dei Greci come dei Barbari” ed è in questo “non fare distinzione” che sta la grandezza di Erodoto come viandante e come scrittore.
Il mondo per Erodoto è frammentato ma non è diviso, non è diacrìnos, piuttosto il mondo è catolicòs, universale. E questa parola – catolicòs, universale, che tutti abbiamo nelle orecchie – avrà più di cinquecento anni dopo una collocazione importante nella Letteratura dei Vangeli.
Ma, leggendo Le Storie, ci rendiamo anche conto che il mondo – mentre i suoi viaggi si moltiplicano – gli cresce tra le mani, si moltiplica e ingigantisce. Erodoto scopre che al di là dell’Egitto c’è la Libia e, dietro di essa, la terra degli Etiopi, ossia l’Africa. Erodoto si rende conto che a oriente, oltrepassata la grande Persia (il che richiede oltre tre mesi di marcia veloce), ci sono “l’altera e inaccessibile Babilonia” e poi “la sconfinata patria degli Indii (di cui abbiamo parlato)”. Erodoto sa che a occidente il Mediterraneo si spinge lontano, fino ad Àbila e alle Colonne d’Ercole, dopodiché si dice vi sia un altro mare. Erodoto ha scoperto che anche a settentrione vi sono mari, steppe e boschi abitati da innumerevoli popoli Sciti.
È stato Anassimandro di Mileto (la bella polis dell’Asia Minore), più anziano di Erodoto, il primo a redigere una mappa del mondo. Per Anassimandro (610-545 a.C.) la terra è una specie di cilindro circondato dai cieli, sulla cui superficie superiore abitano gli uomini. Ugualmente distante da tutti i corpi celesti, la terra galleggia sospesa nell’aria. In quell’epoca nascono altre mappe del mondo nelle quali la terra è una piatta superfìcie ovale, circondata da ogni lato dalle acque del grande fiume Okeanos Okeanos. Oceano non è solo il confine della terra, ma anche la sorgente di tutti i fiumi del mondo. In questo mondo, così raffigurato, il centro è costituito dal Mare Egeo e dalle sue coste e dalle sue isole, ed è da qui che Erodoto parte per le sue spedizioni. Quanto più si allontana verso i confini della terra tanto più spesso incontra qualcosa di nuovo.
Erodoto – ormai lo sappiamo – è il primo a scoprire la pluralità culturale del mondo. Il primo a convincersi che ogni cultura ha il diritto di essere accettata e capita e che per capirla, bisogna prima conoscerla. In che cosa si differenziano le culture? Per Erodoto si differenziano innanzitutto nei costumi: dimmi come ti vesti, come ti comporti, che usanze segui, quali dèi veneri e ti dirò chi sei. L’essere umano non solo crea una cultura e la abita ma anche la porta in sé (nelle sue forme intellettuali): l’essere umano stesso è la cultura.
Il termine greco usato da Erodoto per definire la parola “cultura” è paideia, e questo termine è stato molto utilizzato nel Medioevo e poi durante l’Umanesimo – da Francesco Petrarca (1304-1374) in avanti – per definire il patrimonio di conoscenze dell’individuo. La parola paideia non rappresenta l’erudizione di una civiltà ma il bagaglio intellettuale della persona.
Erodoto, nel tentativo di rispondere a quella che per lui è la domanda fondamentale, ossia: “come è nato il conflitto tra Oriente e Occidente e quali sono i motivi della loro reciproca ostilità”, si comporta con grande cautela. Anziché pretendere di saperlo, lui si tiene nell’ombra e fa rispondere gli altri. E chi sono gli altri? Gli altri, in questo caso, sono i “dotti, gli eruditi persiani”. Secondo i dotti persiani, dice Erodoto, i responsabili del conflitto mondiale tra Oriente e Occidente non sono né i Greci né i Persiani, ma è un terzo popolo: la responsabilità è degli intraprendenti Fenici, grandi professionisti del commercio (i Fenici hanno inventato il commercio degli schiavi). Sono loro, i Fenici, i primi a rapire le donne, ed è questo modo di fare che scatena il conflitto globale. Erodoto, a questo punto, ne Le Storie, nel I libro, ci racconta una trafila di rapimenti. I Fenici, nel porto greco di Argo, rapiscono la figlia del re, una fanciulla di nome Io, e la portano per nave in Egitto. Subito dopo alcuni greci, approdati a Tiro in Fenicia, rispondono al colpo e rapiscono la figlia del re, una fanciulla di nome Europa. Altri greci rapiscono Medea, la figlia del re di Colchide. Poi Alessandro di Troia, figlio del re Priamo (che Omero chiama Paride) in visita a Sparta, rapisce Elena, moglie del re greco Menelao e cerca di condurla a Troia (e questa storia la conosciamo bene). Per rivalsa, i Greci attaccano la città e la distruggono, anche se Elena a Troia non è mai arrivata: sappiamo infatti che Alessandro figlio di Priamo (o Paride che dir si voglia) ha portato a Troia solo il ritratto di Elena (un simulacro, un pretesto).
Dopo aver citato il catalogo dei rapimenti più famosi ascoltiamo che cosa ci racconta Erodoto, il quale riporta per iscritto il commento dei dotti persiani. Leggiamo due frammenti dai capitoli 4 e 5 del I libro, e voi siete invitati a leggerli integralmente per conto vostro.
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Erodoto, Le Storie I 4-5
Ora, a giudizio dei dotti persiani, il rapire donne è considerata azione da malfattori, ma il darsi cura di vendicarle è azione da dissennati, mentre da benpensanti è il non preoccuparsene, perché è chiaro che se non avessero voluto non sarebbero state rapite.
I Fenici non vanno d’accordo con quello che dicono i Persiani e affermano infatti che non furono loro che, ricorrendo al ratto, portarono in Egitto la regina greca Io, ma che ad Argo essa ebbe una relazione con il comandante della nave, e che quando si accorse di essere incinta, vergognandosi dei genitori, essa stessa di sua volontà si imbarcò insieme coi Fenici per non essere scoperta.
Come mai Erodoto inizia la sua grande descrizione del mondo da una “futile” (secondo i dotti persiani…) storia di donne rapite? Ma perché rispetta la legge del mercato mediale: per vendere una storia bisogna renderla interessante anzi piccante, bisogna metterci il brivido della trasgressione. Le storie delle donne rapite – da che mondo è mondo – rispondono a meraviglia a queste condizioni.
Abbiamo già accennato al fatto che Erodoto vive a cavallo tra due epoche, quando ancora impera la tradizione della trasmissione orale, ma già si affaccia l’era della storia scritta. È probabile che il ritmo di vita e di lavoro di Erodoto sia più o meno il seguente: dopo un lungo viaggio, durante il quale raccoglie il materiale, torna a casa e comincia a girare per le città greche, per le polis, organizzando, per così dire, delle serate d’autore, nelle quali narra le esperienze, le impressioni e le osservazioni ricavate dai suoi vagabondaggi. Non è escluso che da questi incontri tragga anche di che vivere e, soprattutto, di che pagarsi un nuovo viaggio: è quindi nel suo interesse attirare più gente possibile. Il mezzo per attirare più gente possibile, per richiamare più pubblico, è sempre stato quello di presentare un argomento d’effetto, capace di avvincere l’uditorio.
Nell’opera di Erodoto ricorrono continuamente temi destinati a emozionare e a sorprendere il pubblico che, senza quel richiamo, si sarebbe rapidamente annoiato, disertando la sala e lasciando l’oratore a mani vuote. Ma le storie delle donne rapite non sono solo pettegolezzi pruriginosi su argomenti piccanti: dietro a queste storie c’è un’idea e c’è una parola-chiave sulla quale abbiamo già riflettuto qualche settimana fa, ma che ne Le Storie, torna prepotentemente alla ribalta.
Fin dall’inizio delle sue indagini sui rapimenti a catena delle donne, Erodoto cerca di dare forma ad un’idea che a lui sta particolarmente a cuore: secondo Erodoto, uno dei motori principali della Storia – se non il principale – è la vendetta. La prima legge che governa la Storia, secondo Erodoto, è la “vendetta, timorìa”. Il fatto che Erodoto coltivi questa idea e codifichi questa legge non deve sembrarci strano perché nel mondo in cui vive (ma ancora oggi in varie comunità umane) vige la secolare legge della vendetta, della rivalsa, dell’occhio per occhio. La vendetta non è solo una legge, ma (purtroppo) è anche un dovere. Chi non adempie a questo “dovere” viene maledetto dalla famiglia, dal clan, dalla comunità. Quello della vendetta è un dovere che non incombe solo sul membro della tribù offesa: a rispettarla sono tenuti anche gli dèi, e perfino il Fato, che è anonimo e che sta al di sopra del tempo.
Qual è la funzione della vendetta? E di fronte a questo interrogativo noi siamo obbligati a chiederci: la vendetta ha una funzione? Stiamo pensando che serva a qualcosa? La vendetta è una ritorsione e quindi la paura di un’orrenda e inevitabile ritorsione dovrebbe trattenere gli esseri umani dal commettere atti malvagi e dannosi per il prossimo. La vendetta dovrebbe agire da deterrente, da freno, dovrebbe funzionare da voce della ragione. Se però la vendetta, come deterrente, si rivela inefficace e qualcuno si macchia di una colpa, il suo gesto mette in moto una catena di atti atroci capace di protrarsi per generazioni o addirittura per secoli. Nel meccanismo della vendetta si annida – ci ricorda Erodoto – una sorta di cupo fatalismo, un che di inevitabile e irrevocabile. Quando – al tempo di Erodoto – di punto in bianco qualcuno viene colpito da una disgrazia che non riesce a spiegarsi e a giustificare, significa che quella persona è stata raggiunta dalla vendetta per un delitto commesso da un suo antenato vissuto, magari, dieci generazioni prima e di cui neanche conosce l’esistenza.
Sulla scia della parola-chiave “vendetta” incontriamo un’altra idea significativa che Erodoto coltiva, e che riguarda non solo la storia, ma anche la vita delle persone, questa idea la possiamo formulare così: la fortuna umana non sta mai ferma nello stesso luogo. E per riflettere su questa idea, Erodoto racconta la storia di un famoso personaggio, il cui nome è Creso. Creso è il re della Lidia, un potente Stato asiatico situato tra la Grecia e la Persia. Qui, nei suoi palazzi, Creso ha accumulato grandi ricchezze, montagne d’oro e d’argento per le quali è famoso nel mondo e che volentieri mostra ai suoi ospiti. Ciò accade verso la metà del VI secolo a.C., una ventina d’anni prima della nascita di Erodoto. Un giorno, a Sardi, capitale della Lidia arrivano ospiti: leggiamo nel libro I al capitolo 29 de Le Storie.
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Erodoto, Le Storie I 29
Quando, dunque, questi popoli furono sottomessi (e Creso li andava aggiungendo ai Lidi) giunsero a Sardi, fiorente per la ricchezza, provenienti dalla Grecia, tutti i sapienti che vivevano allora, e fra essi anche Solone d’Atene (il poeta, padre della democrazia ateniese e celebre per la sua saggezza), il quale dopo aver dato le leggi agli Ateniesi che le richiedevano, si era allontanato dal suo paese per dieci anni mettendosi in mare con il pretesto di voler vedere un po’ di mondo, ma in realtà per non essere costretto ad abrogare qualcuna delle leggi che aveva promulgato. Né gli Ateniesi potevano far ciò di loro iniziativa, poiché s’erano vincolati con solenni giuramenti a osservare per dieci anni le leggi che Solone aveva proposto.
La prima cosa da dire sull’incontro tra Creso e Solone è che questa notizia non ha un valore documentale perché non è possibile che questo incontro sia avvenuto: perché? Perché Solone ha promulgato le sue famose leggi nel 593 a.C. e Creso è salito al potere a Sardi intorno al 560 a.C., più di trent’anni dopo. Questo fatto non toglie nulla al valore artistico e morale di questo episodio: spesso in Erodoto – lo sappiamo già – la verità documentale viene sostituita da una metafora morale (da una allegoria). Creso riceve personalmente Solone e si premura – ci tiene molto – di mostrare all’illustre ospite i propri tesori, convinto che il legislatore greco sarebbe rimasto colpito da tanta ricchezza. Poi Creso, che “essendo così ricco crede anche di essere il più felice di tutti gli uomini”, chiede a Solone – che lui reputava essere un saggio uomo di mondo – se aveva mai visto un altro più felice di lui. Ma Solone invece di adularlo cita i nomi di alcuni giovani cittadini ateniesi morti eroicamente, e Creso si indispettisce di fronte a questa risposta e allora Solone completa il suo discorso. Leggiamo i punti fondamentali del discorso di Solone a Creso, voi potete poi, per conto vostro, leggere integralmente questi capitoli del libro I.
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Erodoto, Le Storie I 32
O Creso, tu fai domande sulle vicende umane a me che so che la divinità è invidiosa e perturbatrice. Nel corso del tempo molte cose si hanno da vedere che non si vorrebbe e molte anche da soffrire. A 70 anni infatti io pongo il limite della vita per un uomo. Questi 70 anni danno 25.200 giorni … Orbene di tutti questi giorni …un giorno non porta assolutamente niente di simile all’altro. Stando dunque così le cose, o Creso, l’essere umano è in balia degli eventi. A me certo pare che tu sia assai ricco e re di molte genti; ma quel che tu mi hai chiesto io non te lo posso dire, prima di aver saputo se hai finito felicemente la vita … Ma prima che uno sia morto attendiamo, e non chiamiamolo felice, ma fortunato … Di tutte le cose bisogna guardare come andranno a finire: che molti il dio, dopo aver lasciato loro intravedere la felicità, li ha poi precipitati nella più profonda rovina.
Erodoto scrive che queste parole non fanno piacere a Creso, il quale congeda Solone non ritenendolo degno di alcuna considerazione ma dopo la partenza di Solone la vendetta divina si abbatte pesantemente su Creso per punirlo di essersi ritenuto il più felice degli uomini. Creso ha due figli: il prestante Atys e un altro, sordomuto. Per quanto Creso custodisca e protegga Atys come la pupilla dei suoi occhi, questi, in modo del tutto involontario e casuale, viene ucciso durante una battuta di caccia da un certo Adrasto, ospite di Creso. Resosi conto di ciò che ha fatto, Adrasto è sconvolto. Durante il funerale di Atys aspetta che intorno al tumulo non ci sia più nessuno e poi, “riconoscendo di essere il più sventurato di quanti uomini egli conosceva, si uccise sulla tomba.”. Dopo la morte del figlio e il drammatico suicidio di Adrasto (che considera di pessimo auspicio), Creso trascorre due anni di lutto stretto.
In quel medesimo tempo nella vicina Persia il governo passa al grande Ciro, grazie al quale la potenza persiana aumenta rapidamente. Creso, temendo che Ciro diventi troppo potente e minacci la Lidia, progetta di prevenire un’eventuale aggressione persiana e di colpire per primo. L’usanza del tempo vuole che i potenti prima di prendere una decisione importante consultino gli oracoli. Nella Grecia di allora gli oracoli – lo sappiamo – sono numerosi, ma il più importante di tutti risiede a Delfi, in un santuario posto sul fianco di un’alta montagna. Per ottenere un vaticinio favorevole, occorre propiziarsi con lauti doni il dio Apollo che a Delfi viene onorato e venerato. Creso organizza una gigantesca colletta di offerte. Fa immolare tremila capi di bestiame. Fa fondere pesanti lingotti d’oro e fabbricare centinaia di oggetti d’argento. Fa erigere un grande rogo e vi brucia letti dorati e argentati, vesti e tuniche di porpora e “a ciascuno degli abitanti della Lidia impone di sacrificare quel che poteva”. E noi c’immaginiamo il numeroso e sottomesso popolo dei Lidi avvicinarsi in processione al luogo dove arde il grande rogo e gettare nel fuoco quello che ha di più caro: i gioielli di famiglia, i recipienti sacri e domestici, le vesti festive e gli abiti di tutti i giorni.
Di solito le opinioni espresse dagli oracoli e trasmesse a coloro che ne hanno sollecitato il verdetto sono molto ambigue e confuse. Si tratta di testi composti in modo che, in caso di errore (e succedeva spesso), l’oracolo possa cavarsela senza perdere la faccia. E tuttavia, da millenni, la gente continua ad ascoltare trepidante i responsi di indovini e indovine: il desiderio di conoscere il futuro è inestinguibile. A quanto pare, neanche Creso ne è immune e attende con impazienza il ritorno dei messi inviati ai principali oracoli greci. Il responso dell’oracolo di Delfì (quello che a Creso piace di più) dice: “Se marcerai contro i persiani, distruggerai un grande impero”. Creso, desideroso di muovere guerra e accecato dall’impazienza di attaccare, interpreta la predizione nel modo seguente: Se marcerai contro la Persia, la distruggerai. La Persia (in questo, se non altro, aveva ragione) era in effetti un grande impero. Creso dunque dichiara guerra ma la perde, distruggendo (secondo la predizione ambivalente dell’oracolo) il suo grande regno e finendo prigioniero dei nemici. Leggiamo che cosa ci racconta Erodoto.
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Erodoto, Le Storie I 86
Presolo, i Persiani lo condussero dinanzi a Ciro. E questi fatto innalzare un grande rogo, fece salire su di esso Creso avvinto in ceppi e accanto a lui 14 giovani lidi, avendo in animo di sacrificare a qualcuno degli dèi tali primizie del bottino o volendo compiere un voto, o anche, sapendo che Creso era pio lo fece salire sul rogo proprio per vedere se qualche divinità lo avrebbe salvato dall’essere bruciato vivo … e a Creso mentre stava sul rogo venne in mente … la sentenza di Solone, quasi gli fosse stata detta per ispirazione divina, che nessuno dei viventi è felice. A questo pensiero, dopo un lungo silenzio, sospirò e gemette e per tre volte invocò il nome: “Solone!”.
Ciro, accanto al rogo, comanda agli interpreti di chiedere a Creso chi stia invocando e perché. Creso risponde, ma intanto il rogo comincia a divampare. Un po’ per compassione e un po’ per timore del castigo divino, Ciro ordina di spegnere al più presto le fiamme e di far scendere Creso e quelli che sono con lui. Ma per quanti tentativi si facciano, il fuoco è indomabile.
Ma andiamo avanti a leggere e probabilmente riconoscerete un testo che abbiamo già preso in considerazione (qualche settimana fa).
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Erodoto, Le Storie I 87-88
Narrano … che allora Creso … poiché vedeva che tutti tentavano di spegnere il fuoco, ma non riuscivano più a frenarlo, invocasse a gran voce Apollo … Egli piangendo invocava il dio e dall’aria serena e senza vento si radunarono all’improvviso nubi e si scatenò un temporale e piovve con così grande violenza che il rogo si spense. Allora Ciro … lo fece scendere dalla pira e gli chiese: «Creso, chi ti persuase a muovere in armi contro la mia terra e farti mio nemico invece che amico?». E quello rispose: «O re, questo io feci per la tua fortuna e per la mia disgrazia; ma colpevole di questo fu il dio dei Greci, che mi spinse alla guerra. Poiché nessuno è tanto privo di senno da preferire la guerra alla pace: che in questa i figli seppelliscono i genitori, in quella i genitori i figli. Ma forse a un dio piacque che queste cose andassero così».
…e Ciro, fattolo sciogliere, lo fece sedere accanto a sé e lo trattò con molto riguardo, e lo guardavano con ammirazione sia egli stesso che tutti coloro che lo circondavano. E quello, preso dai suoi pensieri, se ne stava silenzioso.
I due massimi sovrani dell’Asia – lo sconfitto Creso e il vittorioso Ciro – siedono l’uno accanto all’altro fissando le braci del rogo sul quale, un attimo prima, uno dei due stava per immolare l’altro. È comprensibile che Creso, appena scampato da una morte tra atroci sofferenze, interrogato da Ciro su che cosa egli possa fare per lui, si scagli contro gli dèi: leggiamo che cosa dice, che cosa scrive Erodoto.
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Erodoto, Le Storie I 90
O signore, mi farai cosa molto grata se, mandandogli queste catene, mi lascerai chiedere al dio dei Greci, che io onorai sopra tutti gli dèi, se è sua abitudine ingannare gli uomini che gli fanno del bene.
(Ottenuto il consenso di Ciro) Creso mandando alcuni Lidi a Delfi ordinò loro che, deposte le catene sulla soglia del tempio, chiedessero se il dio non si vergognava di avere con i suoi vaticini spinto Creso … contro i Persiani … e se è abitudine degli dèi greci essere ingrati.
A questa domanda, la Pizia delfica (l’Oracolo di Apollo) risponde con una frase:
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Erodoto, Le Storie I 91
Sfuggire al destino già fissato è cosa impossibile anche per un dio. …
Questa frase introduce una delle più potenti parole-chiave della Storia del Pensiero Umano: la parola “destino”. Erodoto ne Le Storie usa abbondantemente questa parola, destino, Tyche. Dove ci porta la parola “destino”? La parola “destino” ci porta – in compagnia di Erodoto – nella terra dei Sumeri, quando il leggendario re della città di Uruk si chiamava Gilgamesch…
Ma per concludere l’itinerario di questa sera diamo ancora un’occhiata verso oriente, verso il pensiero cinese delle origini all’interno del quale, 2500 anni fa, prende il via – sulla scia del Taoismo – una grande esperienza letteraria fatta di storie (allegorie, parabole, apologhi) che si ramifica nel corso dei secoli fino in Giappone dove prende il nome di Zen, di questo pensiero (che fa parte dell’Età assiale della Storia) avremo modo di parlarne ancora. Una parte dell’esperienza letteraria dello Zen possiamo leggerla o rileggerla in questo libretto (che abbiamo già incontrato più di una volta) intitolato 101 Storie Zen. Delle 101 Storie Zen ne leggiamo una intitolata: Nelle mani del destino.
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A cura di Nyogen Senzaki e Paul Reps, 101 Storie Zen
Un grande guerriero decise di attaccare il nemico sebbene il suo esercito fosse numericamente molto inferiore di quello avversario. Lui sapeva che avrebbe vinto, ma i suoi soldati erano dubbiosi. Durante la marcia si fermò ad un tempio e disse ai suoi uomini: «Dopo aver visitato il tempio butterò una moneta. Se viene testa vinceremo, se viene croce perderemo, siamo nelle mani del destino».
Il grande guerriero entrò nel tempio e pregò in silenzio. Uscì e gettò una moneta. Venne testa. I suoi soldati erano così impazienti di battersi che vinsero la battaglia senza difficoltà. «Nessuno può cambiare il destino» disse al guerriero il suo aiutante dopo la battaglia. «No davvero» disse il grande guerriero, mostrandogli una moneta che aveva testa su tutt’e due le facce.
La prossima settimana ci affideremo nelle mani del destino. Dobbiamo tirare la moneta anche noi – come il grande guerriero – per sapere se dobbiamo “accorrere numerosi”? Fate pure ma, sulla nostra moneta, su entrambi i lati, c’è raffigurata la faccia di Erodoto che ride sotto i baffi per ricordarci che il nostro destino s’intreccia con quello della Scuola …